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Autore: Fabi96    08/04/2015    3 recensioni
La saga di divergent, vista dalla prospettiva di una coppia ancora più coinvolta nella guerra tra le fazioni, una ragazza e un ragazzo uniti nel loro sentimento, separati dai loro valori e dalle loro scelte.
Parlo di Eric, racconto della sua visione di questa rivoluzione, delle due battaglie e delle sue rinunce. Perché anche lui ha rinunciato a qualcosa.
Parlo di una ragazza che cercherà di riportare la pace nella città disastrata di Chicago, mentre Tris e Quattro saranno al di fuori della barriera.
Racconto quella parte di storia che la Roth ci ha mostrato attraverso le telecamere del dipartimento.
Parlo di un amore non compreso, dai suoi stessi protagonisti, di una società distrutta dalla guerra e una generazione perduta.
Io racconterò del fiore di loto, che quando inizia a germogliare è sommerso dall'acqua putrida e impura, ferito da insetti e infastidito dai pesci; infine rinasce, e rimane il lottatore più forte, in una natura ostile.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Due settimane di attesa! Non mi stupirei se alcune di voi andassero a rileggersi lo scorso capitolo perché non se lo ricordano più! 
Ma mi faccio perdonare! Lo giuro! 
Questo capitolo è molto delicato... Vado a toccare un argomento molto ma molto difficile che non ero convinta fino in fondo di inserire. Ma volevo qualcosa di realistico l, qualcosa di tragico e inoltre dovevo risolvere il personaggio di Jack. 
Basta non vi dico di più! 
Grazie alle puntualissime ragazze che recensiscono. Anche le altre, aggiungetevi! Seguite la storia da molto, e sono curiosa di sentire i vostri commenti. 
Buona lettura! Aspetto i vostri pensieri, le vostre critiche e tutto quello che volete commentare
 
 
 
 
L'uomo che voglio essere
 
 
 
