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Autore: _Pulse_    28/03/2015    4 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buonasera!
A voi la seconda parte del mega-capitolo iniziato la settimana scorsa. Come vi renderete presto conto, nonostante io l'abbia diviso, il capitolo che leggerete è molto più lungo rispetto a quelli che vi ho proposto fin'ora. E devo avvisarvi che saranno più o meno tutti di questa lunghezza, d'ora in avanti. Perciò potrà anche darsi che la cadenza con cui posterò sarà diversa, magari vi darò più tempo, per permettervi così di leggere in tutta tranquillità questi papironi. Spero in ogni caso che non sia un problema e che vi piacciano comunque :)
Come vi ho anticipato la scorsa volta, in questo capitolo verranno introdotti ben tre nuovi personaggi originali - di cui vado onestamente molto fiera - e ne ritornerà uno dal passato di Merlino e Artù. Qualcuno forse avrà già capito di chi si tratta... ad ogni modo, ciò che porterà con sè sarà a tratti scioccante e straziante. Mi auguro con tutto il cuore di riuscire a raggiungere i vostri e che il tutto sia credibile.
Detto ciò, non voglio spoilerare altro e vi lascio alla lettura.
Un grazie a chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e a chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate! Alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

 

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10. A remedy to cure all ills – Part II

 

Alex non si voltò quando sentì la porta della stanza aprirsi e poi richiudersi delicatamente; si limitò ad abbassare le ginocchia che si era stretta al petto fino a quel momento e a passarsi le dita sotto gli occhi stanchi.
Merlino l’affiancò, lo sguardo apprensivo posato sul piccolo Steve, ora nuovamente stabile ma molto, molto debole.
«Hai bisogno di fare due passi?», le chiese a bassa voce.
«No, sto bene, grazie».
Si schiarì la voce, passandosi una mano sulla nuca. «I suo genitori hanno chiamato ancora, hanno detto che sono quasi a Newport».
«Bene».
«Vuoi che ti porti una tazza di caffè?».
Alex sospirò stancamente e alzò il viso verso il suo, guardandolo con una punta di irritazione. «A meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non voglio proprio niente da te».
Merlino non rispose e l’infermiera si beò del silenzio ottenuto fino a quando non si rese conto di averlo fatto ancora: aveva riversato su di lui – quella volta ad alta voce, per giunta – tutta la frustrazione, il senso di inutilità e la paura che provava, nonostante non se lo meritasse affatto.
Era tutto un controsenso, a rappresentazione di quanto si sentisse in conflitto con se stessa: avrebbe voluto dirgli di restare, perché aveva bisogno di averlo al suo fianco, e invece gli aveva risposto in quel modo, alzando un muro invalicabile tra loro, perché quello che era successo alla caffetteria la spaventava più di quanto spaventava lui.
Aprì la bocca per scusarsi, ma quando girò il capo per incrociare i suoi occhi realizzò, con un doloroso nodo alla gola, che Merlino l’aveva lasciata sola, in quel silenzio angosciante.

 

***

 

Odiava non avere con sé il suo cavallo, odiava quel malridotto quanto ridicolo mezzo di trasporto a due ruote che aveva trovato nel vecchio fienile utilizzato da Merlino come garage per la propria auto e dal quale era caduto quattro volte prima di prenderci la mano. Avrebbe potuto raggiungere Avalon a piedi, certo, ma ci avrebbe messo davvero troppo tempo, rischiando di farsi scoprire dallo stregone. Perciò non si era arreso e al quinto tentativo era riuscito a stare in equilibrio tanto a lungo da capire che era tutta una questione di coordinazione.
Sotto una luna stranamente non velata dalle nubi, con la sua maglia di ferro infilata sopra la felpa e il cappuccio sulla testa, una balestra simile a quella che usava di solito durante le battute di caccia (sgraffignata dalla stanza in cui Merlino aveva accumulato molti ricordi del passato) appesa sulla schiena, il suo pugnale stretto alla cintura e il cellulare nella tasca dei jeans, aveva pedalato velocemente attraverso la campagna, tra le stradine secondarie che aveva percorso quella mattina con Alex e infine lungo il sentiero che costeggiava il fiume emissario del lago.
Aveva lasciato il suo destriero di ferro a qualche metro dalla sponda di Avalon e aveva atteso che quella voce di donna gli parlasse. Aveva atteso per quella che gli era sembrata un’infinità, camminando avanti e indietro e controllando quasi ossessivamente i minuti che passavano sullo schermo del suo smartphone. Alla fine si era voltato verso la superficie piatta del lago e aveva urlato a squarciagola tutta la sua impazienza, cosa che se qualcuno lo avesse visto o sentito l’avrebbe sicuramente fatto rinchiudere per davvero in uno di quegli ospedali psichiatrici.
Artù sospirò, svuotato e stanco, e si lasciò cadere sull’erba umida di fronte alla riva del lago, proprio dove si era seduto a parlare con Alex quella mattina.
Quella ragazza iniziava a piacergli, per quanto strana e alle volte irritante; gli piacevano la sua spavalderia e la sua determinazione, gli piaceva il fatto che dicesse tutto quello che le passava per la testa. Forse si sentiva così in sintonia con lei perché di carattere era molto simile a lui, come aveva detto Merlino, e proprio per questo sapeva che non sarebbe stato facile risolvere pacificamente tutte le questioni aperte con lo stregone.
Poteva quasi veder scorrere di fronte ai suoi occhi il corso degli eventi, cosa sarebbe successo e cosa no, e sapeva per certo che, in un modo o nell’altro, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Perché se davvero lui e Alex si assomigliavano così tanto, allora anche lei avrebbe accettato Merlino per ciò che era, legata a lui da un sentimento ben più forte di qualsiasi pregiudizio.
Un’improvvisa vibrazione all’interno della tasca della sua felpa lo fece sobbalzare. Tirò fuori il cellulare e lesse a mezza voce il messaggio che Merlino gli aveva appena inviato: «Ci vorrà più tempo del previsto, non aspettatemi alzato».
Artù scosse il capo con delusione e iniziò a rispondergli, lentamente e ancora un po’ impacciato con l’uso della tastiera touch: «Non… sei… la… mia… balia. Smet–». Uno splash improvviso, come se qualcuno avesse appena lanciato in acqua un sasso, gli fece alzare di scatto gli occhi, stretti per scorgere il più piccolo movimento. E lo vide, perfettamente in diagonale rispetto a lui: una piccola barca, con la vernice blu scrostata e i remi ricoperti di alghe, si dondolava pigramente sulla superficie del lago, creando onde semicircolari che increspavano l’acqua limpida.
Era quasi certo che quella barca non ci fosse, quando era arrivato, ma ingoiò il rospo e in risposta a quell’esplicito invito optò per un più semplice «Okay» prima di alzarsi.
Sperando che non fosse così malridotta come sembrava, salì sull’imbarcazione e remò fino al centro del lago.
«Ehi, sono qui!», esclamò, guardandosi intorno un po’ spaesato.
Quell’intera situazione era surreale. Come aveva fatto Merlino a stare così in contatto con la magia e a non perdere il senno? Pensò tristemente che sarebbe stato meglio diventare pazzo, piuttosto che vedere tutte le persone a lui più care morire a causa della magia o per aver avuto troppa fiducia in essa.
«Non pensavo sareste venuto davvero, Pendragon».

Alla buon’ora, pensò prima di rispondere in tono sarcastico: «Conosci altre persone in grado di darmi qualche spiegazione riguardo al motivo del mio ritorno?». Artù continuò a guardarsi intorno, ma non aveva la più pallida idea da dove arrivasse la voce di quella donna. «Potresti farti vedere? È irritante parlare al vento».
«Allora abbassate lo sguardo».
Artù si protese verso l’acqua e sbuffò vedendo soltanto la propria immagine riflessa, ma non fece in tempo a lamentarsene ad alta voce che una mano cancellò il suo viso come se fosse stato disegnato su un vetro appannato. Lentamente iniziò a scorgere dei lineamenti femminili, due occhi scuri e una folta chioma di capelli neri. Si trattava di un’immagine non perfettamente nitida e spesso e volentieri diventava una semplice ombra a pelo dell’acqua, come se non possedesse l’energia necessaria a mostrarsi chiaramente, ma Artù la riconobbe subito e trasalì con così tanto trasporto che la barca si agitò con furia, rendendo ancora più sfocato il viso della giovane donna.
«E così vi ricordate di me? Questo sì che è davvero sorprendente».
Artù deglutì faticosamente e ritrovando il proprio regale contegno disse: «Tu sei la ragazza-pantera».
Un pallido sorriso comparve sulle labbra cianotiche della ragazza. «Il mio nome è Freya, e grazie a Merlino sono diventata la custode di Avalon».

 

***

 

