Giochi di Ruolo > Dolce Flirt
Segui la storia  |       
Autore: RandomWriter    21/04/2015    8 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
48.
CARDIOPALMA – Prima parte
 

 
Un delizioso profumo di pancetta sfrigolante, rosolata su una padella antiaderente, aveva inondato la cucina di casa Brooks. Bastava percepirne l’aroma inebriante per attivare il palato e con esso l’appetito mattutino. Le posate erano perfettamente allineate sul tavolo, come le treccine afro sulla sommità del capo di una bambina di sette anni, che attendeva impaziente l’arrivo della colazione.
« mamma, a che ora andiamo a Trenton? » squittì la sua vocina vivace.
Whitney afferrò la paletta in silicone e la sfregò contro la superficie della teglia, sollevando l’albume cotto:
« partiamo dopo pranzo tesoro »
Blake sbuffò contrariata, osservando le lancette dell’orologio che le ricordava che quella mattina nessun pretesto le avrebbe fatto saltare la lezione di Miss Patty. Aveva già posto tre volte quella domanda, ma l’infinita pazienza di sua madre, le aveva fatto ottenere una risposta che, seppur gentile, era inflessibilmente la medesima.
Whitney sistemò del latte nella scodella della sua secondogenita, nata da una relazione sbagliata in partenza. Dopo la rottura con il padre della bambina, la donna aveva stabilito che nessun altro uomo sarebbe entrato nella sua vita e in quella dei figli; tutto sommato, considerava una fortuna il fatto che tanto Dajan quanto Blake fossero troppo piccoli per ricordarsi dei rispettivi padri: per loro sarebbero stati solo fonte di delusione:
« tuo fratello gioca alle tre. A proposito, vai a vedere se si è svegliato? »
La bimba sorrise eccitata, appoggiandosi al tavolo per scendere dalla sedia, quando in cucina comparve il fratello maggiore, sbadigliando sonoramente:
« buongiorno » lo salutò la madre, lasciando scivolare della fumante pancetta su due piatti in ceramica. Vi accostò delle uova strapazzate, che il figlio iniziò a divorare voracemente.
L’unico organo a lavorare in quel momento era il suo stomaco, mentre il cervello riposava ancora in uno stato comatoso. Sfortunatamente per Dajan, Blake non era altrettanto letargica:
« Dadà quando mi insegni a giocare a basket? » lo assillò da subito la sorellina, sporgendosi verso il ragazzo di fronte a lei.
Lo vide deglutire frettolosamente per poi borbottare, di cattivo umore:
« quando prenderai una A in matematica »
Whitney sorrise, notando che le guance della bambina si erano dilatate come due palloncini che si sgonfiarono all’istante quando si lagnò:
« uffaaa! Ma io non ci capisco nulla di quella materia! Fa schifo! »
Dajan rimase impassibile, mentre Whitney interveniva, per fare da paciere:
« non ti arrabbiare Blake, dopo il torneo sono sicura che Dajan sarà contento di insegnarti a giocare »
La donna sistemò le stoviglie sporche nell’acquaio e, raccattando la scodella ormai vuota della bambina, la esortò:
 « adesso però corri a prepararti. Sei ancora in pigiama! »
Dopo qualche lamentela infantile, la scolaretta tornò nella sua stanza, mentre la madre si accomodò attorno al tavolo da pranzo. Il piatto sotto di lei emanava ancora del vapore, ma lei non aveva fretta di gustarsi la pietanza. Appoggiò il mento sopra il palmo della mano e, con un’espressione molto dolce, sussurrò:
« me lo vuoi dire che succede tesoro? È da una settimana ormai che tieni il muso »
Dajan finì il piatto, spazzando via con la forchetta i residui di cibo e si alzò per riporlo nell’acquaio:
« tutto ok, tranquilla » borbottò di spalle.
A volte basta un tono di voce leggermente più grave del solito per lasciar trapelare il proprio tormento interiore. Per questo Whitney colse subito la menzogna di quelle parole, specie perché i suoi figli per lei non avevano segreti. Appena Dajan tornò a voltarsi infatti, ebbe la conferma che qualcosa non andava guardandolo in faccia; scosse il capo, sorridendo leggermente, come se quel gesto ridimensionasse le preoccupazioni del figlio:
« centra il basket oppure quella ragazza tanto carina che era venuta in negozio… la figlia di Lois? » indagò, divertendosi pure a stuzzicare la serietà di Dajan.