"Marcus devi dirmi dove siete! Non posso rimanere qui. Avete contattato Quattro? Zeke è con te?" Dall'altra parte del telefono le risposte erano confuse, a causa del collegamento scadente di quello stupido aggeggio vecchio anni luce.
"Non abbiamo molto tempo, potrebbero aver già rintracciato la chiamata. Mi stai mettendo a rischio ragazza. Devi raggiungerci nella parte est della città, allo spietato generale. Li ti troverà uno dei nostri e ti condurrà dove siamo. Non abbiamo notizie degli usciti dalla recinzione. Elise, tu stai bene? Ti hanno fatto del male?"
Perché voleva saperlo? Come mai tutta quella confidenza? Elise si stava facendo prendere dalla preoccupazione, doveva essere successo qualcosa di terribile in quei giorni. 
Marcus e un gruppo di persone della città si erano distaccati e avevano innescato una catena incessante di continui attacchi per intralciare e bloccare il nuovo governo dittatoriale degli esclusi. La gente moriva di fame, oppure di infezioni per le ferite non curate, un epidemia aveva colpito la parte est della città e l'acqua pulita era un miraggio per le persone di Chicago. Tutto stava andando in rovina, e le vittime di quella pazzia e reclusione in quelle mura erano gli stessi esclusi. Se le persone innocenti sarebbero morte, anche i colpevoli di quei mali sarebbero caduti con loro. 
L'inverno non stava risparmiando nessuno. 
"No, sto bene. Ma devo allontanarmi da loro. Sta notte vi troverò la?"
"Muoversi di notte?! È da irresponsabili, meglio alla luce del giorno. Domani mattina, ti aspettiamo. Se non ti troviamo, verremo a cercarti. Zeke Pedrad è dai pacifici, si è rifugiato la. Ma non sarà al sicuro per molto. Fa attenzione Elise. Chiudo la chiamata."
E la linea cadde.
Appoggiò la cornetta sull'apparecchio che aveva trovato sotto il letto, stranamente collegato alla vecchia linea telefonica, ancora funzionante per di più. 
Si alzò dal pavimento e si diresse verso l'armadio contro il muro, dall'altra parte del letto. Aprendo le ante il profumo degli indumenti la travolse.
Una lacrima le solcò la guancia, automaticamente la ferita al cuore le si riaprì: il suo odore, i suoi vestiti. Aveva paura di esserselo dimenticato, e invece eccolo di nuovo lì: Eric.
"Sai che non è facile per me dirlo, ma in questo momento avrei tanto bisogno della tua presenza. Anche solo un insulto, un arrivederci, un addio!' Sussurrò ad alta voce. 
Qualsiasi cosa le permettesse di capire se aveva dimenticato la sua voce. 
Prese una maglione nero dallo scaffale e se lo avviccinò al viso, annusando il profumo di ammorbidente e colonia impregnato nel tessuto consumato dagli anni.
Lo gettò sul letto, si chinò, afferrò dal fondo del l'armadio una sacca nera, che mandò a seguire il maglione sul piumone del letto. Così come delle maglie di ricambio, pantaloni, armi, coltelli, due pistole e alcune ricariche, provviste, acqua. Tutto quello che poteva essere trasportabile di quell'appartamento e che poteva starci in quella misera sacca. 
Quando finalmente riuscì a chiudere la cerniera si accorse di non aver messo nemmeno un ricordo di quell'appartamento, di quella vita spazzata via dal fuoco. 
Non una foto, nemmeno un oggetto stupido regalatole da Eric, o il suo libro preferito.
Non un ricordo di loro. 
Non aveva più nulla di loro, nemmeno quel piccolo esserino. Si prese il viso tra le mani, non riuscendo a reprimere un singhiozzo di disperazione e angoscia, quando dalla porta provenì un rumore di chivistello.
L'entrata si spalancò e la figura alta e scura di Jack si stagliò nella luce fioca dell' abat-jour.  
Non entrò, ebbe la decenza almeno di non dissacrare quel luogo con la sua schifosa presenza.
"La riunione è stata spostata qui, alla sede degli intrepidi per facilitarti lo spostamento. Lo chiesto io stesso a Eveline."
Cosa credeva di ottenere? Lei si era fidata di lui! L'aveva tradita! Quattro aveva ragione, era completamente impazzito, gli avevano fatto il lavaggio del cervello. Quella donna glie lo aveva fatto. Avrebbe dovuto capirlo dal giorno che l'aveva sbattuta contro il muro, da quella mattina in piazza che l'aveva baciata contro la sua volontà. Aveva aspettato troppo, e ora le sue mani erano macchiate di altro sangue, e la sua coscienza grondava sensi di colpa, anche per quella traditrice di Lucy.
"Fai come vuoi." Gli rispose con strafottenza. Si avviò verso la porta, ma si bloccò vedendo che lui non si spostava, che non le permetteva di passare senza sfiorargli il petto: non voleva toccarlo. Le faceva schifo.
"Spostati." 
"Lizzie non devi arrabbiarti così! Lo fatto per noi, solo così potevamo stare insieme con la benevolenza di Eveline: gli esclusi non ci faranno del male ora che siamo dalla loro parte."
Lo disse con lo stesso tono di voce che una volta usava con lei per rimproverarla sull'ultima litigata con Eric, o per non aver rivolto a lui la parola per un intera giornata: quella vocina da fratellone, che lei aveva sempre riputato da "familiare" apprensivo e amorevole. Ma in quel momento suonava come una cosa così sbagliata e "sporca". 
"Non sprecherò fiato per ripetere ciò che ho già detto. Fammi passare. E stammi lontano."
 