Alex uscì dalle porte scorrevoli dell’ospedale e l’aria fredda della sera le fece venire la pelle d’oca sotto la leggera divisa azzurra. Quello però non era uno dei problemi in cima alla lista – a dire il vero non lo riteneva nemmeno un problema – perciò cercò subito Merlino con lo sguardo e lo trovò, seduto su una panchina in ferro dall’altro lato della strada, vicino ad un lampione che dava una strana sfumatura arancione ai suoi capelli e alle fronde degli alberi alle sue spalle.
Si fece coraggio con un bel respiro, ma sapeva che non sarebbe affatto bastato per il tipo di conversazione che avrebbero avuto, quindi si diresse verso un gruppetto di paramedici in pausa vicino ad un’ambulanza.
«Ehi ragazzi, come procede il turno?», chiese stirando un sorriso e gettandosi dietro le spalle i capelli ormai ribellatesi completamente alla presa del mollettone.
«Meglio del tuo. Ho sentito di Steve», rispose l’unica ragazza del trio, con dei vivaci occhi nocciola, i capelli rosso sangue raccolti in un compostissimo chignon – in contrasto col suo aspetto un po’ gotico – e il viso pallido tempestato di efelidi.
Alex annuì, chinando il capo quasi con vergogna. «Avrei voluto solo…».
«L’importante è che ora si sia stabilizzato e che i suoi genitori siano qui», la interruppe il paramedico, tirando fuori da una delle ampie tasche dei pantaloni dell’uniforme blu un pacchetto di sigarette con l’intenzione di offrirgliene una.
Alex le rivolse un debole sorriso, contenta di aver comunque raggiunto il suo scopo, e se la infilò tra le labbra.
«Cathleen, giusto?», le chiese mentre gliel’accendeva tenendo una mano intorno alla fiamma per proteggerla dal vento.
Il paramedico mostrò una fila di denti bianchissimi e bastò per farle capire che ci aveva preso giusto, oltre al fatto che l’aveva piacevolmente sorpresa.
«Finalmente posso dire di conoscere di persona la dottoressa Alexandra Greenwood», le sussurrò, ancora ad un palmo dal suo viso.
Alex arrossì violentemente. Poche, pochissime persone – tra cui Merlino – sapevano che il suo sogno nel cassetto era quello di diventare dottoressa specializzata in oncologia infantile. Come faceva perciò Cathleen, con cui non aveva mai parlato prima d’allora, ad esserne a conoscenza?
Come se le avesse letto nella mente disse: «Ho le mie fonti. Ma se vuoi che rimanga un segreto non hai di che temere con me».
L’infermiera annuì, riconoscente, ed arretrò di un passo, rendendosi improvvisamente conto che la distanza che c’era tra loro era troppo poca, tanto da metterla a disagio. Tirò avidamente la sigaretta ed accennò un sorriso soffiando fuori il muro, esclamando: «Grazie mille, ne avevo proprio bisogno. Ci vediamo».
«Ci conto», rispose Cathleen, strizzandole l’occhio.
Alex si voltò, più che altro confusa dal suo comportamento, e aveva fatto solo qualche passo verso Merlino quando sentì alle sue spalle il paramedico esortare in modo piuttosto colorito i suoi colleghi sghignazzanti a fare silenzio. L’infermiera comunque si impose di non voltarsi e cercando di godersi appieno la sua prima sigaretta dopo quasi otto mesi – quando aveva deciso di togliersi quel vizio che le aveva passato Keith – si sedette accanto a Merlino sulla panchina vicino al sentiero che attraversava il parco.
«Lo sai che sei incoerente?», fu la prima cosa che le disse in tono pacato, massaggiandosi il viso per poi guardarla obliquamente, con i gomiti sulle ginocchia. «Che senso ha tutto quel tenersi in forma col jogging se poi ti vizi in questo modo?».
Alex ricambiò l’occhiata e dopo qualche istante di silenzio gli porse la sigaretta tenendola tra indice e medio. «Smezziamo?».
Il moro si concesse un sospiro di estremo sollievo dicendo: «Pensavo non me l’avresti mai chiesto», prima di afferrarla delicatamente tra le dita e portarsela alle labbra. Aspirò a lungo, tanto da incavarsi le guance e mettere ancora più in risalto i suoi zigomi affilati, e quando espirò il fumo verso l’alto chiuse gli occhi, libero e in pace con il mondo.
«Promettimi che non lo dirai ad Artù», le disse, ripassandole la sigaretta.
«Come vuoi».
«Grazie».
Alex scrollò le spalle, picchiettando il filtro tra le dita per far cadere la cenere oltre la panchina. «Non devi ringraziarmi, ma perdonarmi».
«Per che cosa?».
«Ero preoccupata per Steve e me la sono presa con te, e non te lo meritavi. Non ti meritavi nemmeno la scenata che ho fatto questa mattina, davvero. È che a volte non riesco a non… Non so come spiegartelo, Merlino».
«Ti capisco benissimo».
Alex si voltò verso di lui e lo guardò intensamente, con un sorriso mesto sulle labbra. Il moro aveva gli occhi puntati nel vuoto di fronte a sé e la fronte solcata di rughe, sintomo che si era perso nei propri pensieri, di quelli seri e difficili da sbrogliare.
«Ricordi com’eri impaurita quando per la prima volta mi raccontasti della tua famiglia?», le chiese ad un tratto.
«Non ero… impaurita», cercò di sdrammatizzare, ma non ci riuscì: la verità era che era stato come lanciarsi nel vuoto e la sua non era stata semplice paura, bensì terrore.
«Per me è la stessa cosa, elevata alla potenza. Il mio passato… ciò che sono stato… non piace a me, come potrebbe piacere a te?».
Alex sentì una grande tristezza pesarle sulle spalle, come una coperta umida che fino a quel momento Merlino aveva sostenuto con le sue sole forze e che ora stava condividendo con lei. In uno slancio di empatia si avvicinò a lui ancora un po’, infilò il braccio sotto al suo e posò la testa sulla sua spalla. Sentì Merlino irrigidirsi, ma si beò del suo calore e della scossa elettrostatica che le corse sottopelle, la stessa che aveva sentito quando l’aveva baciata in quel bagno.
Gli mise la sigaretta vicina alle labbra, dicendo: «Come hai detto tu, che io conosca o meno il tuo passato non cambierò idea su di te: rimarrai sempre il mio Merlino».
Il ragazzo afferrò ciò che rimaneva della sigaretta tra le labbra e se solo Alex l’avesse guardato avrebbe trovato un sorrisino intriso di malinconia dipinto sul suo viso, un sorrisino che la diceva lunga su ciò che pensava a proposito di quella sua ultima frase.
Merlino finì la sigaretta e la spense sul retro del ferro della panchina, ma la tenne in mano: probabilmente perché non voleva gettarla a terra e non voleva essere lui a dirle di spostarsi, ma ad Alex piacque pensare che stava bene lì dov’era, sotto quel lampione dalla luce arancione, con il vento che gli scompigliava i capelli e la sua testa sulla spalla. In realtà, il motivo per cui era rimasto fermo su quella panchina era un altro.
«So quello che Artù ti ha detto questa mattina».
Stava solo prendendo tempo per trovare il modo migliore per aprire l’argomento.
Alex si schiarì la gola e sollevò la testa per poterlo guardare negli occhi, sfuggenti come mai.
«Non dobbiamo parlarne per forza, se non vuoi», disse, consapevole che lei era la prima a non voler affrontare quella conversazione, o almeno non in quel momento.
«Io penso che dovremmo, invece. Anche di quello che è successo questa mattina».

Di bene in meglio, pensò l’infermiera passandosi stancamente una mano tra i capelli scompigliati dal vento.
Respirò profondamente e si batté le mani sulle ginocchia, raddrizzando la schiena con determinazione, pronta ad accettare qualsiasi cosa Merlino le avrebbe detto, ma non fece in tempo ad aprire bocca che dalle porte scorrevoli uscì la capo-infermiera, la quale si diresse subito verso il gruppetto di Cathleen.
«Oh-oh, credo proprio che stia cercando me. Devo andare», esclamò Alex saltando giù dalla panchina proprio mentre uno dei paramedici la indicava dall’altra parte della strada.
«Ci vediamo dopo», la salutò Merlino con un tono che non ammetteva repliche e l’infermiera annuì con un sorriso tranquillo, palesemente falso.

 

***

 

