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Autore: lilac    17/12/2008    1 recensioni
Central Maze City, una metropoli come tante dove la corruzione e le ambizioni dei potenti sembrano dettare legge. Le uniche strade per sopravvivere sono l’indifferenza, il cinismo e il disprezzo per i propri simili. Ma, probabilmente, nemmeno queste cose bastano più. L’unica persona in tutta la città che sembra non avere a cuore niente e nessuno si troverà invischiata, suo malgrado, nelle mire del più malvagio e potente criminale istituzionalizzato del paese e, soprattutto, in un disegno ben più grande di lui, che pare coinvolgere l’intera umanità. Tra personaggi misteriosi e misteriosi poteri, scoprirà ben presto qual è il suo destino. Eppure, lui ne è convinto... I supereroi non esistono.
Piccolo Avvertimento: questa storia contiene alcune scene di violenza e linguaggio a tratti colorito.
Genere: Drammatico, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO DUE:
Paura.


Central Maze City, Big Jumble (quartiere affaristico).
Sede della S.I.T.S. (Shark’s Information Technology & Systems).
22 Dicembre, 15:05 p.m.


“Bene. Fatemi sapere.” Oliver Shark richiuse con un gesto nervoso il cellulare, senza rallentare l’andatura e ignorando l’ennesima segretaria che si prostrava letteralmente ai suoi piedi. Fellon faceva fatica a stargli dietro; arrancava letteralmente dietro di lui, appesantito dalla grossa borsa con le attrezzature che lo costringeva a sbilanciarsi da un lato e reggendo a malapena in equilibrio il computer portatile. Lo scienziato si ritrovò per l’ennesima volta a disagio, mentre constatava definitivamente la sua scarsa prestanza fisica e la paragonava all’uomo, di quasi sessant’anni, che lo precedeva incedendo a passo spedito e lo stava lasciando notevolmente indietro. Shark, la corporatura robusta e atletica, i capelli brizzolati, che conservavano ancora quasi del tutto il biondo cenere dei tempi in cui aveva certamente fatto strage di cuori, e lo sguardo vigile, dimostrava sicuramente almeno dieci anni in meno della sua età; e questo non era di certo solo apparenza. Fellon, in quel preciso momento, dal basso della sua corporatura esile, della sua prominente pancetta e della sua calvizie incipiente, cominciò per la prima volta a sentirsi davvero inadeguato; sempre di più, man mano che si avvicinava all’imponente ufficio all’ultimo piano del palazzo della SITS.
“In città non si è ancora visto” affermò deciso Shark, senza voltarsi a guardarlo. “A quanto pare, siamo riusciti ad arrivare prima di lui. Lei è proprio sicuro che stia venendo qui?” chiese poi in tono scettico, lanciandogli di sfuggita un’occhiata poco rassicurante.
“Sì, beh. I risultati hanno finora hanno evidenz...”
“La pianti con questo linguaggio da scolaretto modello, Fellon!” sbottò improvvisamente Shark. “Non ci sono per nessuno, a parte Morris” intimò alla segretaria un secondo dopo, spalancando la porta dell’ufficio. “Non sono il suo capoufficio, perdio! Parli chiaro una buona volta!” proseguì senza soluzione di continuità, ignorando nuovamente le efficienti moine della donna che era scattata in piedi come un soldato.
Qualcosa nell’atteggiamento deferente della collaboratrice costrinse Fellon a trattenersi dal fare a Shark le sue scuse.
Era così che teneva in pugno la città, accidenti! Quell’uomo era capace di far sentire un idiota anche l’uomo più capace e intelligente del pianeta. E se quell’uomo non era lui, poco ci mancava. Beh, non era così che avrebbe dovuto trattarlo, lui non era uno dei suoi energumeni senza cervello con la pistola nella fondina o, peggio, una delle sue puttanelle! Lui era un fottuto genio!
“Ebbene?!” insistette Shark, scrutandolo con aria impaziente e irritata, una volta occupato il suo posto dietro la massiccia scrivania.
Fellon entrò con calma e richiuse la porta dietro di sé, deciso a non lasciarsi intimidire. Per tutto il tragitto in elicottero fino a Central Maze, aveva controllato file e file di appunti senza ricavarne nulla d’illuminante ai fini del problema, ma era pur sempre uno fra i più brillanti studiosi del pianeta e, in quel momento, responsabile almeno quanto l’altro. Il gioco valeva di certo la candela. Doveva solo mantenere la calma e avrebbe risolto la cosa senza troppi danni collaterali.
“Sì, sono sicuro che stia venendo qui.” Shark si limitò a fissarlo in silenzio. “Naturalmente c’è un fattore di rischio nelle mie ipotesi” proseguì in modo deciso e autorevole.
“Che intende dire?” Il tono dell’altro si era fatto meno irritante.
“Che è pur sempre il primo essere umano a sperimentare Fearless.” continuò, dopo aver depositato la sua roba sul tavolo destinato alle riunioni, a lato della scrivania. “Le mie considerazioni si basano sui risultati degli esperimenti sugli animali, soprattutto, e sui modelli meno recenti, oltre che su quello che ho appena avuto il tempo di verificare.”
“Capisco.” Shark si passò una mano fra i capelli, sovrappensiero. “Così quel bastardo continua ad avercela con me.”
“Direi che, se quello è il dottor Russell, sì; ce l’ha a morte con lei.”
Il suo interlocutore si lasciò sfuggire una sorta di sogghigno e Fellon si sforzò di ignorarlo; impegnato a mettersi a suo agio, aveva iniziato a sistemare il portatile e a trafficare con i collegamenti. “In realtà” proseguì lo scienziato, sedendosi e sollevando lo schermo del laptop, “si è sempre verificata una tendenza a mantenere certe abitudini comportamentali, nonché una labile traccia della personalità originaria in ogni soggetto testato. E, poiché Russell la odia, penso che cercherà in qualche modo di vendicarsi. D’altra parte, il soggetto Alfa non è propriamente il dottor Russell e non possiamo prevedere esattamente che cosa abbia intenzione di fare.”
“Be’, che si faccia avanti!” ringhiò l’altro con aria di sfida. “Ho l’intera città pronta a farlo a pezzi.”
“Dovremmo stare attenti a non sottovalutarlo.” proseguì Fellon, sollevando lo sguardo dal monitor per un momento e scrutando l’espressione del suo interlocutore. “Il dottor Russell è... era dotato di un Q.I. decisamente sopra la media. E lo dimostra il fatto che abbia sottratto diverse armi dal laboratorio. Inoltre non dimentichi che è praticamente una macchina, non prova alcuna emozione primaria se non probabilmente la rabbia. E la sua forza, attualmente, è innaturalmen...”
“Ok. Ok, Fellon” lo interruppe. “Non c’è bisogno che mi ripeta la lezioncina a memoria. Lo so benissimo anch’io.”
Lo scienziato si limitò a concentrarsi sul computer, aggrottando leggermente la fronte. “Non credo di doverle ricordare che non c’è modo di neutralizzare Fearless dall’esterno, dunque.” seguitò in tono accondiscendente. “Senza danneggiarlo, perlomeno; dovranno stare molto attenti con le armi ad imp...”
“Mi dica qualcosa che non so.” sbuffò l’altro, interrompendolo nuovamente.
“A meno che...” Lo scienziato sembrò ignorarlo, seguendo qualche ragionamento.
“A meno che cosa?”
Le sue mani si bloccarono sulla tastiera, esitando per un momento. “C’è qualcosa che non va” esclamò Fellon all’improvviso.
“Che cosa?” Shark affilò all'istante lo sguardo e si fece guardingo.
“Non ho accesso al mio dominio.”
“E con ciò?”
“Non ho acceso al sistema” precisò Fellon con crescente trepidazione, mentre ricominciava a pigiare i tasti sul portatile in modo nervoso. “Niente dati. Niente comunicazione. La rete non va!” L’espressione sorpresa e insieme notevolmente allarmata che rivolse al suo interlocutore fu più che eloquente.
“Dannato figlio di puttana!” imprecò a denti stretti questi, afferrando il telefono come fosse un rapace sulla preda.


Central Maze City, Big Jumble.
East Mayhem Bank.
In quello stesso momento.