 
"Bentornata nel mondo dei vivi, Elise." 
Era seduta al tavolo della sala delle riunioni al piano degli uffici dei capifazione.
Il caso voleva che l'unico posto libero intorno a quel tavolo gremito da decine e decine di esclusi era quello che occupava sempre Eric. 
Un campanello d'allarme iniziò a trillare in un posto lontano nella mente di Elise.
La stanza era veramente affollata, ma tutta l'attenzione era puntata sulla figura centrale di Eveline. Era appoggiata allo schienale della sedia e la fissava come un rapace che si sta per avventare sulla carcassa: una caccia troppo facile. 
Quel campanello stava diventando sempre più assordante nella sua mente. Pericolo. 
Pericolo.
Lo sguardo del rapace non abbandonò il corpo di Elise finché lei non si fu seduta sulla poltrona.
C'era veramente troppa gente in quella sala che conteneva al massimo quindici persone.
Tutti armati, logicamente. Molti li conosceva di vista: intrepidi traditori. Non avevano perso tempo ad arruolare quelli che erano capaci ad impugnare un arma, anche se ex alleati di Jeanine. 
La guerra è un pozzo di incoerenze.
"Abbiamo limitato i danni contratti dagli ultimi attacchi da parte del gruppo radicale degli Alleanti, che hanno deciso di non rispondere alla nostra richiesta caritatevole di incontro per cercare di appianare i rapporti e stabilizzare gli animi. Non possiamo rischiare che la popolazione della città rischi la vita o non riceva protezione, verremmo a meno al nostro compito. Mantenere l'equilibrio."
Bugiarda. Bugiarda. Bugiarda. 
Elise lo stava urlando nella sua testa, stava strepitando e battendo i pugni contro il muro nella sua mente. 
Se avese avuto tra le mani il gruppo di Marcus e degli altri fuggitivi li avrebbe uccisi, torturati, fatti impazzire! Bugiarda!
"Bugiarda." 
Tutta la sala spostò la propria attenzione su di lei,  e il viso di Eveline cambiò completamente: dalla sua sicurezza che aveva mostrato solo alcuni istanti prima alla più totale inespressività.
Elise non si era nemmeno accorta di averlo realmente detto.
Eveline la fissò, spostò lo sguardo sulle proprie mani, e poi tornò a guardarla. Gli occhi di tutti erano fissi su di lei, in attesa di sentire la risposta del capo, la decisione di chissà quale pena capitale per l'impudenza di quella ragazzina. E Eveline non voleva deludere le loro aspettative.
"Elise, cara Elise, non sei nelle condizioni di poter giudicare, comprendere la situazione. Non dopo quello che hai passato. Voglio solo che tu sappia che Tobias è fuggito oltre la recinzione, e che tutte le informazioni confermano ciò che io già sospettavo: tu hai organizzato la fuga. Tu mi hai costretta ad aprire il fuoco sui fuggitivi, sulla tua amica intrepida." 
Elise afferrò la sedia sotto le sue cosce con la mano destra per cercare di costringersi a non rispondere. Dopotutto era vero.
"Tu hai costretto il tuo amico e il rappresentate degli eruditi a mentire al nostro nuovo governo, a mettere a dura prova la nostra organizzazione. A mettere fine alla pace instaurata con tanta fatica e sangue dalla gente. Mi hai costretta a far giustiziare il dottore."
Non rispondere, elise non rispondere. Se lo continuava a ripetere, come una formula magica.
"Il tuo amico è fuggito, ma adesso so dove era diretto. Johanna sarà molto colpita dal doppiogioco condotto dalla figlia, sin dall'inizio. Sei stata molto scaltra a non aver destato sospetti in nessuno, nemmeno nel tuo compagno Eric. Ma agli occhi della legge e della gente stai apparendo per quello che sei: un mostro traditore! E Johanna lo saprà molto presto! "
Elise si alzò dal posto, facendo cadere la sedia alle sue spalle. 
"La città lo sa già Elise, tu non sei più nulla, non servi più a nessun obbiettivo e non hai dove nasconderti! In questo momento i miei soldati si stanno muovendo oltre la barriera per catturare i tuoi amici e coloro che li hanno aiutati. Faranno pulizia tra i pacifici!"
"Come hai potuto, sono solo bugie!" Urlò. Stava elaborando tutto. Zeke, Johanna, la barriera, i medicinalie. Da dove potevano arrivare, se non dai pacifici?! Cosa aveva fatto? Aveva condannato una fazione intera.
"Li hai condannati, come hai condannato gli intrepidi, i tuoi amici, il tuo ragazzo. È partito tutto da te: da una ragazzina egoista e ambiziosa!" 
"Non è vero! Da te! E colpa tua e della tua insana idea di vendicarti su Marcus attraverso me!" 
Il viso di Eveline e la sua sicurezza si incrinarono.
Fece passare minuti prima di rispondere. Allora la ragazza lo sapeva, ne era a conoscenza.
"Non nominare quel nome. Non fare e dire più nulla."
E Eveline si lasciò andare sulla sedia, risiedendosi.
"Anzi, sai cosa? Di e fai cosa vuoi, ormai non hai più nulla su cui far leva." 
Liz si guardò attorno. E capi di non avere via di scampo. 
Johanna si voltò verso le finestre che davano sulla città buia sommersa dalla pioggia.
Elise indietreggiò, andando a sbattere contro il petto di un soldato, si girò di scatto, e lo scartò, uscendo con passo veloce da quella stanza. Il corridoio era vuoto, quando arrivò al fondo senti distintamente la porta della sala riunioni aprirsi e i passi degli esclusi scricchiolare sul pavimento. 
Arrivavano. 
Varcata la soglia del reparto uffici, iniziò a velocizzare ancora di più il passo, ancora e ancora finché non si ritrovò a correre giù per le scale per raggiungere il suo appartamento. 
Doveva andarsene subito, non avrebbe aspettato la mattina dopo.
Prese la chiave e con mani tremanti riuscì ad aprire dopo interminabili secondi la porta dell'appartamento. 
Ormai erano sul piano: gli anfibi bagnati facevano un rumore udibili a metri di distanza. Si chiuse la porta alle spalle, appoggiandovi contro il peso e cercando di recuperare ossigeno e calmare il respiro.
 