Alle sue innumerevoli ed insistenti domande, Freya aveva risposto tendendo una mano pallida verso di lui e, afferrandolo con forza per la nuca, costringendolo ad immergere il viso nell’acqua gelata del lago.
Artù aveva pensato che si fosse stancata di lui e volesse ucciderlo o, ancora peggio, volesse imprigionarlo di nuovo sul fondo di Avalon, perciò si era dimenato con tutte le sue forze, rischiando più e più volte di cadere dall’instabile barchetta, fino a quando la stessa Freya non gli aveva sussurrato con voce suadente di calmarsi e di aprire gli occhi. Artù, come sotto l’effetto di un incantesimo, aveva fatto come gli era stato chiesto e con suo enorme stupore si era ritrovato a Camelot.
Rivisse quei giorni con gli occhi di Freya, scoprendo che era stato Merlino a liberarla dalla prigionia con l’uso della magia, a tenerla nascosta nei sotterranei del castello, a portarle acqua e cibo – il suo cibo! – e persino uno dei vestiti di Morgana.
Ora il comportamento del mago aveva tutto un altro significato e Artù iniziò a sentirsi male, come se l’acqua in cui era immerso fino al collo fosse riuscita a raggiungere il suo cuore per imprigionarlo in una morsa di ghiaccio, quando capì che Merlino si era innamorato di lei ed era pronto ad andarsene per costruirsi una vita diversa, lontana da Camelot e da tutti quelli che conosceva, e poter essere finalmente se stesso.
Freya però, nonostante lo amasse anche più di quanto la amasse lui, non aveva voluto che Merlino rinunciasse alla sua intera vita per lei e aveva provato a fuggire da Camelot, trovandosi circondata dai cavalieri e dallo stesso Artù.
La dama del lago non mostrò alcuna pietà per il re di Camelot e gli mostrò tutto nei minimi dettagli: quando, una volta trasformata in pantera alata, era stata messa all’angolo e circondata, quando Artù era riuscito a ferirla e all’improvviso un gargoyle era caduto tra lei e i cavalieri per evitare che la uccidessero. Era stato Merlino a crepare la pietra, a permetterle di fuggire, ma ciononostante non era riuscito a salvarla: era morta tra le sue braccia, proprio sulla sponda di quello stesso lago, e lo stregone aveva pianto, allora come quando aveva guardato il suo corpo bruciare sulla barca funeraria che con la magia aveva fatto scivolare lontano da sé.
«Basta! Basta!», urlò con tutte le sue forze, sentendo l’acqua dolce nella bocca. In quel momento Freya allentò la presa e Artù poté sollevarsi e riempirsi nuovamente i polmoni d’aria. Per quanto tempo era rimasto sott’acqua?
Crollò esausto sul fondo della barca, ansante, infreddolito e con gli occhi che gli bruciavano, forse per il freddo o più probabilmente per le lacrime che stava cercando di trattenere.
Era stato lui ad infliggere alla ragazza-pantera il colpo che l’aveva uccisa, lui aveva ucciso il primo amore di Merlino e non solo il mago non gliel’aveva mai confessato, comportandosi come se si fosse trattato soltanto di un brutto sogno, ma quando il giorno dopo l’aveva visto giù di morale gli aveva soltanto strofinato le nocche contro la testa, credendo che quello ed un sorriso avrebbero sistemato tutto. Quanto era stato sciocco.
«Ora che ho risposto a tutte le vostre domande, possiamo tornare al motivo per cui vi ho fatto venire qui? Mostrarmi a voi richiede molte energie e non posso davvero permettermi di sprecarle».
Artù si fece forza e aggrappandosi ai lati dell’imbarcazione si mise seduto, gettando un’occhiata timorosa al viso di Freya nuovamente riflesso sull’acqua ed illuminato dai raggi lunari.
«Sto morendo, Pendragon. La magia sta morendo».
Il re di Camelot sgranò gli occhi, scostandosi dalla fronte ciocche di capelli bagnati, e domandò nervosamente: «Che vuoi dire? Tutta la magia?».
Freya annuì, mortificata. «Anche Merlino, sì».
Artù strinse forte i bordi della barca, fino a farsi diventare bianche le nocche, e gettò uno sguardo al cielo, come a voler chiedere il perché di tutta quella sofferenza, perché dovessero essere loro i possessori di un destino così infelice.
«Non doveva andare a finire così», disse pacatamente Freya.
«E come sarebbe dovuta andare, esattamente?», chiese Artù, un sorriso ironico sul volto. In ogni caso non avrebbero vissuto felici e contenti, poco ma sicuro.
«Merlino avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mordred la prima volta in cui ne ha avuto l’occasione, per esempio».
«Era solo un bambino, perdio!».
«Ma era scritto che quel bambino avrebbe causato la vostra morte! Merlino lo sapeva, l’ha sempre saputo; ciononostante, si è lasciato guidare dal suo buon cuore, dalla sua fede. Se Merlino avesse compiuto il suo dovere, sarebbe di certo riuscito a convincervi a riportare la magia ad Albione e successivamente in tutto il mondo conosciuto».
Artù aprì la bocca per fare quella che si rese conto essere la domanda più stupida del mondo. Sogghignò, commentando con rabbia più che con rammarico: «Io sono sempre stato un mezzo per il vostro fine, certo. Se non fossi stato figlio del re io e Merlino non ci saremmo mai incontrati, dico bene?».
«Può darsi, Pendragon. Voi eravate il piano A, al quale è succeduto il piano B quando siete morto. Ma anche questo è fallito miseramente, come avevo predetto». Freya scosse mestamente il capo, concedendosi un lieve sospiro che fece increspare l’acqua del lago. «Merlino vi è sempre stato così leale…». 
Quelle parole non solo paralizzarono il re di Camelot, ma gli fecero persino correre un brivido di freddo lungo la schiena. Tutto quello che la custode di Avalon gli stava raccontando non lo stava portando ad essere un fan sfegatato della magia.
«Quale era il piano B?», domandò a bassa voce, come se volesse essere palesemente ignorato: una parte di lui l’avrebbe davvero voluto – il dolore sarebbe stato troppo – ma l’altra invece stava bruciando dalla voglia di sapere fino a che punto si erano spinti.
«Che importanza ha ora?».
«È importante per me!», tuonò, lo sguardo fisso di fronte a sé e le mani che avevano stretto nuovamente i bordi dell’instabile barchetta.
Freya roteò gli occhi al cielo. «Suppongo che Merlino vi abbia raccontato a grandi linee quello che è successo immediatamente dopo la vostra morte». Artù si limitò ad annuire, sentendo delle schegge di legno penetrargli nei palmi delle mani, sempre più in profondità.
«Vostra moglie, la regina, non avrebbe voluto rendere Merlino solo consigliere di corte, ma addirittura re. Una mossa azzardata, probabilmente le mura di Camelot sarebbero cadute ancora più in fretta con due popolani come sovrani, ma almeno Merlino sarebbe potuto venire allo scoperto, abolire la pena di morte per chiunque praticasse la magia… sarebbe stato un inizio».
«Voi avete… avete usato la magia perché Ginevra si innamorasse di Merlino?», ripeté a denti stretti, furioso e con il cuore a pezzi – non tanto perché Merlino avrebbe potuto sposare Ginevra, anzi se avesse avuto più tempo prima di morire gli avrebbe detto lui stesso di prendersi cura di lei, ma perché solo l’idea che i pensieri e i sentimenti della sua Gwen fossero stati controllati ancora una volta dalla magia lo mandava in bestia.
«Non è stato difficile, dato che Ginevra ha sempre provato qualcosa per lui, sin dalla prima volta in cui l’ha visto affrontarvi a viso aperto e finire alla gogna. Ciò che abbiamo fatto è stato risvegliare quei sentimenti assopiti e convincerla che vedere Merlino sul trono sarebbe stato ciò che avreste voluto voi».
Artù cadde in un silenzio tombale, immerso nei ricordi e nella frustrazione, ma Freya non provò a confortarlo in alcun modo: continuò imperterrita nel suo racconto, senza curarsi del fatto che Artù non avrebbe fatto in tempo a riprendersi da quel duro colpo che avrebbe dovuto subirne un altro ancora più straziante.
«Merlino ha reso vano ogni nostro sforzo, rifiutando l’offerta di Ginevra ed imputandola al dolore del momento. Ha deciso però di starle ancora più vicino, pronto a sostenerla e ad aiutarla nelle decisioni più difficili.
«Con la vostra morte credeva di non avere più un destino da portare a compimento, ma che il suo destino, in poche parole voi, sareste venuto da lui quando sarebbe stato il momento. Non potevamo permetterlo, ma abbiamo atteso pazientemente e quando l’opportunità è giunta non abbiamo fatto altro che coglierla».  
«La guerra. L’allenza degli altri regni contro Camelot», fu la risposta automatica di Artù, il quale si rese conto di aver parlato solo dopo una dozzina di secondi, scosso dall’orribile immagine che gli aveva infilzato il cervello non appena aveva realizzato che persino la morte di Ginevra e dei cavalieri aveva avuto uno scopo preciso nel folle piano delle forze superiori, chiunque esse fossero, che volevano che la magia tornasse a regnare ovunque.
«Il nostro piano C», esclamò Freya quasi con orgoglio. «Pensavamo che se Camelot fosse caduta e tutti coloro che Merlino amava fossero morti lui si sarebbe dedicato completamente alla causa, ma… ancora una volta abbiamo fatto male i conti. Merlino ha perso tutto e non è riuscito a salvare vostra moglie, ma invece di provare rancore e cercare vendetta, occupandosi di tutti coloro che temevano e odiavano la magia, l’ha rinnegata completamente, promettendo a se stesso che non l’avrebbe utilizzata mai più. E ha mantenuto la sua promessa, eccome se l’ha fatto. Abbiamo dovuto improvvisare parecchio, a quel punto, e puntare un po’ più in basso».
Non ci fu nemmeno bisogno che Artù parlasse perché Freya gli sciorinasse quello che, se non aveva perso il conto delle lettere, doveva essere stato il piano D.
«Una volta lasciatosi le spalle Camelot, Merlino ha viaggiato in lungo e in largo, senza fermarsi mai per più di un paio di giorni nello stesso posto. Questo non ci ha facilitato le cose, affatto. Ma per fortuna ad un certo punto, quando ha iniziato a sentire la stanchezza, la mancanza di un luogo da poter chiamare “casa”, Merlino ha dato il via a ciò che ha fatto fino ad oggi: vivere sotto mentite spoglie, con una storia ed un passato sempre diversi, fino ad inscenare la propria morte per crearsi una nuova vita, con una nuova identità, altrove. Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con lui».
Artù alzò di scatto il capo, con impressa di fronte agli occhi l’immagine di Alexandra. Era già inorridito per ciò che stava per sentire, così tanto che sperò con tutto il suo essere che quel piano non avesse portato risultati e fosse stato abbandonato come tutti gli altri, evitando così ad Alex di correre pericoli.
«Ci saremmo accontentati di maghi di serie B, eredi del grande potere di Merlino ma estremamente più facili da influenzare. Ne sarebbero serviti molti, e sparsi in ogni angolo del mondo, ma in un modo o nell’altro saremmo riusciti a diffondere la magia. Peccato che Merlino non abbia mai avuto figli in più di millequattrocento anni, né relazioni durature, eccetto quella del secolo scorso. Sì, ricordo che quella Louise ci aveva fatto davvero ben sperare… Beh, ormai non ha più importanza. Grazie alla previdenza di Kilgharrah abbiamo sempre avuto un piano di emergenza, un asso nella manica: voi».
Il re di Camelot posò finalmente gli occhi sulla figura sotto la superficie del lago. «Me? Sul serio, me?!», urlò, così sconvolto, incredulo, arrabbiato e sofferente che avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa, pur di buttare fuori tutto ciò che lo stava uccidendo dall’interno.
«“Nel momento in cui Albione avrà più bisogno, Artù rinascerà”!», gridò a sua volta la custode del lago, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Il destino di Merlino non girava intorno a voi, è sempre stato il contrario! E ora abbiamo bisogno di voi perché finalmente venga portato a termine!
«Il mondo ha bisogno della magia! Ora non starebbe collassando se Merlino avesse pensato al bene comune! Cosa credete che siano i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche, l’inquinamento, il buco dell’ozono? Sono tutti sintomi! È la Terra che, prosciugata della magia che la rendeva sana, forte, piena di energia positiva, sta annunciando la sua lenta ed inesorabile morte».
Artù aveva aspettato pazientemente che Freya finisse di sfogarsi e preoccuparsi per le sorti del pianeta, anche quando il suo cellulare aveva iniziato a vibrargli insistentemente contro l’addome: l’aveva tirato fuori dalla tasca della felpa e aveva lasciato che il display su cui lampeggiava il nome di Merlino gli illuminasse il viso, poi lo aveva rimesso al suo posto. Non era proprio un bel momento.
«Finito? Bene, è il mio turno», esclamò, prendendo i remi e gettandoli in acqua. «A voi esseri magici piace proprio essere criptici, non è vero? Oltre che codardi, ovviamente. Credete di sapere cosa sia meglio per tutti perché conoscete a memoria il nostro destino, ma non avete il coraggio di informarci a riguardo, preferendo manipolarci come se fossimo solo delle stupide pedine senza coscienza dentro i vostri gloriosi quanto fallimentari piani. Beh, io non sono affatto come voi, perciò Freya – o come tu ti faccia chiamare ora – ti dirò una cosa: per quanto mi riguarda potete andare tutti all’inferno. Che la Terra si trasformi pure in un inferno: non mi interessa, io sono già morto!».
Aveva appena iniziato a remare con la forza del rancore verso la riva, quando una corrente innaturale gli oppose resistenza, bloccandogli i remi in una posizione alquanto scomoda.  
Sbuffò rumorosamente, come un toro infuriato. «Vuoi incatenarmi di nuovo nelle profondità di questo lago? Fantastico. Ma non osare tirarmi fuori di nuovo: non ti aiuterò ora, non ti aiuterò in futuro».
«Davvero lascereste questo mondo bruciare a causa del vostro orgoglio ferito?», gli chiese la dama di Avalon, facendo ribollire l’acqua intorno alla barca. La sua immagine era sparita e la sua voce gli rimbombava nella testa, tanto forte da fargli portare istintivamente le mani sulle orecchie.
«Non stiamo parlando del mio orgoglio qui!», urlò Artù in risposta, cercando disperatamente di tirare fuori dall’acqua i remi. «Avete distrutto la nostra casa e avete condannato a morte tutte le persone che amavamo!». Gli ritornarono alla mente le parole che lo stregone gli aveva detto giusto quella sera a proposito dell’enorme errore che sarebbe stato riportare la magia a Camelot, e lottando contro il feroce mal di testa che Freya gli stava provocando disse: «So per certo che anche Merlino non vorrà avere nulla a che fare con voi. E ne sarà ancora più convinto quando gli racconterò tutta la verità».
«Ne siete proprio sicuro, Pendragon? Merlino ha degli amici qui, persone che non vorrebbe vedere bruciare tra le fiamme dell’inferno. E poi c’è la ragazza».
Abbandonò ogni tentativo di raggiungere la riva, paralizzato dal timore che si riferisse proprio ad Alex. In quel preciso istante, per la prima volta, capì veramente quanto si era affezionato a quella ragazza impertinente e dalla testa più dura della sua. Nonostante tutte le incomprensioni, nonostante a volte lo facesse davvero uscire fuori dai gangheri… non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle del male.
«Quale ragazza?», chiese, deglutendo faticosamente il groppo che gli aveva ostruito all’improvviso le vie respiratorie.
«Sapete benissimo a chi mi riferisco. Alexandra Greenwood, la ragazza che si è gettata tra le mie acque quando siete ritornato nel mondo dei vivi. Non è stato un caso che vi abbia trovato lei, sapete? E non è nemmeno un caso che voi vi sentiate così legato a lei, così… protettivo nei suoi confronti».
«Smettila, fai silenzio!».
Ad Artù sembrò di sentirla ridacchiare, una risata sardonica o forse proprio maligna. «Lei è la vostra ultima erede, l’unica al mondo con ancora una piccolissima traccia di sangue Pendragon nelle vene».
«Erede?», balbettò, scioccato. «Io non… Non è possibile, io e Ginevra…».
«Capisco… Merlino non vi ha detto nemmeno questo. Avrei dovuto immaginarlo. Che sbadata che sono. Temo proprio che a questo punto vorrete un po’ di tempo per riflettere. Tornate non appena avrete deciso che cosa fare».
Freya se ne andò col solito ribollio e Artù sentì la barca scricchiolare come se fosse sul punto di affondare, ma fu solo un momento.
Venne ben presto avvolto da un silenzio totale, rotto soltanto da il bubulare di un gufo, da una ranocchia intenta a gracidare, dalle fronde degli alberi agitate dal vento freddo della notte e da un lieve singhiozzare. Solo quando si portò una mano sul viso si rese conto di essere lui l’autore di quell’ultimo suono.
Solo, nel bel mezzo di Avalon, si rannicchiò sotto quella luna tanto grande e luminosa da sembrare finta e pianse senza la paura di doversi vergognare un giorno delle proprie lacrime.