“Signor Shandler, lei deve capire. Io sono una semplice cassiera e il suo conto è in rosso. Non posso riattivarle il bancomat, né tantomeno le posso far fare un prelievo, finché non provvede a saldare almeno il fido.”
L’impiegata di là dello sportello sembrò quasi supplicarlo a desistere; pareva davvero dispiaciuta, al punto che faceva fatica a guardarlo negli occhi.
“Capisco.” Il tono dimesso e rassegnato della risposta la indusse tuttavia a sollevare lo sguardo sul giovane. “Veramente lei potrebbe, se davvero volesse.”
Jason la fissò distrattamente, pronunciando quelle parole, e la donna ebbe un impercettibile scatto nervoso. Per un momento le sembrò che il tono di quel ragazzo dall’aspetto trasandato era mutato improvvisamente e sgranò gli occhi, in preda ad una strana sensazione di stupore. Si sentì inquieta e disorientata un attimo dopo; e cominciò quasi a temere che fosse un malvivente. Ma dovette ricredersi in un istante. In effetti, sembrava proprio un bravo ragazzo e lei voleva fare esattamente ciò che le stava chiedendo.
“Senta, io l’aspetto qui. Facciamo milleduecento, ok?”
“Certo, arrivo subito” si affrettò a rispondergli sfoderando un sorriso cordiale. Non fece nemmeno in tempo a scomparire negli uffici sul retro, in realtà, perché il colpo di pistola che esplose improvviso all’ingresso, la pietrificò sul posto.
“Tutti a terra, presto!”
“Sdraiatevi a terra! Buoni, signori. E non vi succede nulla.”
Jason si voltò con calma verso l’entrata e gettò un’occhiata sfuggente alla guardia giurata che giaceva a faccia in giù sul pavimento, in una pozza di sangue, e ai due individui armati che avevano fatto irruzione nella banca. Si abbassò lentamente e si sedette sul pavimento incrociando le gambe, cercando di ignorare il fastidioso piagnucolio di una donna alla sua sinistra. Con malcelata irritazione, si trovò improvvisamente a ricordarsi del perché odiasse tanto frequentare le banche. Ormai, anche una filiale piccola e insignificante come quella veniva presa di mira praticamente un giorno sì e uno no, da qualche disperato come quei due. E, decisamente, aveva imbroccato il giorno sbagliato.
Detestava quel tipo di situazioni. Tutta quella gente presa dal panico, terrorizzata, gli andava direttamente alla testa come un’onda d’urto. Presi uno alla volta non erano niente, ma nel momento in cui gli capitava di trovarsi a stretto contatto con la paura di un mucchio di gente, tutta insieme, doveva concentrarsi parecchio per evitare di lasciarsi andare. E ormai accadeva fin troppo di frequente, in quella maledetta città.
Cercò di isolarsi; da quei due tizi che sbraitavano, dalla gente che vociava e piangeva... Da tutta quella paura, che stava urlando nella sua testa a un volume assordante. Cercò di calmarsi, chiuse gli occhi. Pian piano il rumore si attenuò fino ad essere sopportabile, una specie di basso ronzio. All’improvviso, però, una voce attirò la sua attenzione, emergendo da un angolo della sua mente e divenendo forte e chiara in mezzo al fruscio di tutte le altre. Ho paura. Non voglio. Vi prego, non fatelo di nuovo... Jason aprì gli occhi, istintivamente, e individuò altri due occhi colmi di lacrime dall’altra parte della sala, di un bambino sui cinque anni, che stringeva il braccio di sua madre e singhiozzava rumorosamente.
“Cos’è, te la sei fatta nel pannolino, moccioso? Guarda che non ti faccio nulla... forse...” Uno dei due rapinatori rideva sguaiatamente, a pochi passi dal ragazzino. Il complice gli gettò un sacchetto pieno di soldi e questi finse di farli cadere. Con un gesto brusco puntò l’arma contro il bambino, che sussultò terrorizzato. “Ops!” Rise ancora una volta, con più gusto di prima. “Ci sei cascato, stupido! Non lo sai che gli uomini non frignano! O sei una femminuccia?”
Jason si alzò lentamente e si diresse senza fretta in quella direzione.
“Ehi!” L’altro malvivente, impegnato con un cassiere, fece appena in tempo ad accorgersi di lui e ad incrociare il suo sguardo per un momento. “Che cos...” S’irrigidì, impallidendo. “Mio Dio, no! Che cos... noooo!”