Jack era seduto sulla sponda del letto, giocando con la cerniera della sacca. Quando la vide entrare si alzò da dove era seduto. 
"Tu. Qui. No!" Gli urlò addosso, asciugandosi le lacrime sfuggite al controllo, e gli si avventò contro. Gli sferrò un pungo degno di un dieci e lode nel combattimento del primo anno, che gli fece perdere l'equilibrio, sbilanciandolo all'indietro. 
Jack afferrò i polsi a Elise, trascinandola con lui contro il tavolo della cucina. 
Ci si appoggiò con tutto il suo peso per non cadere, e il tavolo si trascinò per tutta la distanza con il muro finché non ci sbatte contro.
Elise non riuscì a liberarsi i polsi in tempo che Jack aveva già invertito le loro posizioni: ora lei si trovava schiacciata contro il bordo del tavolo, faccia a faccia con lui.
"Non fare così Lizzie, finché sei con me non ti possono toccare." 
Le alitò addosso, incastrando i suoi polsi tra il piano del tavolo e le sue mani.
"Non mi chiamare così!" E gli tirò una testata sul naso, riuscendo a ferirlo.
Jack si prese il viso tra le mani, urlò e grugnì dal dolore. 
La ragazza si lanciò per afferrare la sacca e poi si voltò verso la vetrata alle spalle del letto.
Fece un respiro profondo e prese la rincorsa. 
Si lanciò contro il vetro, sfondandolo in mille pezzi.
Si ritrovò a rotolare sul tetto adiacente al suo appartamento. 
Ora che era fuori doveva solo correre, scendere e nascondersi in strada.
I vetri l'avevano ferita al fianco destro, lo sentì quando cercò di tirarsi su facendo leva sul braccio che era già stato ferito da quel volo di mesi prima. Ma la fitta fu allucinante e cadde con la faccia contro il cemento bagnato del tetto.
Vide gli scarponi neri di Jack avvicinarsi, scricchiolare sulla ghiaia del tetto e la pioggia. 
"No Liz, così non va bene!" La prese per le spalle e la tirò su, mettendola in piedi.
Le accarezzò con la mano destra una guancia, lei cercò di scostarsi, procurandosi una fitta da brividi lungo tutto il busto.
Lui la guardò con sguardo ammonitore, poi con la mano sinistra le afferrò il pezzo di vetro e glie lo tolse dal fianco. Come un cerotto.
Elise urlò. Si prese il fianco gocciolante di sangue e premette le mani sopra la ferita per arginare la perdita di liquido rosso. Mugolò dal dolore e si piegò su se stessa. Lui le appoggiò le mani tra i capelli ormai bagnati. 
"Piccola, devi fare più attenzione." Le cantilenò.
E li non ci vide più. Tirò su di scatto la testa andando a scontrarsi di nuovo con il suo naso.
Il ragazzo urlò dal dolore e anche dalla frustrazione. Si piegò su se stesso, lasciando la presa di Liz, che distrutta e stanca a causa della perdita di sangue, si accasciò a terra.
Non doveva arrendersi. Non doveva! 
Strisciò verso la sacca che si trovava a pochi metri da dove era caduta dopo il salto.
Un ultimo sforzo.
Ma le mani di Jack tornarono sulle sue spalle. La tirò su di nuovo, in malo modo. Se la caricò sulle spalle premendole sulla ferita fresca.
Urlò, scalciò e gli batte con i pugni sulla schiena. Cercò di graffiarlo in volto, di accecarlo in qualche modo, usando le sue ultime riserve di energia.
Quando ebbe varcato la finestra sfondata, la lasciò sul letto gettandolesi addosso. Ma lei fu più veloce e rotolò di lato, cadendo dal materasso e strisciando verso l'armadio dove sapeva di trovare delle lame. 
"Dove credi di andare piccola, concludiamo quello che avevamo iniziato prima che andassi dal tuo fidanzato psicopatico." 
La afferrò per le caviglie e la trascinò sul pavimento verso di se, vicino al tavolo della cucina. 
Sembrava di vedere un gatto che si divertiva a giocare con il topo in trappola. 