« è tutto ok » ripetè ancora una volta lui e, per sottrarsi all’imminente interrogatorio, lasciò la stanza con la scusa di doversi dirigere a scuola.
 
« è tutto ok mamma, sta’ calmina » borbottò Kim addentando un biscotto al cocco, il suo gusto preferito.
Lanciò un’occhiata all’orologio e anche se realizzò che avrebbe rischiato di perdere l’autobus, non se ne curò affatto. Avrebbe preso quello successivo, d’altronde ritardando alla prima ora con il professor Condor avrebbe fatto più un favore al docente che a se stessa; Kim non poteva farci nulla se le lezioni la annoiavano terribilmente, quelle di letteratura in particolare, e la vicinanza di banco con il suo amico Trevor contribuiva ad diminuire la sua già scarsa capacità di stare attenta. A tal proposito, non capiva perché nessun insegnante li avesse cambiati di posto, ma di certo non sarebbe stata lei a suggerire quell’iniziativa. Adorava essere in penultima fila, con il suo migliore amico accanto a lei ed Erin dietro. L’unico inconveniente erano i calci sotto la sedia che talvolta riceveva dalla sua compagna di basket, soprattutto durante le ore di scienze che Erin seguiva con vivo interesse. D’altronde, parte del divertimento di Kim era costituito proprio dall’innervosire la mora e stuzzicare la sua pazienza. Tuttavia l’ex velocista era ben cosciente del rischio che correva nel far arrabbiare l’amica: era grazie ad Erin che i suoi voti in biologia e chimica erano sensibilmente migliorati, proprio per la generosità con cui la mora le passava le risposte durante i compiti. Per tutte le altre materie, Kim poteva fare affidamento su Kentin Affleck.
Mentre era assorta nei suoi pensieri, Lois guardava la figlia con circospezione:
« tutto ok? » ripetè scettica « allora se è così, vuoi spiegarmi cosa ci faceva qua fuori il figlio di Whitney ieri sera? »
Kim sentì delle briciole attraversarle la laringe, bypassando l’ostacolo rappresentato dall’epiglottide che per altro rientrava tra i quesiti di biologia dell’ultima verifica. Quasi si strozzò, cominciando a tossicchiare convulsamente mentre il viso diventava paonazzo. Afferrò il bicchiere di succo alla pera e lo trangugiò come un vecchio ubriacone avrebbe fatto con una bottiglia di scotch invecchiato:
« c-chii? » gracchiò incredula.
« Dajan! » esclamò la madre, mentre il marito, rimasto in silenzio fino a quel momento, fece emergere la sua testa calva da dietro il giornale sportivo. Osservò con gravità la figlia seduta davanti a lui e intervenne:
« che cos’è questa storia cucciolotta? » si alterò, fissando Kim « lo sai che se esci con qualcuno, voglio prima conoscerlo di persona »
« oh ma lo conosco io, non preoccuparti caro, è un così bravo ragazzo » lo rassicurò la moglie, con un sorriso caramelloso.
« frena frena! Ieri sera Dajan è stato qui? » li interruppe Kim sconvolta, guardando la madre « perché non mi hai chiamato? »
« eri già andata a letto e poi non è che sia proprio stato qui » precisò Lois, soddisfatta di aver finalmente scosso la curiosità della ragazza. Attese un paio di secondi, per deliziarsi dell’effetto che le sue parole avevano sortito in Kim e proseguì  « avevo finito di pulire la cucina e, guardando in giardino, l’ho visto là fuori. Sembrava pensieroso… purtroppo però quando sono uscita se n’era già andato » raccontò, visibilmente delusa.
« soffri di allucinazioni cara » ridacchiò bonario il marito, sollevato dal mancato incontro tra la figlia e il ragazzo sconosciuto.
« ma sei sicura che fosse lui? » insistette Kim che, diversamente dal padre, voleva credere alle parole di Lois. Non si era accorta di aver lasciato annegare un biscotto nella pozza di latte contenuto nella scodella. Il disco si stava spappolando irreversibilmente, assumendo un aspetto poco invitante, specie per la cestista che preferiva il cibo fragrante.