L’altro si voltò dapprima preoccupato, poi si fece perplesso. “Ma che cazzo ti prende, Sammy?!” Il suo compagno stava letteralmente singhiozzando disperato, sbatteva i pugni con tutta la sua forza su qualcosa d’immaginario e aveva un’espressione sgomenta. Era in preda al panico. Fu solo in un secondo momento che notò il ragazzo con i capelli scuri e spettinati che gli ricadevano a ciuffi sugli occhi; indossava un paio di vecchi jeans e un maglione di almeno due taglie di troppo. Si stava avvicinando a lui. Ma che cazzo si era messo in testa di fare quello sfigato?!
“Senti, bello...” Quello aveva decisamente una rotella fuori posto. Sembrava la persona più a suo agio del mondo.
Con un gesto naturale, il ragazzo si scostò i capelli dalla fronte. L’uomo notò che i suoi occhi avevano un che di innaturalmente furioso, rispetto al resto del volto. Sentì immediatamente crescere dalla bocca dello stomaco una sensazione inarrestabile di panico, le mani cominciarono a tremargli incontrollate e la pistola semiautomatica gli scivolò. La osservò cadere come al rallentatore, incapace di reagire, sentendo la coscienza che gli sfuggiva di mano assieme al controllo del suo corpo.
Jason si avvicinò di un altro passo appena e incrociò per un momento gli occhi umidi e confusi del bambino. “Non avere paura” affermò serio, ignorando il resto delle persone che lo fissava sbalordita, senza capire cosa stesse succedendo. Lo osservò impassibile, mentre annuiva convinto. Poi tornò a concentrarsi sul criminale. E diventò acqua.
Acqua, un getto d’acqua violentissimo e gelido cominciò a investirlo in pieno volto. Non riusciva ad aprire gli occhi, né la bocca, che inghiottiva sorsate d’acqua stagnante e putrida, annaspando, nel tentativo di gridare aiuto. I piedi affondarono nella fanghiglia marcia, nelle alghe morte e nell’immondizia; si sentì sprofondare. Prendimi! Prendimi, se ce la fai! ... Attento Bobby, lì è pericoloso, la mamma ha detto di non andare nella palude ... Splash ... Aiuto! Aiu... to! Affog... Aiut... Aria, aria. Stava annegando! Dio santo. Qualcuno mi aiuti! No, non riusciva a gridare. Aria! Non riusciva a respirare. L’angoscia e il terrore troncavano il respiro più brutali di quell’acqua. Una boccata avida e bagnata. Un’altra. Acqua. No... Dio, aiutami! Poi più nulla.
Jason lasciò scorrere l’angoscia come un fiume in piena, nelle vene, spinta dall’acqua. La abbandonò a se stessa finché non sentì il rintocco del suo cuore accelerare al massimo, il respiro mozzarsi all’estremo. Poi si concentrò e inspirò a fondo, rallentò i battiti fin quasi a fermarli e lasciò scorrere se stesso in quel fiume d’acqua, focalizzandosi sul rumore limpido dello scroscio e della corrente, che attutiva i gorgoglii e le grida affannate della sua vittima. Era acqua ed era paura. Lo guardava morire. E lo stava uccidendo.
Il telefono cellulare vibrò in una delle sue tasche all’improvviso. Esitò per un momento, poi uscì dalla mente di quell’uomo. Come se fosse stato realmente nel suo corpo, non appena distolse la sua attenzione, il rapinatore si afflosciò a terra come svuotato. Dall’altra parte della stanza, anche l’altro smise improvvisamente di gridare; si guardò intorno con aria smarrita e si accasciò al suolo, continuando a piangere in silenzio in preda a convulsioni nervose.
“Pronto?” Mentre rispondeva al telefono, Jason si chinò sull’uomo senza conoscenza e ascoltò il suo respiro. “Sì, sono io.” Gli poggiò due dita sul collo, per saggiarne il polso. L’espressione impassibile osservò che era ancora vivo. “Qual è il problema?” Continuò la conversazione, mentre cercava qualcosa sul pavimento, scostando il corpo inerme dell’uomo con la stessa cura che avrebbe riservato a un mucchio di stracci. “Mm, dovrei darci un’occhiata.” Raccolse il sacchetto con i soldi da terra e ne tirò fuori alcune mazzette. “Ora?” Alzandosi, se le mise in tasca e si aggiustò il maglione per coprire le banconote che spuntavano visibilmente. “Ok, sono nelle vicinanze. Sarò lì fra un quarto d’ora al massimo.” Chiuse il cellulare e uscì dalla banca, in tempo per incrociare la polizia a sirene spiegate che convergeva all’esterno dell’edificio e, soprattutto, per lasciare più di cinquanta persone ammutolite e turbate, che non riuscivano a spiegarsi come avesse fatto quel ragazzo a ridurre i due malviventi in un simile stato. Non li aveva nemmeno toccati. Anzi, era rimasto semplicemente a guardarli, continuando beato a sorseggiare un frappé.