Elise affondò le unghie nel pavimento, cercando di impedirglielo.
La tirò su e la sbatte contro il tavolo. La afferrò per la gola e la obbligò a stendersi sul piano, mentre con l'altra mano le alzava la maglietta. 
"No! " Singhiozzò, senza più fiato dalla stanchezza. 
"Basta lottare! Mi ha annoiato questo gioco!" Rispose scocciato. 
La afferrò per i fianchi e la spostò di peso. Fece schiantare la schiena della ragazza contro il muro vicino al tavolo, procurandole una fitta che le appannò la vista. 
"Basta Lizzie, adesso facciamo quello che dico io."
Avevano tutte e due il fiatone, e una mano di Jack le afferrò i polsi impedendole di muoversi, posizionandoli al disopra della sua testa. Con l'altra le accarezzò il seno, la pancia, fino a scendere in mezzo alle gambe, cercando di tirare giù la cerniera e riuscendo a sbottanarglieli.
"No ti prego Jack, non così. Non lo fare, per favore!" Lo stava pregando: non quello.
"Ma è da così tanto tempo che volevamo farlo, sei solo scioccata dagli ultimi avvenimenti, lascia decidere a me." Le alitò all'orecchio, leccandoglielo.
'Lascia decidere a me' la frase che le aveva detto Eric, ma suonava così sbagliata detta da Jack, in quel momento. 
Cercò di divincolarsi e finalmente riuscì a liberare una gamba dal peso del bacino del ragazzo. Con le ultime forze che le rimanevano diede lo slancio necessario per colpirlo proprio in mezzo alle gambe. 
Jack imprecò, e allentò la presa intorno ai suoi polsi. Con uno strattone si liberò del tutto e si gettò verso la porta. Che la prendessero, meglio il proiettile di un escluso che quello che stava per capitare.
Fu troppo lenta, causa principale la ferita al fianco. Le saltò addosso e la spinse contro la parete accanto alla porta, costringendola ad appoggiare la fronte e la guancia contro la parete mentre lui la schiacciava con il suo peso.
"Basta Lizzie, ti fai solo più male. Possiamo stare finalmente insieme non capisci?" 
Non gli rispose, cercava inutilmente di colpirlo con le gambe, ma era bloccata dal peso del bacino di lui. 
Le mani di Jack corsero alla cerniera dei pantaloni di Liz, tra il corpo di lei e la parete. Liz glie le prese cercando di allontanarle, ma lui le intrappolò i polsi dietro la schiena, tenendoli poi con una sola mano.
 Liz urlò dalla frustrazione, era impotente. Non riusciva a muoversi.
Le abbassò i pantaloni neri quanto bastava è la accarezzò. 
Per tutta risposta la ragazza cerco ti tirare una testata all'indietro colpendo il nulla.
"Dobbiamo trovare un giusto ruolo alla tua testa Lizzie, così non cercherà più di rompermi il naso" e le schiacciò il viso contro il muro, tenendo una mano premuta sulla nuca della ragazza, non permettendole in fine nemmeno quel movimento. Era immobile. 
E per una volta decise di smettere. Si immobilizzò, e il silenzio crollò in quella stanza. L'unico rumore era il respiro affannato di Jack, la pioggia che batteva sul cemento del tetto e dei vetri rotti. Stranamente lei non aveva il fiato corto, anzi era tranquillo, lungo, regolare. Pronto a fermarsi. 
Sentì la cerniera di Jack venire abbassata e poi la mano del ragazzo che tornava tra i suoi capelli, obbligandola a premere la fronte contro la parete.
E chiuse gli occhi.
E la prima fitta arrivò più dolorosa di quello che si aspettava. 
Mai in quegli anni le aveva fatto così male. 
E non riusciva a immaginare che fosse Eric a fare tutto quello, perché lui non l'avrebbe mai presa così freddamente, e mai contro la sua volontà. 
Chiuse gli occhi.
Come poteva solo immaginare che fosse Eric a fargli una cosa simile?
Che tipo di uomo poteva farlo?
Solo un mostro.
 
