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Autore: Fabi96    25/03/2015    3 recensioni
La saga di divergent, vista dalla prospettiva di una coppia ancora più coinvolta nella guerra tra le fazioni, una ragazza e un ragazzo uniti nel loro sentimento, separati dai loro valori e dalle loro scelte.
Parlo di Eric, racconto della sua visione di questa rivoluzione, delle due battaglie e delle sue rinunce. Perché anche lui ha rinunciato a qualcosa.
Parlo di una ragazza che cercherà di riportare la pace nella città disastrata di Chicago, mentre Tris e Quattro saranno al di fuori della barriera.
Racconto quella parte di storia che la Roth ci ha mostrato attraverso le telecamere del dipartimento.
Parlo di un amore non compreso, dai suoi stessi protagonisti, di una società distrutta dalla guerra e una generazione perduta.
Io racconterò del fiore di loto, che quando inizia a germogliare è sommerso dall'acqua putrida e impura, ferito da insetti e infastidito dai pesci; infine rinasce, e rimane il lottatore più forte, in una natura ostile.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buona sera! Tornata dalla gita, e quindi posso pubblicare questo nuovo capitolo scritto a cavallo tra l'Austria e la Slovacchia... (Wow! Che avventura). E concluso nel mio letto a casa mia. L'ispirazione potrà venire dai viaggi, ma nulla è meglio di casa propria! 
L'ultima volta vi ho lasciate con il fiato sospeso, in questo capitolo cercherò di far venire tutti i nodi al pettine (se si può dire). 
Grazie alle ragazze che hanno recensito, siete stupende! 
Ormai mi sto completamente distaccando dal libro, sono su tutta un altra strada, e sto trovando difficile attenermi del tutto agli avvenimenti reali della Roth. Ditemi cosa ne pensate, se è troppo, o se posso osare. Sta diventando noioso? Siate sincere!! (E coraggiose!!)
 
L'ennesima volta 
 
 
"Devi essere coraggiosa."
Eric le stava accarezzando ritmicamente la guancia destra con la sua mano e sfiorando i lineamenti del viso. Le prime luci del giorno irradiavano e illuminavano tutta la stanza di un colore roseo arancione, rendendo la pelle di lui di quel colore così caldo. 
"Non devi avere paura, non è successo nulla." 
Cercava di confortarla, stesi nel loro letto, avvinghiati tra loro, come erano soliti stare dopo una notte di puro amore. Il braccio del ragazzo era intorno alla vita di lei, le loro gambe intrecciate, il viso di Elise appoggiato sulla sua spalla, respirava sul collo di lui. 
Le accarezzò nuovamente la guancia, scendendo sulla spalla, lungo il braccio, spostando la mano di lei dal ventre, dove non si ricordava di averla appoggiata. 
Elise abbassò il viso, distogliendo lo sguardo da quegli occhi così amorevoli è così poco simili a quelli di Eric. Si fece prendere dallo sconforto, perché finalmente aveva collegato tutto quello che era successo e aveva capito perché non si ricordasse come faceva a essere li a rivivere quel momento: un sogno. Il suo respiro cambiò e il cuore prese a battere più velocemente, mentre il dolore le attanagliava la mente.
"Come fai a dire che non è successo nulla." Sussurrò, facendo sfuggire alcune lacrime. 
Eric le sfiorò il mento, per sollevarlo e riportare i loro occhi in contatto. Fece scorrere il pollice sul solco bagnato che la lacrima aveva lasciato sulla guancia. 
"Lizzie è una bambina, ha i capelli scuri, è di quasi sei mesi. Ed è bellissima."
A Elise scappò un singhiozzo, aprì la bocca per far uscire le parole ma ne ricavò solo un altro singhiozzo. 
"Ha tutte le dita?" Chiese senza pensare. 
"Cinque per ogni piedino e per ogni mano. E per fortuna due mani e due piedi." Disse lui, senza riuscire a non farsi scappare una tirata di labbra, che agli occhi di Elise era il sorriso più radioso che Eric le aveva mai rivolto. 
"Posso vederla?" 
Eric appoggiò la sua fronte su quella di lei e avvicinò le labbra al suo volto, baciando via le lacrime che continuavano a uscire senza argini, le circondò il viso con le sue mani, cercando di tranquillizzarla. 
"Non è il momento. Non è quello che devi fare. Adesso ti devi riprendere. Devi proteggere la città, contattare Quattro, mettere le cose a posto. Non è ancora il momento di fare la madre, hai capito?" 
Liz chiuse gli occhi, scuotendo appena la testa, per poi iniziare a tremare in preda alla disperazione. 
"Non è giusto, non lo voglio fare! Portami con te! Perché non sono ancora con te, con voi!" 
Ora piangeva, urlava e singhiozzava senza ritegno. Si avvinghiò alle spalle di lui, sprofondando il viso nel suo petto.
"Perché non è ancora il momento. Quando avrai finito staremo insieme. Ma prima devi finire qua. Sii coraggiosa piccola." 
La strinse a se, appoggiando il viso sui suoi capelli rossi, respirandone il profumo, come se in un sogno si potessero sentire gli odori. 
"Avrei voluto fosse uguale a te. Che fosse un pezzo di te, un modo per averti con me."
La prese per le spalle, inchiodando il suo sguardo in quello di lei, facendola concentrare sulle parole che stava per pronunciare. 
"Elise te lo già detto: sarò sempre con te." 
Spostò le mani intorno al suo viso, la tirò sul suo petto e la baciò. Disperatamene. Lei aveva il bisogno fisico di quel contatto, di un contatto con lui. Ma era un sogno, e non sentiva nulla. Senza permetterle di prendere respiro, lei sentiva di non averne bisogno, la fece rotolare di lato e sdraiare sulla schiena premendola contro il letto. 
"Piccola, devi svegliarti, prenditi il tempo che vuoi, ma devi svegliarti e mettere a posto i mie casini. Dopo potrai venire con me." Le soffiò sulle labbra. 
"Devo sempre mettere a posto i tuoi casini."
"Sei molto brava a farlo. E io crescerò la piccola, mentre ti aspetto."
E dopo, la luce accecante del giorno la stordì e le pervase i sensi e la mente. 
 
 
 
 
Eveline era seduta su una sedia in quella stanza. Aveva molte cose più importanti da fare, ma era lì. Era accanto a quel letto, in attesa che aprisse gli occhi. 
La guardava e ne vedeva sempre di più la figura di una giovane Johanna, appena diventata rappresentate dei pacifici. Solo i capelli erano diversi: quelli di Elise erano lisci, dritti e rossi scuro, quasi 
sul marrone. 
La guardava e ne vedeva sempre di più la sua rovina, la personificazione del proprio dolore, del motivo per cui era scomparsa, per cui Marcus era diventato così violento. L'unica persona che doveva soffrire era quella pacifica: ne lei stessa, ne suo figlio. 
E l'unico modo per colpire fin nel profondo Johanna e Marcus, era colpire Elise. 
E lei lo stava facendo, lentamente, dolorosamente. 
Prima il suo prezioso capo fazione traditore Eric, poi aveva riottenuto il favore di suo figlio, aveva allontanato Johanna, dopo aver avuto con lei un colloquio molto acceso, che aveva visto la coraggiosa pacifica sconfitta da un esclusa: l'amante distrutta dalla moglie. Raccontarle la verità delle violenze di Marcus l'aveva fatta sentire potente, e aveva visto finalmente quella donna diabolica piegarsi per il senso di colpa. Finalmente, tutto girava come voleva lei. L'unica spina nel fianco era stata Elise, la capo fazione. 
Ma come sua madre, si era fatta rovinare da un uomo. 
Come lei. 
Avrebbe imparato la lezione con la stessa violenza che era stata inferta a lei. 
 
Vide un movimento appena percettibile delle dita della ragazza stringersi intorno al lenzuolo, e poi gli occhi di lei si spalancarono. 
Liz non riusciva ancora a mettere a fuoco il luogo intorno a lei, ma in pochi secondi riconobbe la figura seduta accanto al letto. 
