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Autore: RandomWriter    03/04/2015    8 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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47.
TESSERE
 

Non era normale.
Erano quasi le sei e mezzo del mattino e lei era lì, seduta su quella spiaggia impregnata di umidità e salsedine.
Il suo fedele album poggiato sulle gambe, distese beatamente contro il suolo morbido e vellutato della sabbia fina. Le sue mani avevano cominciato ad abbozzare il mare che la fronteggiava, ma i suoi pensieri le avevano imposto di fermarsi, guardare l’orizzonte e svuotare la mente. Proprio come le onde accennate sul foglio, anche la distesa d’acqua salata che si presentava dinanzi ai suoi occhi era sollevata da un vento gelido, che rendeva tumultuoso il profilo altrimenti piatto dell’Oceano Pacifico.
No, non era normale scoprire la voglia di alzarsi alle cinque, quando il sole ancora non era sorto per isolarsi su quella spiaggia, attendendo che anche la stella più importante del firmamento si destasse dal suo sonno quotidiano.
Sophia sospirò flebile, in attesa che i primi raggi di luce rischiarassero l’atmosfera e le permettessero di proseguire quel disegno iniziato giorni prima. Lontano, dove la linea dell’oceano di fondeva con quella del cielo, si diffondeva un chiarore rassicurante, preannuncio dell’alba imminente.
Portarsi dietro l’album per ultimare quel disegno era stata un’idea interessante, ma non ancora applicabile. Faticava infatti a vedere i tratti di grafite sul foglio e per questo fu costretta a richiudere l’album, sistemandolo accanto a sé. Avvicinò le gambe al petto, rannicchiandosi su se stessa e, per l’ennesima volta, sbuffò di malinconia.
Era reduce da una notte in bianco, passata a rigirarsi su un materasso con molle cigolanti, nella snervante attesa di un sonno che non era mai giunto. Nella segretezza della sua mente, non aveva problemi ad ammettere che era stato l’arrivo dell’amica di sua sorella a destabilizzarla tanto.
Rosalya.
Persino il suo nome trasudava eleganza e femminilità. Un viso ovale, perfettamente simmetrico, gli occhi vispi e felini, i capelli da pubblicità di shampoo.
Contrariamente a quanto aveva sempre pensato, Sophia si ritrovava a rimpiangere il proprio look anticonformista e da maschiaccio, chiedendosi se anche lei, con i vestiti giusti, potesse appropriarsi di quella dolcezza e sensualità che erano tipici del suo sesso. Il perché d’un tratto avesse cominciato a prestare tutta quell’attenzione allo stile, in fondo lo sapeva, ma stentava ad ammetterlo.
Afferrò una conchiglia perlacea e, dopo averla fatta saltellare sul palmo freddo della mano, la lanciò lontano, restituendola all’oceano che l’aveva depositata accanto a lei.
Quell’entrata in scena era stata a dir poco sgradita: voleva parlare con lui ancora un po’, continuare a discutere del suo rapporto con se stesso: del resto, amava ascoltare gli altri, le era sempre piaciuto. Sin da bambina, Sophia guardava con una certa ammirazione la dedizione con cui la madre consultava il quaderno azzurro dove appuntava i commenti emersi durante le sedute.
La vena ficcanaso di Erin, una volta, l’aveva spinta a curiosarne il contenuto, scoprendo quanto dietro ogni persona, potesse celarsi una complessità d’animo tale da risultare affascinante.
Con Nathaniel tuttavia non veniva solo appagata la sua natura sensibile e comprensiva: c’era qualcosa in lui che lo rendeva più complesso e, per certi aspetti, quasi contorto. Le piaceva credere di essere l’unica ad aver carpito la vera essenza del suo essere ma, se anche fosse stato così, questo non le dava alcun vantaggio su Rosalya White; lei era irraggiungibile, come lo era lui, Nathaniel.
Riafferrò l’album e, pur intravedendo a mala pena i segni, cominciò a tracciare la matita con violenza, quasi marcandola contro il foglio inerme e innocente. I suoi movimenti erano bruschi e tormentati, quasi a riflettere il subbuglio dell’oceano, che quella mattina non intendeva sopire la sua furia.
I sentimenti che la ragazza voleva soffocare, sembravano ribellarsi al suo prepotente tentativo e riemergere con maggior foga e intensità rispetto alla notte precedente.
« sei un po’ fissata con il mare o sbaglio? »
Sussultò, mentre lo spavento le faceva tracciare un’indesiderata linea dritta sul disegno.
Per essere un’allucinazione, era fin troppo credibile. Troppo reale.
Quasi non osò voltarsi, ma ben presto i suoi occhi caddero su un paio di Vans Old Skool, le sue preferite. Alzò lentamente il capo, intravedendo per primo il lembo di un giubbotto, anch’esso familiare e che donava particolarmente al suo proprietario, che proseguì:
« ora che ci penso, non ti ho ancora ringraziato per il dipinto del compleanno: te la cavi molto bene come artista »
Sophia ingoiò a fatica della saliva, scoprendo di non averne abbastanza per lubrificare la cavità orale. Quella condizione la boicottò nel tentativo di articolare un fonema distinto: 
« c-che ci fai tu qui? » gracchiò.
« sei stata tu a invitarmi ieri » obiettò Nathaniel, sedendosi accanto a lei. Non si curò della sabbia che gli impolverò la giacca, né dei granelli che si incollarono lungo la suola di gomma delle scarpe.
« non pensavo saresti venuto sul serio » ammise quasi sottovoce la ragazza, ma il biondo mal interpretò quella considerazione:
« quindi vuoi che me ne vada? »
« n-no, no » borbottò confusa, schiarendosi la voce. 
Necessitava di qualche secondo per riappropriarsi della lucidità di cui aveva fatto a meno durante quell'isolamento sulla spiaggia. Doveva accantonare quel flusso di pensieri che aveva percorso la sua mente e cercare di palesare una serenità d’animo che in quel momento non le apparteneva.
Il ragazzo non proferì parola e frugò nelle tasche del pesante cappotto. Sophia lo vide estrarre un pacchetto rettangolare, con raffigurato un cammello, che Nathaniel le avvicinò:
« vuoi? »
L’artista fece cenno di diniego con il capo, mentre lui ritirava per sé quell’offerta. Battè sul fondo della confezione, sfilando un cilindro sottile di tabacco che posizionò in bilico sulle labbra, leggermente screpolate dal vento californiano. Sfregò il pollice contro la rotella metallica dell’accendino, in attesa di vedere apparire quella fiammella che avrebbe avviato la combustione.
Persino in un’azione così quotidiana e semplice, Sophia riuscì a trovare un che di intrigante nel biondo, nella sua scioltezza di muoversi. Quando era lei ad accendersi una sigaretta invece, il più delle volte si scottava con l’accendino, anche perché non era una fumatrice abituale.
« non sapevo fumassi » considerò la ragazza.
« ora lo sai »
« simpatico » farfugliò lei, sorridendo sarcastica.
Rimasero per un po’ in silenzio, lasciando che il fragore delle onde cadenzasse lo scorrere del tempo: Sophia riprese a disegnare, mentre Nathaniel si gustò l’aroma inebriante del tabacco.
Si cominciava ad intravedere il sole, facilitando l’attività della disegnatrice.
« passato bene il San Valentino? » le chiese d’un tratto la rossa, senza staccare gli occhi dal foglio.
Si odiò per quella domanda, perché sapeva che la risposta avrebbe acuito il suo malessere; eppure, era proprio guardando in faccia la realtà che sarebbe riuscita ad arginare il tumulto che si stava innescando in lei; Nathaniel scosse la sigaretta, lasciando cadere un po’ di cenere grigia sul suolo sabbioso e ammise:
« credo di avere ancora qualche problema a realizzare che Rose sia qui »
Quel Rose era bastato per farla sentire lontana: c’era un’intesa tra i due a cui lei era estranea, una complicità frutto di anni di amicizia e sentimenti nascosti a cui lei non aveva accesso.
« ma soprattutto il fatto che davvero sia innamorata di me » continuava Nathaniel, guardando nostalgico il mare  « voglio dire, abbiamo fatto finta di essere amici per così tanto tempo che ormai mi ero rassegnato al fatto che non ci sarebbe mai stato niente tra di noi »
C’era un che di enigmatico in quella risposta che, pur non soddisfando appieno l’interesse di Sophia, rimase priva di alcuna richiesta di precisazione.
« lei è davvero bellissima » mormorò Nathaniel, più a se stesso che rivolto alla ragazza accanto a lui.
« già » inghiottì la rossa, avvertendo che il gelido soffio del vento le stava inumidendo gli occhi. O forse era a causa della nuova matita nera che aveva messo sulla rima interna degli occhi. Oppure per lo sbadiglio trattenuto.
Qualsiasi pretesto pur di non affrontare il reale motivo della tristezza che inesorabilmente avanzava dentro di lei. Non riusciva a controllarla e odiava quell’essere così irragionevolmente vulnerabile.
Il biondo non si accorse di nulla e finì la sua sigaretta; spense il mozzicone contro la sabbia umida e si alzò per gettarlo in un cestino poco lontano.
« prevedibile » commentò tra sé e sé l’artista « piacevolmente prevedibile » fu costretta a correggersi.
Lo vide ritornare da lei, ignaro di quanto quel semplice gesto di educazione, potesse averla suggestionata. Ormai qualsiasi sua azione finiva per impressionarla.
Era scaturito tutto dal salvataggio nell’oceano, quella stessa immensa pozza d’acqua che s’infuriava davanti a loro. Da quell’episodio, c’era stato un crescendo di emozioni contrastanti, di sensazioni che aveva cercato disperatamente di allontanare o negare, ma senza successo. Si era accorta subito che qualcosa era scattato in lei, ma la spiegazione più logica era impossibile da accettare, oltre che irrazionale. Non poteva piacerle quel tipo. Lei amava i ragazzi anarchici, sbruffoni e Nathaniel non aveva nulla di quella caratteristiche, eppure ogni volta che le sorrideva, ogni volta che la punzecchiava, lei si sentiva immeritatamente felice.
Ammettere quella verità però era difficile, persino a lei stessa: poteva analizzare la situazione, giungendo anche ad una conclusione, ma accettarla era fuori discussione.
Il sole ormai era passato da un semicerchio, tagliato in due dalla linea dell’orizzonte, ad una sfera infuocata e tonda.
«  Nathaniel… » lo chiamò d’un tratto, con gli occhi velati di tristezza. Lui non rispose ma la cercò con la coda dell’occhio « hai visto che sole? Ne valeva o no la pena venire qui? »
Il ragazzo direzionò lo sguardo verso l’oceano, la cui acqua rifletteva i raggi caldi di quella stella così luminosa. Il cielo era dipinto da pennellate frettolose e rosate, alternate a chiazze azzurre e non c’era nessun’altro quella mattina a godersi quella scena silenziosamente spettacolare:
« mi ha sempre affascinato il cielo » commentò Sophia, con lo sguardo perso davanti a sè « è sempre lo stesso, eppure sempre diverso. Cambieranno le nuvole o tireranno venti diversi ma lo scenario sarà comunque magnifico. L’alba poi è così… boh, ti svegli e hai di fronte la prospettiva di un nuovo giorno che inizia, sai che è arrivata la tua occasione per rimediare agli errori di ieri »
« ti svegli tutti i giorni a quest’ora per guardare l’alba? » commentò Nathaniel perplesso, seguendo a stento i filosofici ragionamenti di Sophia.
« ma va’, scemo. Solo ogni tanto. È una cosa che mi piace fare, per cui la faccio » replicò l’altra, divertita. Non riconosceva nella sua voce quelle note dolci e impastate di malinconica tenerezza. Che fine avesse fatto il suo tono scontroso e insolente, non lo sapeva e non aveva idea né intenzione di riesumarlo in quella circostanza.
Il biondo sorrise riflettendo sulla tendenza a semplificare ogni cosa, tipica della ragazza. Per lui un simile ragionamento non poteva essere applicato:
« dovresti farlo anche tu » mormorò lei, quasi leggendogli nel pensiero.
« svegliarmi a guardare l’alba? » scherzò, ma Sophia rimase impassibile.
« fare quello che ti piace. Smettila di assecondare la volontà di tuo padre »
Gustave e il suo rapporto con i figli era stato uno degli argomenti su cui aveva meditato durante la notte: prima ancora di conoscere personalmente Nathaniel, dai racconti di Ambra, Sophia poteva comprendere ma non accettare la passività del primogenito verso il padre. 
« non ho altra scelta Sophia. Non potrei mai fare strada mettendomi contro di lui. Lui non sopporta di essere deluso dalle persone »
« mentre a te, di deludere te stesso, va più che bene… »
Non era sua intenzione offenderlo.
Sputò quella frase senza sarcasmo o malizia, eppure risuonò nelle orecchie di Nathaniel come la cosa peggiore che gli avesse mai detto.
Uno dei commenti più spietati e sprezzanti che avesse mai udito.
Lei non immaginò la devastazione e la rabbia che avrebbe innescato in lui di lì a pochi secondi, per questo sussultò spaventata non appena lui scattò in piedi, furente:
« POSSIBILE CHE TU NON SAPPIA FARE ALTRO CHE SPUTARE SENTENZE? » urlò. La collera acuì la sua voce bassa e gentile, mandandogli il sangue al cervello.
« ma chi ti credi di essere per sputare sentenze e dire agli altri cosa devono fare, quando tu per prima ti barrichi nel tuo mondo? Non ascolti nessuno, sei sorda a qualunque richiesta altrui! » continuò Nathaniel, cercando poi di modulare i toni « e poi non mi sembra che tu possa considerarti soddisfatta della tua vita: stai facendo soffrire la tua famiglia, Dio solo sa perché, non hai manco terminato gli studi, lavori in un negozio di videogame di merda… DA DOVE DERIVA ALLORA TUTTA QUESTA TUA PRESUNZIONE E SACCENTERIA? CON QUALE TITOLO TI ARROGHI IL DIRITTO DI CREDERTI MIGLIORE DI ME?! »
Finì quella sfuriata sentendosi quasi indolenzito fisicamente: la gola gli bruciava e i polmoni gli imponevano di incamerare tutta l’aria che non avevano ancora inspirato. Riconosceva di avere esagerato, le stesse cose poteva dirgliele in modo diverso, ma l’appagamento e la sensazione di sollievo che provava nell’aver vomitato quella rabbia repressa erano incommensurabili.
Non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era tanto inviperito. Quella reazione l’aveva sorpreso lui per primo, stentando quasi a riconoscere nel ragazzo che era balzato in piedi e aveva iniziato a sbraitare come un forsennato, l’immagine di sé; aveva i muscoli del collo in tensione e il battito non accennava a decelerare. Proprio lui, che quando a diplomazia aveva come concorrente solo Lysandre, non era riuscito a trattenersi dall’espletare in modo aggressivo il suo punto di vista.
Sophia aveva toccato un tasto troppo dolente, si era permessa di ridicolizzare la sua dignità, come se già non bastasse il padre a ricordargli ogni giorno quanto essa fosse inesistente. Lei si credeva superiore, più forte, intangibile da ogni paura e insicurezza, diversamente da lui, che per questo non aveva esitato a trattare come un rammollito.