 
 
"Io lo uccido!" Si alzò dalla sedia, rovesciandola. Si mise le mani tra i capelli, per poi coprirsi la bocca e alla fine urlare. 
"Lo ammazzo, lo uccido!" Prese la sedia e la lanciò contro il muro.
Un gemito uscì fuori dalla televisione, non il grugnito di Jack, ma un gemito di dolore. Di Liz. 
No, no, no! Io respiro del ragazzo accelerò e non poté controllarsi più. 
Eric prese lo schermo e lo lanciò contro la parete, mandandolo in mille pezzi.
"Non doveva andare così! No no no!" Si coprì gli occhi. Cazzo stava piangendo, ma non riusciva a calmarsi. L'aveva toccata, picchiata. La stava...! E lui era lì e non faceva nulla. Nulla.
"No! Lizzie fai qualcosa, ti prego!" 
Si lanciò contro il muro, e di nuovo verso l'altro opposto. Voleva farsi male. Doveva farsi male, in questo modo avrebbe fatto meno male. Male. Male.
Bruciava, pulsava, tutto. Tutto! Tutto faceva male.
Urlò di nuovo e prese a pugni il muro.
E infine appoggiò la fronte e le mani contro la parete. 
Regolarizzò il respiro. 
E decise. 
Aveva seguito il discorso della pazza esclusa. Stavano arrivando.
A prenderli. 
E lui la stava toccando. Contro il suo volere.
E decise. 
"Scusami Liz. Perdonami." 
Premette la fronte più forte contro il muro.
"Ti prego, perdonami per quello che sto per fare." Disse tra se di nuovo.
Lasciò scivolare le mani lungo i fianchi, si raddrizzò, e uscì da quella stanza.
 
 
 
"Qua dentro c'è tutto. Cibo per due settimane, sieri e medicine per combattere qualsiasi crisi possa avere. Ti ho lasciato degli appunti in modo che tu possa consultarli." 
Il dottore era indaffarato a riempire quello zaino con tutto quello che trovava nell'armadietto della' infermeria , mentre Eric si stava legando contro il petto la bambina avvolta intorno alle coperte.
"È come se avesse solo sette mesi dalla nascita, abbiamo interrotto bruscamente la fase di crescita, ma è in salute e con tutti i medicinali che ti ho dato ci rimarrà. Ma non posso assicurarti nulla." 
Eric si mise in spalla lo zaino.
"Non serve che mi assicuri nulla. Hai già fatto abbastanza."
"È difficile riuscire a cavarvi un grazie a voi intrepidi. Il primo segno di essere umani e a più di 70 chilometri da qui. Come riuscirai ad arrivarci?" 
"Sono un intrepido, e anche lei lo è. Ce la faremo." Si avviò verso la porta.
"Ragazzo!" Lo richiamò.
 Eric si voltò verso il dottore. 
"Sei il più coraggioso tra tutti, lo sai questo?"
"No. Quelli che rimangono lo sono. Prima che arrivino, noi saremo già oltre i campi. Non coprirci, rischieresti la vita." 
Si soffermò sulla soglia e gli uscì spontaneo dirgli un ultima cosa.
"Sei una delle persone più coraggiose che abbia mai incontrato, dottore. Stranamente in questi mesi ho incontrato gente più coraggiosa degli intrepidi, mentre la mia fazione mi ha definitivamente deluso. Continua a proteggerli. Un giorno ricambierò il favore."
E si diresse verso l'uscita della zona, stringendosi a se quel fagottino che era diventato la ragione della sua vita. Se non voleva che lui e Liz morissero, doveva tenere in vita l'unico loro motivo ancora esistente.
"Non me lo perdonerò mai piccola, ma sento che è la cosa giusta."
E si inoltrò tra l'oscurità dei campi, il freddo della notte e la disperazione della pioggia.
Quella sua decisione avrebbe deciso che tipo di uomo voleva essere. 
Un codardo?
No. 
Un padre.
 
  
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