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Autore: afep    10/04/2015    3 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Era un’altra gelida giornata nella città di Windhelm.
Il vento che aveva spirato sull’Eastmarch negli ultimi tempi, quel giorno era ridotto ad una lieve brezza dal pungente odore salmastro, e per la prima volta da quando ero giunta in quella fredda terra il cielo era limpido e terso, del colore esatto del ghiaccio. Un pallidissimo sole brillava sopra la città di pietra, e sebbene i suoi raggi non riuscissero a vincere la morsa del gelo, la sua sola presenza era sufficiente per riscaldare un poco gli animi.
Dall’alto di una delle balconate che si affacciavano verso i cortili interni osservavo i soldati impegnati in estenuanti allenamenti; il clangore delle loro armi ed il loro vociare si spandeva nell’aria, arrivando attutito fino alle mie orecchie. Sapevo che laggiù, da qualche parte, mio marito era impegnato a sbraitare contro i suoi uomini, ma a quella distanza non riuscivo a scorgerlo.
Non che avessi voluto, naturalmente.
Con un breve sbuffo spazientito sollevai lo sguardo dal cortile affollato di soldati e lo puntai davanti a me, sulle impervie, vicinissime catene montuose che circondavano tutto il lato nord-ovest della città in un abbraccio granitico. Grazie a quelle montagne ed alle sue alte mura, Windhelm era quasi inespugnabile: nessuno poteva entrare, nessuno poteva attraversare l’ampio ponte di pietra che conduceva alle porte cittadine, senza essere individuato. Ed allo stesso modo, nessuno poteva uscirne.
A quel pensiero mi strinsi nel mio mantello foderato di volpe e rabbrividii. Negli ultimi tempi avevo meditato spesso di allontanarmi dal palazzo, di raggiungere Castel Amol o addirittura di tornare per un breve periodo a Daggerfall. Non volevo restare un attimo di più nel gelido regno di mio marito, dove ogni cosa pareva ghiacciarsi e assopirsi in attesa di una primavera che non sarebbe mai arrivata.
Stirando le labbra mossi una mano sotto al mantello, posandomi una mano sul ventre. Ecco, altro vuoto ed altro gelo.
Artigliai il tessuto morbido del mio vestito, sentendo sotto le unghie i rilievi dei ricami dorati che ornavano il corpetto della sopravveste verde cupo. Per un attimo ringraziai la brezza pungente, perché con la scusa del vento potevo mascherare la vera ragione per cui gli occhi mi si erano riempiti di lacrime.
Mio figlio non c’era più.
Era quella la cruda verità. Il mio corpo non era riuscito a trattenere dentro di sé la vita che portava, e tutti i miei sforzi durante le notti passate con mio marito erano stati vani.
Dopo avermi vista accasciare nella Sala del Trono, Yrsarald mi aveva sollevata senza fatica e mi aveva ricondotta nelle mie stanze, depositandomi sull’ampio talamo nuziale. E lì ero rimasta, per tutta la notte e per tutti i giorni successivi, mentre Mirala attizzava il fuoco, rassettava le coperte e mi costringeva a mangiare, attendendo che il mio corpo si riprendesse dal duro colpo che aveva subito.
Nella mia mente i ricordi di quel periodo erano confusi, come se fossi stata preda di una febbre. Eppure, anche nel momento di minor lucidità non avevo potuto ignorare che qualcosa pareva essere cambiato: non era più la mia balia ad impartire ordini e a far correre i servi come lepri inseguite dal cacciatore, ma Ioreth.
Inclinai il capo, spostando lo sguardo verso un punto indefinito delle montagne di roccia e neve che si stagliavano davanti a me. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che Ioreth era dietro di me e mi stava guardando, immota e granitica come quelle rocce.
In un primo momento non avevo capito subito chi fosse o cosa ci facesse al mio capezzale. Tutto quello che riuscivo a vedere era una donna anziana tra i cinquanta e i sessant’anni, dai capelli candidi come neve e gli occhi verdi, vivi ed acuti come quelli di una ragazza. Era poco più bassa delle altre donne Nord ed il suo viso era segnato da poche, profonde rughe dovute alla vecchiaia, ma sotto gli abiti si indovinava un corpo forte, tutto nervi, e si muoveva con gesti energici e scattanti. Tra i servitori nessuno metteva in dubbio la sua parola, e tutti sembravano ansiosi di soddisfarla.
Solo in seguito, quando fui in grado di sollevare la testa senza che mi girasse e guardare quella donna negli occhi, riuscii a scoprire chi fosse e perché era giunta a palazzo. Mio marito l’aveva richiamata da Solitude, dove svolgeva il suo lavoro presso la corte dello Jarl locale, perché divenisse la mia cameriera personale e soppiantasse Mirala.
Fu lei a scrivere la lettera.
Il giorno seguente al mio malore, mentre ero ancora a letto, entrò nella mia stanza ed annunciò che avrebbe scritto a mio marito. Lui doveva sapere, mi disse, ed io non potevo che essere d’accordo; non provavo alcun affetto per lui e non sopportavo il suo pessimo carattere, ma in qualche modo mi ero persuasa che avrebbe saputo cosa fare in un simile momento, che quella disgrazia avrebbe potuto renderlo un po’ più umano ed un po’ meno simile alla pietra gelida del suo palazzo.
Lasciai che Ioreth prendesse il calamo e scrivesse un breve messaggio conciso, che mi fece leggere prima di affidarlo ad un uomo perché lo portasse a Winterhold.
Ero convinta che, una volta ricevuta la lettera, mio marito si precipitasse da me. Ci volevano giorni per coprire la distanza che separava le due città, per cui calcolai che ci sarebbe voluta quasi una settimana e mezza perché il messo lo raggiungesse e lui tornasse a Windhelm.
Ma i giorni passavano, e la delegazione partita per Winterhold non si faceva vedere.
“La neve li starà rallentando.” Mi diceva Mirala per placare la mia impazienza. Ma altro tempo trascorse, ed ancora nessuno stendardo blu aveva fatto la sua comparsa alle porte della città.
“Le bufere avranno loro impedito il cammino.” Ripeteva allora la mia balia, ma anche lei cominciava ad avere qualche dubbio sul pronto rientro di mio marito dal suo viaggio.
Fu solo dopo molti giorni che il mio sposo fece finalmente ritorno. Un garzone entrò di corsa nello studio del Sovrintendente per avvisarmi del suo arrivo, ma io lo scacciai con un cenno della mano senza dar segno di volermi muovere.
Lui mi aveva fatto aspettare tanto, al punto da farmi credere che di me e del figlio che avevo perduto non gli interessasse alcunché. E vista la sua mancanza di interesse nei miei confronti, decisi che non sarei scesa nel cortile interno per accoglierlo.
Ioreth aveva protestato con aria contrariata, e persino Mirala aveva cercato di persuadermi, ma io ero rimasta sorda alle loro richieste, ed avevo continuato a ricopiare sul libro mastro le cifre ed i nomi che Jorleif aveva appuntato su un foglio di pergamena. Ero ben decisa a dimostrarmi dura come pietra quando lo avessi incontrato, quella sera, ma non avevo previsto quanto era accaduto in seguito.
Mio marito aveva fatto irruzione nello studio come una folata improvvisa, aveva cacciato le due donne che mi tenevano compagnia e chiuso la porta alle loro spalle. Gli avevo lanciato appena un’occhiata, e subito mi ero ritrovata a stringere i denti con forza.
Il mio sposo aveva gli abiti stazzonati, i capelli aggrovigliati e la barba più lunga del solito. Vi erano tracce di neve sulle sue spalle, sui calzoni e sugli stivali, ed il suo viso dalle pelle tirata e screpolata dal freddo era una maschera impenetrabile.
“Le bufere mi hanno rallentato.” Aveva detto con voce arrochita dal gelo dopo un lungo attimo di silenzio, senza nemmeno disturbarsi a rivolgermi un saluto. Imperterrita avevo continuato a far scricchiolare il calamo sui ruvidi fogli di pergamena, annuendo una sola volta. Ero nervosa, sebbene non volessi darlo a vedere, ed il suo aspetto di certo non aiutava a rendermi più tranquilla: pareva più un bandito, che uno Jarl.
Temevo che volesse rimproverarmi per la mia mancata accoglienza, o che volesse esprimere qualche giudizio con i suoi soliti modi duri ed irrispettosi; ma invece che scagliarsi contro di me, rimase semplicemente fermo sulla soglia, osservandomi mentre il suo petto si alzava ed abbassava sotto il mantello di pelliccia, a causa della gran corsa che doveva aver fatto lungo le scalinate che ci separavano.
Era rimasto immobile per un lungo minuto e poi, all’improvviso, mio marito aveva attraversato la stanza e fatto il giro della pesante scrivania alla quale sedevo. Con la coda dell'occhio lo avevo visto sollevare una mano, e subito mi ero irrigidita temendo che volesse colpirmi.
Ma non lo aveva fatto. Contro ogni aspettativa avevo sentito invece una carezza impacciata sulla sommità della testa, insieme ad una zaffata di sudore e cuoio umido.
“Mi spiace non essere arrivato prima.” Aveva detto in tono incerto, come se non fosse abituato a scusarsi, ed io ero rimasta immobile, troppo stupita per ribattere in qualche modo.
Si era soffermato ad accarezzarmi goffamente i capelli per qualche istante, infine mi aveva fatto scivolare la mano sulla spalla e mi aveva dato una leggera stretta, come se fossi stata uno dei suoi commilitoni. “Ti lascio alle tue occupazioni.” Aveva detto sommessamente, ed a passo lento si era allontanato.
Dopo quell’episodio mi sarei anche detta pronta a perdonarlo, se solo pochi giorni dopo non avesse ufficialmente tolto a Mirala l’incarico di starmi accanto per darlo a Ioreth.
“Ormai sei una donna sposata, ed io non permetterò che mia moglie venga seguita da una balia.” Aveva decretato con decisione, dopo avermi mandata a chiamare. “La tua Altmer potrà farti da dama di compagnia, se proprio desideri. Ma non voglio più vederla correre dietro alle tue gonne.” E con quello aveva chiuso l’argomento senza lasciarmi possibilità di ribattere.