Era il disprezzo che era emerso da quel “mentre a te, di deludere te stesso, va più che bene”  che l’aveva fatto scattare; si odiava per essere così succube e inerte, ma non riusciva a vedere una via di fuga dalla sua situazione. Se si fosse ribellato alla volontà del padre, a quel punto sarebbe stato solo e il suo futuro irrimediabilmente compromesso. Per la ragazza era facile parlare con tanta supponenza. Infatti, era stata proprio quella sua aria di sufficienza e di donna navigata ad averlo particolarmente irritato: lei era convinta di sapere tutto, di essere autorizzata a giudicare la sua vita solo perché Ambra si era aperta con lei.
Per quanto la sua reazione fosse scaturita da un’escalation di rabbia, con il passare dei secondi, Nathaniel cominciò a sentirsi meglio: avvertì la sensazione di un peso levato dalle spalle, come se con quelle dure parole, fosse fuoriuscita anche un po’ di quella logorante amarezza che gli stava marcendo dentro.
Finalmente era riuscito a sfogarsi, a smetterla di fare finta che tutto fosse sotto controllo.
Dopo che aveva rotto l’amicizia con Castiel, visto naufragare la sua carriera musicale e compreso che mai sarebbe stato artefice del suo destino, Nathaniel era convinto di essere morto dentro.
Quella mattina però, aveva riscoperto in sé un barlume di vita, una piccola fiaccola di energia, alimentata da un’ingiustificata speranza che forse, non era ancora tutto perduto.
Quel suo stato di benessere però non era destinato a durare a lungo: la vittima di quell’aggressione verbale non aveva ancora replicato e, a rendere ancora più difficoltosa l’interpretazione delle sue intenzioni, teneva il capo chino. Il biondo la sovrastava, fissandole il collo lasciato semi scoperto dai corti capelli rossicci.
Stava per riaprire bocca, quando udì un singhiozzo.
Spiazzato, deglutì a fatica, guardando impotente quella figura minuta su cui aveva appena sferrato quel colpo che si era rivelato più duro da incassare di quanto avesse previsto.
La vide portarsi il dorso della mano, annerito dalla grafite, agli angoli degli occhi e strascinare via un paio di lacrime, che testimoniarono la loro presenza riflettendo la luce del sole. Con esse, anche una scia di pigmento nero del trucco tracciò una linea incerta sfumata sulle tempie.
L’artista raccattò l’album e infilò sbrigativamente la matita nella borsa. Si alzò in piedi, sfuggendo evasiva sotto lo sguardo incredulo del biondo, che ancora non si capacitava della sua remissività:
« a-aspetta! » la trattenne, prendendola per un braccio.
Sophia si voltò di scatto, fissandolo furente. Aveva gli occhi lucidi, arrossati da lacrime che cercava in tutti i modi di arginare:
« lasciami » ringhiò ferita, con il labbro inferiore che aveva cominciato a tremare leggermente. Se lo morse, talmente forte che sentì il sapore salato del sangue fuoriuscire leggermente dalle labbra secche.
« scusami, ho esagerato » insistette lui, senza allentare la presa.
Nonostante le sue buone intenzioni, Nathaniel non ottenne l’effetto sperato: Sophia si accigliò maggiormente e sbottò:
« no, hai ragione invece, è per questo che fa così male! Abbi però le palle di non rimangiarti quello che hai detto! »
« perché devi essere sempre così scontrosa? » si arrabbiò lui « se faccio buon viso a cattivo gioco non va bene, se ti dico le cose in faccia nemmeno! »
Lei emise un verso stizzito, distogliendo quegli occhi lucidi dall’occhiata profonda e seria del ragazzo.
Che piangesse per rabbia o per rimorso, nemmeno lei sarebbe riuscita a definirlo. L’unico suo pensiero era trovare un modo per frenare quel fiume di frustrazione e lacrime, costruendo una sorta di diga che tamponasse la situazione.
Di fronte alla sua passività, Nathaniel attenuò la stretta e, con riflessi quasi felini, la rossa ne approfittò per allontanarsi a grandi passi:
« possibile che tu non sappia fare altro che scappare? » le urlò il biondo, guardandole la schiena « io sarò anche un inetto, ma tu sei solo una codarda Sophia! »
Codarda.
Odiava quella parola.
Orgogliosa e coraggiosa come era sempre stata, non poteva sopportare che le venisse rivolta.
Si fermò al centro della spiaggia, indecisa su quale direzione intraprendere. Poteva continuare ad incrementare la distanza tra di loro, a quel punto sarebbe stato inevitabile tagliare ogni rapporto. Se il giorno prima le si era insinuato il dubbio che almeno una sincera amicizia potesse crearsi tra di loro, con la sua fuga avrebbe spazzato via ogni possibilità di relazione.
Le rimaneva la seconda scelta: voltarsi. Tornare sui suoi passi e scusarsi.
Pur essendo una persona orgogliosa, non aveva mai avuto difficoltà ad ammettere i suoi errori, no, non era quello a frenarla. Era l’idea di tornare proprio da lui. Era il fatto che lui riuscisse a mettere in discussione ogni aspetto del suo carattere, a farla scendere a patti con sé stessa.
Era quella capacità del ragazzo di metterla in una posizione in cui il suo orgoglio andava accantonato, in nome di qualcosa di più importante. Di cosa si trattasse però, non l’aveva chiaro. In fondo, lei era solo l’amica di sua sorella Ambra. Un’amica acida e insolente per giunta.
Nathaniel aveva dannatamente ragione: la sua vita stava andando a rotoli, non era quello il futuro che sognava per sé. Aveva sospeso gli studi, nei quali comunque era sempre stata molto scarsa, in nome di  un’esigenza che, giorno dopo giorno, le sembrava sempre più secondaria.
Sospirò, ripensando a quante cose era cambiate dopo l’incidente e di come proprio la sua determinazione a non aprirsi, avesse determinato la sofferenza di persone a lei care.
Se solo non avesse scoperto nulla.
Se solo avesse scoperto tutto.
« se solo non fossi così orgogliosa Sophia, io proverei ad aiutarti » le sussurrò il ragazzo.
Con passo felpato, tanto che lei non si era accorta dell’agguato, si era portato alle spalle della fuggitiva. Sentì il suo profumo piacevole, frammisto al tabacco fumato poco prima.
« a fare che? » mormorò lei, senza voltarsi, con le parole che le morivano in gola.
« a tornare a casa, giusto per dirne una. Non so cosa ti trattenga qui, ma non risolverai i tuoi problemi fuggendo da essi » precisò il biondo, mantenendo un tono basso, quasi sussurrato.
C’era una calda dolcezza nelle sue parole, come se tentasse di alleviare al senso di colpa che era scaturito in lui di fronte all’inconsistente difesa della rossa.
« non sto scappando dai problemi Nathaniel » precisò lei « sto cercando una persona »
« una persona? »
Sophia si morse la lingua. Non doveva parlarne. Si era crucciata più volte, ripetendo a se stessa che era pericoloso farne parola. Quella questione doveva restare segreta, lo aveva promesso e non solo a se stessa. Tuttavia, il peso che si portava nel cuore, era ormai sempre più insopportabile e fu proprio per tentare di alleviare quell’oppressione che replicò:
« sì, l’autore di un quadro »
Il biondo guardò l’album che la ragazza teneva saldamente in mano e domandò:
« perché? »
« perché ho promesso che l’avrei trovato »
« a chi? »
Finalmente la ragazza si girò, fissandolo dritto negli occhi. Quell’interesse sincero, frutto di una premura, la intenerì, ma non fece vacillare ulteriormente la sua determinazione. Non poteva aggiungere altro.
« non posso dirlo » sentenziò con gravità.
Si mordicchiò il labbro inferiore e, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Nathaniel riuscì a sovrapporre nell’immagine di Sophia quella di Erin; quel vizio di torturarsi le labbra era l’unica analogia che era riuscito a riscontrare nel comportamento delle due gemelle.
« e tu molli la tua famiglia per una promessa? » insistette.
Non che fosse nella sua natura essere invadente, ma a quel punto, voleva estrapolare più informazioni possibili. Sophia era un mistero e lui, amante dei gialli, non poteva che incuriosirsi per quella faccenda.
« ci sono anche altri motivi » dichiarò lei « per i quali non posso ancora andarmene dalla California »
« per esempio? »
« c’è una persona che ha bisogno di me »
« Space? »
La linea delle sopracciglia della ragazza si arcuò verso l’alto, manifestando smarrimento e perplessità:
« Space? No, perché lo pensi?...ok, è un po’ strambo » ammise subito, senza aspettare risposta « ma se la cava egregiamente anche senza di me »
« avrei giurato che fosse lui » affermò il biondo, figurandosi nella mente l’immagine ingobbita e un po’ tetra dell’amico della ragazza.
Lei scosse il capo, quasi divertita e quel mezzo sorriso rasserenò Nathaniel.
Senza che se ne accorgessero, la tensione tra di loro si stava allentando e ogni asperità poteva essere smussata. Bisogna solo far finta che il contrasto precedente non fosse avvenuto e rimandare ad un’altra occasione la misteriosa questione che la ragazza si affannava a tenere nascosta.
Sophia guardò l’oceano, camminando in silenzio verso di esso. Nathaniel, perplesso per quella reazione, si limitò a seguirla, portandosi accanto a  lei.
Avanzavano a ridosso della battigia, sulla quale imprimevano, l’una dopo l’altra, l’impronta delle loro scarpe:
 « comincio a sospettare che tu abbia un fidanzato segreto » ipotizzò Nathaniel d’un tratto, per intavolare una conversazione.
Udì una risatina divertita dall’altra parte, ma nessuna smentita o conferma.
La rossa si fermò, mentre lui la fissava curioso: la vide togliersi le scarpe, rimuovere i calzini e sistemarli dentro la borsa. Raccattò le Converse e riprese a camminare, a piedi nudi, incurante dell’acqua fredda che, a ritmi alternati, le bagnava la pelle fin sotto la caviglia:
« ti verrà il raffreddore… » profetizzò il biondo. Prevedibilmente, Sophia non valutò quell’avvertimento e replicò:
« sai, io e te non potremo essere più opposti: tu pensi sempre alle conseguenze mentre io le ignoro completamente »
« rimettiti le scarpe » insistette l’altro « i tuoi piedi mi ringrazieranno »
« lo sai biondino, diversamente da te, se mi si impone di fare qualcosa, faccio l’esatto contrario: appena ricevo un ordine, ho una sorta di reazione allergica, non so se mi spiego »
Il ragazzo finse di non cogliere la critica sottesa in quel “diversamente da te”, si era già sfogato abbastanza da sentir di poter sorridere per quella provocazione; l’aria era cambiata, il vento era sparito, spazzando via con sé ogni amarezza o rancore tra di loro:
« allora? Mi vuoi parlare di questa misteriosa anima gemella? » petulò il ragazzo.
« anima gemella? E chi lo sopporta uno uguale a me? » scherzò Sophia.
Istintivamente il biondo pensò alla versione maschile che più gli ricordava la rossa accanto a lui e, appena Castiel si presentò nella sua mente, soffocò una risata, al pensiero dei continui bisticci che si sarebbero innescati tra quell’improbabile coppia.
« in effetti dovrebbe essere un martire o un masochista » riconobbe il ragazzo, ricevendo una gomitata offesa.
« scherzi a parte » proseguì lei « non credo che esista la persona giusta per me »
« e cosa te lo fa dire? »
« il fatto che ho la scorza di un’anguria. Non mi innamoro facilmente e di certo, non del primo che passa »
« se è per questo, non è che tutti quelli che hanno una relazione sono così superficiali »
Sophia rise, reclinando la testa verso l’alto:
«ok ok, non ti scaldare Daniels, non vorrei mai insinuare che il tuo amore per Rosalya non sia profondo »
Si sorprese lei stessa della facilità con cui riusciva a scherzare su un argomento che dieci minuti prima la tormentava.
« ammetterai di avere una visione piuttosto amara e pessimista dell’amore… di solito voi ragazze siete talmente innamorate dell’idea di innamorarvi, che perdete di vista la realtà »
« adesso però sei tu quello che ragiona in modo superficiale » lo bacchettò la rossa « e se anche fosse come dici tu, io non sono esattamente come tutte le altre ragazze »
« lo so » le sorrise enigmatico il biondo, lanciandole un’occhiata d’intesa.
Quell’espressione la confuse, facendola arrossire per quanto fosse semplicemente bella su quel volto angelico.
« sai, una volta un mio amico mi disse che cercare l’amore è come fare un puzzle » continuò Nathaniel, gesticolando. Non le disse che quella persona era Lysandre, anche se poteva facilmente sospettare che quel nome suonasse familiare alla sua interlocutrice, in quanto sorella di Erin.
« un puzzle? » ripetè Sophia dubbiosa.
« sì. Mi disse che ci sono tre modi di cercare l’amore: come in un puzzle c’è chi prova ad accostare due pezzi basandosi sul disegno che vi è raffigurato e quindi scegliendo quelli che sono più simili tra di loro. Altri invece cercano quella tessera che possa essere complementare ad un’altra, ricercano quell’incastro perfetto che assicura un legame saldo… ed infine, c’è quella tessera che rimane sempre in disparte, quella che continui a scartare perché sei convinto che non c’entri nulla con quello di cui hai bisogno ma alla fine, dopo aver provato tante combinazioni sbagliate, capisci che era proprio quello il tassello giusto »
« io allora devo essere la tessera che è finita sotto i cuscini del divano e che non potrà entrare mai a far parte del puzzle » commentò Sophia.
In altre circostanze, quella battuta l’avrebbe divertita, l’avrebbe fatta ridere di gusto. Quel giorno però no.
Aveva avuto una storia in passato ma era naufragata prima che potesse rendersi conto dei suoi errori. Non la rimpiangeva, ormai Clark si era trasferito in Idaho e stava con un’altra ragazza, ma si rammaricava all’idea di non essere riuscita a meritarsi il suo amore.
Con quel ragazzo, i suoi sentimenti si erano spinti oltre ogni confine che avesse mai sperimentato, era convinta che la loro storia sarebbe durata per sempre: lei, spumeggiante e vitale, lui così eccentrico e spericolato. Eppure, dopo cinque mesi, aveva scoperto che nel cuore del ragazzo, e nel suo letto, c’era anche una seconda opzione. La stessa che poi si era trasferita con lui a Burley.
« non essere così pessimista » sdrammatizzò Nathaniel, raccogliendo una conchiglia. Si fermò e, dopo qualche secondo, la lanciò sull’oceano, la cui superficie si era appiattita:
« sono sicuro che troverai anche tu qualcuno »
« dovrà essere un maniaco delle pulizie, se vuole trovarmi sotto il divano » ragionò lei, restando ancorata all’analogia che le aveva illustrato lui. Non voleva deprimersi, ne aveva fin troppi motivi e aggiungerci anche la sua misera situazione sentimentale sarebbe stata una dimostrazione di masochismo.
Nathaniel sorrise pazientemente e, determinato a eliminare la nota di amarezza, concluse:
« sarà un ragazzo che capirà che sei l’unica tessera che può completare la sua vita »
 