« oibò Kim! Quanto pensi che tua madre sia cretina? » replicò l’altra piccata, portandosi le mani sui fianchi.
« vuoi la risposta onesta o una sviolinata bugia? » sorrise l’altra.
« KIM! » la riprese Lois risentita mentre la figlia, scattando in piedi, le stampava un bacio sulla guancia. Le sorrise conciliante e, accorgendosi di avere improvvisamente fretta, afferrò l’ultimo biscotto dal sacchetto. Non vedeva l’ora di iniziare quella giornata, quello che le aveva raccontato la madre era un segnale incoraggiante; anche Dajan voleva scusarsi con lei, c’era rimasto male del loro litigio, anche se in quei giorni le aveva fatto credere che non gli importasse nulla:
« vado a scuola » disse « mi raccomando oggi, alle tre a Trenton, ci vediamo là! »
« portati via il sacchetto! » scherzò il signor Phoenix, constatando la golosità con cui Kim aveva ingurgitato un biscotto dietro l’altro. Quella che doveva essere una battuta, venne accettato dalla figlia come un saggio consiglio: brandì la confezione e, dopo aver recuperato lo zaino, uscì di casa, sgranocchiando quei biscotti come se fossero patatine, lasciandosi alle spalle le espressioni divertite dei suoi genitori.
 
« Alexy, vuoi darti una mossa? » si esasperò Rosalya, appena fece capolino nella stanza di Alexy.
La percezione del tempo che stava inesorabilmente stringendo, accresceva l’ansia della stilista, che temeva di non arrivare in tempo per il torneo. I secondi sembravano aver subito un’accelerata rispetto alla cadenza con cui si era susseguiti nell’arco della mattina: le ore di lezione sembravano non passare mai, perché praticamente l’intera scuola trepidava all’idea di recarsi a Trenton nel pomeriggio; la stilista aveva notato che non solo gli studenti erano in fibrillazione per quell’evento sportivo, ma anche gli insegnanti sembravano avere la testa da un’altra parte. Durante l’ora di storia, al professor Kon era sfuggito che i ribelli avessero “tirato la palla a canestro” anziché le “pietre sulla sede del parlamento”, scatenando una risata generale per quel lapsus.
Le lezioni erano state interrotte alle undici e mezzo, in modo che gli studenti avessero il tempo per pranzare e, chi lo volesse, recarsi alla partita. A giudicare dall’entusiasmo che aleggiava nei corridoi, Rosalya era sicura che il numero di assenti si sarebbe contato sulle dita di una mano.
La squadra di basket era già in viaggio per Trenton, dopo aver fatto appena due ore di lezione. Ciò aveva dato modo ai loro amici di incoraggiarli prima di vederli in azione sul pitturato.
Era riuscita a salutare Erin prima che salisse sull’autobus, inventandosi un mal di stomaco come pretesto per uscire dall’aula. Con immenso piacere, aveva trovato l’amica più carica e determinata che mai.
Rosalya scalpitava all’idea di poterla finalmente supportare di persona, ma il ritardo cronico che si associava ad Alexy, metteva a dura prova la sua pazienza; il ragazzo stava mettendo a soqquadro la sua stanza, più di quanto già non lo fosse in condizioni normali:
« Al muoviti o ti lasciamo qui! »
« invece di stare lì a rimproverarmi, non potresti aiutarmi? » sbottò l’altro, che cominciava ad accusare la tensione per la sua infruttuosa ricerca.
« se mi dicessi quello che stia cercando… »
« il cartellone Rosa! Il cartellone! »
« l’ha già preso tuo fratello e l’ha già caricato in macchina. Stiamo aspettando solo te. Gli altri sono già in viaggio »
Il ragazzo dai capelli turchini sbuffò:
« dirlo prima no eh? Smettila di mettermi ansia. Sembra che sia tu quella che deve scendere in campo! »
 
Fuori da casa Evans, una Ford nera aveva il motore acceso da ormai cinque minuti. Al suo interno, nella posizione di guida, Armin era impegnato a impostare il navigatore satellitare; sullo schermo touch era comparsa la fatidica domanda “dove vuoi andare?”
Con una scioltezza esperta, il moro digitò Trenton e diede l’ok. L’apparecchio cominciò ad elaborare il percorso ma, dopo due minuti non era ancora riuscito a trovare la destinazione:
« per fortuna che questo coso ha tutte le mappe del mondo » borbottò Ambra sarcastica, tenendo il gomito appoggiato contro il finestrino. Sin da quando era arrivata, Armin aveva parlato ininterrottamente del suo nuovo acquisto e delle implementazioni che, grazie alle sue abilità informatiche, era riuscito ad installare. Si ritrovava seduta accanto a lui proprio per una richiesta diretta del guidatore che l’aveva reputata la più affidabile come copilota tra i suoi amici.
« strano » ammise lui « forse potevo evitare di caricare le mappe degli altri continenti visto che dubito che mi serviranno oggi » ironizzò.
« tu dici? » replicò sarcastica la bionda, trattenendo una smorfia di dolore.
« siamo di ottimo umore oggi » commentò il ragazzo divertito.
« è solo una giornata no » sbuffò lei, sperando che l’antidolorifico facesse presto effetto. Voleva godersi quella giornata al meglio e invece la regolarità del suo ciclo mestruale aveva ben pensato di fare capolino puntualmente quel giorno.
Vide Rosalya avvicinarsi alla vettura e accomodarsi sui posti posteriori:
« Ale sta arrivando » annunciò, chiudendo la portiera della macchina.
« noi stiamo aspettando che il supernavigatore di Armin trovi una città che è a un’ora di macchina da qui » la aggiornò Ambra.
« ecco ha fatto! » esultò il pilota, appena si accorse che il caricamento era finito.
Rosalya si sporse in avanti, mentre Ambra di lato, per osservare il percorso calcolato dall’aggeggio; sui volti dei tre ragazzi si dipinse la più totale perplessità, al che Rosalya domandò confusa:
« perché dice che dobbiamo andare in Italia? »
Ambra cliccò una freccia sullo schermo touch e, notando il problema, commentò piccata:
« hai dimenticato una N… Nuvola »
Ogni tanto si divertiva a rivolgersi al ragazzo con quel nomignolo, anche se nella maggior parte delle circostanze si trattava di contesti in cui sottolineava gli errori commessi da Armin. Lui scoppiò a ridere e dichiarò:
« beh non mi dispiacerebbe fare un salto in Europa »
Nel frattempo anche Alexy, dopo aver salutato i genitori, era salito in macchina:
« allora? Si parte? » esordì eccitato, sistemandosi le voluminose e inseparabili cuffie dentro lo zaino. Vide Ambra trafficare con il navigatore e cliccare VAI.
« adesso sì » autorizzò, guardando il moro con sufficienza.
« non fare tanto la saputella biondina » borbottò Armin « il pilota sono io, quindi vedi di non farmi innervosire »
Non fece neanche a tempo a togliere il freno a mano che una voce dettò:
« Sigue recto y gira a la derecha »
I quattro ragazzi guardarono in sincrono il navigatore da cui era provenuta quella lingua sconosciuta.
« che è spagnolo? » chiese Ambra, fissando Armin.
Il ragazzo, perplesso quando lei, replicò poi con un sorriso scemo:
« mi sa che ho disinstallato per sbaglio il pacchetto in lingua inglese »
Rosalya sbattè più volte la fronte contro il poggia testa davanti a lei e, rassegnata, sospirò:
« Armin… quanto sei idddiota »
 
La loro corriera aveva appena attraversato il Trenton Makes Bridge, innescando nei cestiti la consapevolezza che, di lì a pochi minuti si sarebbero ritrovati ad un passo dal luogo dell’incontro. L’autista sfrecciava con agilità per le strade affollate, sotto l’incitazione di Boris e l’ansia di Faraize che sostenevano di essere in ritardo:
« una volta dentro il palazzetto » tuonò l’uomo, rivolgendosi ai suoi ragazzi « filate dritti negli spogliatoi. Quattro minuti quattro, e vi voglio suo campo. Chiaro? » e puntò il suo cipiglio severo sulle uniche due ragazze che componevano il suo arsenale di giocatori.
Non era necessaria quell’esortazione: l’attesa nello spogliatoio era snervante per qualsiasi cestista e, solo mettendo piede sul pitturato, potevano sentire un po’ di quell’ansia sciogliersi. Tutti erano ansiosi di portarsi sul campo, non avrebbero indugiato mezzo secondo in più nella bolgia infernale dello spogliatoio. Mai prima di una partita erano stati più tesi, nemmeno in quella di esordio al torneo. Nessuno fiatava e nemmeno i due allenatori dimostravano interesse nell’avviare una conversazione tra ti loro.
Tutti i presenti avevano un pensiero fisso ed era quello di arrivare a destinazione il prima possibile.
 
Era la prima volta che Iris si trovava in un palazzetto così grande: si era persa a contare il numero di file che costituivano gli spalti, sui quali lei e i suoi amici si erano sistemati. La capienza della struttura doveva sicuramente superare le migliaia di spettatori, numero che sembrava confermato dal crescente brusio attorno a loro: ovunque posasse lo sguardo, vedeva facce note di altri studenti del Dolce Amoris che erano accorsi per tifare per la propria squadra. Quella sorta di patriottismo scolastico era la prima volta che emergeva con tanta foga, in nessuna precedente competizione sportiva aveva assistito ad un simile coinvolgimento di massa e la causa era imputabile alla portata dell’evento; quella semifinale infatti, sarebbe stata addirittura trasmessa dalla TV locale, con tanto di interviste ai giocatori e relativi coach. Non stava più nella pelle all’idea di vedere Erin sul campo, anche perché non aveva mai avuto l’occasione di osservarla in azione. La struttura era talmente capiente che le due scuole messe insieme l’avrebbero riempita per appena un quarto: la maggior parte degli spettatori erano quindi abitanti di Trenton o appassionati di basket che erano accorsi ad assistere a quell’evento.
Il telefono della ragazza vibrò e, dopo un fugace scambio di battute informò il resto degli amici:
« Rosa ha detto che stanno parcheggiando »
« era anche ora! Inizieranno a momenti » sbottò Lin, mangiucchiandosi l’unghia del pollice.
Il pomeriggio precedente, aveva ricevuto un messaggio inaspettato: Liam l’aveva invitata ad uscire. Dopo dieci minuti di iperventilazione, durante i quali era riuscita a contattare Ambra e farsi dare dei consigli in fatto di look, la cinesina aveva risposto affermativamente a quell’invito. Era volata verso il cafè The roi dove aveva trovato il cestista ad aspettarla. Erano partiti chiacchierando del più e del meno, finché Lin aveva toccato il tasto “semifinale”. A quel punto Liam si era aperto con lei, confidandole che gli era venuta un po’ d’ansia al pensiero dell’indomani. Boris gli aveva anticipato che l’avrebbe schierato subito e quella notizia, oltre a eccitarlo all’inverosimile, l’aveva anche innervosito. Avvertiva la responsabilità di aprire la gara, sapendo che sarebbe stato sotto gli occhi di tutta la scuola sin dal primo quarto.
« parlare con te mi fa stare un sacco bene » le aveva detto con un sorriso impacciato, quasi timido nonostante la consueta solarità del biondo. Lin si era limitata ad arrossire leggermente, abbassando lo sguardo e borbottando un ringraziamento inudibile.
Era sicura che il ragazzo si sarebbe fatto valere, avrebbe solo voluto augurargli un in bocca al lupo di persona prima che scendesse in campo, ma quella mattina a scuola non c’era riuscita.
« ma tipo, vendono pop corn o qualcosa da mangiare in questi eventi? » si lamentò Kentin, guardandosi attorno annoiato.
« mai stato ad una partita di basket? Vieni proprio da un altro mondo… » lo punzecchiò Dakota.
« …disse il ragazzo arrivato da un’isola dimenticata di nome Australia » completò l’ex cadetto.
Iris sollevò gli occhi al cielo. Per tutto il viaggio in macchina, quei due non avevano cessato un attimo di provocarsi a vicenda. Ad un certo punto era intervenuta Lin a zittirli, imprecando quella che aveva avuto tutta l’aria di essere una parolaccia in cinese.
Una volta nell’arena, Dake aveva trovato posto accanto alla rossa, mentre Kentin era stato costretto a sedersi dietro con Violet e Lysandre, assumendo un’aria piuttosto contrariata.
«ma come fai ad avere fame? Abbiamo pranzato appena due ore fa! » sbottò Lin, fissando con apprensione il campo.
« ho un metabolismo accelerato, che vuoi farci » farfugliò Kentin, mettendo il broncio.
Violet distolse l’attenzione dagli amici per posarla su un quartetto di persone in avvicinamento: impossibile non notarlo, tanto era eccentrico; Armin era in testa alla spedizione, seguito da Rosalya che gli stava indicando il punto in cui Iris e gli altri li stavano aspettando. La presenza della stilista, unita alla figura algida di Ambra, aveva attirato non poche occhiate maschili, così come l’assurdo colore dei capelli di Alexy aveva contribuito a sobillare l’interesse generale. Erano ancora troppo lontani da loro per sentire cosa Rosalya stesse dicendo al moro, ma si capiva che cercava di fargli mettere a fuoco la giusta direzione, indicandogli il punto in cui erano seduti gli amici. Quando erano a pochi metri di distanza, mentre Ambra e Alexy li avevano salutati, Armin si guardava ancora attorno spaesato:
« Gira a la derecha » gli ordinò il fratello mentre le due ragazze ridacchiavano.
Armin si voltò scocciato e protestò:
« eccheccachio! Basta con questa storia! Piuttosto dovreste ringraziarmi! Abbiamo imparato un po’ di spagnolo! »
Rosalya fu la prima a raggiungere Iris e, in malo modo, farsi spazio tra lei e Dake. Kentin sorrise divertito mentre la stilista squittiva eccitata, ignorando l’irritazione del surfista:
« allora? Le squadre sono venute fuori? » chiese, allungando il collo a fissare il campo.
« non ancora. Avete fatto in tempo » la rassicurò Lysandre.
« saremo arrivati prima se Nuvola non avesse toccato il navigatore » spiegò Alexy, indicando il gemello.
Dake scosse la testa e commentò:
« possibile Armin che dietro ogni idiozia ci sia sempre tu? »
Il ragazzo boccheggiò cercando un’arringa difensiva che non riuscì a trovare, ma inaspettatamente intervenne Ambra:
« mai fatto un viaggio in macchina più divertente » concluse con un sorriso, sedendosi accanto a Violet.
A quelle parole, Armin si pavoneggiò e si accomodò accanto alla bionda:
« dite la verità: senza di me vi annoiereste a morte »
 
Il silenzio più totale.
Quasi assordante.
Nello spogliatoio della Atlantic la tensione si tagliava con il coltello; un cestista come Trevor, solitamente il più esuberante e chiassoso, non aveva spiccato parola da quando si era seduto sulla panchina di legno.
I suoi occhi erano pensosi, troppo concentrati a fissare i lacci bianchi delle sue Nike per posarsi altrove. Deglutì a fatica, accorgendosi di avere la gola secca. Troppo arsa per parlare.
Accanto a lui, nemmeno Wesley aveva voglia di conversare. Era la terza volta che riannodava le scarpe e, come le due precedenti, non ne sembrava soddisfatto: aveva il timore ossessivo che la presa non fosse sufficientemente salda, come se da un momento all’altro potesse ritrovarsi a correre scalzo sul campo.
I capelli scuri del cestista era scompigliati quanto quelli rossicci di Steve, seduto sulla panchina. Era sempre il primo a cambiarsi e nell’attesa, era impegnato a mandare messaggi alla sua ragazza. Quel giorno era uno dei pochi a sorridere, sentendosi rassicurato dalla persona dall'altro capo del telefono. Elliott era l’unica che riusciva a tranquillizzarlo quando l’ansia prendeva il sopravvento. Era la sua roccia, il suo punto fermo. Purtroppo Clinton, l’elemento più giovane e inesperto della squadra, non poteva contare sulla stessa stabilità: era un fascio di nervi. Era combattuto tra l'eccitazione di giocare quella partita e l'idea che se l’avesse fatto, avrebbe potuto comprometterne negativamente l’esito. Era una competizione importante e c'erano altri cestisti più forti di lui da schierare, se volevano avere maggiori chances di vittoria.
Liam rilesse la conversazione di Whatsapp avuta la sera precedente con Lin e, analogamente all'elemento più alto della squadra, sorrise rincuorato. Gli arrivò un nuovo messaggio dalla ragazza in cui gli augurava un buona fortuna, accompagnato da una serie di smile buffi, che lo misero di buon umore.
Appoggiato contro la parete, a braccia conserte, c'era il capitano. