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Autore: Nina Ninetta    16/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4
Tutto è uguale a prima e se come prima mi sentissi inutile



 
Oscar si accese una sigaretta, la fiammella dell’accendino traballò per qualche istante davanti al suo viso. Aveva la pelle chiara e liscia, i capelli scuri gelatinati e tirati all’indietro, le labbra lucide di burro cacao. Aspirò a fondo e poi tornò a poggiare il palmo sul volante dell’auto, quella destra salda sul cambio. Era la macchina che gli aveva regalato il suo amante – che lui chiamava Jhonny per tutelare la propria identità, o il Paese sarebbe crollato in uno scandalo politico – e seppur dotata di cambio automatico, a Oscar piaceva farlo manualmente. Diceva che così poteva sentire il ruggito del motore che spremeva fino all’ultima goccia, prima di decidersi a cambiare marcia. Jhonny gliel’aveva fatta trovare al loro primo anniversario, da quel giorno erano passati altri due anni, per un totale di tre anni di “fidanzamento”. Non aveva mai avuto un amante fisso per così tanto tempo e Oscar era sicuro di una cosa: se fosse nato femmina, a quest’ora il suo ganzo avrebbe mollato l'acida moglie e si sarebbero sposati. Gliel’aveva detto un sacco di volte Jhonny, gliel’aveva giurato!
I finestrini anteriori della macchina erano abbassati, le temperature erano così piacevoli quella notte che sarebbe stato un peccato accendere il calorifero.
Oscar tirò ancora dalla sigaretta e lasciò uscire il fumo rumorosamente, lanciando uno sguardo furtivo a Ricardo seduto al proprio canto. Si conoscevano praticamente dai tempi delle scuole, per alcuni anni si erano persi di vista – a chi non capita? – poi un giorno si erano rincontrati al night. Sebbene Salas avesse stentato a riconoscere il suo ex compagno di classe, con indosso tutto quel trucco, la parrucca color glicine e le ciglia spudoratamente finte. Oscar allora era ricorso ad un espediente che sapeva infallibile: una frase che gli ripeteva spesso durante le ore di educazione fisica, mentre osservavano le ragazze occupate negli esercizi di aerobica. Guardandole evidentemente per motivi differenti:
«Se fossi una donna sarei la prima troia» di fatti Ricardo lo aveva riconosciuto e abbracciato.
Erano trascorsi altri due anni da quella sera e la loro amicizia sembrava essere più salda che mai. Oscar lo conosceva fin troppo bene per non sospettare che stesse pensando ad una fanciulla. Salas non era il tipo da starsene in silenzio per l’intero tragitto:
«Quando sei tornato?» gli chiese
«L’altra mattina» fu la risposta di Ricardo che non si mosse, gli occhi fissi sulla strada, il gomito chiuso a triangolo spuntava dal finestrino.
«É una bella città Amsterdam?» continuò Oscar. Il ragazzo al suo fianco fece una smorfia, lasciando intendere che non era niente di che «E la tua “amichetta” olandese dov’è?»
«In Olanda»
«Ma come in Olanda? Per telefono mi hai fatto una testa così: ho trovato la persona giusta! Oscar, la sposerò! Oscar qua e Oscar là!» aspirò ancora dalla sigaretta, le labbra si distesero in un sorriso quando scorse Ricardo ridacchiare:
«Era noiosa! Eccetto le volte che era fatta, lo ammetto, e non erano poche, altrimenti era di una noia!»
«Intendi dire che quando era sobria non te la dava?» Salas rise forte e Oscar con lui.
Si stava bene in sua compagnia, la drag queen aveva sempre pensato che Ricardo fosse l’amica del cuore che non aveva mai avuto. Non a caso era l’unico a cui aveva confidato la vera identità di Jhonny. In una notte di pioggia, quando Ricardo lo trovò con il viso tumefatto e lo minacciò di dirgli cosa fosse accaduto, o l’avrebbe trascinato in ospedale. Allora si che avrebbe dovuto parlare davanti agli agenti di polizia che gli stessi medici avrebbero contattato. Oscar aveva raccontato che quando si ubriacava il suo innamorato diventava violento, e che ok, va bene, gli avrebbe detto chi era veramente Jhonny, così, semmai fosse scomparso dalla circolazione o l’avessero trovato morto, avrebbe saputo chi denunciare. Dopo quell’occasione, però, Jhonny non aveva alzato più nemmeno un dito contro di lui, a volte Oscar aveva pensato che Ricardo c’entrasse in qualche modo, ma poi la faceva semplice, convincendosi che confidandosi con lui, anche i problemi più grossi si rimpicciolivano.
Oscar accostò la macchina al marciapiede, il cancello d’ingresso dell’abitazione di Salas era a pochi metri. Questi lo osservò per un momento, indeciso sul da farsi, poi glielo domandò:
«Senti Oscar, mi chiedevo se …» si schiarì la voce mentre l’amico tirava l’ultimo inebriante e acre tiro dalla sigaretta, prima di gettarla fuori al finestrino e voltarsi ad osservarlo « … ma la giapponese lì, da quanto tempo lavora per noi?» la drag queen ci pensò su un attimo
«Mah, sarà qualche mese. Perché? La vuoi licenziare per prenderne una più formosa?» Oscar rise, ma questa volta Ricardo non gli fece compagnia
«E sai anche da quanto tempo vive qui?»
«Mi pare che siano un paio d'anni»
«E come mai si è trasferita a Madrid?» continuò Salas, poi si voltò ad osservare l’amico quando questi gli posò una mano sul braccio
«Ricardo lasciala stare, per favore, è una brava ragazza, non fai per lei»
«Non ho la minima idea di …»
«Oh si che ce l’hai Ricardo, si che ce l’hai!» Oscar gli sorrise, poi molto gentilmente lo invitò a scendere dall’auto, stava sottraendo minuti che invece avrebbe potuto trascorrere con il suo amato Jhonny. Ricardo si finse offeso, incamminandosi con le mani in tasca e  dicendogli in maniera ironica di salutargli Jhonny. Sentì la risata cristallina di Oscar che si allontanava e il motore dell’auto salire di giri.
Rientrando Salas pensò ad Oscar e a quando erano stati ragazzi, alla strana coppia che avevano formato loro due insieme: lui sempre un po’ punk, con i jeans larghi e stracciati sul didietro e sulle ginocchia, orecchini e anelli pacchiani; Oscar l’esatto contrario, ordinato e moderato, attirava le simpatie delle ragazze e soprattutto la loro fiducia. Ah, quanti cuori aveva infranto Oscar! Quante ragazze si erano invaghite di lui, dei suoi modi gentili e garbati, della sua bellezza elegante e femminea, per scoprire poi che era interessato al loro taglio di capelli, piuttosto che alla loro cosina. Spesso ad Ricardo era toccato l’ingrato compito di consolarle, ma qualcuno il lavoro sporco deve pur farlo!
 
Eri trovò la mamma in cucina, come ogni mattina da quando aveva iniziato l’asilo, è vero, ma quella mattina c’era qualcosa di diverso in lei. Si arrestò sulla soglia della porta, i capelli lunghi e neri erano tutti in disordine, sul viso i segni del cuscino scavati nella pelle, mentre sua madre era lì, a preparare la colazione. Le solite gesta quotidiane: riscalda il latte nel microonde, prendi i biscotti dalla dispensa, prepara il tè. Eppure quando Eri entrò e la salutò, lei non rispose. Non si voltò neanche a guardarla a dire il vero, tenne gli occhi fermi sulla teiera in ebollizione, il fischio forte che questa emetteva non era riuscito a destarla dai pensieri. Eri la chiamò, ma niente, sua madre Yumiko era completamente assente. Si accostò con circospezione, toccandole appena la spalla e lei sussultò, facendo un balzo all’indietro:
«Santo cielo, Eri! Compari all’improvviso adesso?!» allora Eri si rese conto che sua madre non doveva aver chiuso occhio quella notte: intorno alle palpebre la pelle era livida, all’interno le pupille erano gonfie e rosse
«Nottata in bianco, okaasan
«Già» Yumiko sbadigliò e si versò l’acqua bollente nella sua tazza preferita, immergendovi una bustina di tè verde
«É Colpa del lavoro! Mamma, se è troppo stancante non devi andarci per forza, ne puoi sempre trovare un altro»
«Qui la paga è buona e …» Yumiko si fermò, improvvisamente non sapeva più cosa aggiungere. Sua figlia ingollò per intero il biscotto inzuppato nel latte:
«E?»
«E niente, sbrigati che è tardi!» la donna si alzò dal tavolo, portando con sé la tazza di tè che ancora non aveva assaggiato, né l’avrebbe mai fatto. Uno perché aveva dimenticato di zuccherarlo, due perché aveva lo stomaco chiuso.
 
Eri aspettò con il cuore impazzito l’inizio delle lezioni. Seduta nel suo banco, tutta sola, fissò la porta della classe fino all’ultimo secondo, fino al trillo della campanella ed oltre, fino a quando il professore di matematica entrò in aula e se la chiuse alle spalle. Aveva atteso l’arrivo di Kingsley invocandolo con tutte le sue forze, battendo le unghie sulla superficie scolorita del banco e muovendo la gamba destra su e giù, su e giù, come un tic nervoso. E in effetti lo era. Lo aveva invocato fortemente, bisbigliando per tutto il tempo:
«Dai, dai, dai» invano.
Il suo compagno di banco quel giorno mancò a scuola, ed Eri cascò di nuovo in quel baratro di solitudine che aveva provato fino al giorno prima, fino a quando gli aveva stretto la mano. Se solo gli avesse chiesto il suo numero di telefono avrebbe potuto chiamarlo e chiedergli come mai aveva saltato le lezioni, così, solo per sentire la sua voce, magari si sarebbe offerta di portargli i compiti e lui avrebbe anche accettato!
Quel giorno non parlò molto con Yumiko, ma questa non si meravigliò, non notò la differenza dal giorno precedente, e tutte le sue buone intenzioni di dirgli dell’identità del suo capo – o dell’identità dello sconosciuto, o tutte e due le cose – sfumarono, poiché ogni tentativo, seppur maldestro, di avviare una conversazione fallì. Non sapeva ancora di preciso cosa le avrebbe detto o quanto le avrebbe raccontato, ma il peso della bugia che aveva pronunciato a Ricardo riguardante sua figlia – «Eri è mia sorella» - avrebbe dovuto confessargliela il prima possibile, o le avrebbe tolto il sonno, la fame e infine la ragione.
 
La ragione Eri rischiò di perderla nei giorni successivi, quando cominciò a temere seriamente che il suo compagno di banco, con la treccina colorata e la pelle scura, fosse stato solo un miraggio. Per un’intera settimana di Kingsley non ci fu traccia. All’inizio la ragazzina si ritrovava a fissare la porta della classe, sempre e comunque con la speranza di vedergliela oltrepassare, ma niente. Poi perse la speranza, iniziando a credere che il professore si burlasse di lei quando leggeva il nome del ragazzo durante l’appello mattutino, chiedendo poi se qualcuno di loro ne avesse notizia. Ovviamente la risposta da parte della classe era negativa. Questo ragazzo era apparso dal nulla e nel nulla era scomparso.
Un giorno, quando oramai Eri ci aveva rinunciato, lui riapparve, bello e sorridente, come se non fosse passata una settimana dall’ultima volta che era andato a scuola.
«Ciao!» la salutò occupando l’altra sedia libera nel banco. Eri lo fissò con il cuore in gola, trattenendosi dal gettargli le braccia al collo per la felicità di vederlo.
Alle quattordici l’ultimo trillo segnò la fine anche di quella giornata scolastica. Eri stava sistemando i libri e i quaderni nel suo zaino, attenta a non dimenticare niente, fu allora che Kingsley le chiese se quel pomeriggio avrebbe potuto dargli qualche ripetizione:
«Sono mancato da scuola per parecchio tempo e non vorrei restare indietro. È già difficile stare al passo degli altri in un paese straniero e forse tu puoi capire quello che intendo …» eccome se Eri capiva quello che intendeva. Il primo anno aveva dovuto fare i salti mortali e in compenso aveva raggiunto almeno la sufficienza in ogni materia, anche in quelle in cui era la migliore della classe in Giappone. Tuttavia, aveva compreso soprattutto una aspetto della richiesta che il compagno di banco le aveva proposto: l’aveva invitata a casa sua.
 
Yumiko non le avrebbe mai dato il permesso di recarsi a casa di sconosciuti, a maggior ragione se si trattava di un ragazzo. Non era difficile immaginare la reazione di sua madre e la sua contro partita: fallo venire qui, a casa nostra. Ma Eri non voleva rimanere a casa propria, Eri voleva vedere dove abitava Kingsley, conoscere sua mamma, magari entrare nella sua cameretta, o giocare con il suo animaletto domestico – ammesso che ne avesse uno. Come di routine, sua mamma la attendeva all’ombra del muretto, nella sua Yaris grigio metallizzato, di seconda mano ma tenuta bene. La ragazzina rispose alle domande che Yumiko le poneva, le solite insomma, quelle che ogni mamma in ogni parte del Mondo pone ai propri figli dopo la scuola: che cosa hai fatto? Ti hanno interrogato? Com’è andata? Hai parecchi compiti per oggi? Ho cucinato …
Eri approfittò di un momento di silenzio per dare il via al suo piano strategico:
«Okaasan?!» la chiamò e sua madre intenta alla guida mugolò «Dopo pranzo posso andare a casa di una compagna di classe?» Yumiko ne fu contenta, finalmente sua figlia iniziava ad ambientarsi, ma allo stesso tempo rimase stranita. In fondo Eri non aveva mai accennato a nessuna amica con cui era così in confidenza da invitarla a casa propria. Ascoltò la spiegazione della ragazza, diceva che era la sua compagna di banco e che era mancata per diversi giorni da scuola, così voleva recuperare per non rischiare di rimanere indietro e si era rivolta a lei, la quale non era stata capace di dire di no. Neanche Yumiko fu capace di dire di no a sua figlia, un po’ perché era felice che stesse insieme a quelli della sua età, un po’ per il peso che ancora le martoriava la mente. Decise di dirglielo, a pranzo, quel giorno stesso.
«Eri, ascolta …» sua figlia distolse l’attenzione dai cartoni animati in tv, quelli americani dalle facce gialle «Ti ricordi dello sconosciuto a cui ruppi il naso» Eri ridacchiò
«E come dimenticare» altro risolino «Quello carino, insomma» ecco, pensò Yumiko, adesso sì che è difficile. Fece un respiro profondo:
«É il mio capo» quando si accorse dell’espressione interrogativa di Eri si affrettò ad aggiungere «Il mio datore di lavoro diciamo, l’ho scoperto qualche sera fa» ennesima menzogna, era trascorsa almeno una settimana dalla notte in cui si erano presentati ufficialmente
«E vuole licenziarti perché gli hai rotto il naso?!»
«Oh no, no!» questa volta fu Yumiko a sorridere, la faccia di sua figlia era davvero buffa «Ci siamo presentati, io mi sono scusata ancora una volta per la faccenda dell’incidente, poi mi ha chiesto di te e …» il momento era giunto, la donna pregò il suo dio che la figlia non la prendesse a male «… e gli ho detto che sei mia sorella.»
Eri lasciò cadere la forchetta nel piatto, tintinnò forte sulla ceramica e poi rimbalzò sul pavimento, Macchia rizzò le orecchie dalla sua cuccetta, annusò l’aria, attese l’evolversi della situazione e poi tornò a sonnecchiare. Yumiko osservò senza spiccicar parola il viso della figlia che si trasformava in una maschera di puro divertimento, la vide balzare in piedi e puntarle l’indice contro:
«Ti piace!» esclamò, sua madre provò ad intervenire «Ti piace! Ti piace! Ti piace!» fece il giro del tavolo e l’abbracciò «Kawaii! Kawaii!» continuava a ripetere che sua madre era “carina e dolce”, quasi fosse stata un peluche da strapazzare di coccole.
«Eri! Eri, non mi piace, ok?!» la prese per i polsi e la allontanò da sé per guardarla in faccia, ma non riuscì ad intimorirla
«Okasaan non c’è niente di cui vergognarsi! E poi un patrigno carino ...» si coprì di colpo la bocca con la mano «Ah no! Un fratellone carino. Com’è che dicono qui?! Me gusta?!» ridacchiò e tornò al suo posto, prendendo al volo una forchetta pulita «Allora, come faccio io ad incontrarlo, sorellona?!»
 
 
 
 
  
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