Accartocciò il contenitore di cartone e lo gettò in un cesto dei rifiuti lungo la strada. Il tizio che l’aveva chiamato sembrava avere una fretta del diavolo, ma Jason camminava con calma. Una camminata di qualche minuto era giusto quello che gli ci voleva. Il leggero formicolio che sentiva alla base del collo stava quasi svanendo e l’adrenalina si stava dissolvendo lentamente, ad ogni passo.
Ispirò istintivamente una boccata d’aria, con un respiro profondo, e sollevò per un momento lo sguardo, fermandosi a osservare il rettangolo di cielo che s’intravedeva tra gli imponenti edifici del quartiere della borsa.
Era in quei momenti, dopo aver sperimentato le paure più atroci e soverchianti della gente, che gli capitava di sentire quella specie di effetto di rimbalzo; quella sorta di brivido che lo investiva, dapprima violento, e poi si trascinava nella sua testa lentamente, scemando piano, fino a scomparire in una specie di eco. Era come una traccia, un ricordo.
Socchiuse gli occhi, passando di fianco a una fontana, e ascoltò lo scorrere dell’acqua.
Era il ricordo delle sue paure, quelle che aveva provato un tempo e che aveva lavato via come fossero macchie, imperfezioni. Era come un colore sbiadito, che affiorava dalla sua trasparente insensibilità all’orrore degli altri; lo stesso orrore che era costretto a provare ogni volta, nella stessa, identica e terrificante forma, insieme alle sue vittime.
Quella sensazione la sentiva solo dopo. E gli ricordava cosa fosse la paura; ora che lui non la temeva più, nemmeno quando si sentiva affogare o sentiva cosa significasse essere rinchiuso in una cella brulicante di scarafaggi, insieme con un malcapitato rapinatore; ora che lui non aveva più paura nemmeno della stessa paura, perché lui stesso era diventato paura. Era lui stesso l’acqua che lo soffocava, le pareti umide e striscianti che si chiudevano opprimenti su di lui. Ogni volta sentiva quel brivido, quel formicolio alla base del collo che gli ricordava tutto quello che significava essere un uomo come gli altri. E a volte se lo chiedeva... se avrebbe mai incontrato qualcuno le cui paure non sarebbe riuscito a dominare.