 

***

 

Merlino sentiva ancora in bocca l’odore di fumo quando si era fatto offrire una tazza di caffè da un infermiere che aveva incontrato nella stanza relax. Non ché gli desse fastidio, ma gli sembrava ipocrita parlare a dei bambini malati di tumore con l’alito che puzzava di un qualcosa che era guarda caso una causa di tumore.
Con la sua tazza di ceramica gialla tra le mani attraversò il corridoio per raggiungere la stanza di Abigail, trovandosi costretto a passare di fronte a quella in cui avevano sistemato provvisoriamente Steve, da solo, in modo che potesse riposare tranquillamente.
Si fermò di fronte alla finestra attraverso la quale vide sua madre, una giovane donna con i capelli biondi seduta al suo capezzale e con le mani strette intorno alla sua piccola e pallida, e suo padre, anche lui giovane, con i capelli scuri e gli stessi occhi di Steve, in piedi dietro di lei, che le massaggiava le spalle per infonderle coraggio nonostante anche lui stesse trattenendo a stento le lacrime.
Steve era stato stabilizzato e parte del liquido che gli si era riversato nei polmoni aspirato, ma era solo una questione di tempo ormai: il loro piccolo Capitan America – come lo chiamava spesso e volentieri Alex – se ne sarebbe andato, lasciando un vuoto incolmabile e un dolore non quantificabile in ognuno di loro.
Merlino venne ancora una volta investito dalle parole di Alex, parole dette per una semplice associazione ma per lui pungenti come poche: «A meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non voglio proprio niente da te».
La verità era che lui avrebbe potuto guarirlo, se solo lo avesse voluto. E lo voleva, lo voleva più di ogni altra cosa al mondo, ma la paura era troppa. Nulla gli permetteva anche solo di sperare che quella volta la magia sarebbe stata dalla sua parte e l’ultima cosa che desiderava era far gridare al miracolo e dare un’illusione ai medici, alle infermiere, agli altri bambini, a se stesso, per poi scoprire che la guarigione era solo temporanea. Inoltre c’era un altro aspetto di cui tenere conto: la resistenza. Cosa sarebbe successo nel caso in cui non fosse riuscito a tenere a freno la magia, a controllarla una volta liberata dalla sua prigione? Non gli importava molto della propria vita, ma quelle di tutte le persone intorno a lui sì, eccome, e non voleva che nessuno si facesse del male per colpa del suo dono trasformatosi in maledizione.
Si guardò per un attimo le mani, cercando di venirne a capo, invano. Sospirò, ricordando com’era semplice quando bastava entrare nello studio di Gaius per ricevere un consiglio saggio che quasi sicuramente avrebbe ignorato. Ora c’era un’unica persona a cui avrebbe potuto porre i propri dubbi e per quanto gli sembrasse strano, quasi paradossale, sentiva che doveva almeno tentare.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e raggiunse una delle varie uscite di sicurezza per chiamare Artù. L’apparecchio suonò a vuoto per una dozzina di secondi, dopodiché Merlino ci rinunciò, sospirando con due dita sulle palpebre pesanti.
Ripassò di fronte alla camera di Steve ma quella volta tirò dritto, gli occhi fissi sulle sue scarpe da ginnastica.
Bussò lievemente contro il legno della porta e quando ottenne il permesso di entrare si sforzò di sorridere ad Abigail, seduta sul suo letto, sotto le coperte e con un libro aperto sulle gambe, e a Mark, al suo fianco sulla propria sedia a rotelle, il viso cupo e gli occhi intrisi di rabbia.
«Ah, eccoti qui. Pensavo fossi sparito di nuovo», esclamò il ragazzino subito sulla difensiva, incrociando le braccia al petto ed evitando lo sguardo di rimprovero di Abigail, la quale invece sorrise dolcemente a Merlino, stendendo le braccia verso di lui.
Il mago si avvicinò e ricambiò l’abbraccio, posandole anche un bacio sui capelli corti.
«Sono così felice di vederti», gli sussurrò all’orecchio poco prima di sciogliere la stretta. «Come stai?».
«Non c’è male», rispose avvicinando al letto una sedia, su cui si sedette con un sospiro stanco. «Voi? Mi sono perso qualcosa di interessante?».
«A parte Alex che legge in modo pessimo le tue storie e Steve che combatte per la vita dici? No, proprio niente».
«Mark…», lo riprese ancora Abigail, ma il ragazzino le rivolse uno sguardo truce prima di aggiungere: «C’era bisogno che uno di noi rischiasse la pelle per farti tornare?».
«Adesso basta, Mark!», urlò Abigail, facendo sobbalzare sia il coetaneo che lo stesso Merlino. Nessuno dei due l’aveva mai vista esternare i suoi sentimenti in quel modo: era furiosa, i suoi occhi scuri erano pozzi d’oblio e la mascella contratta le dava l’aspetto di una leonessa pronta a tutto per i propri cuccioli.
«Siamo tutti preoccupati per Steve, ma non devi prendertela con Merlino», spiegò pacatamente quando riprese il controllo.
Mark la fissò per quella che sembrò un’eternità, per nulla incurante delle lacrime che gli avevano inumidito gli occhi. Quindi con rabbia girò la propria sedia a rotelle ed uscì dalla camera sbattendosi la porta alle spalle.
Abigail sospirò chiudendo gli occhi, poi accennò un sorriso nella direzione di Merlino: «Alex non è brava quanto te a leggere le storie, questo è vero».
Merlino si lasciò andare ad un mezzo sorriso e si scompigliò i capelli, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
«Mark ha ragione ad essere arrabbiato. Non mi aspettavo una reazione differente».
«Secondo me non hai fatto nulla di sbagliato», esclamò Abigail. «Hai una vita, al contrario di noi qui dentro, ed è giusto che tu la viva».
Merlino la guardò quasi con vergogna, pensando che lui aveva vissuto ben più di una vita ed era stanco, davvero stanco ormai, e che avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dare un po’ di tutti gli anni che gli rimanevano ad ognuno dei bambini ricoverati.
«Avrei dovuto almeno avvisarvi», disse schiarendosi la gola.
La ragazzina scrollò le spalle, per poi sorridere più ampiamente: «Parlami di questo tuo amico così importante. È carino?».
Merlino ridacchiò e le strofinò affettuosamente una mano tra i capelli. «Giudicherai da te quando ve lo farò conoscere».
«Davvero ce lo farai conoscere? È una promessa?».
Dal suo punto di vista era sempre stato pessimo nel mantenere le promesse, ma per quella volta decise che non avrebbe deluso nessuno, qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare. «È una promessa».
Abigail annuì con un cenno del capo ed abbassò gli occhi sul libro che stava leggendo prima che Mark si fiondasse come un razzo nella sua camera. Aveva cercato di rassicurarlo, gli aveva detto di tutto, ma sapeva di avergli mentito sin dall’inizio.
«A che cosa stai pensando?», le chiese Merlino, distraendola.
La ragazzina scosse tristemente il capo. «Steve non ce la farà, vero?».
Il moro aveva appena aperto la bocca per risponderle e darle altre false speranze, ma gli occhi di Abigail fissarono i suoi con un’intensità tale da ammutolirlo.
«Non ho bisogno delle bugie, Merlino. Quanto tempo gli resta?».
«A quanto pare…», si schiarì la gola per alleviare il magone che l’aveva all’improvviso bloccata. «A quanto pare sarà già tanto se supererà la notte».
Abigail si strinse forte le braccia intorno al corpo ed abbassò il viso, col mento contro lo sterno, per non mostrargli le lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance. «Non è giusto, lui è… è solo un bambino».
Merlino serrò le labbra e si alzò per sedersi accanto a lei sul letto; le avvolse le braccia intorno al corpo e la invitò a trovare conforto contro il proprio.
«Che cosa credi che avrebbe fatto il Merlino delle mie storie?», le domandò ad un tratto, a bassa voce. «Se avesse avuto la possibilità anche solo di dargli un altro po’ di tempo… credi che avrebbe usato la magia?».
La ragazzina sollevò il capo per guardarlo negli occhi e dopo un istante di profondissimo silenzio, durante il quale Merlino si sentì completamente messo a nudo, Abigail rispose: «Il tempo qui è ciò che più di prezioso abbiamo, perciò… sì, senza pensarci su due volte».
Detto questo tornò a rannicchiarsi contro di lui, col viso nell’incavo della sua spalla, e Merlino prese finalmente la sua decisione.

 

***

 

Alexandra, esortata dalla capo-infermiera, aveva fatto il giro di tutte le camere per mettere a letto i bambini e rassicurarli sulle condizioni al momento stabili di Steve, omettendo semplicemente che quella volta una bella nottata di sonno non l’avrebbe fatto stare meglio. Il solo pensiero le spezzava il cuore e più di una volta aveva dovuto tirare fuori lo stoicismo di sua madre per trattenere le lacrime mentre rimboccava le coperte, augurava la buonanotte e spegneva le luci.
Quando era arrivato il turno di Abigail, forse l’unica a cui non avrebbe dovuto dire di fare silenzio e provare a dormire, il nodo che aveva in gola si era stretto un po’ di più: Merlino era seduto al suo fianco e la stringeva delicatamente tra le braccia, accarezzandole di tanto in tanto i capelli con le labbra, dicendole quelle che Alex presuppose fossero parole di conforto.
In quel momento non poté fare a meno di pensare che avrebbe voluto essere al posto di Abigail e questo la fece sorridere, prima di proseguire verso la stanza di Mark e Danilo.
Già da fuori capì che c’era qualcosa di insolito: la stanza era buia e silenziosa in modo preoccupante, visto che da quando Mark era stato ricoverato non era mai successo che fosse andato a dormire prima delle dieci.
Aprì la porta facendo più piano possibile e nella semioscurità scorse Danilo già addormentato, sfinito dal ciclo di chemio, e il letto vuoto, nemmeno sfatto, di Mark.
«Dannazione», disse tra i denti, sopprimendo la tentazione di prendere a pugni la porta.
Respirò profondamente per calmarsi ed iniziò a pensare a dove potesse essere andato. Solitamente il binomio Abby-Mark era una sicurezza: trovavi uno e trovavi l’altro; raramente si imbarcavano in fughe e simili senza il sostegno reciproco, perciò le risultava chiaro come il sole che il suo intento era stato sin dall’inizio quello di isolarsi da tutto e da tutti.
All’improvviso capì che forse si era posta la domanda sbagliata. Pensò a come si sentiva lei in quel momento, a ciò che provava a causa delle condizioni di Steve, e si domandò dove sarebbe andata per trovare un po’ di solitudine. Le venne in mente un solo posto.
 