Nemmeno la statistica era a suo favore: sorprendentemente, era il sesto tiro consecutivamente sbagliato. Per essere stato eletto più di due mesi fa, capitano della Atlantic High School, ridicolosamente noto come Liceo Dolce Amoris, quella performance era a dir poco deludente, oltre che umiliante per uno come Dajan. In palestra era arrivato per primo, godendosi il silenzio che di lì a poco sarebbe stato interrotto dai sui chiassosi compagni di squadra. Non era sua abitudine isolarsi in quel modo, normalmente aspettava che tutti avessero finito di cambiarsi, ma non quel giorno e, più in generale, non quando era di così pessimo umore.
Udì alle sue spalle le chiacchere dei cestiti che entravano in palestra, ma non si voltò a guardare una direzione diversa dall’impenetrabile canestro che troneggiava sopra la sua testa; se lo avesse fatto, avrebbe dovuto sopportare gli sguardi confusi e preoccupati di Boris e del professor Faraize che non riuscivano a giustificare il suo malumore.
Dajan Brooks aveva fatto il suo ingresso quella mattina senza nemmeno salutarli, imprecando sommessamente quando aveva scelto una palla un po’ sgonfia e lamentandosi della scarsa qualità dei palloni offerta dalla scuola.
« merda » ringhiò a denti stretti quando la palla sbattè contro il ferro per la settima volta, senza attraversare la rete.
« ehi Trevor! » bisbigliò Wes, facendo cenno alla guardia di avvicinarsi « che ha il boss? »
« non ne ho idea, era già di pessimo umore stamattina quando sono passato da lui » lo informò il ragazzo, allungando i muscoli delle gambe.
Era domenica mattina, giorno eccezionalmente concesso dalla preside, assieme al sabato, affinché i cestiti potessero allenarsi per il torneo.
La prima volta che quel gruppo di ragazzi aveva assaporato l’esperienza di percorrere i corridoi deserti dell’istituto, erano talmente su di giri che per il timido e arrendevole professor Faraize era stata un’impresa contenerli. Trevor e Wes, etichettati come alcuni degli elementi più esuberanti della squadra, avevano cominciato a borbottare loschi piani delinquenziali tali che, appena Faraize aveva udito la frase “entrare in presidenza” si era allarmato, sfoderando un’autorevolezza che aveva sorpreso lui prima che i suoi studenti.  A dargli man forte, era stato anche Dajan, non a caso il suo studente preferito: si era rivolto agli amici, intimandogli di concentrarsi solo sul reale motivo per cui erano in quella situazione; l’allenamento era una priorità assoluta, con l’aumentare delle vittorie, aumentava il calibro degli avversari che dovevano affrontare e non potevano permettersi di trascurare la preparazione atletica.
Del resto, con l’accavallarsi delle vittorie, la squadra cominciava a credere sempre più in se stessa e per questo era estremamente motivata.
Come molti sospettavano, la preside non aveva esitato a manifestare apertamente il suo supporto, non solo fornendo ai ragazzi la palestra per allenarsi e concedendogli di saltare alcuni lezioni mattutine, ma anche a parole: ogni volta che incrociava uno dei cestisti per i corridoi, lo intratteneva con imbarazzanti frasi di incoraggiamento e assicurandosi che fosse in ottima forma. Nonostante il suo entusiasmo tuttavia, la donna non aveva ancora assistito alle loro partite; gli impegni scolastici la assorbivano completamente, impedendole di assentarsi intere giornate per recarsi nei luoghi in cui giocava la squadra.
Boris sospirò, indugiando lo sguardo su ognuno dei ragazzi presenti sul campo, ma venne anticipato da Faraize che osservò:
« Travis e Phoenix sono ancora in spogliatoio. Non capisco perché le ragazze ci mettano sempre tanto tempo a cambiarsi rispetto ai maschi » commentò sconsolato l’insegnante di ginnastica, che aveva una certa familiarità con quel genere di situazioni. Per lui non era certo difficile immaginare che genere di conversazioni intrattenessero le sue studentesse, ma conoscendo Erin e soprattutto Kim, non immaginava di certo che in quel momento stessero parlando di ragazzi.
« e Dajan si è davvero arrabbiato così tanto? » stava domandando la prima, sistemandosi la coda di cavallo. La divise in due ciocche e le tirò in direzioni opposte per fissare la stretta.
« cazzo sì! » sbottò Kim esasperata.
Anche se si era confidata con Erin, non le aveva raccontato delle lacrime che erano scivolate sul suo cuscino, durante la notte, protette dal segreto della sua trapunta arancione. Ci era rimasta malissimo, più di quanto avrebbe mai immaginato. Si logorava nel senso di colpa di essersi spiegata male, infatti la dialettica non era mai stata il suo forte, specie nelle situazioni di stress emotivo.
Nonostante la tortura psicologica che si stava auto imponendo, sapeva di dover dormire per l’allenamento del giorno successivo, ma quella necessità ostacolava ancora di più il suo tentativo di abbandonarsi al sonno.
Quando aveva riaperto gli occhi, si scoprì completamente diversa rispetto alla notte precedente: non vi era più traccia di rimorso, solo tanta rabbia che, una volta in spogliatoio, aveva raggiunto il suo apice. Era bastata una mezza domanda della compagna di squadra circa il suo incontro con Dajan del giorno precedente, a innescare la miccia:
« comincio a credere che i maschi sono più mestruati di noi Erin! Prima fa tutto il gentile, mi aiuta a trovare un college con una borsa di studio per l’atletica e poi, appena mi si offre un’opportunità diversa, si incazza come una iena! Ovvio che gliel’avrei detto, solo che volevo farlo dopo il torneo! È già sotto pressione per via del suo ruolo di capitano, non volevo mettergli altri pensieri in testa: avevo paura che il fatto che questa opportunità sia stata offerta a me anziché a lui, lo demotivasse o qualcosa del genere. Non ho mai pensato, te lo giuro, che non fosse contento per me, lo so che non è così meschino, solo non volevo minare la sua autostima » spiegò Kim, mentre una nota di tristezza comparve nei suoi occhi. Si trattò di un attimo e venne rapidamente rimpiazzata dal tono arrabbiato con cui aveva esposto il suo punto di vista:
« ecco cosa ne ricavi a preoccuparti per gli altri! » si infuriò, camminando avanti e indietro per la stanza, perpetuando un monologo che Erin esitava a interrompere «ah, ma guarda, per me il discorso è chiuso! Con quella scenata mi ha solo dimostrato di essere un ragazzino, immaturo ed egoista! » brontolò la cestista, alzando le braccia in segno di resa e scuotendo leggermente il capo. Si accorse di avere la scarpa slacciata e, con un sonoro sbuffo, si accucciò a terra per sistemarla.
« Kim, calmati » cercò di sedarla la compagna « Dajan non è così, e lo sai… ci deve essere un’altra spiegazione se ha reagito così male »
« e quale sarebbe? » ringhiò l’altra, stringendo il laccio con una tale veemenza che sembrava sul punto di spezzarlo.
« non hai pensato che ci sia rimasto male perché voleva davvero venire al college con te? » le suggerì la mora, con un sorrisetto furbo, che disorientò la ragazza « e poi, tu hai deciso senza nemmeno metterlo al corrente, pur considerandolo tuo amico. Hai fatto tutto di testa tua, come se la sua opinione non contasse nulla »
« ma se ti ho detto che non mi ha lasciato il tempo di spiegare! È saltato subito alle conclusioni! » si difese l’altra.
« allora tu oggi gliele dai queste spiegazioni » affermò Erin risoluta, sistemando un paio di forcine sul capo. Si specchiò, ritenendosi soddisfatta della perfetta acconciatura che la fecero tornare indietro nel tempo ai suoi saggi di danza. Era molto brava in quello sport, più di quanto non lo fosse a ginnastica artistica. Le sue insegnanti avevano cercato in tutti i modi di convincerla a continuare, ma la sua eccessiva timidezza di ragazzina le logorava i nervi ogni volta che doveva esibirsi davanti a tutti. Era cambiata molto da allora ma se dal punto di vista caratteriale avrebbe potuto affrontare un saggio di danza, dal punto di vista fisico non si sentiva più una ballerina: non era più una figura magrissima e senza forme, specie da quando aveva iniziato ad allenarsi seriamente per il basket, il suo fisico era diventato più tonico e proporzionato. Manteneva l’eleganza di una ballerina classica ma con la sensualità di una giovane donna che stava crescendo.
Kim era assorta a pensare a quanto le aveva detto Erin, riconosceva che quest’ultima avesse ragione, non aveva senso tenere il muso a Dajan; sentiva che la veemenza che aveva animato i suoi sentimenti quella mattina stava scemando. La burrasca stava passando e quindi avrebbe dovuto trovare un modo perlomeno per chiarire la sua posizione, eppure… il suo orgoglio le impediva di farlo. Non era lei a dover fare il primo passo.
Soffiò infastidita, incrociando le gambe sulla panchina e, incurvandosi in avanti, appoggiò il mento contro il palmo della mano:
« pff… non che ne abbia tutta sta voglia » biascicò, mangiandosi le parole « se prima non è lui a chiedermi scu- »
La frase rimase incompiuta poiché la ragazza vide la figura minacciosa di Erin avanzare verso di lei: l’ombra scura del corpo della compagna si proiettò sulla velocista, che la guardava dal basso verso l’alto. La vide chinarsi verso di lei, avvicinare il suo viso al proprio e, fissandola dritta negli occhi, sibilare intimidatoria:
« ascoltami bene Phoenix » le sussurrò con un’espressione inquietantemente sorridente « la prossima partita sarà davvero dura, c’è in ballo la qualificazione per la finale, quindi non posso permettere ad una scaramuccia tra innamorati di compromettere l’esito finale. Io quel biglietto per Berlino lo voglio, è chiaro?  Tu adesso esci da questo spogliatoio, metti l’orgoglio sotto i piedi e cerchi di fare pace con Dajan »
La ragazza stava per protestare quando Erin riuscì a zittirla con un:
« se non vi chiarite, sappi che provvederò personalmente a informarlo di quello che hai detto l’altra notte nel sonno »
La cestista avvampò in preda all’imbarazzo, all’idea che il capitano fosse messo al corrente delle sue confessioni amorose notturne. Aver condiviso la stanza con la ragazza durante le trasferte aveva rilevato degli inconvenienti non trascurabili.
« volete anche dei pasticcini da consumare nell’attesa signorine? » tuonò la voce cavernosa di Boris, seguita da colpi violenti. Le due cestiste trasalirono spaventate e, quasi sbattendogli la porta in faccia, sfrecciarono in palestra, lasciando dietro di sé, i rimproveri irritati del loro spazientito allenatore.
 