Impiegò meno del previsto ad arrivare al palazzo della SITS. Davanti all’enorme porta girevole, sentiva ancora una certa eccitazione scorrergli silenziosa nel sangue. Assumere due forme contemporaneamente, anche se così insignificanti, era una seccatura che non aveva previsto quel giorno; così come quel lavoro. I server del database sono off line, sia il master che il back up... Piuttosto inusuale, in effetti. Dal PDC ci risulta che sono operativi, ma non riusciamo ad accedere ai dati... Probabilmente il server di bridge era saltato. Certo, se fosse stato quello il problema, forse poteva anche sbrigarsela in poco tempo.
Pensò di riposarsi per qualche minuto, visto che era in anticipo. Ma cambiò idea quasi subito ed entrò nell’edificio palesemente controvoglia.
I soldi che aveva preso in banca gli sarebbero bastati per un bel po’, ma rifiutare un lavoro del genere, oltre che fruttargli dei bei soldi in più, poteva costargli un mucchio di lavoro in futuro. Non poteva permettersi di essere l’ultimo della lista di Oliver Shark, visto che almeno il novanta per cento delle società e delle compagnie della città erano sue; e, a quanto pareva, attualmente era tutt’altro che l’ultimo sulla sua lista di tecnici. Se rifiutava adesso, gli ci sarebbero voluti mesi per riguadagnarsi quel contatto.
“Shandler, tecnico informatico. Mi hanno chiamato dal CED... Centro Elaborazione Dati...” precisò, notando lo sguardo esitante della segretaria.
“Sì, attenda un momento, prego.”
Notò che la receptionist si era sforzata di essere gentile, senza riuscire a nascondere uno sguardo perplesso sul suo abbigliamento.
Quando le diede le spalle e fece per appoggiarsi al bancone, mentre la donna componeva qualche interno, il contraccolpo violento che lo scaraventò contro il marmo, improvviso, lo colse di sorpresa e del tutto impreparato. Sentì un dolore sordo al fianco, che aveva urtato con forza, senza avere il tempo di rendersi conto di cosa l’aveva colpito. Capì quasi subito, in realtà, che era stato uno spostamento d’aria, un’esplosione ravvicinata. L’enorme atrio si riempì infatti all’istante di polvere e fumo denso, di grida concitate. Jason si raddrizzò come poté, premendosi una mano sul fianco e una sulla bocca per evitare di respirare, cercando al contempo di capire da che parte sarebbe dovuto uscire. C’erano diverse persone senza vita sul pavimento, altri vagavano confusi in preda al panico. La paura della gente ricominciò a urlargli rabbiosamente nella testa, disperata.
Poi, successe tutto ancora più velocemente.
Dalle macerie sul lato est, vide emergere in mezzo al fumo una strana sagoma. Era un uomo, ma sembrava equipaggiato con una bizzarra tuta da combattimento, che ricordava vagamente un abbigliamento militare; niente che Jason avesse mai visto. Imbracciava un’arma, una specie di grosso fucile dalla forma allungata senza canne, altrettanto insolita. Per un momento, mentre metteva a fuoco quello strano individuo che incedeva minacciosamente verso di lui, Jason si trovò a essere curioso e a chiedersi subito dopo se non fossero appena sbarcati gli alieni. Gli sfuggì spontaneamente un sogghigno ironico, ma quell’espressione scomparve quasi subito dal suo volto, non appena l’uomo si tolse il casco e lo fissò rabbioso, rivolgendosi a lui in un tono innaturalmente piatto e inespressivo. “Ti uccido, ruffiano tirapiedi. Vi uccido tutti, uno per uno. Tutti.”