Si avvicinò all’entrata sul retro e sospirò vedendo una transenna con tanto di cartello “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori”, spostata quel tanto che bastava ad un ragazzino – ma anche ad una ragazza magra e atletica come lei – per sgusciare all’interno del cantiere. Lì accanto, abbandonata, la carrozzina di Mark. Lui, invece, proseguendo sulle sue gambe, era entrato nell’ampio spazio semicircolare e si era seduto a bordo piscina con le gambe penzoloni e i pantaloni della tuta tirati su fino al ginocchio come se ci fosse stata davvero dell’acqua nella vasca dalle mattonelle azzurre. Aveva il viso rivolto verso l’alto, dove la cupola di vetro faceva intravedere le rotondità della luna in cielo.
«È un peccato che non abbiano mai finito i lavori di ristrutturazione, eh?», esclamò Alex, facendolo sobbalzare leggermente.
«Come hai fatto a trovarmi?», le chiese stizzito, stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Sono intelligente, che domande».
Si sedette al suo fianco e sospirò, appoggiandosi contro una gamba piegata e guardando il suo profilo. «Non dovresti essere qui, Mark. Ci sono calcinacci e impalcature ovunque, è pericoloso».
Mark scrollò le spalle, incurante. «Morire qui, morire a causa di un tumore… non c’è differenza».
Alex sollevò una mano per accarezzargli i capelli ricci, ma non riuscì nemmeno a sfiorarlo. Il ragazzino le rivolse un’occhiata torva, gli occhi di solito pieni di vita arrossati a causa delle lacrime ed intrisi di un dolore talmente grande da trasformarsi in rabbia cocente.
«Senti, se sei venuta qui per portarmi di nuovo là dentro va bene, andiamo, ma risparmiati le belle parole: fanno schifo».
«Sì, hai ragione, fanno schifo». L’infermiera annuì con un cenno del capo e si alzò. «Steve probabilmente non supererà la notte, la sua famiglia e tutti i suoi amici piangeranno fino a non avere più lacrime, il cancro non è ancora curabile come vorremmo e causerà dolore ad ancora molte persone, ma non azzardarti – non azzardarti mai più a dire che un modo di morire vale l’altro».
Mark sollevò il viso, sul quale era scivolata una lacrima solitaria, ma Alex non riuscì ad intenerirsi e ancora più infervorata aggiunse: «Steve ha sempre lottato, sta lottando anche in questo momento, mentre tu te ne stai sul bordo di una piscina vuota e dici stronzate, dimostrando che ti sei già arreso. Sono molto delusa, Mark, e se Steve ti vedesse in questo momento sono certa che lo sarebbe anche lui».
Il ragazzino scoppiò a singhiozzare e si aggrappò alla gamba di Alex, nascondendo il volto nei suoi ruvidi pantaloni azzurri.
Era stata dura, forse più di quanto intendeva esserlo, ma sperava che in quel modo Mark riuscisse a capire il valore della vita, non solo di quella degli altri ma anche della propria.
«Mi dispiace», farfugliò, tirando su col naso.
L’infermiera gli posò le mani sulle spalle per invitarlo a lasciarle andare la gamba, dopodiché si inginocchiò di fronte a lui. Gli accarezzò le guance arrossate a causa delle lacrime versate e scosse lievemente il capo: avrebbe voluto dirgli che non doveva chiedere scusa a lei, ma a se stesso, per non essersi dato nemmeno una chance, ma Mark le gettò le braccia intorno al collo e la strinse tanto forte da toglierle per un attimo il respiro.
«Ho paura, Alex. Ho tanta paura», mormorò, tremando come una foglia.
Alex gli passò le dita tra i capelli, massaggiandogli la schiena ancora squassata dai singhiozzi, e disse la verità: «Anche io».

 

***

 

Fermo sulla porta, rimase completamente di stucco quando la madre di Steve si ricompose, asciugandosi le lacrime, per sorridergli e salutarlo.
«Merlino, giusto? Il ragazzo delle favole».
Si erano incontrati solo una volta, eppure quella donna tanto addolorata e tanto forte si ricordava di lui.
«In persona», mormorò, porgendole la mano. Anche il padre di Steve gliela strinse, per poi tornare subito dopo a massaggiare teneramente le spalle delle moglie.
«Quello che fai per loro è… è bellissimo. Un semplice grazie non può bastare», aggiunse lei, tirando su col naso.
Merlino si strinse nelle spalle, con le mani nelle tasche dei jeans. «Basta e avanza, mi creda».
Si avvicinò ai piedi del letto di Steve, collegato ad una macchina per l’ossigeno e con una mezza dozzina di altri fili che dal petto gli uscivano dalla camicia da notte dell’ospedale; cercò di guardarlo senza mostrarsi in pena per lui, ma la sofferenza era davvero troppa e non c’era spazio per le finzioni.
«Ci sono novità?», domandò quindi, schiarendosi la gola.
«Stavamo per andare a cercare qualcuno», spiegò l’uomo, scostando una ciocca di capelli biondi dal viso pallido e stanco del figlioletto. «Le dispiace…? Ci vorrà solo un attimo».
Merlino annuì sicuro e si spostò di lato per lasciarli passare, ma la madre di Steve si abbandonò contro di lui per un abbraccio della durata di un secondo e mezzo circa, ma intenso come pochi.
«Grazie», gli sussurrò giusto prima di socchiudersi la porta alle spalle e Merlino annuì di nuovo, convincendosi ancora di più di star facendo la cosa giusta. Non poteva tenersi in disparte, lasciarlo semplicemente andare: doveva almeno provare a dargli un altro po’ di tempo.
Lui di sicuro ne aveva pochissimo prima che i suoi genitori tornassero, perciò si sedette sulla sedia fino a poco tempo prima occupata da sua madre e tenendo una mano sulla fronte di Steve lo chiamò dolcemente: «Ehi piccolo, riesci a sentirmi?».
Era imbottito di antidolorifici e ancora esausto a causa dell’operazione appena subita, ma incredibilmente Steve riuscì ad aprire gli occhi e gli regalò persino un minuscolo sorriso, stirando appena le labbra bluastre e screpolate. Le aprì per parlare ma dalla sua gola uscì a malapena un rantolo soffocato che gli fece accartocciare il viso in una smorfia.
«Shhh, non ti sforzare», sussurrò Merlino con gli occhi colmi di lacrime. «Sono felicissimo anche io di vederti».
Steve lo ignorò e provò a parlare nuovamente, questa volta riscuotendo più successo. «Stanno venendo a prendermi, li sento».
Merlino sgranò gli occhi, terrorizzato. «Chi? Chi ti sta venendo a prendere? Steve?».
«I Dorocha», soffiò, richiudendo gli occhi. «Ho tanto freddo…».
«No… No, Steve, i Dorocha non ti prenderanno».
«Ma la tua magia non funziona con loro…».
Il bambino stava delirando, a causa delle droghe oppure del poco tempo che gli rimaneva, e Merlino si odiò per aver raccontato a lui e agli altri bambini storie che, nonostante gli abbellimenti, erano ancora in grado di far venire gli incubi, a lui per primo.
Non badò alla lacrima che gli rotolò lungo la guancia, troppo occupato ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi e a concentrarsi per raccogliere la magia necessaria a dargli un po’ di sollievo.
«Facciamo un tentativo, okay? Sarà il nostro segreto», sussurrò e con infinita delicatezza gli posò entrambe le mani sul petto. «E se non funziona mi metterò tra te e i Dorocha. Non ti faranno alcun male, te lo giuro».
Steve riaprì gli occhi velati di stanchezza ed incurvò appena le labbra. «Come ha fatto Artù per te?».
«Esattamente», rispose annuendo e sorridendogli incoraggiante.
Si guardò un’ultima volta alle spalle e poi respirò profondamente, gli occhi chiusi per trovare tutta la concentrazione possibile. Quando li riaprì, un brivido gli corse lungo la spina dorsale trovandosi di fronte ad un paio di iridi color dell’oro, riflesse sullo schermo stranamente spento di uno dei macchinari a cui Steve era attaccato.
Giusto prima di realizzare che se non fosse andato via subito sarebbe svenuto lì, dove i genitori di Steve lo avrebbero trovato, notò che tutti gli schermi intorno a lui erano diventati neri. Con le poche forze che gli rimanevano tirò la cordicella d’emergenza e si affrettò ad uscire dalla stanza, aggrappandosi a qualsiasi cosa per aiutarsi a reggersi in piedi.
Era già fuori, diretto verso una delle uscite d’emergenza, quando i macchinari si riaccesero tutti insieme, mostrando segni vitali nuovamente stabili, addirittura quasi nella norma.

 

***

 

La sua amicizia con Merlino, tutto ciò che avevano vissuto insieme… Possibile che fosse stato orchestrato tutto quanto dalle forze magiche? C’era mai stato di qualcosa di vero, qualcosa di non già scritto, negli anni trascorsi come compagni di battaglia, di sofferenza, di gioia… di vita?
Merlino era stata l’unica persona in cui aveva sempre riposto tutta la sua fiducia, l’unico che credeva non l’avrebbe mai tradito, eppure già una volta l’aveva deluso, tenendogli segreti i suoi poteri. Non poteva davvero credere che l’avesse fatto nuovamente, dimenticandosi di raccontargli una cosa così importante: la nascita di un Pendragon, suo figlio.
Di nuovo in sella, diretto verso casa, continuava a pensare a tutto ciò che Freya gli aveva detto, strofinandosi il viso inumidito dalle lacrime con la manica della felpa.
Venne distratto da un suono breve ed acuto e da alcuni flash di luce blu alle sue spalle. Si voltò con il capo e vide la donna alla guida fargli cenno di fermarsi. Artù acconsentì, più per curiosità che per senso del dovere – dopotutto non aveva idea di che tipo di istituzione avesse di fronte – e vide la donna parcheggiare l’auto sul ciglio della strada e scendere, zoppicando leggermente, lasciando i lampeggianti blu accesi sopra il tettuccio.
Era davvero una bella donna, con la pelle ambrata, i capelli neri raccolti sotto uno strano cappello rigido, arrotondato e con uno stemma argentato sopra la visiera, e due splendidi occhi grigio-verdi. Probabilmente aveva anche delle forme perfette, ma il suo abbigliamento più che insolito non le metteva di certo in risalto: indossava una camicia bianca con al collo una cravatta a quadretti bianchi e neri, dei pantaloni larghi e pieni di tasche e una felpa nera sopra la quale portava una giacchetta color giallo brillante con delle strisce argentate in grado di brillare in modo impressionante se colpite dalla luce dei fanali dell’auto.
«Spero abbia un’autorizzazione valida per quella», esclamò indicando la balestra che portava sulla schiena. «Anche se non riesco proprio ad immaginare come potrebbe usarla, visto che questa non è zona di caccia».
Artù corrugò la fronte e si tolse la balestra dalla schiena. «Questa, dite?», chiese, portandosela contro la spalla per esaminarne il teniere.
La donna però non vide di buon occhio quel gesto ed estrasse rapidamente la pistola dalla fondina, puntandogliela contro. «La metta giù. Lentamente».
Il re di Camelot la guardò a bocca aperta, incredulo. «Quella è una… una pistola?».
«Certo, che cos’altro potrebbe essere?», gli chiese innervosita, impugnandola saldamente con entrambe le mani.
«Beh, sa, è la prima volta che ne vedo una dal vivo. Voi siete una di quelle attrici…», sorrise malizioso, inarcando le sopracciglia. «Mi ha capito, no?».
Lei lo fissò allibita. «Farò finta di no, sul serio. Ora abbassi la balestra, per favore».
«Sì, certo. Perdonatemi, non volevo puntarvela contro. Non è mia abitudine minacciare una donna indifesa, ovviamente».
«Ovviamente. E chi minaccia solitamente?», gli chiese ancora, allungando una mano dietro la schiena per estrarre un paio di manette.
«Nessuno, assolutamente nessuno», rispose d’istinto Artù, mostrandosi ancora più sospetto di quanto non sembrasse già. «A che cosa vi servono quelle?».
«Una piccola precauzione mentre la porto in Centrale».
«Oh, sono lusingato, davvero, quello è uno dei miei video preferiti, ma… non posso, davvero non posso», rispose, avvampando ed iniziando a farsi prendere dal panico.
Non sapeva come comportarsi, né perché quella donna fosse così spaventata dalla balestra che teneva ancora tra le mani, ma una cosa la sapeva per certo: se Merlino fosse tornato a casa e non l’avesse trovato gli avrebbe fatto un milione e mezzo di domande, fino a quando non avrebbe ceduto, e Artù non aveva alcuna intenzione di cedere, non al momento almeno. Aveva bisogno di tempo per pensare, per capire perché il suo unico amico si fosse comportato in quel modo e, soprattutto, per scoprire se Alex fosse davvero una sua lontana, ormai unica, discendente.
«Glielo ripeto un’ultima volta: metta giù l’arma!», gridò la donna, tornando a puntargli contro la propria.
«Mi dispiace, devo proprio andare!», rispose frettolosamente Artù, dandole le spalle per saltare in sella al suo destriero a pedali. Non l’aveva ancora sollevato da terra quando un forte colpo alla nuca lo fece cadere svenuto sull’erba umida.