« suppongo che la scelta del verde sia ottima se vogliamo tifare per gli avversari » considerò ironicamente Lysandre.
« allora tu cosa proponi in alternativa? » sbottò Lin, offesa per la sua proposta che veniva bocciata.
« e perché non scegliamo un colore fluo? Così si nota per bene! » propose Armin.
« non abbiamo un cartellone fosforescente » osservò Ambra, sbirciando il disegno che assorbiva totalmente Violet; fu Iris a distoglierla dal suo lavoro, interpellandola:
« tu Violet che dici? »
« che non ho ancora capito cosa dobbiamo fare » ammise candidamente l’artista, che stava ritraendo una natura morta, ispirandosi al centro tavola.
« se è per questo nemmeno io » sbadigliò Kentin, che era stato violentemente e prepotentemente sbalzato dal letto da un eccitatissimo  e rumorosissimo Alexy.
Quest’ultimo, autonominatosi direttore artistico, troneggiava sulla sua equipe, distribuita attorno al tavolo da pranzo del soggiorno di casa sua. Guardava quel gruppo eterogeneo di persone che era riuscito a riunire, a seguito di un’idea che gli era sorta prima di addormentarsi.
La sua cara amica Erin avrebbe giocato la semifinale non lontano da Morristown e ciò offriva agli amici l’occasione perfetta per tifare per lei. Sorprenderla con la loro presenza però non era abbastanza per un ragazzo esuberante e allegro come Alexy. In fondo, lui e Violet erano membri del club di disegno e un bel cartellone sarebbe stata un’idea grandiosa da realizzare; doveva solo capire come sfruttare le scarse doti artistiche di Kentin, Armin ed Iris, far collaborare l’asocialità di Violet, ed arginare l’impeto di Lin; tra tutti i ragazzi attorno a quel tavolo, erano solo due quindi quelli a cui il direttore artistico sentiva di poter fare completo affidamento; da un lato si sentiva rassicurato dalla diplomazia e autorevolezza di Lysandre che, con la serenità di un Dalai Lama, riusciva a ripristinare la pace all’interno di un’atmosfera conflittuale, dall’altro c’era quella che sperava diventare un giorno sua cognata, Ambra Daniels. L’esperimento di riunire quest’ultima, assieme all’amica Lin, attorno ad un tavolo, era stato un successo sul profilo sociale, ma non lavorativo: seppure le due si fossero inserite bene all’interno del suo gruppo di amici, otto teste pensanti erano decisamente troppe da controllare e dirigere:
« calma calma! » applaudì Alexy, attirando l’attenzione su di sé « per chi come Violet e Kentin non l’avesse ancora capito, ci siamo riuniti per fare una sorpresa alla squadra di basket del liceo: realizzeremo un cartellone! »
« e perché mi avete chiamato? Io sono negato per questo genere di roba » obiettò l’ex cadetto.
« mi serviva qualcuno che tenesse compagnia a mio fratello mentre lavoriamo » ammise il gemello « quando Armin viene lasciato in disparte, diventa irritante e petulante. Andate a giocare alla Wii » li liquidò, come se si stesse rivolgendo a due ragazzini.
« ehi! Mica ho bisogno del baby sitter! » protestò il moro.
« in sintesi io e Nuvola siamo inutili » riepilogò Kentin, indicando il pargolo a cui doveva badare.
La notizia dell’identità segreta di Armin era circolata rapidamente tra i suoi amici dopo che lui stesso ed Ambra, avevano raccontato ai presenti della serata precedente. Avevano omesso dettagli quali quanto quelle ore trascorse insieme fossero state piacevoli; Armin non aveva fatto alcun cenno alla visione estatica che aveva avuto davanti agli occhi la prima volta che aveva visto la secondogenita di casa Daniels scendere le scale con l’abito da sera. Nemmeno Ambra aveva menzionato l’ammirazione che il ragazzo era riuscito a suscitare in molte persone che aveva conosciuto quella sera, lei per prima, grazie alle sue prodigiose conoscenze informatiche. Custodivano entrambi il ricordo di quell’evento, sapendo che presto, tanto Alexy, quanto Lin, artefici di quell’incontro, avrebbero vantato quel ruolo per appropriarsi del diritto di ricevere maggiori dettagli.
« a proposito » affermò Ambra, voltandosi verso Armin « non mi hai ancora spiegato perché sei entrato nei computer della Daniels » domandò, allungando la gomma che Violet cercava di recuperare silenziosamente, dall’altro capo del tavolo. Suo padre quella mattina le aveva chiesto se il suo amico sarebbe stato disponibile ad un incontro in uno dei prossimi giorni. Quella proposta l’aveva spiazzata al punto che, da gran calcolatrice qual era, Ambra aveva preferito prendere tempo: aveva inventato una scusa, sostenendo che il moro fosse molto preso con lo studio, anche se per uno svogliato come lui, era una bugia in piena regola.
Prima avrebbe scoperto quali fossero le intenzioni del padre e poi avrebbe valutato se informare il ragazzo di quell’interesse che Gustave Daniels nutriva verso di lui.
« volevo vedere l’anteprima di The Hook » borbottò l’hacker, incrociando le mani dietro il capo ed esibendo un sorrisetto soddisfatto.
« il videogioco che abbiamo lanciato l’anno scorso? »
Armin annuì, mentre Lysandre sollevava gli occhi al cielo, ma fu Ambra ad esternare il pensiero del poeta:
« e tu ti sei messo ad hackerare i computer aziendali solo per avere qualche immagine in anteprima? Ti rendi conto di quello che sarebbe successo se ti avessero scoperto? »
« una multa? » ipotizzò il moro per nulla impressionato.
« può costarti il carcere una cosa del genere! In tribunale figurati se avrebbero creduto alla tua storiella del videogioco. Avrebbero pensato che volevi rubare qualche dato sensibile » lo redarguì la bionda, con una punta di preoccupazione per l’incoscienza dell’amico.
« ma era davvero per il videogioco! » si difese il ragazzo, sorpreso da quell’accusa.
« noi ti crediamo, perché sappiamo che sei tutto scemo, ma i giudici non credo » tagliò corto Ambra. Non sapeva se trovava l’ingenuità di quel ragazzo più infantile che irritante. Si rivolse poi ad Alexy, ignorando completamente l’altro gemello:
« allora iniziamo? Che avevi in mente? » esclamò impaziente.
« ehi ehi, aspetta un po’ Daniels! » la richiamò il moro offeso per la poca grazia con cui veniva scaricato « come sarebbe a dire che sono tutto scemo? Ieri non mi sembravi così velenosa » la stuzzicò, sorridendo malizioso.
Ambra non fece una piega, anche se non potè impedire alle sue gote di tingersi di rosso:
« Nuvola… evapora » e gli fece cenno con la mano di allontanarsi.
I ragazzi sogghignarono mentre Armin, indispettito, raggiungeva il divano, dove sprofondò, seguito da Kentin. Gli passò un joystick, mentre cominciava ad elencare la vasta raccolta di videogame offerti dalla casa:
« ok » commentò Alexy, sollevato dal fatto che, con le doti manageriali di Ambra, il progetto potesse prendere avvio « ora Violet, sulla base delle idee che tireremo fuori, abbozzerà un disegno »
« quindi questo manifesto lo portiamo alla partita della prossima settimana? » indagò il membro più giovane del gruppo.
« se riusciamo a finirlo per tempo sì » convenne Alexy.
« allora che aspettiamo a metterci all’opera? » li esortò energicamente Lin, tirandosi su le maniche. Quando Ambra e i gemelli si erano presentati al ristorante, ci aveva messo qualche secondo prima di realizzare che avrebbe collaborato a quel progetto. Dopo anni trascorsi in solitudine con l’amica e con Charlotte, Lin sentiva il bisogno di espandere il suo giro di amicizie e negli ultimi due mesi quel suo desiderio era stato soddisfatto.
« mi fa piacere che tu abbia accettato di aiutarci » le disse Iris, sorridendole amichevolmente.
« beh, disegnare non mi dispiace » mormorò la cinesina, un po’ in imbarazzo.
« diciamo le cose come stanno » scherzò Alexy « lo fai anche per un giocatore in particolare »
« senti senti » squittì la rossa eccitata, mentre Ambra sorrise divertita, essendo già al corrente della situazione sentimentale dell’amica: da ormai un paio di settimane, usciva regolarmente con Liam, l’ala piccola della squadra di basket e compagno di classe di suo fratello Nathaniel:
« vogliamo cominciare o restiamo qui fino a domani? » borbottò Lin in difficoltà, cercando di sopire l’imbarazzo che le aveva arrossato le gote. Anche se si dimostrò leggermente irritata, quell’interesse e complicità che si erano creati attorno a quel tavolo di amici, l’avevano fatta sentire meravigliosamente ben accetta.
 
Una volta in palestra, Erin fece cenno a Kim di avviarsi verso Dajan.
« e che palle Erin! » sbuffò la ragazza. La mora sorrise malefica e chiamò ad alta voce:
« Dajan! »
Mentre l’ex velocista avvampava, il capitano si voltò verso la cestista più bassa della squadra e la osservò con interesse:
« che vuoi Travis? »
Quell’abitudine di chiamare i compagni per cognome sfociava solo quando Dajan era davvero nervoso. Non riusciva ad astenersi dall’usare un tono piccato e scontroso, totalmente insolito in una persona misurata e gentile come lui. Erin guardò la compagna, che sembrava voler sfidare la sua tenacia: Kim infatti la fissava severamente, evidentemente voleva saggiare la sua determinazione e verificare se davvero Erin avrebbe avuto il coraggio di portare a termine la sua minaccia.  Quest’ultima non manifesto alcun segno di indecisione e proseguì:
« volevo dirti che l’altra nott- » ma Kim le diede una pacca sul capo, facendole pure un po’ male:
« d’accordo Cip, hai vinto tu. Ci parlo, contenta ora? » sputò, irritata.
Come il soprannome che le aveva attribuito Castiel fosse giunto anche alle orecchie della sua squadra, ad Erin non era chiaro. Certo era che ormai i ragazzi si erano talmente affezionati a quel nomignolo che quasi non la chiamavano più con il suo nome di battesimo. Sorrise trionfante, guardando l’amica avvicinarsi incerta al capitano.
« che volevi dire a Dajan? » s’incuriosì Trevor, sedendosi in equilibrio su un pallone. Fissò Erin dal basso verso l’alto, mentre lei gli spiegò:
« ah niente, una balla che mi sono inventata che costringere Kim a fare pace con lui »
« a quanto pare ha funzionato » osservò la guardia, compiaciuta.
L’amica infatti si era accucciata a terra, a livello del capitano che era impegnato in un esercizio di allungamento:
« senti, per ieri… » stava dicendo la mora.
« non c’è altro da dire Kim » tagliò corto Dajan, toccando la pianta del piede e mantenendo la tensione muscolare « tra cinque giorni abbiamo una partita da vincere, è stupido da parte tua perdere tempo con queste sciocchezze. Vai dove vuoi, mica ti obbligo a fare una scelta diversa »
Lui non si degnava nemmeno di guardarla in faccia, trattandola come se fosse una sciocca che si perdeva in discussioni frivole. Quella risposta sgarbata la gonfiò come il tacchino che preparava sua madre il giorno del Ringraziamento: alzò le spalle, inalò aria nei polmoni e si preparò a rispondergli per le rime, quando Boris richiamò a sé il ragazzo. Kim fu quindi costretta a trattenersi, mentre il ragazzo si allontanava da lei. Non c’era possibilità di dialogo, anche se lei aveva tentato di mettere da parte l’orgoglio. Tornò da Erin, giusto in tempo per sentire Trevor che commentava divertito:
« Erin Travis che conta balle… hai anche tu allora uno spiritello malefico »
« ho avuto un buon maestro come Lysandre » convenne « è abilissimo a farti credere una cosa per un’altra, per convincerti a fare quello che vuole lui »
Trevor alzò gli occhi e, sorridendo ancora di più, aggiunse:
« credo Cip che tu debba prendere qualche altra ripetizione dal tuo amico »
« che intendi? »
« beh, dubito che lui si faccia sgamare così facilmente » ridacchiò il cestista, indicando il viso furente di Kim. Erin si voltò meccanicamente, sbiancando appena vide gli occhi iniettati di sangue della compagna, che ruggì:
« fammi capire Travis » scandì, mentre la palpebra sinistra cominciò a traballarle per l’irritazione « quella della frase detta nel sonno era tutta una balla? »
« detta a fin di bene » patteggiò Erin, ridendo nervosamente e indietreggiando istintivamente.
« spero che la corsa a bordo campo non ti abbia affaticato troppo… perché te ne servirà di fiato per sfuggirmi » ringhiò l’altra e, dopo aver avanzato minacciosa di qualche passo, partì all’inseguimento della sua compagna di squadra.
« oh, proprio così ragazze! » commentò orgoglioso Boris dalla panchina « non vi ho mai visto correre così velocemente! »
 
La sfera volò in aria, contesa tra le braccia di Julius Lanier e Isiah Reed. Fu il capitano a spuntarla, strappandogliela per un soffio:
« ne hai ancora di strada da fare Reed prima di battermi in elevazione » sogghignò Julius, palleggiando sicuro di sé verso il canestro:
« che non scambierei mai per la mia precisione di tiro » puntualizzò il compagno, partendo all’inseguimento. Lanciò un’occhiata fugace a Melanie: era già in posizione dietro al capitano, invisibile come sempre.
Mentre la sfera veniva ritmicamente battuta contro il pitturato dalla mano esperta di Lanier, la numero 8 allungò la propria, intercettando la traiettoria: la palla gli sfuggì, finendo direttamente alla miglior guardia del torneo, che con un’espressione trionfante, lo sfotté:
« non ti serve a nulla conquistare la palla se poi non sai tenertela »
« fa’ meno il saputello Reed » lo redarguì Lanier, irritato « che hai sempre Green che ti dà la pappa pronta »
Dal bordo campo, l’allenatore della Saint Mary assisteva in silenzio all’allenamento dei suoi ragazzi. Aveva le braccia conserte e un’espressione metadibonda. Come sempre, era sulla triade divina che si concentrava la maggior parte del gioco. Mitch, Dolph, Denzel, Ed, Neal, Hector e Gavin si limitavano a correre su e giù per il campo, aspettando di ricevere una palla che difficilmente sarebbe arrivata.
« impareranno mai a fare gioco di squadra? »
L’allenatore si voltò verso la figura femminile seduta accanto a lui: aveva i capelli raccolti in una crocchia disordinata, che le enfatizzava la mascella squadrata, impegnata a masticare sonoramente una chewing-gum.
« se non c’è riuscito uno come Boris a farglielo capire, dubito che succederà Paula » replicò l’uomo, facendo un cenno al gruppo di giocatori impegnati con la stretching di passare agli allenamenti con i palloni:
« ringraziamo il cielo che finora questo non ci ha penalizzato. Tuttavia mi preoccupa il fatto che affronteremo la Atlantic perché »
« loro hanno Boris e lui conosce tutti i nostri punti deboli » completò l’uomo.
« già. Mi chiedo se è per questo che oggi sono più combattivi del solito » mormorò la donna. Dall’altro capo non le arrivò nessuna risposta, se non dopo parecchi minuti di silenzio:
« che hai detto Paula? » domandò l’allenatore voltandosi verso di lei. Era distratto dalla partita che si stava svolgendo sul campo e non aveva seguito le ultime parole della sua assistente:
« che mi sembrano più determinati oggi, o sbaglio? Tu Randy non vedi alcuna differenza? »
Randy si barricò in una personale e silenziosa riflessione, al termine della quale, esternò:
« credo che, per la prima volta da quando è iniziato il torneo, si siano resi conto che la vittoria non sarà scontata »
 