Ne ero rimasta tanto indispettita che nei giorni seguenti decisi di dimostrargli tutto il mio disappunto, ma ottenni ben pochi risultati; secondo mio marito stavo solo facendo i capricci, come una ragazzina viziata, e vi dette poco peso. Avevo allora pensato di irritarlo negandomi a lui in occasione dei nostri rapporti matrimoniali, ma le sere successive il mio sposo si intrattenne a lungo a discutere nella Sala Tattica con i suoi Capitani, e quando mi raggiungeva desiderava solo dormire senza che lo disturbassi, così che anche quel mio piccolo piano era fallito miseramente.
“Dovreste rientrare, Signora.” La voce di Ioreth interruppe i miei pensieri, facendomi distogliere lo sguardo dalle pareti di roccia davanti a me. Nonostante le parole rispettose il suo tono era autoritario, e non ammetteva repliche. Nel cortile sotto di me vidi un gruppo di uomini cessare gli allenamenti , mentre un individuo si faceva largo tra loro a forza per tornare a palazzo.
“Mi piace stare qui.” Mentii senza voltarmi. Non volevo indispettire Ioreth, ma nemmeno desideravo dargliela vinta e lasciare che mi comandasse a bacchetta.
“Dovreste rientrare.” Ribadì sbrigativamente la donna. “Alcuni ospiti sono appena giunti nella Sala del Trono.”
Con estrema lentezza mi allontanai dal parapetto di pietra, voltandomi per fronteggiare Ioreth. La vecchia era in piedi sotto l’arco che conduceva alla balconata, nella stessa posizione che aveva assunto quando mi aveva accompagnata fin lì diversi minuti prima, ma ora al suo fianco era comparsa una giovinetta vestita semplicemente, con il grembiule di cotone grezzo e la cuffia di lino delle fantesche. Doveva essere stata lei a portare la notizia.
Sapevo che accogliere gli ospiti faceva parte dei miei compiti, così mi lasciai alle spalle la balconata e sorpassai Ioreth, imboccando con sicurezza uno dei corridoi che si dipanavano all’interno del palazzo. Mi ci vollero diversi minuti prima di raggiungere la Sala del Trono, e quando vi misi piede mi stupii dei volti tesi e cupi dei servitori, che riuniti in piccoli gruppi sotto gli archi di pietra dei corridoi si affacciavano per guardare verso le porte del palazzo con disappunto.
L’oggetto dei loro sguardi erano due figure alte e sottili, ferme a pochi passi dalla soglia, che le guardie continuavano a tener d’occhio nervosamente, come se temessero un attacco.
Eppure ai miei occhi i due visitatori sembravano tutto fuorché minacciosi. Entrambi avvolti in lunghi mantelli di un grigio bluastro, che li coprivano dal collo fino alle punte degli stivali, parevano due colonne in un tempio. La loro pelle chiara riluceva d’oro pallido, ed un paio di orecchie puntute spuntavano dalle chiome lunghe e lisce, che scendevano ordinatamente lungo le loro schiene diritte.
Il loro aspetto era tanto simile a quello di Mirala, con quel portamento eretto e quegli occhi oblunghi, da non lasciarmi alcun dubbio sul fatto che si trattasse di Altmer, probabilmente provenienti da Alinor, a giudicare dalla fattura dei loro mantelli.
Al mio ingresso i loro sguardi si puntarono su di me, pigri ed indolenti come se stessero osservando un muro di mattoni o un oggetto di scarso interesse.
Mi avvicinai, ma ero giunta appena a metà strada che una delle porte che conducevano all’ala est del palazzo si spalancò, e mio marito fece irruzione nella sala con la violenza di una tempesta improvvisa.
Era reduce dagli allenamenti che lo avevano tenuto impegnato nei cortili affollati di guardie, ed indossava ancora la cotta di maglia e gli alti stivali rinforzati da lamine di ferro. I capelli erano scarmigliati, appiccicati a ciocche madide attorno al suo volto sudato, e nella mano destra stringeva una spada dalla lama tozza e dall’aspetto brutale, come se non avesse avuto il tempo di rinfoderarla.
Dietro di lui avanzavano a breve distanza Galmar ed Yrsarald, entrambi con lo stesso aspetto disordinato, portandosi dietro un acre sentore di sudore e cuoio inumidito.
“Lord Ulfric.” Lo salutò uno degli Altmer con voce pacata, quasi non si fosse accorto di essere stato accolto con una lama sguainata.
“Fuori dalla mia città.” Ringhiò mio marito per tutta risposta, fermandosi davanti ai due elfi. La differenza tra il suo aspetto selvaggio e l’ordinata dignità degli Altmer lo faceva apparire come un bruto, e me ne vergognai.
“Temo non sia possibile.” L’Altmer inarcò un sopracciglio, e dai lembi del suo mantello sbucò una pallida mano dorata. “Siamo qui in veste di messi per la corte di Solitude, e sarebbe una scortesia nei confronti di Jarl Istlod allontanarci di mal garbo, non credete?” Domandò retorico, stringendo una sottile custodia cilindrica di cuoio rosso tra le lunghe dita affusolate.
Riconobbi tre sigilli argentati, ma non ero abbastanza vicina da scorgere che simboli recassero. Allora spostai lo sguardo dalla custodia della pergamena, alternandolo tra l’Altmer e mio marito.
C’era una vena pulsante sulla tempia del mio sposo, e la mano che non reggeva la spada era stretta a pugno. Il tono serafico dell’elfo doveva averlo punto sul vivo.
“Siete qui per insidiare il mio regno, invece.” Ringhiò, sollevando la lama verso la porta alle loro spalle. “Lasciate il messaggio ed andate fuori dai piedi. Non tollererò la presenza di voi serpi dalle orecchie a punta un solo istante di più.”
“No?” Gli fece eco l’Altmer che fungeva da portavoce, facendo scivolare il suo sguardo d’onice lontano da mio marito. Seguii la direzione dei suoi occhi, e poco distante da noi vidi Mirala, appena giunta dalle cucine, che osservava la scena mantenendosi defilata. Il volto della mia balia era una maschera di perfetta alterigia, con un solo accenno di velato stupore davanti la comparsa di due esponenti della sua razza.
I due Altmer messaggeri chinarono impercettibilmente il capo nella sua direzione, facendo fremere per un brevissimo istante le chiome lucide e pallide che si poggiavano sulle loro spalle ammantate.
Mentre le facevano quel breve inchino, uno dei due elfi le rivolse poche parole nella loro lingua; non conoscevo bene l'idioma di Alinor, ma da quel poco che potevo comprendere riconobbi una lunga e formale formula di saluto.
Mio marito non doveva aver invece compreso alcunché, perché mosse un passo avanti e li interruppe bruscamente, levando una mano nella loro direzione.
I due Altmer tornarono a rivolgere a lui la loro attenzione, e dopo aver affidato il messaggio ad un servitore gli assicurarono in tono lezioso che Jarl Istlod sarebbe stato lieto della sua calorosa accoglienza. L'irritazione del mio sposo era sempre più evidente, ma prima che lui potesse buttarli personalmente fuori dal Palazzo dei Re salutarono Mirala con un leggero inchino e si congedarono; e quando si voltarono per uscire dalla Sala del Trono fu come vedere due lucide colonne di fumo nero scivolare sul liscio pavimento di pietra.
Le porte si chiusero alle loro spalle con un tonfo deciso, ed io sentii i passi affrettati della servitù che tornava ai propri compiti, insieme al fruscio delle gonne di Ioreth.
“Signora?” Mi richiamò, pronta a scortarmi lontana dalla Sala, ma io finsi di non udirla. Per una volta condividevo l'irritazione di mio marito; io ero la Signora di Windhelm, la moglie dello Jarl, eppure ero stata ignorata alla stregua di un soprammobile di poco conto. Al contrario di Mirala, che invece era stata salutata con tutti gli onori; per quanto amassi la mia balia, fremevo di indignazione: ero io quella che doveva essere riverita.
Ripensando a quei tempi, mi stupisco di quanto fossi giovane e viziata. Ero abituata ad essere trattata con i guanti, posta sempre al centro dell'attenzione, e la permanenza al fianco di mio marito non aveva ancora scalfito quella mia presunzione, inculcatami in anni di impeccabile istruzione.
Ero troppo impegnata a sentirmi offesa per rendermi conto che il mio sposo si era accorto della mia presenza, così che sobbalzai quando lo sentii rivolgersi a me intimandomi di tornare a qualunque cosa stessi facendo.
Fui sul punto di ribattere con la stessa durezza, ma poi lo sguardo mi scivolò sulla spada ancora sguainata che teneva in pugno, ed allora mi limitai a voltargli le spalle ed affrettarmi verso i nostri alloggi nel modo più decoroso che mi fosse possibile. Ero quasi sicura che non avrebbe osato levare le armi, specialmente contro di me; ma ancora non conoscevo a fondo il suo carattere, e quasi non era una piena certezza.
Mentre mi allontanavo lo sentii ringhiare qualcosa a Galmar ed agli uomini che lo avevano seguito nel cortile, ma ero troppo indignata con i due Altmer e troppo impegnata a mostrarmi arrabbiata con lui per dargli ascolto.
“Fammi preparare la tinozza nella stanza da bagno.” Ordinai a Ioreth, mentre avanzavo lungo i corridoi di pietra. Non mi voltai per accertarmi della sua presenza, perché riuscivo a sentire dietro di me il rumore dei suoi passi che mi seguivano incessantemente.
“Farò in modo che sia pronta.” Replicò la mia cameriera, senza scomporsi.
Annuii ed afferrai un lembo delle gonne, sollevandolo per risalire una delle scalinate che portava ai livelli superiori.
“Non voglio essere disturbata.” Aggiunsi con la voce un po' affatica perché, sebbene ormai vivessi da diverso tempo nel palazzo di mio marito, non mi ero ancora abituata alle sue numerosissime rampe di scale.
“Come desiderate.” Mi rispose la voce perentoria e secca di Ioreth.
E con la pallida speranza di potermi liberare della sua sorveglianza almeno per qualche minuto, mi affrettai lungo la scalinata con la mia cameriera al seguito.
 

******



Ulfric fissava il paesaggio gelato che si apriva oltre il vano della finestra con aria corrucciata.
Aveva le mani allacciate dietro la schiena, la pergamena giunta da Solitude stretta in pugno, e di tanto in tanto emetteva un suono simile ad un basso ringhio. La fronte era aggrottata al punto che gli occhi erano quasi scomparsi sotto le folte sopracciglia, facendolo somigliare ad un grosso orso furente che fosse stato svegliato dal letargo prima del tempo.
“Dunque, andrai?” Appoggiato al bordo del tavolaccio di legno che campeggiava in mezzo alla Sala Tattica, Galmar incrociò le possenti braccia al petto e sollevò lo sguardo sul suo sovrano.
Lo Jarl si lasciò sfuggire un lungo brontolio, voltandosi lentamente per rivolgersi al suo secondo.
“Non posso evitarlo.” Grugnì controvoglia, e preso da un moto di stizza appallottolò la pergamena che teneva tra le dita e la lanciò con disprezzo sul tavolo, mancando Galmar per un pelo.
La missiva giunta da Solitude era scritta niente meno che da Jarl Istlod, il Re dei Re in persona.
A quanto pareva, quell'invertebrato di Igmund aveva tenuto fede alle sue minacce; quando mesi prima il suo messo era tornato a Markarth senza risposta e, soprattutto, senza il denaro che pretendeva da Ulfric, aveva scritto all'unico in grado di porre rimedio a quella situazione.
Ed ora Istold scriveva a lui, pregandolo di raggiungerlo a Solitude per discutere di quella scomoda faccenda di Markarth, come la chiamava nella sua lettera. Ulfric non aveva alcun dubbio che il suo modo per sistemare gli screzi sarebbe stato obbligarlo a pagare le cifre ridicolmente alte che Igmund richiedeva.
Quello era un altro problema che si aggiungeva a quelli che già gravavano sulle sue spalle. Come se non fosse sufficiente aver perso il primo figlio di quel suo malaugurato matrimonio, dover sopportare ogni giorno i capricci ed i bronci di sua moglie e, nel frattempo, reggere un regno mentre quei famelici lupi dalle orecchie a punta premevano sui suoi confini.
Il pagamento delle somme chieste da quel verme di Igmund sarebbe stato un duro colpo per le casse dell'Eastmarch, e quella volta non c'era alcuna piccola mezza Bretone con un cospicuo patrimonio alla quale avrebbe potuto aggrapparsi.
“Ci sono notizie da Yrsarald?” Domandò all'improvviso avvicinandosi ad un secondo tavolo addossato ad una parete, sul quale erano appoggiate con cura due faretre dall'impennaggio tinto del blu dell'Eastmarch. “Ha scoperto chi ha fatto entrare i due Altmer senza che lo venissi a sapere?”
“Non ancora.” Galmar scrollò le robuste spalle e si strofinò il naso sul polso rivestito di cuoio. “Ma ci sta lavorando.”
Ulfric annuì ed estrasse una delle frecce dalla faretra. L'asta di legno di pino, che avrebbe dovuto essere perfettamente diritta, presentava una leggera curva verso destra, rendendo il dardo impreciso. Non era inaccettabile.
Lo avrebbe fatto presente ai responsabili dell'armeria, non appena ne avesse avuto il tempo.
Sbuffando sistemò la freccia incriminata accanto alla faretra, in modo che la sua curvatura saltasse all'occhio, e le voltò le spalle. Ecco un altro compito che si aggiungeva alla sua lista; avrebbe potuto lasciare che se ne occupassero altri, certo, ma chi gli assicurava che lo avrebbero fatto come lui desiderava?
“Scusa se interrompo le tue elucubrazioni.” Esclamò la voce di Galmar, con la sua consueta punta di sarcasmo. “Ma hai l'aria esausta, amico mio.”
Ulfric gli lanciò un'occhiata accigliata e rispose con un grugnito indisponente, tornando accanto alla finestra per scrutare all'esterno.
“Questo non è propriamente un complimento.”
“Se avessi voluto farti un complimento, avrei mentito.” Galmar lo raggiunse, facendo cigolare le cinghie di cuoi della corazza contro il metallo delle fibbie, e gli posò una mano larga quanto una vanga sulla spalla. “Lascia che sia io ad occuparmi della faccenda degli Elfi.”
“Non è unicamente quello, a preoccuparmi.” Lo Jarl socchiuse gli occhi quando un alito di vento gelido gli accarezzò il volto, ed accolse quella carezza gelata sollevando il mento. “Temo che Istlod mi obbligherà a pagare un prezzo esorbitante.”
Ach! Igmund ha già avuto il sangue ed il sudore dell'Eastmarch...”
“Ed ora vuole il nostro oro.”
“E allora può anche baciarmi le chiappe, quel viscido figlio di una...”
“Bada alle tue parole, soldato.”
I due uomini si voltarono all'unisono verso l'arco di pietra che collegava la Sala Tattica alle scale per i piani superiori. In piedi sulla soglia, con le mani giunte in grembo e l'aria severa, Ioreth li fissava con i suoi acuti occhi verdi simili a quelli di una volpe.
Davanti al suo volto solenne Galmar borbottò una scusa e chinò il capo, battendosi il pugno sul petto nel tipico saluto dei soldati di Windhelm.
Con un'espressione vagamente seccata la vecchia cameriera mosse alcuni passi all'interno della stanza, fermandosi a debita distanza davanti ad Ulfric. Nemmeno una ciocca dei suoi candidi capelli sfuggiva dalla crocchia, ed una smorfia di vaga disapprovazione le tendeva le labbra evidenziando le rughe che le solcavano il volto.
“Ioreth.” La salutò Ulfric, con una vaga sorpresa. “Non dovresti essere con mia moglie?”
“Lady Lirael si sta lavando nella stanza da bagno.”
“E l'hai lasciata sola?” Lo Jarl Tornò ad accigliarsi di nuovo. Al suo ritorno da Winterhold aveva convocato la vecchia servitrice ed aveva posto delle condizioni sul suo servizio; non avrebbe mai dovuto lasciare il fianco della sua Signora, ed in nessun caso permetterle di restare sola, esposta ai rischi. Gli occhi rancorosi dell'incappucciato che lo fissavano dall'ombra lo avevano tormentato a lungo, durante il suo viaggio al nord, ed alla fine era giunto alla conclusione che non era lui, ma la sua piccola sposa quella che più aveva bisogno di protezione.
Era sul punto di abbandonare la sala ed andare lui stesso a raggiungere la giovane moglie, quando la donna sollevò una mano, assicurandogli di averle messo accanto una cameriera con l'ordine di non far avvicinare nessuno.
“La tua mancanza di fiducia è insultante.” Dichiarò Ioreth senza curarsi di rivolgerglisi formalmente o con il rispetto dovuto alla sua posizione. “Ma non è di questo che devo parlarti.”
“Dunque?” La incoraggiò Ulfric, senza curarsi di quell’infrazione all’etichetta. C'era qualcosa, nella vecchia, che rendeva superflua ogni formalità.
La donna levò un sopracciglio ingrigito e si rassettò il grembiule di tela che le copriva le gonne. A differenza della maggior parte delle fantesche vestiva abiti di un tessuto meno grezzo, e di fattura più accurata; era la cameriera della Signora del castello, e tutto in lei, dalla stoffa del vestito fino al mento levato, denotava la sua importanza all'interno della piccola scala gerarchica della servitù.
“Credo che a tua moglie sia stata somministrata una pozione abortiva.” Disse senza tanti preamboli, lasciando che la gravità della notizia lo colpisse in pieno.
Al suo fianco Galmar si lasciò scappare un'imprecazione e mosse qualche passo nervoso nella stanza, ed Ulfric prese un profondo respiro per evitare di imprecare come il suo secondo.
“Ne sei certa?” Chiese invece a Ioreth, cercando di ignorare le domande che avevano cominciato ad affollarsi nella sua mente.
“Ho avuto dei colloqui con Yrsarald e con l'Altmer di tua moglie.” Cominciò la donna, facendo un cenno con la mano. “Ho parlato con la guaritrice che l'ha soccorsa, ed alla fine mi sono consultata con Wuunferth. Nessuno l'ha mai persa di vista, e pare che non abbia bevuto o mangiato nulla che non provenisse dalle cucine al di fuori di una scodella di latte che le è stata offerta nella piazza del mercato. La pozione doveva essere altamente concentrata, vista la rapidità con cui pare abbia sortito il suo effetto.”
Sul volto dello Jarl si dipinse un'aria minacciosa, ed a gran passi raggiunse l'anziana servitrice. Sentiva la rabbia montare, ma era una collera rivolta unicamente a sé stesso. Se avesse portato la ragazza con sé a Winterhold invece che permetterle di restare a palazzo, forse il suo primo e legittimo erede sarebbe stato ancora al sicuro nel suo ventre. L'affaticamento che le avrebbe causato il viaggio sembrava ora un prezzo irrisorio, di fronte alla perdita che aveva subito.
“Ne sei certa?” Domandò a Ioreth in tono imperioso.
“Tutte le voci che ho raccolto...”
“Io non voglio voci, voglio certezze, maledizione!”
“Tutte le voci che ho raccolto...” Riprese Ioreth severamente, alzando la voce. “... indicano che la pozione potrebbe esserle stata somministrata da Sigrid Sorensdottir.”
“Non l'ho mai sentita nominare.” Grugnì lo Jarl, spostandosi con aria cupa verso il braciere di metallo che spandeva calore da un angolo della stanza.
“Dovresti.” L'anziana cameriera si voltò lentamente verso di lui, ed in quel momento Galmar bofonchiò qualcosa tra i denti.
Quando Ulfric gli chiese di ripetere, il robusto guerriero si schiarì rumorosamente la voce, grattandosi il mento sotto la folta barba grigia prima di ripetere l'ultimo nome che lo Jarl avrebbe voluto sentire.
“Halfdan.” Ripeté l'uomo, agganciando una mano alla larga cintura d'arme che gli stringeva la vita asciutta e muscolosa. “Sigrid Sorensdottir è la sua donna.”


Negli attimi successivi alla rivelazione di Galmar si scatenò un gran trambusto.
Ulfric cominciò a sbraitare improperi e minacce di morte, tuonando con tutta la sua furia; il suo secondo gli si avvicinò alla svelta ed alzò la voce per cercare di sovrastarlo e di farlo ragionare, ed inavvertitamente colpì il braciere, che sbatté rumorosamente contro la parete. Le urla ed il baccano richiamarono alcune guardie, che accorsero con un gran fracasso di armature, e Ioreth fu costretta a scacciarli in tono severo; l'arrivo dei soldati attirò però l'attenzione dei domestici presenti nelle vicinanze, che si accalcarono sull'ingresso impedendo agli uomini armati di tornare sui propri passi, suscitando le loro vive proteste. Fu solo dopo lunghi minuti, quando Ioreth riuscì a scacciare i curiosi e Galmar a calmare il suo Jarl, che venne il momento di decidere il da farsi.
“Lascia che parli io al ragazzo.” Disse il vecchio guerriero, posando una mano sulla spalla di Ulfric.
“E' un uomo, oramai, e come tale dovrà rispondere. Dopo che avrà lasciato la casa che io gli permetto di occupare.” Era stata la rabbiosa risposta. “Per colpa sua, mia moglie poteva morire.”
“Ora non esagerare.” Ioreth si allontanò dal varco d'ingresso alla stanza, dove si era appostata come deterrente per i servitori più curiosi, e si voltò verso di loro lisciandosi il grembiule. “Lascia che sia Galmar a parlarci. Otterrà più di quanto potresti ottenere tu, in ogni caso.”
A quelle parole Galmar rivolse al suo vecchio amico uno sguardo rassicurante, annuendo profondamente.
“Ci penserò io.” Gli assicurò ancora, e dopo aver ricevuto un assenso seccato dal suo Jarl si batté il pugno sul petto si allontanò con passo deciso.
Ulfric si lasciò sfuggire un brontolio rabbioso. Quando lo sguardo gli cadde sulla missiva appallottolata sul tavolo fu colto da un moto di irritazione, ed agendo d'impeto la afferrò e la lanciò nel braciere.
“Quella lettera da Solitude.” Proruppe la voce di Ioreth, ricordandogli che si trovava ancora in sua presenza.
“Sì?”
“Mi menzionava?”
Lentamente si voltò a guardarla. La donna era ancora in mezzo alla stanza, decorosa e granitica come le mura della città.
“Menzionarti? E perché mai?” Grugnì lo Jarl, muovendo qualche passo sul pavimento di pietra per frenare il proprio malumore. “Istlod è il dannatissimo Re dei Re. Ha altro da fare, che non occuparsi dei miei servitori.”
“E' anche molto affezionato alla moglie di suo figlio.” Lo rimbeccò Ioreth. “E Lady Elisif non ha gradito che io l'abbia abbandonata per tornare al servizio di questa corte.”
“Quello che gradisce Elisif non mi riguarda.”
“Dovrebbe. Le malelingue trovano curioso che tu abbia voluto per tua moglie la stessa cameriera che assisteva tua madre.”
Ulfric sbuffò e si voltò di nuovo verso la finestra, appoggiando i pugni sul davanzale di pietra. L'aria fredda gli fece pizzicare gli occhi, riempiendoli di lacrime, e lo Jarl dovette abbassare per un attimo lo sguardo per abituarsi al gelo esterno.
“Le malelingue non mi preoccupano. E' solo gente senza spina dorsale, codardi che non avrebbero mai il coraggio di ripetere le loro stesse parole guardandomi in faccia.” Decretò aspramente, aprendo le mani per far aderire i palmi alle asperità della roccia levigata dal tempo. “Valgono meno dei vermi che strisciano nella terra, per quel che mi riguarda.”
Ioreth rimase a lungo in silenzio, ed alla fine esalò un lento sospiro.
“Un tempo credevo che saresti cresciuto con il cuore di tua madre.” Disse rivolta alla sua schiena, con una lievissima punta di rimpianto. “Eppure ora vedo che non sei diverso da tuo padre.”
“Fuori di qui!” Sbraitò improvvisamente Ulfric al colmo della rabbia, voltandosi di colpo. “Allontanati dalla mia vista!”
L'anziana servitrice si esibì in una riverenza appena accennata, senza dar segno di scomporsi.
“Come desideri.” Replicò seccamente, prima di allontanarsi in tutta calma accompagnata dal fruscio delle proprie gonne.
Lo Jarl attese di vederla scomparire oltre l'arco di pietra, quindi si avvicinò a gran passi al tavolo addossato alla parete ed agguantò la freccia che aveva appoggiato accanto alla faretra. Sarebbe andato immediatamente dall'armaiolo, senza perdere altro tempo, e dopo si sarebbe diretto di nuovo nel cortile dove si allenavano i suoi guerrieri.
Doveva approntare tutto il necessario per il proprio viaggio, ma contava dentro di sé di avere ancora il tempo sufficiente per sfogare la propria irritazione con uno scontro in armi degno di questo nome.
 

******



Stava ancora nevicando.
Con un sospiro sistemai lo schermo della finestra nel suo alloggiamento, richiudendo lo spiraglio che avevo aperto per guardare all'esterno.
Una neve sottile, fine come pulviscolo, si adagiava sui tetti e le strade già imbiancate di Windhelm, come se volesse cancellare i pochi effetti del pallido sole che avevo visto risplendere quella mattina.
Mi allontanai dalla finestra, abbracciandomi sotto la pesante coltre di pelliccia che mi ero gettata sulle spalle, e ripresi a camminare per la stanza.
Mio marito si era trattenuto tra i suoi uomini durante entrambi i pasti della giornata, e quando, al termine della cena, avevo realizzato che non si sarebbe presentato, avevo fatto in modo che gli venisse consegnato un vassoio e mi ero ritirata nella camera che dividevo con lui.
Avevo lasciato che Ioreth mi aiutasse a vestirmi e mi sciogliesse i capelli, e dopo averla congedata avevo chiamato Mirala al mio fianco.
L'irritazione che avevo provato nei suoi confronti durante la visita dei due Altmer era ormai un ricordo, svanita molte ore prima mentre mi attardavo nella stanza da bagno.
Ora che era divenuta la mia dama di compagnia non mi era possibile averla accanto spesso come accadeva un tempo, e mentre io me ne rammaricavo, con mia grande sorpresa Mirala si era detta favorevole al cambiamento.
“Non sei più una bambina.” Mi aveva detto. “Ora che hai raggiunto Windhelm, è giusto che tu ti comporti secondo il tuo rango e che abbia servitori adeguati.”
Me lo aveva ripetuto anche quella sera, mentre finiva di passarmi tra i capelli un grazioso pettinino di legno ed avorio con cesellature d'argento, che faceva parte dei piccoli tesori della mia famiglia.
“Ioreth conosce meglio di me le usanze di queste corti.” Mi aveva detto, cercando di districare un nodo con dei leggeri colpi di pettine. “Ed ha l'esperienza per guidarti, sempre che tu le presti ascolto. Ed ora smettila di mostrarti irritata: fare il broncio non ti aiuterà a cambiare le cose, né a farti benvolere.”
“Perché dovrei essere più tollerante?” Avevo risposto in un borbottio.“Lui non si è mai sforzato di essere piacevole con me.” Mi ero lamentata. Non avevo avuto bisogno di specificare chi fosse Lui, perché entrambe sapevamo che mi riferivo al mio brusco sposo.
“E' tuo marito, non il tuo amante.” Era stata la severa risposta di Mirala, mentre terminava di pettinarmi i capelli. “Non è tenuto ad essere piacevole. Hai scordato quello che ti ho insegnato, forse?”
“No, Mira.” Avevo sospirato. L'avevo sentita muoversi dietro di me, mentre riponeva il pettinino nella sua scatola di palissandro, ed io ero rimasta ad attendere che mi raggiungesse di nuovo, lisciandomi distrattamente le pieghe della camicia da notte sulle cosce.
Dopo pochi istanti la mia balia era tornata dame e mi si posta davanti, prendendomi per le mani per farmi alzare. Mi aveva osservato pensosa per un lungo attimo, scrutandomi dall'alto con i suoi obliqui occhi neri, ed alla fine si era chinata per darmi un bacio sulla fronte.
“Devi sforzarti di essere felice, bambina mia. Se saprai mostrarti serena, vedrai che le cose cambieranno.”
“E se non riuscissi ad essere felice?”
“Allora dovrai fingere fino a crederci.”
E con quel terribile consiglio Mirala si era congedata.
Avevo passato l'ora successiva riflettendo sulle sue parole, e solo negli ultimi minuti avevo deciso di alzarmi dalla panca ai piedi del letto e di passeggiare per la stanza, per combattere il gelo che sentivo penetrarmi nelle ossa.
Con aria sconsolata osservai il camino, in cui brillavano debolmente le ultime braci. Dal ritorno di mio marito il fuoco era stato acceso raramente, ed io ero tornata a patire il freddo come prima della sua partenza.
Incrociai le braccia, stringendomi nella mia sottile camicia da notte sotto la pesante coltre di pelliccia. Avevo il naso gelato, e se sollevavo il volto e soffiavo lentamente potevo vedere la condensa del mio respiro.
Come potevo sforzarmi di essere felice, quando ero circondata da un simile gelo?
Un rumore di voci lungo il corridoio mi distrasse dalle mie cupe riflessioni, ed io mi voltai istintivamente in direzione della pesante porta di legno.
La stanza che occupavo con mio marito si trovava in cima ad una ripida scalinata, al termine di lungo passaggio che piegava ad angolo retto; su entrambi i lati si aprivano le porte di numerose camere spaziose, probabilmente riservate ai figli od ai congiunti del sovrano. Per la maggior parte erano vuote, ma al momento alcune erano occupate dagli uomini più fidati di mio marito.
Immaginai che le voci appartenessero a loro, per cui non vi detti subito peso.
Probabilmente il consiglio che aveva impegnato il mio sposo era terminato prima del previsto, o forse qualche capitano aveva ottenuto di potersi allontanare prima della fine.
Notando che le voci non accennavano a smettere, dopo un attimo di tentennamento mi avvicinai alla porta, inclinando il capo verso il battente per carpire qualche parola. Sapevo che non era un comportamento adatto ad una Signora, ma al momento non c'erano né Ioreth né Mirala pronte a disapprovarmi, così decisi che non sarebbe stato poi tanto scorretto se nessuno mi avesse vista.
Gli uomini in fondo al corridoio dovevano essere in due, perché non udivo altre voci, ed uno di loro doveva essere Galmar. Potevo riconoscerne il tono sicuro, mentre il suo compagno di limitava a qualche borbottio di assenso.
Mi accostai ancora di più alla porta, posando una mano sul battente rinforzato in ferro e rabbrividendo quando entrai in contatto con il metallo gelido.
“... Nessuna parola... molto contrariato.” Stava dicendo Galmar, ed immaginai che si stesse riferendo al mio sposo.
Il vecchio guerriero ed il suo compagno avanzarono ancora un po' lungo il corridoio, e mentre si avvicinavano mi accorsi di riuscire a distinguere meglio i loro discorsi.
“... innocente. Non ha nulla a che fare con quella... incresciosa.”
“Idiozie.”
A quella replica mi staccai di colpo dalla porta e feci un balzo indietro, premendomi le dita sulle labbra. Avevo riconosciuto quella voce brusca. L'interlocutore di Galmar non era altri che mio marito.
Fissai per un attimo il pesante battente di legno, incerta sul da farsi, ma poi li sentii tornare a discutere, e vinta dalla curiosità mi accostai di nuovo alla porta. Sentivo le venature del legno sotto le dita, e mentre cercavo di percepire qualche parola in più cominciai a seguire quei rilievi sinuosi coi polpastrelli.
“Ho parlato con il ragazzo.” Stava dicendo Galmar. “Era molto sorpreso.”
“Non si aspettava che arrivassimo a lui.”
“Ti sbagli. Ha detto che lui non si sarebbe sporcato le mani in quella maniera, ma che avrebbe offerto da bere al responsabile se solo avesse saputo chi fosse.”
“Che cosa?” Ruggì mio marito. “Quel maledetto, inutile...”
“Aspetta. Lasciami finire.” Le voci erano ormai chiare, ed immaginai che si fossero fermati nel punto in cui il corridoi piegava verso la scalinata, lì dove si apriva la porta per la stanza di Galmar. “Quando ho parlato della donna non ha voluto credermi, e l'ha mandata a chiamare. Ho dovuto interrogarla a lungo, ma alla fine lei ha confessato: dice di aver agito di nascosto, e di averlo fatto per compiacerlo.”
“Compiacerlo?” Il ruggito di mio marito mi avrebbe raggiunto anche se non avessi avuto l'orecchio premuto contro la porta. Era un ringhio carico di rabbia, che mi fece sobbalzare per la sua violenza. “Quella baldracca ha avvelenato mia moglie solo per compiacerlo?”
Sentirlo parlare di me mi colse di sorpresa, quasi più dell'accenno all'avvelenamento.
Un istante dopo però il vero significato delle sue parole mi sopraffece, e mi premetti le dita sulle labbra per soffocare un singulto. Qualcuno doveva avermi somministrato del veleno a mia insaputa, e la rabbia di mio marito, unita alla recente perdita del nostro primo figlio, mi raggelò.
Forse era una risoluzione azzardata, ma era l'unica a cui riuscissi a pensare e la sola idea mi atterriva. Chi poteva essere tanto crudele da concepire un gesto così orribile?
Volevo saperne di più, ed istintivamente mi appoggiai maggiormente contro la porta. Vedevo il mio respiro appannare le fasce di metallo battuto che percorrevano la porta, ed i peli della pelliccia che portavo sulle spalle tremare ogni volta che espiravo.
Dall'altra parte del battente, mio marito imprecava e lanciava maledizioni.
“Anche il ragazzo non è stato felice di saperlo.” Commentò la voce di Galmar. Sentii un rumore tintinnante, ed immaginai che avesse appoggiato alla parete un'imponente spalla rivestita di cotta metallica. “Credo che l'avrebbe battuta, se io non fossi stato presente. Avremmo dovuto vigilare meglio su di lui. Se tu gli avessi concesso di diventare uno dei tuoi guerrieri, avrei potuto inculcargli la giusta disciplina.”
“E dargli gli strumenti per nuocermi e prendersi il mio regno?” La voce di mio marito vibrava di collera, persino più di quando mi aveva rimproverata per essere uscita da sola dal palazzo. “Voglio che la donna sia condotta immediatamente alle prigioni. Me ne occuperò non appena farò ritorno da Solitude.”
La novità del viaggio a Solitude mi lasciò per un attimo interdetta. Era un cambio repentino di argomento, a cui non ero preparata. Senza contare che non ne avevo mai sentito parlare.
“Ho già provveduto ad arrestarla e a portarla in una delle celle libere.”
“Bene. E fai tenere d'occhio il ragazzo. Non mi fido di lui.”
“Darò disposizioni.” Gli assicurò Galmar. “Allora, quando partiamo?”
“Partirò io soltanto. Tu non andrai da nessuna parte.” Grugnì mio marito. “Ti voglio qui, per tenere sotto controllo la situazione.”
Sentii un rumore raschiante, segno che probabilmente il vecchio guerriero si era spostato o aveva cambiato posizione.
“Hai intenzione di andare senza nessuno che ti guardi le spalle?” Domandò, e dal suo tono indovinai che non era affatto felice di quella soluzione.
“Porterò Asbjorn con me.” Fu la replica di mio marito. “Ma preferisco che tu resti a Windhelm e che ti occupi di mia moglie. Yrsarald ha già fallito, permettendo che venisse avvicinata. Mi aspetto che tu non commetta un simile errore.”
“Preferirei accompagnarti in quel covo di vipere.” La voce di Galmar si era fatta più dura, e le note aspre dell'Eastmarch resero le sue parole meno comprensibili per le mie orecchie. “Ma se è il tuo volere, resterò qui. ”
“E' il mio volere.” Dichiarò mio marito in tono risoluto. “Non dovrai mai perderla di vista.”
“Cosa c'è di meglio che avere la tua approvazione?” Ridacchiò il vecchio guerriero, e dietro la porta feci una smorfia seccata. Mi ero abituata alla compagnia di Yrsarald, che nonostante i suoi modi rozzi aveva sempre cercato di essere rispettoso; al contrario, quella di Galmar prometteva di essere altamente molesta e fastidiosa.
“Bada a quello che fai. Non è una delle sguattere a cui sollevi le gonne.”
“Non l'ho mai pensato, vecchio mio.”
“E sarà bene che continui a farlo.”
Con tali parole si concluse il loro discorso, e non appena sentii rumore di passi lungo la scalinata che portava alla mia camera mi allontanai repentinamente dalla porta, e tenendo sollevato il lembo della camicia da notte corsi a sedermi accanto al camino sempre più freddo.
Avevo appena preso posto su un rigido sedile di legno quando sentii la porta aprirsi, e con uno sbuffo irato mio marito fece il suo ingresso nella stanza.
“Sei sveglia.” Sbottò non appena si accorse di me, riuscendo quasi a far passare quelle poche parole come un'accusa. C'era una lieve sfumatura nella sua voce, eppure non avrei saputo dire se fosse fastidio o sorpresa.
Mi alzai, tenendo la cappa che mi gravava sulle spalle con una mano per evitare che mi scivolasse; Avevo le dita intirizzite e mi era difficile mantenere bene la presa, così strinsi il pugno tra le pieghe della pelliccia e sollevai le spalle, per tenerla ferma il più possibile.
“Avevo freddo, e non riuscivo a prendere sonno.”
“E perché non hai preso un'altra coperta, invece che andartene a zonzo con il mio mantello?”
Alla durezza delle sue parole strinsi le labbra ed abbassai un poco il capo, incapace di trovare una risposta pronta davanti a quel tono d'accusa.
Mio marito borbottò qualcosa tra i denti e si voltò, ed io rimasi ad osservarlo chiudere pesantemente la porta e far scivolare i chiavistelli nelle loro sedi, immobile e dritta accanto al camino.
Desideravo sapere qualcosa in più sul mio presunto avvelenamento, e chiedergli del viaggio di cui avevo sentito parlare; ma sapevo che il modo in cui ne ero venuta a conoscenza non era affatto nobile, così come conoscevo bene l'irritazione che gli causavano sempre le mie domande, soprattutto quando era di cattivo umore.
Con mia grande sorpresa, scoprii di sentirmi meno indisposta nei suoi confronti di quanto non avrei voluto essere; persino in quel momento, mentre si aggirava per la nostra stanza come un orso in gabbia, non riuscivo a provare la stessa rabbia in cui mi crogiolavo sin dal suo ritorno.
Poteva anche essere rigido e freddo come le pietre del suo palazzo, ma le parole che aveva rivolto a Galmar mi confermavano che, in qualche suo strano modo che non comprendevo pienamente, si preoccupava per me e per la mia incolumità.
Stavo cominciando a considerarlo con un po' più di tenerezza, quando un suo grugnito mi distrasse dai miei pensieri.
“Dal momento che sei ancora in piedi, vedi di renderti utile.” Mi ingiunse bruscamente, rovistando in un armadio ed estraendone una bracciata di lunghi mutandoni di lana. “Apri quel cassettone e prendimi due casacche pulite.”
Ripetendomi che la sua rabbia non era rivolta a me sollevai l'orlo della veste da camera con una mano, e stringendomi addosso la pelliccia con l'altra mi avvicinai ad una bassa cassapanca. Le cerniere mandarono un cigolio di protesta quando sollevai il pesante coperchio di legno, e dal momento che mi era impossibile tenerlo in quella posizione senza sostenerlo con la mano, lasciai per un attimo la presa sulla cappa d'orso ed allungai un braccio verso le casacche all'interno.
Quasi istantaneamente la pelliccia scivolò a terra, ed io venni investita da un'ondata gelida che trapassò senza alcun impedimento la mia sottile camicia da notte. D'istinto cercai di agguantarla al volo, e per farlo lasciai cadere le casacche sul pavimento e mollai la presa sul coperchio della cassapanca, che si richiuse con un tonfo tale da farmi sobbalzare.
A quella vista mio marito, che aveva seguito l'intera scena dall'altra parte della stanza, esalò un sospiro ringhiante e mi voltò lentamente le spalle in palese esasperazione.
Con fare impacciato raccolsi la pelle d'orso e le casacche che mi aveva chiesto, e cercando di mantenere una certa grazia lo raggiunsi.
“Se hai tanto freddo, forse dovresti metterti sotto le coperte.” Brontolò lui, occhieggiandomi il petto senza troppi riguardi. Imbarazzata cercai allora di coprirmi come meglio potevo, ma ero troppo impacciata da quello che portavo.
Allungando una mano mio marito mi tolse gli abiti e la pelliccia che stringevo sottobraccio, e con il capo mi fece un cenno verso il letto che torreggiava al centro della stanza.
“Vai, e la prossima volta lascia stare i miei mantelli.” Mi disse in tono seccato, ammucchiando le casacche insieme ad altri abiti che aveva estratto dagli armadi. Quando gli parve di averne accumulati abbastanza cominciò a spingerli in una sacca, muovendosi con gesti che tradivano la rabbia che covava in petto.
Non mi era più così facile formulare pensieri gentili nei suoi confronti, e stringendomi tra le braccia mi affrettai ad infilarmi sotto le coperte.
Mi lasciai scivolare sotto le lenzuola fredde, sperando che presto il calore del mio corpo le rendesse di una temperatura quantomeno accettabile, e stesa su un fianco rimasi ad osservare mio marito affannarsi per i preparativi di quel viaggio di cui non avrei dovuto essere a conoscenza.
Stavo cercando un modo per porgli delle domande senza farlo infuriare troppo, quando lui mi precedette.
“Per quanto dovrò aspettare, ancora?” Mi domandò a bruciapelo, e sollevando gli occhi dalle pesanti coltri che mi stavo drappeggiando addosso, vidi che il suo sguardo era puntato all'altezza del mio ventre.
“La guaritrice dice che ci vorranno ancora tre settimane almeno, perché il mio corpo si riprenda appieno.” Dissi, sentendo le guance avvampare.
“Bene. Domattina devo partire per Solitude, e non mi sarebbe piaciuto sprecare del tempo prezioso.” Dichiarò seccamente, chiudendo con una cinghia la sacca piena di abiti e cominciando ad allentarsi la cintura.
“Perché devi andare?” Esclamai all'improvviso.
Le parole che mi uscirono dalle labbra avevano un tono meno sicuro di quanto avrei voluto, ma decisi di non darmi per vinta e mi schiarii la voce, cercando di continuare con un po' più di fermezza. “E' per via della lettera giunta questa mattina? Cosa c'era scritto?”
“Perché non stai ancora dormendo, tormento d'una donna che non sei altro?” Sbottò mio marito, fulminandomi con il suo sguardo ghiacciato prima di sfilarsi la casacca di tela e gettarla in un canto. “Le mie ragioni non devono interessarti.”
Indispettita mi sollevai su un gomito ed aggrottai la fronte, osservandolo mentre si sfilava i calzoni.
“Sono la Signora di Windhelm...”
“Ed io sono lo Jarl.” Mi interruppe lui, avvicinandosi al candelabro di ferro che illuminava debolmente la stanza e cominciando a spegnere le candele, stringendone lo stoppino tra le dita.“E mi pare che questo valga più di ogni altro titolo, Moglie.”
Mi allungai sulle lenzuola ruvide, strizzando gli occhi per scorgere la sua figura massiccia nella penombra crescente. Altri due lumi si spensero, ed io scossi il capo in silenziosa irritazione.
“Ad ogni modo.” Lo sentii continuare in tono meno ostile, mentre anche l'ultima fiammella spirava in un filo di fumo. “Ho assegnato a Galmar il compito di farti da Huskarlo durante la mia assenza. Spero che si dimostri più affidabile di Yrsarald, e che tu ti comporti con un po' più di criterio.”
“Non mi sono mai comportata...”
“Prima di dire sciocchezze...” Mi interruppe ancora, accostandosi al letto. “... pensaci bene.”
Strinsi le labbra, troppo seccata per aggiungere altro. Vedevo la sua sagoma stagliarsi accanto al materasso, un'ombra pallida che si muoveva su uno sfondo di ombre grigie. Anche senza riuscire a distinguerli potevo percepire i suoi occhi scrutarmi dall'alto, con la stessa calma ferina con cui un animale selvatico osserva il suo territorio.
“E' un vero peccato che si debba ancora aspettare.” Mormorò quasi parlando a sé stesso, in un tono più conciliante che prima di allora avevo udito solo nei momenti in cui si univa a me. “Ma non mi tratterrò lontano troppo a lungo.”
Lo sentii sospirare nell'oscurità, e la coperta si scostò bruscamente. “Spostati più in là. Sei sul mio posto.” Mi disse, ed io scivolai sul mio lato del letto un attimo prima di venir schiacciata dalla sua mole.
Lo sentii muoversi sotto le coperte, in cerca di una posizione più comoda, e dopo qualche grugnito finalmente smise di agitarsi. Rimasi per lunghi minuti in attesa che mi rivolgesse ancora la parola, spiegandomi tutte quelle cose che erano rimaste in sospeso o non dette, ma invano.
Quando mi accorsi che il suo respiro si era fatto più regolare compresi che non mi avrebbe più aggiunto nulla, almeno per quella sera.
Allora sospirai e mi accoccolai come meglio potevo sotto le coltri del nostro letto, voltata verso l'ampia schiena che mi rivolgeva.
Mi sfiorai il ventre con una mano, ricordando la leggerissima curva che fino a poco tempo prima ornava il mio profilo, e mi raggomitolai più strettamente su me stessa.
Secondo Mirala dovevo sforzarmi di essere felice.
Ci avrei provato, di certo per amor suo; ma più tempo passavo a Windhelm, più mi pareva che la felicità si allontanasse da me.
 

******



La nave rollava dolcemente sul mare ghiacciato.
Onde cupe si infrangevano sulla chiglia levigata, sollevando spruzzi di gelida acqua salmastra che venivano catturati dal vento inclemente. Di tanto in tanto dalla distesa verde cupo dell'oceano sbucava una irta cresta bianca, un pezzo di ghiaccio frastagliato che galleggiava solitario o che ornava la sommità di una roccia affiorante.
Era pericoloso navigare in quelle acque, ma i marinai di Windhelm conoscevano bene quel tratto di mare, e le loro navi mercantili difficilmente andavano alla deriva.
Avanzando con andatura ciondolante per assecondare il dondolio dell'imbarcazione, Asbjorn, il capitano della scorta reale, raggiunse il suo Jarl a prua, intento a scrutare le onde appoggiato alla murata.
“Gli uomini cominciano ad innervosirsi, sire.” Disse, con la voce arrochita dai gelidi venti marini.
Ulfric grugnì e voltò il capo, sputando verso le acque limacciose. I capelli gli sferzavano il viso ed il collo, divisi in ciocche arruffate ed irrigidite dalla salsedine, e l'aria fredda che spirava incessantemente da nord, dalla lontana Atmora, aveva aggredito e spaccato la pelle esposta; le sue nocche erano ricoperte da minuscoli tagli che non si rimarginavano, e quando parlava le labbra screpolate si imperlavano di gocce di sangue.
“La traversata non durerà ancora a lungo.” Decretò lo Jarl, facendo un brusco cenno davanti a loro. “La luce che vedi guizzare laggiù è il faro di Dawnstar. Secondo il capitano della nave, se il tempo si mantiene stabile ci vorrà poco più di una settimana.”
“Bene.” Borbottò Asbjorn, stringendo gli occhi contro le folate sferzanti. Si voltò leggermente, in modo da offrire la robusta spalla ai primi assalti del vento, ed un ghigno sardonico si dipinse sul suo cupo volto solcato dalle cicatrici. “Gunnar sta vomitando l'anima. Avanti di questo passo comincerà a rigettare anche i propri visceri.
“Speriamo che questo non richiami qualche bestia marina.” Ribatté lo Jarl salace, strappando una roca risata al suo sottoposto.
Era stato Asbjorn a trovare la nave. La traversata via mare dimezzava il tempo necessario a raggiungere Solitude, e non appena aveva ricevuto l'incarico di organizzare il viaggio con solo poche ore di preavviso, si era diretto ai moli.
La Vigdis, il mercantile che li stava trasportando in mezzo ai ghiacci, aveva in programma un viaggio proprio verso la capitale dell'Haafingar, ed al capitano della guardia reale era bastato poco per combinare l'affare. La mattina successiva, due ore prima dell'alba, si era ripresentato accompagnato dallo Jarl e da cinque dei suoi uomini migliori.
La nave si sarebbe fermata a Solitude per soli cinque giorni, ma Ulfric contava di riuscire a sbrigare i propri affari ben prima di allora.
Aveva ben altro a cui pensare entro i propri confini, senza il bisogno che ci si mettesse anche Istlod a complicare le cose.
“Credo che quell'idiota abbia finito di dar da mangiare ai pesci.” Commentò Asbjorn, osservando uno dei suoi uomini che, chino in avanti ed appoggiato alla murata con un braccio, si puliva la bocca con il dorso di una mano. Un suo compagno d'arme gli stava accanto, battendogli scherzose pacche sulla schiena e prendendolo bonariamente in giro; o almeno così pareva, perché il vento trascinava via le sue parole non appena gli uscivano dalle labbra, e tutto quel che restava era un ghigno sarcastico sul volto barbuto.
“Porta Gunnar sottocoperta.” Ordinò lo Jarl al suo sottoposto, alzando la voce per sovrastare un gemito dello scafo di legno.
Asbjorn chinò impercettibilmente il capo e partì alla volta dei due soldati, senza aggiungere altro. Probabilmente decretava di aver già detto troppo. Era sempre stato un uomo di poche parole.
Rimasto solo, Ulfric tornò ad osservare il mare limaccioso che si stendeva davanti a lui.
Sin da quando aveva posato piede sul ponte scricchiolante della Vigdis, era stato assalito dal dubbio di aver portato troppi pochi uomini. Conosceva bene il valore della propria guardia personale, e non dubitava del giudizio di Asbjorn; eppure temeva che, se le cose fossero volte al peggio, il loro numero sarebbe stato fin troppo esiguo.
La vera incognita era il colloquio con Istlod. Lo Jarl di Solitude era un uomo bonario, che desiderava solo godersi la vecchiaia senza dover imbracciare ancora le armi.
Ma era anche un sovrano che conosceva i modi migliori per ottenere i propri scopi, ed Ulfric temeva che, davanti al netto rifiuto che avrebbe opposto ad una richiesta di pagamento, Istlod decidesse di imprigionarlo; ed il riscatto richiesto per la sua liberazione sarebbe stato naturalmente l'intero importo della somma chiesta da Markarth.
Di certo, in una simile situazione, la sua giovane moglie avrebbe messo mano alle casse del regno, prosciugandole solo perché le veniva chiesto di farlo. Era una fortuna che avesse lasciato Galmar con lei; il suo secondo avrebbe invece temporeggiato, ed in segreto avrebbe organizzato un modo per tirarlo fuori dalle segrete di Solitude.
Lo scricchiolio secco delle cime intrise di sale lo distrasse per un istante dai suoi pensieri, ed Ulfric sollevò lo sguardo sopra la propria testa. Il vento tendeva le vele e spingeva la nave lungo la sua rotta, promettendo di portarli a destinazione nel tempo prefissato.
A suo avviso la convocazione di Istlod non poteva giungere in un momento peggiore, ma sapeva che rinviare quel viaggio inaspettato avrebbe portato a conseguenze peggiori.
Meglio togliersi subito il fastidio, quale che fosse l'esito, e cercare di tornare a Windhelm il prima possibile.
Perché, come se non fosse abbastanza doversi preoccupare dei Thalmor che complottavano ed insidiavano i suoi confini, ora si era risvegliata una minaccia interna, che fino ad allora aveva ignorato. Mai avrebbe pensato che Halfdan si sarebbe potuto spingere tanto oltre.
Halfdan.
Anche solo pensare quel nome lo riempiva di irritazione.
Quella sua donna poteva anche aver dichiarato di avere agito da sola, ma Ulfric sapeva cosa stava succedendo. Il ragazzo serbava rancore verso di lui, e da sempre cercava un modo per salire al trono; quell'attacco alla sua giovane sposa non era altro che un tentativo di eliminare dei legittimi concorrenti.
Quel piccolo bastardo si stava spianando la strada verso la corona.
Un'onda si infranse contro lo scafo, investendolo con una sventagliata di pungenti gocce ghiacciate.
Avrebbe dovuto affogarlo quando era venuto al mondo, come aveva suggerito Galmar al tempo, o lasciare che suo padre, l'Orso di Windhelm, al colmo dell'ira lo schiacciasse sotto il tacco dei propri stivali, o lo lanciasse dalla sommità del Palazzo dei Re. Ma ai tempi Ulfric non aveva avuto intenzione di sporcarsi le mani con il sangue di un innocente, ed aveva fatto in modo che crescesse entro le mura, con il beneficio di un tetto sopra la testa e di qualche regalo di viveri o legna di tanto in tanto.
“E questo è stato il ringraziamento.” Ringhiò tra sé, stringendo gli occhi gelidi contro le folate di vento ghiacciato.
Irritato si staccò dalla murata, ed avanzando con tutta la fermezza che gli consentiva il ponte ondeggiante si diresse verso il castello di poppa. I suoi uomini si trovavano sottocoperta, probabilmente intenti a bere o raccontarsi storiacce da caserma per dimenticare il mare gelato che covava sotto di loro.
Se ancora non l'avevano finita, avrebbe potuto recuperare un po' della loro birra, ed ascoltare qualcuna delle loro pessime storie.
Nei giorni precedenti ne aveva già avuto abbastanza, sia dell'una che delle altre, ma aveva un dannato bisogno di distrarsi.


 

 

 

 

 

 

 


Questo è un piccolo capitolo di passaggio, come si è visto. Ancora non ci sono combattimenti e scontri armati, ma andando avanti con i capitoli cominceranno ad apparire, perché non posso fare una storia sulla guerra civile senza guerra.
Le mezze informazioni che si trovano in questo capitolo sono volutamente incomplete – la comparsa degli Altmer, l'identità di Halfdan ecc. - e verranno svelate nei capitoli successivi.

Come ho spesso ripetuto nelle mie precedenti note, questa storia non ricalca totalmente l'atmosfera di Skyrim. Ho cercato di renderla il più realistica e medievale possibile senza stravolgere l'ambientazione, e la durezza di alcune affermazioni dei miei personaggi è data solo dal mio desiderio di attenermi a questa premessa.

  
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