Jason era capace di assumere, letteralmente, la forma delle paure più atroci degli esseri umani. Per lui non c’era nulla di più facile. Un potere incredibilmente devastante il suo, perché, come aveva imparato fin da bambino, tutti avevano paura. E la maggior parte della gente si trovava totalmente annientata di fronte ad essa. Aveva un unico punto debole, o almeno così pensava. Era costretto a provare ciò che sentivano le sue vittime, esattamente quello che infliggeva loro. Tutto.
In realtà, col tempo, aveva semplicemente imparato a non avere paura. Jason Shandler, realmente, non aveva paura di niente.
Non ebbe paura, infatti, quando guardò negli occhi quello strano uomo, lo vide puntargli contro quell’arma insolita e premere quello che sembrava un grilletto. Fu solo sorpreso, molto sorpreso, perché nella sua mente non aveva visto nulla.
E mentre cadeva a terra e sentiva la vista annebbiarsi e i sensi venire meno, pensò quanto fosse strana quella sensazione e gli venne ancora da sorridere. Appena prima che tutto diventasse buio, gli era sembrato di vedere un gatto, attraverso la vetrata; e quello sì, che era davvero strano.


CONTINUA...



taisa: Quando si parla di indifferenza e di cinismo, quel tizio coi capelli in sù di cui parli diciamo che ha fatto scuola ^_* In realtà, mi fa molto piacere che anche i personaggi cosiddetti "minori", come Molly o i due cattivoni, siano caratterizzati decentemente, nonostante le tradizioni. Per quanto riguarda Jason, ormai non ha più paura di niente. Io, invece, ho paura che dovrò continuare a ringraziarti XDD.

Grazie anche a chi sta seguendo questa storia^^.


  
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