Erin continuava a lanciare occhiate gelide alla compagna, mentre era impegnata ad allungarle la schiena in avanti:
« la pianti di guardarmi così? » sbottò Kim, infastidita « e soprattutto, non tirarmi così tanto! Mi farai fare uno strappo! »
« con il vostro atteggiamento, state creando tensione in squadra! » la rimproverò la mora, esagerando con lo stiramento ed estorcendo alla cestista un verso lamentoso.
« i fatti personali rimarranno fuori dalla partita, stanne certa » le assicurò Kim, liberandosi in malo modo dalla presa della compagna. Erin sbuffò, mentre Trevor e Steve, impegnati in un analogo esercizio di stretching, s’intromisero:
« eddai Cip, smettila di tenere il muso. Si chiariranno vedrai » la consolò Steve.
« Dajan non è così stupido da deconcentrarsi durante la partita per una cosa del genere » aggiunse Trevor.
« e comunque non è con i tuoi mezzucci alla Lysandre che otterrai una riappacificazione » chiarì Kim, che ancora serbava del leggero rancore per essere stata beffata.
« Lysandre? Quel tizio losco che stava sempre con Castiel? » domandò Steve.
« non è losco! » lo difese prontamente Erin, accantonando il malumore per il fallimento della sua missione.
« beh, qualcuno dovrebbe dirgli che non siamo più nell’Ottocento » convenne Trevor conciliante.
« ma lui è fatto così… è eccentrico, ma perché dici che è losco scusa? » s’impuntò la mora, indirizzando la sua irritazione verso Steve. Il commento del ragazzo l’aveva indisposta, facendola scattare sulla difensiva; era molto affezionata al poeta, come del resto a tutti i suoi amici, e non riusciva a sopportare commenti negativi su di loro.
« quindi sei sua amica? » aggirò il cestista, evidentemente sorpreso. Erin annuì, mentre Steve proseguiva:
« beh, ce l’ho avuto in classe il primo anno, poi mi hanno cambiato di sezione… comunque mi ricordo che era sempre silenzioso, asociale, non riuscivi mai a capire cosa pensasse realmente. Quelle poche volte che parlava, se ne usciva con frasi enigmatiche, difficili da interpretare… non scaldarti Cip, ma se devo essere sincero, l’ho sempre trovato un po’ subdolo e non ho mai capito come Castiel riuscisse ad andarci così d’accordo »
Erin rimase spiazzata per quell’opinione, specie perché proveniente da uno dei cestisti con cui più aveva legato, che considerava pure molto maturo e riflessivo.
« beh, adesso non esagerate Steve! » borbottò Trevor divertito, alleggerendo la tensione « quando c’era Cas, ho parlato un paio di volte con Lysandre, non era poi così chiuso e misterioso come dici »
Il compagno scrollò le spalle e commentò:
« è solo la mia opinione, non ho mai avuto tante occasioni per parlarci e di certo non negli ultimi quattro anni, dopo che ho cambiato classe. Non so praticamente nulla di lui… anche sulla sua famiglia c’è una sorta di… mistero »
Erin lo fissò interrogativa, obiettando:
« che mistero? »
Steve fece spallucce e la liquidò:
« non so praticamente niente Erin, che cosa posso dire? Pare che i suoi non vivano con lui e la sorella »
La mora ricacciò dentro la frase che avrebbe voluto dire. Conosceva quella situazione, era stato Lysandre stesso, qualche mese prima, a raccontarglielo. Lui e Rosalya non avevano mai conosciuto i genitori, vivevano con i nonni materni ma Erin non sapeva altro. Era già capitato più volte che i due fratelli fossero andati a trovarla nel suo appartamento, ma mai il contrario.
Kim nel frattempo aveva seguito solo marginalmente quei discorsi. Anche se ostentava irritazione verso il comportamento del capitano della Atlantic, in cuor suo era preoccupata. Dajan era ostinato a non voler tornare sull’argomento e l’idea di supplicarlo la innervosiva terribilmente, perché troppo scostante dal suo carattere.
Anche Erin aveva smesso di seguire il dialogo tra i due ragazzi, che erano passati a parlare dell’ultima partita di football. Quello che le aveva detto Steve, l’aveva un po’ turbata: Lysandre era decisamente il più riservato tra i suoi amici, quello di cui conosceva meno lati in assoluto. A dispiacerle era sentire la scarsa opinione che avesse di lui uno come Steve, che aveva un carattere adorabile. Si chiese se in classe, il poeta, analogamente alla sorella, non avesse allacciato alcun rapporto con i suoi compagni, isolandosi nel suo mondo.
Eppure era un ragazzo d’oro, uno dei migliori che avesse mai conosciuto e quel pregiudizio legato al suo carattere chiuso e schivo, era ingiusto; Lysandre non era subdolo, anche se, doveva riconoscerlo, in passato aveva beneficiato lei stessa della sua intelligenza calcolatrice, poiché aveva permesso di far esibire Nathaniel e Castiel insieme, oltre che organizzarle una festa a sorpresa per il suo compleanno.
« ERIN! » ripetè spazientita Kim, facendola sobbalzare.
« che c’è? »
« Boris ti sta chiamando, sei diventata sorda? »
La cestista si voltò, incrociando l’espressione accigliata del suo coach che batteva freneticamente il piede contro il suolo della palestra, ricordandole il coniglietto del film Bambi, ma nello sguardo del coach, non c’era alcuna parvenza della dolcezza di Tippete.
 
In casa Evans, due persone mancano all’appello degli iniziali otto ragazzi che avevano aderito all’iniziativa del cartellone: pochi minuti prima, Iris aveva ricevuto una telefonata dalla madre, al termine della quale, evidentemente indispettita e contrariata, la rossa aveva annunciato di doversi congedare dagli amici, per badare al fratellino Adam.  Kentin, in quel momento, si era lamentato per l’ennesima sconfitta collezionata contro Armin che l’aveva sfidato al suo videogioco preferito:
« allora Kentin, per non perpetuare la tua umiliante disfatta » aveva convenuto Lysandre « accompagna tu a casa Iris, così passi dal cartolaio davanti alla stazione e ci vai a prendere la colla »
« ditelo allora che mi avete preso come facchino » commentò amaramente il ragazzo, il cui contributo per il cartellone era stato pari a zero.
« grazie Kentin » gli sorrise candidamente Violet, mettendolo in difficoltà con il suo innocente e sincero candore. Il ragazzo aveva borbottato qualche frase confusa, per poi lasciare casa Evans assieme ad Iris.
Dopo un paio di minuti dalla loro uscita però, Alexy esclamò:
« aspetta Lys, ma è quasi mezzogiorno! Quando Kentin arriverà in cartoleria, sarà già chiusa »
Ambra sorrise divertita tra sé e sé, staccando per un attimo gli occhi dalla scritta “FORZA ATLANTIC” e cercò lo sguardo del poeta, trovando sul viso di quest’ultimo un’espressione smaliziata. Lysandre infatti, impegnato a cancellare un tratto a matita, sorrise sardonico e replicò placidamente:
«lo so »
 
« sì Adam, sto arrivando. Tu sta buono e guarda la TV. Se fai il bravo ti compro l’ovetto Kinder » patteggiò la sorella al telefono.
Seguì un’affermazione convinta ed Iris sorrise, riagganciando.
« quindi che lavoro fa esattamente tua madre? » incalzò Kentin, calciando un sassolino innocente ai suoi piedi. Stavano camminando lungo un viale alberato che si trovava in una delle zone residenziali più curate di Morristown. Quel giorno di metà febbraio c’era un sole caldo, nonostante il rigido clima invernale e un cielo azzurro come i capelli di Alexy.
Il rapporto tra i due, nelle ultime settimane, si era assestato ad una pacifica convivenza. Non c’era una grande intesa tra di loro, anzi, le poche occasioni in cui rimanevano soli erano per lo più fonte di disagio e di brevi dialoghi frammentari. Kentin percepiva da parte di Iris una sorta di reticenza nei suoi confronti, quasi un timore ad avvicinarsi troppo a lui. La vedeva scherzare allegramente con Armin, con cui andava particolarmente d’accordo, e si chiedeva che cosa mancasse a lui per raggiungere quel grado di complicità.
« impiegata » gli aveva risposto laconica la ragazza, senza fornire ulteriori dettagli.
Lui annuì, ricercando altri argomenti di conversazione che, per sua disgrazia, non trovò.
Continuarono così a camminare in silenzio, finché non arrivarono in prossimità della stazione dei treni:
« allora vado a prendere la colla, così poi torno dagli altri » la informò Kentin.
Solo allora Iris sentì l’impulso di dire qualcosa; era stata fin troppo silenziosa, annoiando sicuramente il moro. Non poteva lamentarsi del fatto che le sue amiche fossero delle ragazze molto più interessanti di lei, se lei per prima non faceva alcuno sforzo per risultare una persona gradevole; d’altronde, quella strana sensazione che suscitava in lei Kentin non era colpa del ragazzo, era una questione di chimica tra di loro: non riusciva a capire se tra di loro ci potesse essere una reazione o se fossero come due sostanze inerti l’una per l’altra.
« d’accordo, comunque devo passare davanti alla cartoleria per andare al supermercato » gli indicò la rossa, puntando l’indice verso un’insegna vistosa. Ci misero poco a raggiungere la destinazione di Kentin e ancora meno a realizzare che il ragazzo non avrebbe potuto adempiere alla sua commissione:
« e che cazzo, hanno già chiuso? » si lamentò.
« è mezzogiorno passato. Forse avremo dovuto sbrigarci » considerò ingenuamente Iris.
Il moro digitò velocemente un messaggio ad Armin, in cui gli comunicava l’insuccesso della sua missione.
La risposta non tardò ad arrivare, concomitantemente alla vibrazione del cellulare:
« che scemo » ridacchiò tra sé e sé l’ex cadetto, mentre Iris lo guardava con curiosità.
Il moro le sorrise leggermente, allungandole lo schermo del cellulare. La rossa, leggendo a voce alta, recitò:
« allora soldato Affleck è congedato. Riposo. Ci vediamo domani »
Ghignò a sua volta, tornando a fissare il suo interlocutore:
« ormai il cartellone è finito, si arrangiano loro a ultimare i dettagli »
« diciamo che il mio contributo è stato alquanto limitato »
« no dai, ci hai tenuto buono Armin » ridacchiò Iris « credimi se ti dico che la manualità di quel ragazzo è una calamità naturale… ma è anche per quello che è così simpatico »
Avevano ripreso a camminare, trovandosi di fronte al supermercato. Erano talmente assorbiti dalla conversazione che entrarono nel negozio assieme, anche se non era l’intento iniziale di Kentin:
« già, anche se non capisco come faccia ad essere sempre allegro »
« è un mistero anche per me che sono sua amica da quattro mesi » riconobbe, prendendo un carrello e spingendolo lungo il reparto dei biscotti.
« solo quattro mesi? Pensavo molto di più! »
« beh, è cominciato tutto da quando Erin è arrivata questo autunno… ma aspetta » realizzò Iris « non sei obbligato ad accompagnarmi. Scusami sono entrata senza neanche pormi il problem- »
« se è per questo manco io ci ho fatto caso. Mi fa piacere » borbottò lui « mi dicevi di Travis… »
Iris sistemò la tracolla dentro il carrello mentre tornava a raccontare:
« prima di lei ognuno di noi stava per i fatti suoi »
Erano arrivati davanti allo scaffale con i prodotti per la colazione. La cliente si allungò sulle punte nel tentativo di afferrare i biscotti che sua madre adorava. Maledisse i commessi che posizionavano sempre troppo in alto quel pacco, costringendola a tendere ogni muscolo del suo corpo nel tentativo di raggiungerlo.
Dopo un paio di secondi, vide un braccio passare con disinvoltura sopra la sua testa, allungandosi fino ad arrivare al suo obiettivo.
Kentin raccolse la confezione e gliela porse in silenzio, mentre lei riviveva una sorta di déjà-vu: era così che si erano conosciuti la prima volta, durante le vacanze natalizie, in biblioteca. In quell’occasione il ragazzo le era sembrato così affascinante, sicurò di sé e gentile. Quell’aria intellettuale l’aveva profondamente impressionata ma quando se l’era ritrovato in classe, aveva scoperto in lui dei lati che l’avevano lasciata disorientata, in primis il suo trascorso all’accademia militare. Inoltre, nonostante l’incredibile predisposizione per la letteratura e una certa scioltezza linguistica, Kentin non esitava a esprimersi con espressioni poco fini e le sparate un po’ grezze con cui ogni tanto strappava qualche sorriso ai suoi amici, ricordandole Castiel. Secondo Iris, nell’ex cadetto si erano venute a concentrare delle contraddizioni, degli aspetti incompatibili gli uni con gli altri, come se in lui coesistessero due persone diverse. Si sentiva attrarre da quella più sensibile e respingere da quella più virile.
Kentin nel frattempo, dimostrando un notevole interesse per l’argomento che stavano trattando, proseguì:
« quindi è stata Erin a riunirvi tutti? »
La ragazza sistemò il pacco nel carrello e replicò:
« sì, la prima settimana dopo il suo arrivo eravamo io, lei e Violet, poi una volta Lysandre è venuto a restituirle un quaderno e lei l’ha invitato a pranzare con noi. Da lì si è aggiunto Castiel, il ragazzo che ci senti nominare di continuo »
« quello che manda sui nervi Rosalya? »
« esatto. Poi mi pare che si sono aggiunti i gemelli e anche Rosa, che è stata la più tosta da convincere, si è aggregata a noi. Devi sapere che fino all’anno scorso, lei, il fratello, i gemelli e Castiel erano molto amici ma poi hanno litigato di brutto e si sono separati»
« perché hanno litigato? »
« è una storia lunga » lo liquidò Iris « l’importante è che ora si siano riappacificati »
« e tutto grazie a Travis? » chiese retorico, con una punta di scetticismo, ma Iris affermo risoluta:
« secondo me sì… il fatto è che lei ha la capacità di farsi voler bene dalle persone. Credo che Erin rappresenti l’unico punto di accordo tra Castiel e Rosalya, dal momento che entrambi la adorano »
« ma scusa, questo tizio non è quello che non la chiama mai da quando è in Germania? » obiettò il moro.
« lo so, però se li avessi visti insieme, capiresti cosa intendo » commentò la ragazza, facendogli l’occhiolino. Quel sorrisetto furbetto non era da lei che se ne accorse subito. Si stupì lei per prima che le fosse venuto così spontaneo approcciarsi a Kentin. Forse era merito di quell’argomento che le stava così a cuore: anche se l’amica non ne aveva più parlato, Iris sapeva quanto ad Erin mancasse l’amico ed era convinta che, nonostante il suo silenzio, anche Castiel ne sentisse la nostalgia.
Cominciò a scegliere con cura delle mele renette, mentre il suo interlocutore la scrutava piacevolmente sorpreso: c’era una strana armonia tra di loro, come aveva sempre sognato che fosse.  
« ricordati l’ovetto per tuo fratello » le rammendò, vedendo uno stand di cioccolatini accanto alle casse.
« ne vuoi uno anche tu? » lo schernì Iris, mettendosi in coda. Si sporse verso l’espositore, da cui prelevò il dolcetto per Adam.
« quasi quasi » confessò il ragazzo. La rossa allora, senza scomporsi, ne aggiunse un altro al carrello, mentre Kentin borbottava:
« maddai, stavo scherzando! »
« se non lo vuoi tu, allora me lo mangio io e ti lascio la sorpresa »
« mi hai preso per un bambino? »
Iris sorrise divertita e sistemò sul nastro mobile gli articoli che aveva acquistato.
« oh caspita! Devo prendere anche l’acqua! » esclamò, vedendo delle confezioni da sei bottiglie esposte a poca distanza. Il ragazzo allora si offrì di recuperargliele al posto suo, mentre lei ultimava di sistemare la spesa. Si trovò a pensare quanto, a discapito dei suoi modi a volte un po’ rudi, Kentin con lei fosse sempre gentile e premuroso.
La fila era proceduta spedita e ben presto fu il turno della ragazza; la commessa le chiese se aveva la tessera del supermercato e la cliente esclamò:
« oddio, che scema! Sì aspetti un attimo » e cominciò a frugare nella borsa, alla ricerca della card che avrebbe già dovuto tenere in mano. Buona parte degli articoli che aveva scelto erano in offerta se acquistati con la carta fedeltà di quella catena.
Dopo un minuto di infruttuosa ricerca, sbuffò arrendevole. Era sempre la solita sbadata, l’aveva dimenticata a casa nonostante le raccomandazioni della madre di tenerla nel portafoglio. Quello sarebbe stato l’ennesimo pretesto per un litigio ma non era il momento di preoccuparsi per quello:
« vuoi la mia? » le propose Kentin, allungandole una tessera identica a quella che cercava.
Rimase spaesata da quella proposta mentre l’annoiata commessa incalzava:
« può usare quella del suo ragazzo, non ci sono problemi »
« sì sì, d’accordo… cioè no, non è il mio ragazzo! » farfugliò in preda all’imbarazzo, mentre il palmo sollevato verso l’alto della commessa istigava Kentin ad affrettarsi a consegnarle la tessera. Per quello che la riguardava, il moro poteva anche essere il genio delle Tartarughe, alla donna interessava solo ultimare quel conto e dichiarare finito il suo turno del mattino.
 