 

***

 

Alex spinse la sedia a rotelle di Mark fuori dall’ascensore ed entrambi strabuzzarono gli occhi quando videro un capannello di gente di fronte alla stanza in cui era stato sistemato il lettino di Steve.
Un’infermiera del pronto soccorso che conosceva solo di vista le passò accanto di corsa e Alex non poté trattenersi dall’esclamare, sconvolta: «Ma che diavolo sta succedendo?».
«Un miracolo, per quanto ne so».
Alex sobbalzò sentendo quella risposta e voltandosi di centottanta gradi vide Cathleen appoggiata allo stipite di metallo dell’ascensore con una spalla, una mela verde morsicata in mano e gli occhi che le stavano facendo un esame più dettagliato di quello che avrebbe fatto una TAC. Quando finalmente raggiunsero la giusta altezza, incrociando quelli di un’imbarazzata quanto confusa Alex, le rivolse un sorriso ammiccante che non fece altro che peggiorare la situazione, addentando sonoramente la propria mela.
«Andate in un motel, vi prego», borbottò Mark, abbastanza ad alta voce perché le due lo sentissero e reagissero in due modi completamente differenti, opposti: Cathleen ridacchiò, rivolgendogli uno sguardo eloquente, mentre Alex gli diede uno scappellotto, cercando parole di rimprovero che per un motivo o per un altro non le vennero mai in mente.
«Potresti spiegarti meglio?», le chiese anche con un pizzico di arroganza quando finalmente riuscì a riprendere il controllo di sé.
«Sembra che Steve non sia più in pericolo di vita, almeno per il momento. I suoi parametri vitali sono migliorati così, all’improvviso. Credo che, da quando è qui, non sia mai stato così bene».
Alex non credeva nei miracoli, non ci aveva mai creduto, perciò come Tommaso l’apostolo lasciò Mark accanto a Cathleen e si fece largo tra la piccola folla che si era creata per vedere con i propri occhi ciò che reputava fisicamente impossibile.
Appiccicata al vetro da cui si poteva vedere l’interno della stanza, sentì il cuore saltarle un battito di fronte all’immagine di un sorridente anche se assonnato Steve, con le guance e le labbra di nuovo colorite e gli occhi brillanti, che si lasciava accarezzare i capelli dalla sua mamma e dal suo papà, con le lacrime di felicità agli occhi, mentre la dottoressa gli prelevava di persona un campione di sangue da sottoporre alle analisi. Mettendo da parte tutta la gioia portata da questo miglioramento, c’era un gran bisogno di risposte scientifiche.
Alex si allontanò non appena capì di aver visto abbastanza e con gli occhi sbarrati fissi sul pavimento tornò verso Mark e Cathleen, ancora fermi dove li aveva lasciati.
«Allora?», le chiese il paramedico, rivolgendole un sorriso obliquo.
«Beh…», mormorò, senza alzare lo sguardo. «Steve sta… sta meglio, credo».
«Credi?», domandò Mark, inarcando le sopracciglia. «E vieni pure pagata per questo?».
«Quello che sta cercando di dire Alexandra è che ci vorrà del tempo per capire come sia potuto succedere», intervenne Cathleen, guardandolo severamente. Si chinò di fronte al suo viso, tanto vicino da farlo addossare contro lo schienale, e aggiunse: «Se ti sento ancora mancare di rispetto a lei o a qualcun altro te la vedrai con me. Mi hai capito, moccioso?».
Mark assunse la sua aria da ragazzino ribelle, trucidandola col pensiero, ma annuì. Il paramedico sorrise mostrando la sua perfetta dentatura e dopo essersi sollevata posò una mano sulla spalla di Alex, facendo del proprio meglio per confortarla. L’infermiera però non la calcolò nemmeno e si scostò per tornare ad impugnare i manici della sedia a rotelle di Mark.
«È tardissimo, ti riporto in camera», disse atona, per poi aggiungere: «Sei fortunato che tutti siano concentrati su Steve».
Cathleen le guardò la schiena mentre andava via proprio come se non esistesse e ad un tratto sollevò una mano in segno di saluto, dicendo tra sé e sé: «Anche per me è stato un piacere rivederti, buonanotte».

 
Alex aveva controllato nuovamente che tutti i bambini, Mark e Abigail compresi, si fossero addormentati prima di rendersi conto che il suo turno era finito ormai da un quarto d’ora.
Era stata una serata piena, di quelle sfibranti per il carico di emozioni, e aveva come la sensazione – un vero e proprio brutto presentimento in realtà – che non fosse ancora finita.
In ogni caso non sarebbe andata via senza aver parlato prima con la dottoressa di Steve: doveva capire che cosa era accaduto e come, soprattutto, nel breve lasso di tempo che aveva trascorso nella piscina in via d’abbandono con Mark.
Si era preparata un altro caffè, dato che non aveva avuto il tempo di finirlo quando era arrivato Merlino, e poi aveva passeggiato avanti e indietro davanti al bancone dell’accoglienza, nervosa come il parente di uno dei pazienti del pronto soccorso.
A dimostrazione di tutta la spossatezza che le pesava sulle spalle le era passata per la testa l’idea di scendere proprio al pronto soccorso con l’intenzione di trovare Keith e sfogarsi con lui – o almeno di chiedergli se conoscesse Cathleen – ma la sua coscienza, forse nell’ultimo sprazzo di lucidità, le aveva impedito di commettere quell’errore madornale.
Quindi aveva aspettato pazientemente che la sua collega del turno di notte le comunicasse che poteva trovare la dottoressa in una certa camera o in uno dei vari laboratori al terzo piano. Aveva aspettato e aspettato, desiderando ardentemente un intero pacchetto di sigarette, fino a quando non aveva visto la madre di Steve uscire dalla sua stanza per dirigersi verso la macchinetta. Fu in quel momento che decise di tentare il tutto per tutto.
Senza attirare troppa attenzione si allontanò dal bancone e si incamminò verso la macchinetta, quindi fece finta di averla vista solo in quel momento e a bassa voce, con tutto il tatto di cui era capace, disse: «Paige, ciao. Ti ricordi di me?».
La donna, col viso struccato e sfatto più del suo, la guardò e dopo un attimo di esitazione accennò un sorriso. «Certo, tu sei Alexandra. Steve mi parla in continuazione di te, dice che sei la sua infermiera preferita».
Quelle parole le scaldarono improvvisamente il cuore, facendola sentire profondamente in colpa per il subdolo motivo per cui l’aveva avvicinata: cercare di carpire da lei qualsiasi informazione avrebbe potuto aiutarla a circoscrivere quell’incredibile miglioramento, quel… miracolo.
«Oh, il mio piccolo Cap», sussurrò sentendo le lacrime riempirle gli occhi. «Sono così felice che stia meglio, davvero, ma continuo a chiedermi…».
«Come sia potuto accadere?», le rubò le parole di bocca Paige, sorridendo mestamente. «Me lo chiedo anche io. La dottoressa ci aveva già detto che la sua situazione era critica e che non avrebbe fatto altro che peggiorare, perciò… mi pongo anche io la stessa identica domanda».
Si voltò per prendere il bicchiere di caffè che intanto la macchinetta aveva preparato e si sedette su una delle poltroncine a muro lì accanto.
«Tu sei credente, Alexandra?», le chiese, mescolando ad occhi bassi il contenuto del bicchierino.
«Se credo in Dio, intendi? No, direi di no».
«Nemmeno io. Fino ad un’ora fa». Alzò finalmente il capo e ridacchiò amaramente. «Lo so, è il peggio dell’ipocrisia, ma… che altro può essere? In cinque minuti – il tempo di andare a chiedere della dottoressa – mio figlio ha vinto la sua battaglia quotidiana contro la morte nonostante non avesse alcuna speranza di farcela. L’unico che potrebbe saperne qualcosa è Merlino, ma nessuno l’ha più visto».
Venire a sapere che Merlino era coinvolto, e in modo così improvviso, fu come ricevere una botta in testa.
Alex sbatté più volte le palpebre, scioccata. «Hai davvero detto… Merlino? Lui che c’entra?».
«Beh, non volevamo che Steve restasse da solo, quindi abbiamo chiesto a Merlino se poteva… Alexandra? Alexandra, c’è qualcosa che non va?».
L’infermiera abbassò gli occhi in quelli di Paige, rendendosi conto della sua espressione preoccupata. Si passò entrambe le mani tremanti tra i capelli per appiattirli ai lati della testa e cacciarli dietro le spalle, un gesto che faceva sempre quando i livelli di tensione raggiungevano picchi estremi: toccarsi i capelli, o ancora meglio avere qualcuno che li toccasse per lei, era un ottimo metodo per tranquillizzarla.
«No, è tutto okay», mentì, sentendo del sudore freddo sulla schiena. «Scusami, è che sono davvero stanca e mi sono distratta. Dicevi?».
La madre di Steve non sembrava molto convinta, ma probabilmente anche lei era troppo stanca per distinguere le bugie dalla verità, perciò riprese da dove si era interrotta.
«Abbiamo chiesto a Merlino se poteva stare con lui nel frattempo. Erano passati cinque minuti, forse di meno, quando abbiamo notato un paio di infermiere che correvano proprio verso la stanza di Steve: qualcuno aveva tirato il cordoncino delle emergenze, ma i parametri vitali sui monitor erano perfetti, tanto da far pensare al personale che ci fosse stato uno strano blackout e che i valori fossero impazziti. È stata chiamata la dottoressa e… il resto è già storia ormai», si strinse il collo tra le spalle, bevendo un sorso di caffè. «Il miracolo di Steve».
«E… e Merlino? Che fine ha fatto, intendo? Hai detto che nessuno l’ha più visto, ma è impossibile!», esclamò, afferrandosi una ciocca di capelli biondi e rigirandosela freneticamente tra le dita.
«Non è la prima cosa impossibile che vedo accadere questa sera», mormorò tra sé, piegando un angolo della bocca. Poi aggiunse ad alta voce: «Ho chiesto a chiunque fosse nei paraggi: nessuno ha la più pallida idea di dove sia andato».
L’infermiera si guardò intorno come spaesata, senza sapere cosa fare. Alla fine si inginocchiò di fronte a Paige e le chiese di darle il suo cellulare. La donna non chiese perché, semplicemente glielo consegnò e la osservò mentre salvava rapidamente il proprio numero in rubrica sotto il nome di “Alex”.
«Chiamami, anche nel cuore della notte, se dovessero esserci novità. Ci proverai?».
La mamma di Steve annuì con un debole cenno e si lasciò stringere le mani con il cellulare ancora tra loro.
«Sono davvero, davvero felice che Steve stia meglio».
«Ti credo, Alex. Ora vai, vai a cercare Merlino».
«Come?», balbettò la ragazza, ma si rese presto conto che fingere ancora era inutile, una gran perdita di tempo. Annuì con maggior dignità possibile e si allontanò quasi di corsa, improvvisamente di nuovo piena di energie. Che fosse a causa dell’adrenalina, dell’ansia, della “forza dell’amore” o della magia vera e propria non aveva alcuna importanza in quel momento.