Si raddrizzò subito, senza spostarsi dall'altra parte del letto. Non le avrebbe dato quella soddisfazione. 
"Ben svegliata."
La ragazza si guardò intorno: erano da sole, la porta era chiusa, e tutti gli arnesi chirurgici dell'altra sera non c'erano più, non c'era segno del dottore che aveva visto durante i pochi ricordi che aveva del risveglio. 
Pochi, ma intensi. 
Portò una mano istintivamente sulla pancia, cercando quella protuberanza a cui ormai si era abituata: non sentiva nulla. Ne battito, ne movimenti. 
"Non c'è più." 
Si girò verso la donna che aveva pronunciato quelle parole.
"Mia cara Elise, succede nella vita di una donna. Tu sei molto giovane, eravate tutte e due molto giovani, avere un bambino a quest'età non sarebbe convenuto a nessuno dei due, men che meno adesso che sei rimasta sola." 
Impallidì e gelò sul posto: non aveva nulla da dire, nulla da chiedere, nulla da provare. Ricordava il sogno, ma non ricordava cosa doveva fare, cosa doveva essere. 
Non riusciva nemmeno a trovare le lacrime, non ne aveva più. 
Doveva contattare Quattro! 
"Il dottore?" Sussurrò Elise. 
"Non poteva vivere, aveva infranto più di una legge imposta dal nuovo governo, tu sai quanto sono scomode queste decisioni, sopratutto perché il rappresentate degli eruditi era molto utile e competente nel suo campo, ma i primi tempi bisogna essere di ferro, se no anche le altre persone ne approfitteranno. È entrato nella sede e ha preso medicinali e apparecchi vietati." 
Pausa di un minuto intero, di sessanta secondi scanditi dai respiri accelerati di Elise. 
"Fucilato in piazza, se può interessarti."
Disse con severità la donna. 
"Quanto ho dormito?" 
"Dopo che ti ha somministrato i medicinali, e dopo averti assistito nella fase post-aborto non ti sei svegliata per quattro giorni. Quindi noi non ti abbiamo disturbato, perché Jack ha insistito, ma adesso, in tarda serata, sei attesa in sala riunioni alla ex sede degli eruditi. Dobbiamo discutere di alcune cose successe in questi ultimi giorni." 
Si alzò dalla sedia pieghevole e si avviò verso la porta. 
"Il tuo amico Zeke non è stato ancora intercettato, ma non passerà molto tempo prima che lo trovino. Ma ne parleremo meglio dopo." La vide uscire affiancata da due esclusi, tra cui Edward. 
 
Quando finalmente si sentì sola, veramente sola, si alzò dal letto, si avvicinò al tavolo della cucina dove aveva individuato una scatola dei medicinali. 
La prese, la osservò: sonniferi. 
Avrebbe potuto dormire per un bel po', ricostruire una vita nel mondo al di là con Eric, nel mondo dei sogni, raggiungere lui e la sua piccola lei. 
Aprì la scatola e rovesciò le pastiglie sulla mano. Erano più di una decina: sarebbe durato un bel po' quel viaggio, almeno lungo una vita. 
Si portò la mano alla bocca e se la riempì di quelle pillole. 
Appoggiò la scatola al tavolo, afferrò il bordo del mobile con le mani e lo strinse con forza, costringendosi a inghiottire. 
Mollò la presa e sbatte  il pugno chiuso sul piano, facendolo scricchiolare per la violenza: non ce la faceva. 
Scivolò a terra ritrovandosi seduta sul pavimento gelido, le mani ancora afferrate al bordo. 
E sputò fuori una a una quelle pillole maledette: la sua unica via di fuga. 
Una. A. Una. 
Quando finì, si prese la testa tra le mani, affondano le dita tra i capelli. Respirò piano, poi ancora e ancora. 
E poi urlò. Con tutto il fiato che aveva. 
Perché per l'ennesima volta aveva avuto paura, e per l'ennesima volta, non aveva avuto coraggio. 
Per l'ennesima volta, aveva ucciso qualcuno. 
Per l'ennesima volta, aveva perso Eric. 
 
 
 
 
"Mi sono rotto le palle di stare rinchiuso qui." Sbottó Eric, dopo l'ennesimo controllo di routine della donna pacifica che puntualmente ogni giorno si presentava per medicargli le ferite, cambiargli le fasciature e rifilargli qualche strano liquame a base di erbe e corteccia.  
Si alzò dalla branda scomoda che ormai da giorni era diventata il suo letto e, spingendo via la donna, si allontanò da quel ripostiglio che non poteva assolutamente chiamare camera. 
Ma dopotutto non poteva pretendere, doveva rimanere nascosta la sua presenza, sopratutto da quando gli esclusi avevano aumentato le visite alla sede dei pacifici. 
Dopo che Johanna aveva permesso il passaggio di quei medicinali l'unico modo per tenere nascosto il fatto era stato il caro dottore. Rimettendoci la vita.
Erano quattro giorni che non vedeva Johanna, quattro giorni che non osservava dall'apparecchio cosa stava capitando in città. 
Non era il tipo che se ne stava con le mani in mano, e non avrebbe accettato un giorno di più rinchiuso in quella stanza. 
Percorse il corridoio che collegava il bungalow al padiglione principale degli eruditi.
Passò per il giardino ancora bagnato dalla poca neve rimasta, ormai del tutto sciolta. Faceva freddo, e lui indossava soltanto una maglietta nera e i pantaloni neri e blu con cui era arrivato. Nemmeno morto avrebbe indossato i colori dei pacifici. Non era un hippy.
Entrò nel padiglione della sala mensa da una porta a due ante, completamente di vetro e legno, ritrovandosi davanti il deserto più totale: saranno state le sette di sera, a quell'ora doveva esserci già qualcuno che cenava, e invece non c'era anima viva.
Si avvicinó alle cucine, dove trovò del pane appena sfornato abbandonato sul tavolo da lavoro. Rubò due pagnotte e attraversò l'uscita di servizio delle cucine, ritrovandosi in un ala della sede che non aveva mai visitato.
Percorse i corridoi bui: non erano come gli altri, di vetro o illuminati dalla luce naturale del sole.
Ormai era in una zona completamente buia, se non per uno spiraglio di luce che proveniva dallo spioncino di una porta a due ante. Si affacció allo spiraglio e osservó dentro, appoggiando una mano all'anta della porta.
Vide una chioma di capelli rossi: Johanna. 
Era seduta su una sedia, e gli dava le spalle. Era china su qualcosa, su un tavolo.
No. Su un contenitore, non sapeva dirlo con precisione.
Una figura davanti a lei stava parlando, ma Eric non riusciva ad afferrare nessun significato di quelle parole.
Una figura ai limiti della sua visuale, che infatti non aveva notato, si fece avanti, verso Johanna, appoggiandole una mano sulla spalla, sussurrandole qualcosa all'orecchio. Johanna alzò la testa dal tavolo e si rivolse all'uomo, ricambiando il gesto.
Eric lo riconobbe. Zeke. Alto, vestito di nero, carnagione scura. Come aveva fatto a non riconoscerlo subito?!
Fu una frazione di secondo, Eric non ebbe nemmeno il tempo di reagire e nascondersi dietro la parete. 
Con la coda dell'occhio Zeke lo vide dallo spioncino e si immobilizzò.
Il suo sguardo da stupito, divenne pieno di rabbia, collera, violenza. Che non riuscì a controllare. 
Corse verso la porta, aprendola con uno scatto.
Eric non gli disse nulla, e nemmeno l'intrepido pronunciò parola. Si limitò a gettarglisi addosso, colpendo il viso di Eric con un gancio destro che gli fece perdere l'equilibrio. Eric lo afferrò per il bavero della giacca, cadendo tutte e due per terra.
Johanna si era alzata dalla sedia ed era corsa fuori nel corridoio, dove i due ragazzi si stava menando, rotolando da un lato all'altro del corridoio, sbattendosi contro i muri, per cercare di fermare l'altro, o di ferirlo, Johanna non ne era certa.
"Bastardo! Sei vivo! Non riesci proprio a morire!" Gli urlò Zeke, sovrastandolo e stringendogli le mani al collo.
"Ci vuole più che una pallottola per liberarsi di me!" E gli tirò una testata sul naso.
Zeke cadde indietro, liberando Eric dalla presa alla gola.
Il ragazzo gli saltò addosso con il pugno alzato, pronto a colpirlo al viso.
"Ora basta!" 
Eric rimase con il pugno sospeso per aria, la mano che teneva fermo Zeke per la giacca, l'intrepido steso per terra con la testa premuta contro il muro.
Johanna in piedi davanti alla porta teneva le ante aperte, permettendo alla luce di illuminare quella scena.
"Ora basta. Non posso sopportare un'altra lotta, non posso. Ora. Basta." Ripete, con voce flebile ed esausta. La donna si appoggiò al muro e si prese il viso tra le mani.era pallida, sconvolta, invecchiata di dieci anni negli ultimi giorni. Cosa era successo?!
Eric non mollò la presa, ma acuì la vista è guardò al di là delle spalle di Johanna, all'interno della stanza. 
Quello che pensava essere un tavolo, era invece un contenitore di vetro, o di qualsiasi altro materiale trasparente. In quel momento non era importante quello.
L'univa cosa importante era quel movimento: su e giù. 
Veloce, evidente, faticoso. Così veloce che sembrava sul momento di fermarsi dallo sforzo.
Il suono di quei fiati corti.
Il colore della pelle: rosa, molto rosa.
Quei ciuffi, disordinati e arruffati. 
Johanna notò la reazione di Eric, e anche Zeke non poté non accorgersene.
"No!" Fece per afferrarlo per le spalle e buttarlo a terra, ma Eric lo premette contro il muro, avvicinando il suo volto a quello di Zeke.
"Non ti intromettere più." Gli ringhiò. 
Lo mollò lì, in quel modo, e Zeke non reagì.
Si alzò, scavalcò Johanna e il suo sguardo preoccupato e desolato. 
Era un diritto di Eric vederlo, non poteva opporsi. Non avrebbe tolto questo alla sua Elise, non avrebbe privato quella creaturina del padre, traditore o meno.
Eric si avvicinò e lo vide.
Un neonato, in quella culla di coperte, protetto da un incubatrice trasparente. 
Aveva gli occhi chiusi, il petto che andava su e giù, i capelli marroni arruffati. 
Ne aveva tantissimi! Come era possibile? 
Dieci dita ai piedi. Dieci dita alle mani. La pelle rosa. Le guance paffute.
Era una femmina. 
Ed era bellissima.
Come era possibile? Alzò il volto e si rivolse all'uomo che doveva essere un medico. Articolò le uniche parole che in quel momento si muovevano vorticosamente nella sua mente.
"Come è possibile?" Il cuore stava battendo a ritmo del respiro della piccola, si abbassò piegandosi sulle ginocchia per avere il viso all'altezza dell'incubatrice, appoggiando sul bordo del tavolo di metallo le mani.
La creaturina girò il viso verso quello di Eric, calmando il respiro, rallentando il "su e giù" del petto.
"Il rappresentante degli eruditi, il dottor Thomas, aveva lavorato a stretto contatto con il suo insegnante per anni a questo esperimento. È un incubatrice, tiene in vita la neonata. Le fornisce la temperatura costante necessaria per la crescita all'interno del grembo materno. Ogni due ore le forniamo via endovena sali minerale, elettroliti, glucosio. Inoltre cresce più velocemente. Questo è il fattore sperimentale."
"Non mi piace la parola sperimentale. Cosa può danneggiarla?"
"Lo sperimentale è quello che permette che cresca più in fretta, che sviluppi tutti gli organi e i muscoli e i tessuti. Sono onde radioattive, sotto perenne controllo. Non sono nocive, ma il dottore non aveva mai sperimentato su un essere vivente questo prototipo. Troppo rischioso."
Si stava stringendo le mani, in preda alla paura.
Eric avrebbe voluto fargli fare la fine di Zeke in quel momento. 
'Sperimentale, mai sperimentato?! Stiamo scherzando?!
Si alzò di botto, rese per il collo il dottore e lo sbatte contro il muro.
"Lei non è un esperimento! Staccala subito!"
"Eric mettilo giù!" Gli urlò Johanna, correndo verso di lui. Gli si aggrappò alle spalle, ma il ragazzo se la scrollò di dosso in malo modo, buttandola per terra.
"Non c'era altro modo. L'intrepido ci ha riportato le istruzioni di Thomas! Se non avesse tolto la bambina sarebbero morte tutte e due, sia la madre che la neonata. Ha fatto un miracolo!" Singhiozzava il dottore tra un respiro spezzato e l'altro. Eric non gli permetteva di respirare fino in fondo, solo quanto bastava per rispondere alle domande.
Lo lasciò, e l'uomo scivolo lungo il muro, fino a terra.
Eric si voltò e scavalcò Johanna, ancora seduta per terra.
"Voglio vederla! Dov' e quel televisore?"
Si incamminò verso la porta, ma Johanna lo afferrò per la gamba impedendogli di andare avanti.
"Non devi più avvicinarti a lei! Non te lo permetterò!"
Le diede un calcio, costringendola a lasciare la gamba. Razzolò per terra.
"Tu? Proprio tu mi fermerai?! Tu le starai vicino?!" Urlò. 
Si passò una mano sugli occhi, voltandosi verso l'uscita, non voleva perdere il controllo. 
Ma quella questione doveva essere chiusa una volta per tutte quindi ci ripensò, e si girò di nuovo verso Johanna stesa a terra.
"Non ti basta tutta la merda che le hai gettato addosso in questi anni? Non ti basta averla cresciuta nell'insicurezza? Cosa pensavi, che non le sarebbero mai pesati tutti i tuoi segreti?!"
Johanna era ammutolita, lo guardava con sguardo torvo, come non riuscisse a capire cosa intendesse con quelle parole. Aveva cercato di dare il meglio a sua figlia. 
Eric lesse nel suo sguardo lo stupore, e capì di aver incastrato la capofazione più tosta in quella città.
"Pensavi che non lo sapessi? Mi credi un idiota? Ogni volta che incrociavi lo sguardo di Quattro, o addirittura quello di Marcus durante le assemblee era chiaro!"
Johanna si appoggiò al muro e cercò di tirarsi su da terra.
"Cosa stai insinuando?" Chiese con voce flebile.
"Che Marcus Eaton è il padre di Elise. E che tu hai rovinato la vita a Quattro e a quella pazza di esclusa. Tutto quello che sta soffrendo Liz..."
Prese respiro.
"È colpa tua." 
Johanna si infiammò. "E tu allora? Le hai rovinato la vita! L'hai ferita, l'hai distrutta, intrappolata! Tu non meriti di vivere!" Gli urlò addosso, non riuscendo a trattenere delle lacrime di rabbia.
Eric si girò, dandole le spalle.
"Dovevi pensarci cinque giorni fa."
Sorpassò la soglia della porta, Zeke gli si parò davanti.
"Elise non saprà mai che sei stato qui. Non farò parola che in realtà sei vivo. Nessuno lo farà. Sarai come un fantasma. Non ti permetterò entrare di nuovo nelle nostre vite, e nasconderò sino alla morte la verità. Se non ti posso sparare, ti punirò in questo modo."
Si fissarono, Eric irrigidì la mandibola, tutti i muscoli tesi dalla rabbia.
"Io so sopravvivere con le menzogne e la mani sporche di sangue. La domanda è: tu puoi?"
Zeke strinse gli occhi a fessura: l'avrebbe fatto, pur di non dargli di nuovo la possibilità di rovinarle la vita.
"Ora. Vattene." Gli ringhiò l'intrepido tra i denti.
"Con molto piacere." 
Ma prima, doveva vedere dove era lei.
 
 
  
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