Uscendo dal supermercato, poiché il ragazzo si era offerto a trasportare la confezione di bottiglie, Iris si premurò:
« lascia almeno che porti la borsetta con la frutta »
« naa, non preoccuparti » minimizzò lui « mi chiedo solo come pensassi di fare da sola a portare tutta questa roba »
« non sono così debole come sembro » si difese la rossa con orgoglio.
Continuarono a camminare, scherzando e parlando del più e del meno, come entrambi avevano sempre desiderato fare. Era scattato qualcosa quel giorno, senza che fosse accaduto nessun evento in particolare, che li aveva messi in una condizione di essere se stessi, specie Kentin che accanto a Iris finiva sempre per innervosirsi e dire qualcosa di sbagliato.
« oggi a pranzo che mangi? » gli chiese.
« boh, vedrò quando arrivo a casa. Mia madre dovrebbe avermi lasciato dell’arrosto di ieri » commentò con scarso entusiasmo.
« neanche tua madre è a casa oggi? »
« no, è con mio padre in ospedale a New York »
« in ospedale? » si preoccupò Iris.
« sì, si è ferito durante un’esercitazione »
Poiché l’espressione interrogativa della ragazza non accennava a dileguarsi, il moro precisò:
« ah, forse non te l’ho mai detto: mio padre lavora nel centro di addestramento militare di Allentown. L’altro giorno un cadetto ha maneggiato male un M16 e ha finito per ferire ad una gamba mio padre e ad un braccio un altro ragazzo »
Non gli giunse risposta da Iris, se non dopo parecchi secondi di silenzio:
« mi spieghi che gusto ci troviate voi uomini nell’andare in guerra? »
Aveva un tono severo, quasi recriminatorio che spiazzò il ragazzo. Proprio quando si era convinto che tra di loro ormai ogni attrito fosse definitivamente smussato, ripiombava un clima di tensione. Tuttavia, diversamente dal solito, in quella circostanza non si sentiva intimidito o in difficoltà: quello era un argomento che era abituato a trattare, specie durante gli anni dell’accademia:
« non è una questione di trovarci gusto Iris. È per la sicurezza del paese »
« non sarebbe necessario se tutti gli stati rinunciassero ad avere un esercito » considerò la ragazza, storcendo il labbro inferiore.
« il problema è che nessuno lo fa » convenne Kentin, indulgendo sulla visione semplicistica di Iris .
« ma tu perché ti sei iscritto all’accademia militare? Vuoi davvero diventare un ufficiale? »
Formulò quella domanda con una punta di apprensione, come se il futuro del ragazzo fosse una questione che la riguardasse in prima persona:
« il fatto che ora frequenti un liceo pubblico non ti fa desumere che non sia più così? » osservò lui con un sorriso conciliante.
Quella contro battuta la zittì: si sentì una sciocca per avergli posto quel quesito, quando la risposta era così ovvia. Detestava fare la figura della stupida, ma se ne accorgeva sempre quando era troppo tardi.
Kentin però era lusingato dall’interesse che la rossa gli stava mostrando; c’era sì una sorta di scontro tra di loro in quel momento, ma sentiva di poter sostenere quella conversazione, di difendere la sua posizione. Quella poteva essere proprio l’occasione giusta per aprirsi con lei, raccontarle qualcosa di lui che li avrebbe fatti sentire più vicini l’uno all’altra:
« vedi, il fatto è che fino a qualche anno fa ero un ragazzino senza spina dorsale, debole e insicuro. Per mio padre era quasi un insulto avere un figlio del genere » le confessò il moro ridacchiando.
Non ci trovava niente di comico in quello che le stava rivelando, ma quella risata nervosa gli serviva per stemperare l’imbarazzo. Sperò che Erin non avesse raccontato ad Iris troppi dettagli del suo passato alle medie, in particolare della scarsa considerazione che avevano di lui i suoi compagni di classe. Se avesse potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe scrollato con violenza quel penoso Ken rammollito, ordinandogli di smetterla di autocommiserarsi e di cercare l’approvazione di persone che lo consideravano meno di zero.
Era sempre stato un ragazzo buono, di quelli di cui ricordarsi durante i compiti in classe e dimenticarsi durante il resto della giornata. Non era mai riuscito ad avere dei veri amici, le uniche sue consolazioni derivavano dalle volte in cui Sophia, la sorella di Erin, cercava di spronarlo ad essere più sicuro di sé. Erano in quelle occasioni che non si sentiva solo e abbandonato. La ragazzina si infervorava con lui, cercando di farlo reagire alla sua stessa passività, ma non c’era mai riuscita. In alcune occasioni, mentre tornavano in autobus, passava tutto il tragitto a discutere con lui su quel tema e solo con la gentilezza di Erin, riusciva a sedare la veemenza della gemella. Era proprio per i modi concilianti della mora che lui un po’ se ne era innamorato all’epoca.
Guardando al passato, Kentin realizzò che la persona che disprezzava più di tutti il Ken del passato fosse il Kentin del presente.
Era solo grazie alla consapevolezza di essere tanto maturato che quel giorno, con Iris accanto, si sentiva libero di aprirsi, essere sincero e spontaneo:
« l’accademia è stata una palestra in tutti i sensi, ma soprattutto di vita: è stato durissimo ambientarsi, certi ragazzi che ho incontrato avevano dentro talmente tanta rabbia e frustrazione che le sfogavano sugli altri… e diciamo che ero abbastanza mingherlino da rappresentare un facile bersaglio »
Ancora una volta quella risata imbarazzata. Non riusciva a trattenerla, come del resto non riusciva a porre un freno a quelle confessioni che negli ultimi anni aveva tenuto per sé:
« l’accademia imponeva loro una disciplina, delle regole… concetti a loro del tutto estranei mentre per me il problema era l’esatto opposto: ero fin troppo educato, remissivo, non riuscivo a tirare fuori il carattere »
« e allora come sei riuscito a cambiare? È successo qualcosa di particolare? » soggiunse Iris.
Aveva abbandonato completamente la diffidenza con cui si era espressa poco prima. Per la prima volta in vita sua, voleva sapere qualcosa di più di quell’ambiente che aveva sempre detestato, ma soprattutto, voleva conoscere quello strano ragazzo che stava camminando accanto a lei:
« no, è stato un percorso graduale » puntualizzò lui « un giorno ti accorgi che non sei più l’ultimo a finire l’esercizio e questo ti regala una piccola ma importante gratificazione. La settimana dopo riesci a completare la corsa del campo senza stramazzare al suolo, sette mesi vinci la gara di resistenza… sono tutti piccoli passi, ma che messi insieme, l’uno davanti all’altro, ti portano ad allontanarti da ciò che eri, per diventare ciò che hai sempre voluto essere. L’accademia mi ha insegnato che nella vita bisogna saper strisciare sul fango e stringere i denti se vuoi arrivare al traguardo.
All’inizio, appena mio padre mi obbligò a iscrivermi lì ero disperato ma ora, a distanza di più di tre anni, non posso che essere grato all’accademia per il percorso che ho fatto. Non si può cambiare la propria vita se si continua a fare le stesse cose »
« e allora perché hai mollato tutto? »
Quella domanda le uscì come un sussurro: il racconto del ragazzo l’aveva colpita, fornendole una prospettiva totalmente diversa dell’ambiente di suo padre. Il generale Levine si era sempre riempito la bocca di altisonanti termini quali “senso dell’onore” e “disciplina”, ma in lei suscitavano solo insofferenza.
Con Kentin era stato diverso.
Lui le aveva parlato con trasporto di quell’esperienza, quasi con lo stesso ardore con cui il primo giorno di scuola aveva illustrato la sua opinione circa il romanzo di Madame Bovary. C’erano sentimenti ed emozioni nel suo modo di esprimersi e lei non poteva che esserne rimasta affascinata.
Lo vide chinarsi a terra, a raccogliere una chiocciola finita sul marciapiede e spostandola sulla ringhiera accanto a lui. Mentre Iris assisteva in silenzio a quella scena, lui finalmente rispose alla domanda che gli aveva posto:
« il mio mondo non è quello militare Iris »
Che cosa si nascondesse dietro il suo sorriso, la rossa non riuscì a capirlo: avvertiva come una sorta di intesa, di complicità che lei doveva cogliere. Era come se si aspettasse che lei fosse già al corrente di quella parte di lui che teneva preclusa al resto delle persone.
I libri.
Ecco qual era il suo mondo, lo stesso mondo in cui si erano incontrati la prima vola.
« è la letteratura, è quella la mia vera inclinazione » confermò Kentin « e non immagini le discussioni che ho con mio padre per questo »
« lui vorrebbe che diventassi un ufficiale? »
« già. Non l’ha presa bene quando gli ho detto che avrei mollato l’accademia, anche perché gli insegnanti cominciavano a dirsi molto soddisfatti di me » precisò, omettendo che qualche mese prima era stato dichiarato il migliore del suo anno « ero soddisfatto di ciò che ero diventato ma ho capito che avevo ricevuto abbastanza da dover cambiare pagina; sì è vero, non sono più la stessa persona che è entrata lì dentro quattro anni fa, ma non ho rinnegato totalmente la mia personalità. Da qualche parte, sono rimasto il ragazzino impacciato e innamorato dell’odore di un libro fresco di stampa »
Con quell’ultima dichiarazione, l’ex cadetto si accorse di aver fatto emergere il suo lato sensibile più di quanto avesse voluto, così si affrettò a banalizzare un farfugliamento imbarazzato:
« sì cioè, i libri sono una figata, andrebbero letti più spesso dalla gente »
Qualsiasi frase avesse pronunciato in quel momento, niente poteva cancellare la piacevole sensazione che si era impressa in Iris.
Era quello il Kentin che aveva immaginato lei la prima volta che l’aveva visto. Non solo non voleva diventare un militare, ma era anche capace di una delicatezza d’animo insospettabile.
Ci aveva messo più di un mese, ma l’aveva trovato.
Finalmente.
Erano arrivati davanti al condominio in cui abitava la famiglia Levine e, nonostante il ragazzo avesse camminato per dieci minuti reggendo il grosso della spesa, non si era mai lamentato, merito degli anni di addestramento; Iris appoggiò la borsetta della spesa per terra e cercò le chiavi. Facendole tintinnare leggermente, mormorò:
« sono contenta che tu mi abbia raccontato queste cose di te »
Mentre lei gli sorrideva con gratitudine, lui masticò:
« b-beh, credo di avere straparlato, tu dimentica tutte le cazzate che ho detto »
Ormai cominciava a conoscerlo: il suo ridicolizzare proprio i lati migliori del suo essere, era qualcosa che la faceva sorridere di tenerezza. Aveva capito quale fosse il vero Kentin, anche se il ragazzo non sopportava di apparire troppo vulnerabile:
« grazie mille per la spesa » proseguì e visto che realizzò di non avere il mazzo di chiavi giuste, suonò il citofono accanto a lei. Seguì una voce infantile che chiese:
« chi c’è? »
« Adam, sono io apri » gli ordinò la sorella.
Udirono un click e la ragazza sospinse il pesante pomello del portone d’ingresso.
« te le porto davanti alla porta » si offrì Kentin, riafferrando l’acqua e la borsa in plastica.
 
Quando uscirono dall’ascensore e sentirono una vocina che domandò:
« me l’hai preso l’ovetto? »
Davanti a Kentin, che fu costretto ad abbassare lo sguardo, si presentò un bambino di dieci anni, dai capelli ramati, molto più scuri di quelli di Iris. Aveva uno sguardo vispo e trasparente e dei chiarissimi occhi verde oliva.
« si che te l’ho preso » lo tranquillizzò la sorella, invitandolo a tornare in appartamento.
Adam però era rimasto immobile a fissare il ragazzo sconosciuto che lo sovrastava di quasi cinquanta centimetri.
« e tu chi sei? » lo aggredì il bambino, scrutandolo con diffidenza.
« Adam! » lo rimproverò Iris « non è questo il modo di rivolgersi alle persone. Sii più educato »
Kentin cercò di dimostrarsi il più amichevole possibile e, con un sorriso paziente, si presentò:
« mi chiamo Kentin »
« che nome stupido »
Iris divenne rossa e sbottò arrabbiata:
« chiedi immediatamente scusa! Kentin mi ha addirittura aiutata a portare a casa la spesa e se non era per lui, neanche mi ricordavo di prenderti l’ovetto! »
Quell’ammissione ebbe un effetto sedativo sul bambino che, dopo una disinteressata scrollata di spalle, tornò a piazzarsi davanti alla TV, lasciando soli i due amici.
« scusalo. Non so che gli abbia preso. Di solito non è così dispettoso »
« è simpatico » mentì Kentin in difficoltà, grattandosi la nuca. La rossa spostò lo sguardo verso le bottiglie che l’amico aveva trasportato al posto suo. A quel punto le venne in mente una proposta che, fino ad un’ora prima, non avrebbe mai pensato di formulare.
« vorresti fermarti qui a pranzo? »
« no »
Quel diniego così secco e piccato però, non era giunto dall’ospite.
Iris si voltò irritata verso il fratellino spaparanzato sul divano.
« non l’ho chiesto a te Adam, dacci un taglio »
Spiazzato per quell’invito, Kentin cercò di valutare la situazione: mangiare da Iris avrebbe significato rinsaldare i progressi che erano riusciti a fare quel giorno ma la presenza irritante del fratellino di lei poteva anche rovinare tutto, mettendolo a disagio e portandolo a fare la figura dell’idiota; per il momento, era meglio rimandare, quella proposta l’aveva colto troppo alla sprovvista:
« grazie Iris, sarà per un’altra volta »
Lei sorrise comprensiva, dubbiosa se, con il senno di poi, quel rifiuto l’avesse fatta sentire più dispiaciuta che sollevata. Le era venuto spontaneo invitarlo, ma non era poi così sicura che fosse stata una buona idea; Adam era intrattabile quel giorno e nutriva un’inspiegata antipatia verso Kentin; tuttavia, ciò non cambiava il fatto che da quel momento in poi, avrebbe guardato l’amico con occhi diversi.
 