 

***

 

«Questo è tutto matto, te lo dico io», le disse il collega del turno di notte, l’agente Darrell Fisher, non appena lei uscì dalla piccola sala interrogatori. «Cioè, guardalo! Indossa una maglia di ferro, aveva con sé una balestra e un pugnale piuttosto autentici e dice di chiamarsi Artù Pendragon. O è matto oppure è un cosplayer che ci è andato giù pesante con la birra». Corrugò la fronte, pensieroso, e aggiunse: «O con qualsiasi bevanda alcolica i Cavalieri della Tavola Rotonda bevessero nel Medioevo».
«Non è ubriaco: gli ho fatto il test», gli rispose mentre si dirigeva a passo svelto verso la propria scrivania, dove aveva lasciato gli oggetti personali del ragazzo.
«È matto, lo sapevo», borbottò Darrell prima di finire tutto d’un fiato il suo caffè e di lanciarne il bicchiere di carta nel cestino.
«Come ci comportiamo, Myra?».
La donna alzò gli occhi sul collega e scrollò le spalle. «Non ha con sé documenti, solo il cellulare. Possiamo partire da qui, che ne dici?».
Darrell si fece consegnare lo smartphone e con la fronte aggrottata, ben poco entusiasta, esclamò: «Adoro chiamare tutti i numeri nelle rubriche dei matti, dovresti saperlo ormai».
Myra gli rivolse un sorriso e dopo avergli dato una pacca sul braccio si diresse nuovamente verso la stanza interrogatori nel tentativo di ottenere qualche altre informazione dal loro ospite.
L’agente Fisher si lasciò cadere sulla propria sedia girevole ed incrociò i piedi sull’angolo della scrivania, quindi si concentrò sul cellulare e senza alcuna difficoltà accedette alla rubrica. A bocca aperta, fissò lo schermo su cui comparivano due unici contatti – tra cui un “Merlino”, ovviamente  poi si voltò verso la porta chiusa della sala interrogatori. Qualcosa gli diceva che non ci avrebbe messo molto.

 

***

 

Alex aveva cercato Merlino dappertutto, senza cavare un ragno dal buco, quando aveva ricevuto quella chiamata da Artù. O meglio, dal suo cellulare. A cercarla infatti era stato l’agente Darrell Fisher, della polizia locale, il quale le aveva spiegato che avevano in custodia il signor Artù Pendragon – «Mi perdoni, questo è il nome che ci ha fornito». – ufficialmente per detenzione di armi e oltraggio a pubblico ufficiale, meno ufficialmente per atteggiamento sospetto.
«Non capisco, perché avete chiamato me?», aveva chiesto, esasperata, massaggiandosi la fronte.
«Perché è il primo dei due contatti sulla rubrica del cellulare del signor Pendragon. Da quando è stato portato in centrale non ha detto nient’altro che il suo nome e, in tutta onestà, io e la mia collega siamo un po’ in difficoltà».
Così aveva accettato di recarsi subito in Centrale, non prima di aver consigliato all’agente Fisher di non disturbarsi a telefonare al secondo contatto: sapeva che non l’avrebbe trovato, dato che lei per prima aveva provato a chiamarlo, a vuoto, almeno un centinaio di volte.
Si era cambiata e senza accorgersi minimamente dell’auto di Merlino ancora parcheggiata poco lontana dalla sua era sfrecciata via.

 
La Centrale di polizia del loro minuscolo paesino era, beh… minuscola. Le persone che ci lavoravano si potevano contare sulle dita di una mano e a dimostrazione di quanto fosse pressoché nullo il tasso di criminalità non vi era assegnato nemmeno un detective. In caso di necessità – e non era mai accaduto da quando lei si era trasferita lì – un ispettore delle cittadine vicine, o addirittura di Newport, veniva assegnato al caso e rispedito a casa una volta risolto, lasciando ai poveri impiegati la sola pila di scartoffie.
Da quanto aveva capito parlando con l’agente Fisher, seduta di fronte a lui nel piccolo ufficio con due scrivanie, quattro sedie, un mobile ad ante e una piccola libreria, l’incontro con Artù era stato ciò che di più emozionante, nonché strano, avesse visto da quando era arrivato – circa sei mesi prima.  
«Non è proprio Gotham City, eh?», aveva commentato Alex, stirando un sorriso imbarazzato prima di abbassare gli occhi sul bicchiere d’acqua che le era stato offerto.
«Né Camelot, a quanto mi risulta», le aveva risposto con un sorriso compassionevole, le sopracciglia inarcate. «Lei sa dove si è procurato quelli?».
Alex aveva seguito il dito puntato verso l’altra scrivania e aveva avuto seriamente paura che la mascella le cadesse a terra per l’incredulità.
Un pugnale e una… una fottuta balestra!

 
«Agente Fisher, io non… non penso siano suoi», si azzardò a rispondere una dozzina di secondi dopo, senza riuscire però a scostare lo sguardo da quelle armi piuttosto medievali.
«Nel senso che li ha rubati o…?».
«Rubati? No, no, no! Credo facciano parte della collezione di Merlino».
Darrell strabuzzò gli occhi e dopo un momento di imbarazzo disse, cercando di sembrare il più serio possibile: «Merlino… Il Merlino della rubrica? Si chiama davvero così?».
«Così ha sempre detto di chiamarsi. Posso vedere Artù, ora?».
«Veramente è sotto interrogatorio, al momento, e io avrei ancora qualche domanda».
Alex si passò stancamente una mano tra i capelli e sul viso e guardandolo implorante disse: «Senta, agente, le assicuro che io ne so tanto quanto lei. È stata una serata piuttosto pesante e se c’è una cauzione da pagare è okay, lo capisco, ma l’unica cosa che voglio è andare a dormire il prima possibile».
L’agente Fisher la fissò per quella che le sembrò un’eternità, poi le fece segno di aspettare e si alzò per andare a bussare alla porta della sala interrogatori. Alex riconobbe la sua collega non appena questa si affacciò sullo stretto corridoio e automaticamente balzò in piedi, esclamando: «Myra!».
La donna la guardò in silenzio per qualche secondo, con un’espressione che oscillava tra lo stupito e l’entusiasta. «Alexandra, ciao», la salutò infine, andandole incontro con entrambe le braccia tese verso di lei.
Alex l’abbracciò e si sforzò di sorriderle, non potendo fare a meno di notare che la sua bellezza era ancora più abbagliante di quanto si ricordava.
La sua famiglia, originaria di Mumbai, si era trasferita in Galles da ormai tre generazioni, ma nonostante tutte le influenze, nonostante sua madre stessa fosse gallese, Myra era nata indiana per il novantanove percento, prendendo da lei solo gli occhi grigio-verdi, da togliere il fiato sulla sua pelle ambrata.
Quindi, dopo un attimo di esitazione, abbassò lo sguardo verso la sua gamba destra. «Come va?».
La poliziotta scrollò le spalle, arricciando le labbra piene. «A parte qualche dolorino ogni tanto, direi bene. Tu, invece?».
«Sono distrutta. Come dicevo all’agente Fisher, è stata una serata piuttosto movimentata in ospedale e vorrei che questo disguido si risolvesse il più in fretta possibile».
«Tu conosci quel ragazzo?», le chiese, le sopracciglia inarcate.
Alex si sistemò ancora una volta i capelli dietro le spalle, nervosamente, mentre annuiva con un cenno del capo.
Myra, ora impassibile, si spostò verso il distributore d’acqua posto in un angolo dell’ufficio e se ne versò un bicchiere. Alex osservò le bolle d’aria salire verso la parte vuota del boccione, accompagnate da una specie di piccola esplosione, poi le tornò alla mente ciò che Darrell le aveva detto e si schiarì la gola, imbarazzata.
«Mi dispiace per quello che ti ha detto, lui… non è tanto a posto con la testa, ecco».
«Oh, ho sentito di peggio, credimi», le rispose dopo aver bevuto la propria acqua. «Come mai lo conosci?».
«È un amico di Merlino».
Myra posò di scatto gli occhi, stretti in due fessure, sull’agente Fisher, il quale raddrizzò la schiena e ricambiò lo sguardo quasi con timore.
«Tu lo sapevi? Sapevi che Merlino era coinvolto in questa storia? Perché diamine non mi hai avvisato subito?», gli chiese severamente.
«Io credevo… credevo che fosse un nome di fantasia! Artù, Merlino… eh». Si strinse il collo tra le spalle, sollevando le mani in segno di resa. Quindi sospirò e davvero mortificato aggiunse: «Mi dispiace».
«Lui dov’è?», chiese Myra ad Alex, una volta ritrovata la calma.
«Non ne ho la più pallida idea. È tutta la sera che lo chiamo, ma non risponde al cellulare».
«Strano, non trovi?».
L’infermiera annuì, anche se avrebbe voluto rispondere che di cose strane nell’ultima settimana e mezza – da quando era arrivato Artù, appunto – ne aveva viste fin troppe.
La poliziotta si strinse la coda di cavallo sulla nuca, un gesto automatico quanto il battito delle ciglia, riflettendo sul da farsi. Alla fine indicò la porta della sala interrogatori e puntò tutta la propria attenzione su Alex.
«Mi assicuri che non è pericoloso?», le domandò, fissandola col suo miglior sguardo indagatore.
Alex non poté fare a meno di ricordare la mattina in cui le aveva puntato un pugnale alla gola dandole della strega, ma scosse il capo con violenza e cercando di essere il più convincente possibile esclamò: «Non farebbe del male ad una mosca».
«Va bene allora», disse Myra, sospirando. «Viste le sue condizioni, mi sembra inutile fargli passare la notte in cella. Portalo a casa e assicurati che non ottenga altre armi del genere». Si avvicinò al tavolo su cui erano stati appoggiati i pochi effetti personali di Artù e dopo averle consegnato lo smartphone e un mazzo di chiavi indicò la balestra e il pugnale con un dito: «Questi è meglio se li teniamo noi».
«Ma sì, certo. Grazie Myra, davvero non so come…».
«Una cosa ci sarebbe: se riesci a rintracciare Merlino, portamelo qui».
L’aveva detto con un tono imperioso, quello che usava solitamente quando indossava l’uniforme, come se vedere Merlino fosse solo una questione di lavoro, ma Alex sapeva bene che c’era dell’altro. Non a caso Myra non l’aveva nemmeno guardata in faccia, consapevole che i suoi occhi avrebbero mostrato ciò che realmente provava al solo pensiero di vederlo di nuovo.
«’kay», mormorò l’infermiera, sorridendole nonostante tutto.
«Darrell, te ne occupi tu?», aggiunse Myra, sedendosi alla propria scrivania per compilare alcune pratiche.
«Sicuro», rispose prontamente l’agente Fisher, per poi voltarsi verso Alex e farle strada.
Alex rimase sulla porta mentre Darrell si avvicinava ad Artù per liberarlo dalle manette che gli legavano una mano al tavolo. Lo fissò in silenzio, così stanca da non riuscire nemmeno a commentare mentalmente la maglia di ferro che si era infilato sopra la felpa col cappuccio. E così fece anche il biondo non appena alzò lo sguardo e la vide: a bocca aperta, come se la sua presenza lì e in quel momento fosse inconcepibile tanto quanto quella di una cabina della polizia blu nel salotto di casa sua.
L’agente Fisher lo aiutò ad alzarsi ed esclamando: «Vedi di rigare dritto», gli diede una leggera spintarella verso di lei. Artù la guardò negli occhi con espressione quasi terrorizzata e Alex pensò che era l’espressione appropriata – prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, pagare cara – ma le fece comunque uno strano effetto vederlo ridotto in quelle condizioni. Per questo gli prese una mano e dopo aver ringraziato l’agente Fisher lo trascinò fuori.
In silenzio e tenendolo ancora per mano proprio come avrebbe fatto una mamma con un figlio che ha appena combinato una marachella punibile con una settimana senza videogiochi, raggiunsero l’auto parcheggiata proprio dall’altro lato della strada. Solo allora lo lasciò andare e, una volta trovate le chiavi nella sua disordinatissima borsa, gli aprì la portiera del passeggero lanciandogli un’occhiata truce.
«Idiota», grugnì, incapace di trattenersi, ma fu l’unica cosa che gli disse. Anche volendo non avrebbe avuto modo di aggiungere altro, visto che l’agente Fisher era uscito dalla Centrale e, chiamandola per nome, l’aveva raggiunta di corsa.
«Che altro c’è, agente?», domandò esasperata, sbattendo con violenza la portiera dell’auto. (Se Artù non fosse stato pronto di riflessi gli avrebbe spaccato la caviglia, come minimo).
«Chiamami pure Darrell», disse, guardandosi alle spalle come se non volesse essere sorpreso a parlare con lei. «Posso chiederti una cosa un po’ sconveniente?», le chiese, sottovoce e col viso pericolosamente vicino a quello dell’infermiera.
«Suppongo che lo farai ugualmente».
Il ragazzo si passò una mano tra i biondi capelli ricci, umettandosi le labbra. «Volevo sapere se Myra e quel Merlino…».
«Se Myra e Merlino cosa?», domandò Alex, irritata più che mai dal suo tono e soprattutto dal sorrisino malizioso che aveva stampato in faccia.
«Insomma, se hanno avuto modo di studiare insieme quel libricino famosissimo, pilastro della cultura indiana… Capito a cosa mi riferisco?».
Certo che aveva capito. Forse era lui che non aveva capito, dato che si era azzardato a farle l’occhiolino nonostante lei fosse un’infermiera perfettamente in grado di estrarre un occhio dall’orbita senza sporcarsi i vestiti.
«Perché non lo chiedi direttamente a Myra, Darrell?», gli chiese rivolgendogli un sorriso tutt’altro che amichevole. «Mi raccomando però, quando lo fai avvisami: potrebbe servire il mio aiuto e probabilmente quello di qualche altro mio collega dell’ospedale quando avrà finito di risponderti».
L’agente Fisher fece un passo indietro e leggermente intimorito dal suo sguardo carico di ostilità si voltò e tornò verso la Centrale per salire due a due i pochi gradini che conducevano alle porte a spinta.
Alex si appoggiò con un gomito al tettuccio dell’auto e si ravvivò i capelli sulla nuca, borbottando verso la luna: «Io odio i lunedì».

 

***

 

Trovarsi davanti Alex così all’improvviso, inaspettatamente, l’aveva scioccato nel vero senso del termine: muscoli paralizzati, voce sparita del tutto e sangue – il suo stesso sangue, secondo Freya – ghiacciato nelle vene.
Mentre l’agente Chandra non faceva altro che porgergli una valanga di domande, mentalmente si era dipinto diversi scenari, in cui però c’era sempre una costante: la furia di Merlino. (Motivo per cui aveva optato per il più religioso dei silenzi: non voleva finire in guai più grandi di quello in cui era già). Poteva però dire che in nessun caso, nessuno, aveva immaginato che in suo soccorso sarebbe arrivata proprio Alex.
Dopo averlo insultato non gli aveva più rivolto la parola – quasi sicuramente non l’avrebbe fatto per il resto del viaggio verso casa – e nonostante da un lato ne fosse sollevato, dall’altro era terribilmente preoccupato che la sua rabbia potesse sfociare davanti a Merlino, peggiorando una situazione che vedeva già complicatissima.
Ogni tanto la guardava di sfuggita, con la coda dell’occhio, ma la sua espressione concentrata non gli permetteva di capire se fosse arrabbiata, pensierosa o semplicemente stanca. Un mix di tutto, forse?
Alexandra parcheggiò l’auto sulla strada sterrata di fronte a casa e senza dire una parola spense il motore e scese, aspettando che lui facesse lo stesso per poi chiudere le portiere col piccolo telecomando.
Artù la guardò confuso, vagamente preoccupato, fino a quando non si trovò costretta a rompere il silenzio per dirgli bruscamente: «Se pensi che dopo la cazzata che hai fatto ti lasci da solo sei proprio pazzo».
«Hai intenzione di dormire qui?», riuscì a chiederle finalmente, seguendola verso l’entrata ma rimanendo sempre qualche passo indietro.
Alex gli gettò un’occhiata e tirando fuori dalla tasca dei jeans le chiavi di casa che l’agente Chandra gli aveva sequestrato insieme al cellulare e alle armi, esclamò: «Ci puoi scommettere il tuo regale didietro».
Il re di Camelot fu preso talmente in contropiede che anche se ci avesse provato non avrebbe trovato nulla di adatto con cui rispondere, perciò restò ancora una volta in silenzio. Aspettò che aprisse la porta, quindi la seguì all’interno e la guardò mentre accendeva le luci e si privava di scarpe, cappotto e borsa, lasciando tutto in giro, come se quella fosse casa sua.
Gli ci vollero un paio di minuti per capire che cosa c’era che non andava e quando finalmente capì il suo cuore saltò un battito. «Dov’è Merlino?».
«Questa è una domanda da un milione di dollari», rispose Alex con tono incurante, per poi voltarsi di scatto verso di lui e gridare: «Credi davvero che sarei qui a quest’ora se sapessi dove diavolo è andato a cacciarsi quello stupido?!».
Artù iniziò a collegare i puntini: alla Centrale si era presentata Alex perché Merlino non sapeva che era stato messo sotto custodia; e se Merlino non lo sapeva aveva del tempo extra per inventare una scusa convincente da rifilargli quando gli avrebbe chiesto per quale motivo era uscito con una balestra sulla schiena. Restava però da scoprire dove fosse finito e perché, e gli era chiaro ormai che Alex non voleva restare lì a dormire perché voleva tenerlo d’occhio ma perché voleva aspettare che lui tornasse a casa.
Un pensiero agghiacciante gli attraversò all’improvviso la mente. E se gli fosse successo qualcosa, se non potesse fisicamente tornare a casa e nemmeno mettersi in contatto con loro per chiedere aiuto? Dopotutto non era da Merlino sparire così, senza dare alcuna spiegazione – non ora che sapeva dei suoi poteri, almeno – e dopo tutto quello che gli aveva rivelato la custode di Avalon non pensare al peggio gli risultava molto, molto difficile.
«Dobbiamo andare a cercarlo», disse con determinazione.
«No, invece», rispose Alex, dirigendosi verso la cucina.
«Non possiamo starcene qui con le mani in mano! Merlino può essere in pericolo!».
Artù sentì il cigolio dell’anta della credenza che veniva aperta e richiusa, poi quello del fornello a gas che veniva acceso.
«Pericolo? Di che cosa stai parlando, Artù? Merlino è grande e vaccinato, può cavarsela benissimo da solo».
«No invece, tu non… non capisci». Camminò per qualche secondo avanti e indietro, indeciso se rivelarle o meno ogni cosa una volta per tutte, ma la stessa Alex interruppe il filo dei suoi pensieri, comparendo nel vano della porta con delle bustine di tè in mano.
«Al cellulare non risponde, all’ospedale nessuno l’ha visto e io stessa l’ho cercato dappertutto. La cosa migliore da fare è aspettarlo qui, credimi».
«Ma…».
«Shh-shh», lo azzittì sollevando l’indice a mezz’aria. «Senza di me saresti ancora sotto custodia, perciò sei in debito con me. Quello che ti chiedo è di fare semplicemente come ti dico, senza obiettare né porre domande. Sai quante domande ho io, domande che giorno dopo giorno cerco di dimenticare? Troppe. Sii solidale con me, solo per questa volta, e prometto che non dirò a Merlino che la tua passione per i porno ti ha quasi portato ad una notte al fresco con l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale».
Il suo tono di voce determinato e la punta di severità nel suo sguardo costrinsero Artù a fermarsi di colpo e a guardarla con gli occhi sbarrati.
Aveva avuto come la sensazione di guardarsi allo specchio, cogliendo in lei aspetti del suo carattere che conosceva a menadito. Poteva anche essere solo un’impressione, la prova che le parole della custode di Avalon lo stessero condizionando a tal punto da fargli credere davvero che Alex fosse la sua ultima discendente, ma non poteva comunque impedire al proprio cuore di battere impazzito nella gabbia toracica.
«Va bene», mormorò alla fine, cercando di mandare giù il nodo alla gola.
«Ottimo», replicò lei, rivolgendogli un debole sorriso. «Vuoi una tazza di tè?».
Artù scosse il capo. «No, vado a letto».
«Okay. Buonanotte».
Il re di Camelot non rispose, troppo occupato a tenere a distanza di sicurezza i pensieri dolorosi che, prima o poi, gli avrebbero fatto visita durante la notte. Mentre era sulle scale però sentì Alex borbottare: «Che ho fatto di male per meritarmi tutto questo?» e pensò che avrebbe potuto chiederselo fino alla fine dei suoi giorni, proprio come lui, senza mai ottenere una risposta.

   
 
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