« come mai non sei a lezione? » chiese dolcemente Rosalya, leccando via la schiuma di latte che le aveva imbiancato il labbro superiore.
Erano ormai passate le otto del mattino e Nathaniel era lì, nella sua stanza d’albergo. Lei ancora dormiva quando aveva sentito bussare alla porta e, borbottando arrabbiata e confusa, era andata ad aprire. Si era ritrovata di fronte il ragazzo, che teneva in mano un vassoio con il marchio dell’hotel e un’abbondante colazione.
« colazione in camera » aveva esordito lui, entrando nella stanza. Aveva appoggiato il vassoio sul tavolo prospicente il letto matrimoniale e si era voltato verso di lei, radioso. Aveva una strana luce negli occhi quel giorno e Rosalya riuscì a notarla subito.
La ragazza addentò una fragrante brioche alla marmellata di more, la sua preferita e si leccò le labbra rosee per recuperarne tutto il dolce sapore.
« per una volta posso anche saltarla » le sorrise il biondo, stampandole un bacio in bocca, che sapeva di more. Assaporò la dolcezza del croissant mentre la ragazza teneva la pastina a mezz’aria.
« come risveglio non mi dispiace. Anche quando torniamo a Morristown voglio il servizio completo » scherzò lei, con voce suadente.
« dipende da cosa intendi per servizio completo » sorrise lui malizioso, accarezzandole una gamba.
Non ricordava l’ultima volta che si era sentito così bene. Probabilmente risaliva a quando lui e Castiel erano grandi amici, quasi un anno fa. La sfuriata con Sophia aveva sbloccato qualcosa in lui, gli aveva alleggerito l’animo, permettendogli di vomitare quel peso che gli attanagliava le membra da ormai troppo tempo.
Era felice, non c’era modo diverso di descrivere il suo stato d’animo in quel momento; aveva salutato frettolosamente Sophia, per dirigersi da quella ragazza che aveva attraversato il paese per stare con lui.
La sua Rose. La ragazza di cui era innamorato dalla seconda superiore, quell’amica che non aveva mai considerato tale.
Alla sua contentezza, si sommava una sorta di eccitazione per aver trasgredito le regole, scegliendo di non presentarsi alla lezione all’università; per uno studente coscienzioso come lui, si trattava di una novità e il gusto che ne era derivato, gli fece suppore che non si sarebbe trattato di un caso isolato.
Afferrò il tavolino che aveva appoggiato sulle gambe della ragazza e lo spostò sul comodino accanto a lei: la colazione non era ancora finita ma nessuno dei due sembrava darle importanza; i due ragazzi percepivano l’elettricità in quella camera, in cui c’era un romantico silenzio ad avvolgerli.
Le portò una mano sul collo liscio, cominciando a baciarlo con trasporto, senza che lei opponesse alcuna resistenza. Rosalya lo lasciò fare, chiudendo gli occhi e inarcando leggermente la schiena. Sentì le mani di lui passare tra i suoi lunghi capelli, regalandole una sensazione di estremo relax: adorava farseli toccare, specie se quella dolce carezza era opera di Nathaniel.
Cercò le labbra di lui, era il suo turno prendere l’iniziativa. Pretese che il loro bacio venisse approfondito secondo un ritmo che fu lei ad impartire. Lui la assecondava, sorridendo tra una pausa e l’altra: amava la sua intraprendenza, il fatto che sapesse sempre ciò che voleva e se lo prendesse.
Le mani di Rosalya scivolarono sul bacino del ragazzo, afferrando il lembo inferiore della felpa. Con estrema lentezza, gli levò il capo, lasciandogli solo una t-shirt verde. Quest’ultima ci mise pochi secondi a sparire, permettendo finalmente alla ragazza di godersi la vista del petto nudo del suo compagno.
Gli accarezzò gli addominali, mentre le loro lingue continuavano a cercarsi.
Lui si sporse verso di lei, forzandola delicatamente a mettersi sulla schiena e si posizionò sopra il suo corpo. Rosalya gli mordicchiò il labbro inferiore, sempre più eccitata; aveva solo la vestaglia e l’intimo da levarsi, ma non per questo intendeva scoprire così presto le sue carte. Prima che i loro corpi aderissero perfettamente l’uno contro l’altro, lei gli passò una mano sotto l’ombelico e gli sbottonò i jeans. Lasciò che fosse lui a liberarsi del resto. Nathaniel era sopra di lei mentre le mani di entrambi scivolavano lungo la loro pelle, esplorandola. Lei rabbrividì leggermente, sentendo le punte fredde delle dita del ragazzo che, appena cinque minuti prima, aveva camminato fuori al freddo.  
I cuori sembravano battere insieme e Rosalya potè sentire quello del biondo contro il suo. La sua vestaglia di seta viola e nera li faceva quasi scivolare l’uno sull’altra e lei rimpianse di non aver indossato l’intimo speciale che aveva portato con sé in quel viaggio. Poco male, a giudicare da quanto percepiva nel basso ventre del ragazzo, non era necessario stimolare ulteriormente la sua eccitazione.
Avevano passato entrambi troppo tempo a sognare quel momento, al punto che ormai la loro eccitazione, specie quella del biondo, era al limite; tuttavia, non volevano affrettare l’atto, dovevano goderselo fino in fondo per assaporare ogni piacere della loro prima volta insieme.
I loro baci si alternavano sempre con più passione e trasporto, mentre Rosalya avvertiva il tocco delicato del ragazzo scivolare lungo la sua coscia, facendole accapponare la pelle un po’ per il freddo, un po’ per l’estasi di quel tocco che diventava sempre più tiepido. Rabbrividì quando le dita di lui cercarono del calore nella parte più intima del suo corpo, quella che più di ogni altra desiderava attenzione da parte della ragazza.
Nathaniel sorrise divertito, mentre lei cercava di contenersi, reclinando la testa all’indietro e serrando le palpebre. Sapeva come toccarla, alternando carezze più lievi ad altre più intense. Rosalya tornò a baciargli il collo, quasi aggrappandosi ad esso.
Il membro del ragazzo diventava via via più insofferente verso quella prigionia a cui era costretto, così il biondo, con rapidi gesti, si liberò anche dei boxer, ultima barriera da abbattere.
Passò poi ad occuparsi di lei, togliendole con una certa impazienza, la vestaglia di seta nera e viola, quelli che erano sempre stati i colori preferiti di Rose. Non indugiò neanche mezzo secondo e, con gesti esperti, la liberò dal reggiseno. Fu così che si trovò di fronte una visione che nemmeno nei suoi sogni era così dolce e al contempo sensuale. Erano rimasti solo gli slip a proteggere le nudità di lei e, prima di sbarazzarsi anche di quelli, lui le sussurrò:
« Dio quanto sei bella Rose »  
Lei ridacchiò nervosamente e, anticipando le intenzioni del biondo, si sfilò anche gli slip.
Lui sorrise e, mentre avvicinava il loro visi per un altro lunghissimo bacio, entrò lentamente in lei.
La sentì inarcarsi sotto di lui e, dopo un paio di secondi, cominciò a muoversi ritmicamente e lentamente. Non mancava di incollare la sua bocca a quella di lei, ma talvolta Rosalya si sottraeva a quel bacio per recuperare un po’ d’aria da convogliare ai polmoni. Nathaniel continuava a spingere finchè non avvertì che la sua compagna cominciava ad assecondarlo. Si eccitò al punto da ribaltare le posizioni e affidandosi all’esperienza della ragazza, che era estasiata.
La osservò reclinare la testa all’indietro, mentre il suo corpo nudo si muoveva con grazia su quello di lui i cui sensi erano stimolati al massimo. Nella penombra della stanza, la pelle candida della ragazza, rifletteva i deboli raggi che filtravano dalla finestra, permettendogli di deliziarsi di quelle forme così femminili. Portò le mani sul corpo di lei ma, dopo qualche minuto, percepì la necessità egoistica di tornare ad essere lui a condurre il gioco ed impartire una cadenza.
Dopo parecchi minuti, era ormai al limite e le sue spinte erano diventate molto più vigorose e frequenti, strappando a Rosalya dei gemiti incontrollabili.
A seguito dell’ennesima spinta, il corpo del ragazzo si irrigidì per alcuni secondi, dopo i quali tornò a rilassarsi. In quel mentre, avvertì che anche la ragazza era giunta all’orgasmo e sorrise soddisfatto.
Uscì da lei, stendendosi al suo fianco. La guardò con dolcezza, accarezzandole la guancia.
« questo rientra nel pacchetto servizio completo? » scherzò con voce spossata ma emozionata.
« certo. È per questo che voglio un risveglio così tutti i giorni » sussurrò dolcemente lei, con il viso arrossato.
Anche se erano le otto e venti del mattino, i loro corpi erano talmente appagati che, nell’arco di pochi minuti, il sonno giunse spontaneo e si addormentarono l’uno accanto all’altra, sotto le calde coperte di quell’accogliente stanza d’albergo.
 
Miss Joplin attese qualche secondo, dopo aver bussato delicatamente la porta della presidenza. Non ricevendo risposta, ripeté il gesto, convinta che l’incalzante sordità della vecchia preside le avesse impedito di udirla.
« avanti! » la invitò una voce dall’altro lato della parete, con tono seccato. Evidentemente era la professoressa di scienze a non aver sentito la risposta.
« buongiorno preside. Mi scusi per il disturbo » si presentò, entrando.
Trovò la donna intenta a scarabocchiare qualcosa su un foglio, accanto ad un computer che nessuno le aveva mai visto usare. La vecchia aveva una sorta di repulsione verso la tecnologia informatica e relegava a qualche professore ossequiente come Faraize il compito di caricare manualmente tutti i dati relativi all’istituto sul database.
« oh, è lei Miss Joplin » commentò « pensavo fosse il professor Faraize. È tutta la mattina che aspetto che venga qui »
La professoressa trattenne un sorriso compassionevole verso quel collega timido e impacciato. Quella mattina, in sala docenti, quest’ultimo le aveva confidato di temere con terrore ogni convocazione in presidenza, poiché il più delle volte era riconducibile ad una strigliata per la sua incapacità di controllare gli studenti. Proprio per tale motivo, dopo aver saputo che la preside voleva parlargli, Faraize aveva escogitato ogni possibile pretesto per rimandare quell’incontro:
« oggi è molto impegnato per via della partita di venerdì » lo coprì la collega « è dalle otto di questa mattina che la squadra è chiusa in palestra »
Non voleva mettere una punta di recriminazione in quell’ultima frase, ma fu più forte di lei: la preparazione al torneo aveva privato lei e molti altri insegnanti della presenza dei cestisti in classe. Alcuni come il professor Connor non sentivano affatto la nostalgia di elementi come Trevor e Kim durante le lezioni, ma per altri come la Joplin, era una situazione che rallentava il proseguimento del programma didattico.
« molto bene » commentò compiaciuta la preside, ignorando completamente la nota di biasimo della giovane donna. Staccò i gomiti dalla scrivania e rilassò il volto « era esattamente quello che volevo »
« verrà alla partita questa volta? » domandò l’altra, cambiando argomento.
Nonostante gli inconveniente legati all’assenza in classe dei componenti della squadra di basket, Miss Joplin era una delle prime sostenitrici dei ragazzi: assieme all’insegnante di arte, Miss Robinson, aveva convinto la maggior parte dei colleghi a prendere parte all’evento, ma l’unica incognita rimaneva la vecchia preside. La vecchietta si allungò sulla scrivania e cominciò a rovistare le carte:
« non credo sia necessario »
Quell’uscita lasciò interdetta la professoressa: solo dieci minuti prima, dagli altoparlanti dell’istituto si era diffusa la voce gracchiante della dirigente scolastica che invitava gli studenti a non prendere impegni per venerdì pomeriggio; erano dispensati dai club scolastici e li esortava a recarsi a Trenton, ad un’ora e mezza da Morristown, per fare il tifo per la propria squadra.
« mi scusi, ma non capisco » ammise la donna, accomodandosi gli occhiali sul naso aquilino « ha incentivato i ragazzi a presentarsi alla partita e poi lei non ci sarà? »
« purtroppo domani devo assolutamente recarmi a New York per motivi personali» spiegò l’altra, senza fornire ulteriori precisazioni. Sconvolta dall’assoluta tranquillità e dalla totale assenza di alcuna forma di rimpianto, la professoressa insisté:
« mi scusi se mi permetto, ma ero convinta che ci tenesse a venire a tifare per i nostri ragazzi. Non mi sembra poi così dispiaciuta » azzardò, fissandola con circospezione.
La vecchietta appoggiò il modulo che stava consultando e si sfilò gli occhiali, lasciando che la cordicella ad essi legata li facesse appoggiare contro il suo seno giunonico. Guardò dritta negli occhi la docente e, con aria di sfida, profetizzò:
« quei ragazzi arriveranno in finale Miss Joplin, glielo assicuro… e quando ciò accadrà, io sarò su quegli spalti a sostenerli »
 
Rosalya sfrecciava da un reparto all’altro, come impazzita: gli scaffali erano molto alti e pieni zeppi di ogni tipo di stoffa. I tessuti erano arrotolati attorno a rulli di cartone color caffè che i clienti avevano la libertà di sfilare dagli scaffali, per osservarli più da vicino.
« oddio Nath, guarda questa fantasia? Non è fighissima? » squittì, srotolando una stoffa con una trama astratta.
Il ragazzo sorrise comprensivo: l’idea di portarla nel più grande negozio di stoffe della città si era rivelata molto migliore di quanto avesse preventivato. L’unico neo era che erano dentro da ormai un’ora, mettendo a dura prova la sua pazienza; Rosalya sfrecciava da un corridoio all’altro e starle dietro era un’impresa, specie quando la perdeva di vista e doveva affidarsi al suo discutibile senso dell’orientamento per ritrovarla.
« non per smorzare il tuo entusiasmo, ma come farai con il peso della valigia? » le domandò, sedendosi su una poltrona, che era apparsa miracolosamente nel loro campo visivo.
Aiutò la stilista a reggere numerosi cilindri di cartone, mettendoseli sulle gambe e aspettando che ne scegliesse altri dal reparto dei tessuti in seta.
« piuttosto rinuncio ad alcuni dei miei vestiti: non ho mai visto stoffe così belle nemmeno a New York! » dichiarò lei, accucciandosi verso un rullo che era finito in fondo al ripiano.
« secondo me esageri » ridacchiò lui, gratificato dall’entusiasmo della sua ragazza.
« no, sul serio! »
« lo sai che a New York abbiamo la stessa catena, anzi il negozio è anche più grande? »
« c’è Mood? » si stupì Rosalya « e io lo scopro solo ora? »
« sono sorpreso quanto te: come facevi a non saperlo? »
« e tu come lo sai? »
« mia sorella guarda Project Runway e i concorrenti acquistano sempre lì la stoffa »
« è quel reality dove partecipano stilisti che mandano sulla via cavo? » domandò, lottando nel tentativo di estrasse un cilindro di stoffa che si era ostinatamente incastrato tra gli altri.
« yeah… hai mai pensato di partecipare? »
La ragazza si voltò di scatto, interrompendo temporaneamente il combattimento:
« parli seriamente? »
Il ragazzo si alzò dalla sua comoda posizione, lasciando le stoffe in bilico sulla poltrona. Si avvicinò a lei e, piegandosi verso il basso, afferrò l’estremità del rullo. Lo tirò via facilmente, mentre ribatteva:
« perché no? Del resto stai avendo successo con la vendita dei tuoi capi nella boutique di Pam… qualcosa vorrà pur dire…»
La ragazza accolse nelle sue mani la stoffa e ammise:
« non mi ci vedo ad andare in TV. Finirei per litigare con tutti »
« questo è vero » convenne divertito il biondo, guadagnandosi un pizzicotto.
Riafferrò le stoffe che aveva abbandonato e si apprestò a seguirla lungo il reparto successivo. La stilista venne stregata da un pannello pieno di bottoni e costrinse Nathaniel a fare una sosta anche lì.
« e tu? Che intendi fare l’anno prossimo? Devi sbrigarti a presentare la domanda per il college, prima che sia troppo tardi » esclamò, analizzando ogni singolo oggetto esposto.
Il ragazzo non le rispose e rimase assorto ad accarezzare un tessuto in camoscio. La rilucenza del pelo creava delle strane forme, una delle quali portò il ragazzo a dire:
« non ti sembra una scimmia questa macchia qui? »
« Nathaniel! » lo riprese lei « ti ho fatto una domanda »
« della quale non so la risposta. Cambiamo argomento » replicò lui freddo, spostandosi verso la fine del corridoio.
Aveva troncato la conversazione sul nascere, lasciando Rosalya al centro del corridoio senza possibilità di replica. Sospirò e si affrettò a seguirlo:
« ehi » gli sussurrò dolcemente, abbracciandolo da dietro. Con tutto il materiale che si portavano appresso, il gesto risultò un po’ goffo ma proprio per questo, strappò un sorrisetto ad entrambi.
Rosalya approfittò del fatto che, nascosti da quegli scaffali ricolmi di stoffe, nessuno potesse vederli in quel momento:
« male che vada, te lo trovo io un lavoro » gli comunicò dolcemente « fai da modello per le mie sfilate »
Il biondo ridacchiò, sollevando leggermente le spalle. Si voltò verso di lei e, portandole una mano sul viso, commentò divertito:
« e io che pensavo che stessi parlando seriamente »
 
 
 
Schermo nero.
Premette il tasto centrale e sbloccò lo smartphone, tirando verso il basso la barra trasparente.
Nessuna notifica.
Il tempo era volato: era la notte prima della finale, eppure solo una persona tra i suoi amici più cari non si era degnata di mandarle un messaggio di incoraggiamento.
Sotto i suoi occhi, comparve l’icona della cornetta del telefono: una chiamata di Rosalya.
« ehi Rosa! » esclamò Erin, balzando eccitata dal letto, dimenticandosi all’istante della tristezza che rischiava di amareggiarle il sonno.
« ciao amore mio, come stai? » squittì l’amica eccitata.
« sei atterrata a New York? » tagliò corto la mora.
« cinque minuti fa. Tra venti minuti ho l’autobus per Morristown »
« ti fidi a prenderlo alle nove e mezza di sera? »
« non preoccuparti Cip, so difendermi io »
« non fatico a immaginarlo. Allora? Che mi racconti? Ero rimasta al vostro pomeriggio da Mood »
« beh, ti racconterò tutto con calma dopo la partita di domani » patteggiò l’amica « intanto ti dico solo che è stata una delle settimane più belle della mia vita. Aah, come sono felice »
Erin sentì sorriderle il cuore dalla gioia. Voleva un bene dell’anima a quella ragazza e sentirla così di buon umore le infondeva una tale serenità che le faceva dimenticare anche di quell’amico così insensibile che era Castiel. Purtroppo per lei, ci pensò proprio la stilista a ricordarglielo:
« ma te lo immagini? Quando anche i nostri ragazzi torneranno a Morristown? Potremo organizzare un’uscita a quattro visto che Castiel e Nathaniel si sono riappacificati »
« io e Castiel non stiamo insieme » puntualizzò la mora.
« perché siete due idioti, ma appena torna mi occuperò personalmente della faccenda »
« Rosa » la richiamò Erin con fermezza « non sto scherzando. Quello che sai lo tieni per te »
« ma Eri-» tentò di protestare la stilista.
« Castiel non è innamorato di me e se sapesse che mi piace, si creerebbero delle tensioni che alla lunga rovinerebbero la nostra amicizia. Per questo non lo deve sapere »
« smettila di dire stupidate Erin, bisogna anche sapersi prendere dei rischi »
« ho troppo da perdere. Sappi Rosalya non ti perdonerò mai se perdessi la sua amicizia per assecondare le tue convinzioni sconclusionate »
L’amica rimase in silenzio, sbigottita dalla brutale serietà con cui la mora aveva sputato quelle parole:
« questa è cattiveria però » mormorò mettendo il broncio « lo sai che sei come una sorella per me. Non dirmi queste cose »
« e tu allora non insistere »
Erano pochi gli argomenti che, se affrontati, tiravano fuori quel lato così scorbutico e antipatico di Erin, ma era l’unico modo per convincere gli altri della fermezza delle sue intenzioni. Non poteva permettersi di essere accondiscendente su un tema del genere. Troppe volte Rosalya ed Iris avevano tirato fuori quell’argomento, ma ormai la mora cominciava a stancarsi di ripetere sempre le stesse cose, difendendo da sola quella posizione.
« hai più incontrato Sophia? » le chiese Erin, per cambiare discorso.
« ecco, di questo vorrei parlarti subito» convenne la stilista, accantonando il piccolo attrito che aveva avuto con la sua interlocutrice « per caso tua sorella ti ha detto che ce l’ha con me? »
Sorpresa da quella domanda, la mora replicò:
« no affatto. Mi ha chiamato stamattina per via del torneo e, quando le ho chiesto di te, mi ha detto che le sembri una in gamba ma che è stata talmente impegnata al negozio, da non essere mai uscita insieme a te e Nathaniel »
« è quello che mi ha detto anche lui, ma mi pare un po’ strano no? Che gli abbia mentito perché non voleva incontrarmi? »
« non credo. A Sophia piace conoscere gente nuova. Scommetto che alla prossima occasione diventerete amiche »
« boh, non so. Devo ammettere che questa cosa mi ha parecchio deluso. Ero così eccitata all’idea di conoscerla »
Erin si stupì per quell’ammissione, pronunciata da quella che, quando l’aveva conosciuta, era considerata la ragazza più asociale del liceo. Rosalya era migliorata molto negli ultimi mesi, aprendosi di più agli altri, anche se continuava a considerare solo il suo gruppo di amici, le persone con cui avere il rapporto più esclusivo.
Con la coda dell’occhio, la mora vide una figura pelosa varcare la soglia della stanza: con passo felpato, Ariel avanzò, portandosi ai piedi del letto. La vide abbassare il corpo, appiattendolo contro il suolo. Assestò la posizione delle zampe per poi spiccare un agile balzo sulla trapunta soffice della sua padrona. Più volte Pam l’aveva rimproverata per quell’abitudine, ma l’animale si limitava a soffiarle contro. Erin invece adorava accarezzare il manto folto e morbido della gatta, che negli ultimi mesi era cresciuta parecchio, lasciando solo un pallido ricordo della tenera micetta che aveva portato Jason quella fatidica notte di gennaio.
Dall’altro capo del telefono, Rosalya sentì una sorta di brusio e chiese:
« questo rumore è Ariel? »
« sì, sta facendo le fusa » sorrise Erin, grattandole sotto il mento.
« rimane un mistero come quella gatta adori solo te »
« beh, le sta simpatico anche tuo fratello » la difese la padroncina
« ok, mi correggo, adora solo te e Lysandre, mentre non sopporta il resto del mondo… non ti ricorda qualcuno? »
Erin ignorò quella piccola provocazione, emettendo un verso stizzito.
« d’accordo Cip, direi che è meglio che tu vada a nanna. Domani è il gran giorno »
« ma se non sono neanche le nove e mezzo! »
« non si discute! Su, fila sotto le coperte »
« tanto non riuscirò a dormire »
« allora fammi compagnia » esclamò allegra la stilista, sedendosi su una panchina.
« ma non dovevo dormire? » ridacchiò Erin.
« visto che non ce la farai, almeno ti aiuto a levarti di dosso un po’ di tensione »
« ci stai riuscendo alla grande Rosa »
« è la mia specialità Cippy »
Erin sorrise, accarezzando la testolina dell’animaletto che tanto adorava.
« ah comunque alla fine la mia famiglia non verrà domani » le comunicò, interrompendo quella carezza, gesto che non fu gradito da Ariel, che pertanto iniziò a strofinarsi contro il suo ginocchio.
« e perché scusa? »
« perché gliel’ho proibito io. Devo essere concentrata sul gioco, non posso star lì a preoccuparmi per mia nonna Sophia e i suoi cori da stadio »
« devo conoscerla tua nonna, sembra un mito! »
« non a caso hanno dato a mia sorella il suo nome. Non poteva essere più indovinato. Sarebbe capace di far fare l’ola, per cui preferisco risparmiarmi simili figuracce »
« che noiosa che sei Cip » sbuffò infastidita Rosalya, incrociando le gambe sulla panchina di legno.
« facile parlare per te che hai una nonna che è un ex attrice »
« da qualcuno dovevo pur ereditarlo il talento per la recitazione, non ti pare? » sogghignò Rosalya, fingendo di pavoneggiarsi.
Continuarono a parlare per un pezzo, senza rendersi conto del tempo che passava. Anche quando arrivò l’autobus che avrebbe riportato la stilista a Morristown, né lei né l’amica accennavano a volersi staccare dal telefono.
Fu solo quando Rosalya si accorse che gli altri passeggeri del mezzo pubblico cominciavano a infastidirsi per il suo chiacchiericcio continuo, fu costretta a salutare Erin.
« dolce notte Cippy »
« ‘notte a te Rosa. Ci sentiamo domani »
Con un sorriso sulle labbra, Erin chiuse la conversazione. Si distese sul letto, mentre Ariel le zampettò sull’addome, fino a raggiungere il suo volto. La ragazza la lasciò fare, mentre una sensazione di totale appagamento e felicità si diffondeva in lei: era una sensazione di benessere, scaturita dalla consapevolezza di non aver mai avuto in passato amicizie così preziose come quella di Rosalya. Si conoscevano da soli cinque mesi e sembravano amiche da una vita.
Si cambiò, mettendo il pigiama e, dopo aver riaccompagnato Ariel in salotto, tornò sul suo letto.
Appoggiò la testa sul cuscino, lasciando al sonno il compito di velocizzare l’arrivo del nuovo giorno.
 







 
NOTE DELL’AUTRICE

Ehm… sono un po’ in difficoltà -.-‘’
Avevo detto che sarebbe stato il capitolo del torneo e invece…
Dunque, spieghiamo le cose con calma: questo capitolo era solo la prima parte di un capitolo lunghissimo dal titolo “Cardiopalma” che avrei voluto pubblicare oggi.
Fino a domenica scorsa, ero convinta che avrei messo on line questo suddetto capitolo infinito, fregandomene del fatto che fosse spropositatamente lungo.
Tuttavia, dopo aver scritto la quarantesima pagina e aver realizzato che me ne mancavano suppergiù almeno un’altra quindicina (o più), mi sono detta che era da pazzi condensare in un solo colpo oltre 55 pagine di Word o.O.
 
Ho deciso di intitolare “tessere” questo capitolo in onore della metafora che lo apre: è frutto di una sorta di flash che mi ha attraversato la mente tempo fa mentre ero al supermercato con mia madre. Da un lato c’erano dei puzzle e dall’altro dei romanzetti rosa.
Non so se può essere questa la spiegazione che ha portato il mio cervello ad associare il concetto di fare i puzzle e cercare l’amore, ma visto che non mi dispiaceva come similitudine, c’ho voluto dare importanza u.u
Chi sarà questo ragazzo destinato a Sophia? Sarà già comparso nella storia oppure no?
In realtà ho inserito un’altra cosa che dovrebbe far drizzare le antenne… Lysandre… eh eh…
 
Scusate comunque se dovete aspettare un altro capitolo per leggere della partita (._.)’… sto cercando di prepararlo al meglio e tra questo obiettivo e impegni vari, ci metterò comunque un po’ a scriverlo (in ogni caso, meno di un mese, promesso!).
 
Non pensavo che mi sarei rallentata tanto nel pubblicare, tanté (perché Word mi segna in rosso sta parola? Non esiste??) che ancora a Febbraio avevo realizzato un disegno che pensavo di inserire nel 48… insomma, va così (che constatazione del c…) -.-‘’
A proposito del disegno: ve lo anticipo qui, ma lo ricorderò anche alla prossima occasione: visto che appunto, inserirò quest’immagine nel capitolo successivo, vi sconsiglio di scorrerlo fino alla fine per valutarne la lunghezza prima di leggerlo… vi rovinereste una scena caruccia :3
 
Nonostante una frequenza di apparizione pari a quella di un’eclissi solare (esagerata!) spero continuerete a leggere la storia ^^’.
Per ora grazie soprattutto alle ragazze che, nonostante gli impegni personali, trovano il tempo per lasciare una recensione *^*… non potete immaginare (ma anche sì) quanto facciano piacere :3.
 
Alla prossima!!
  
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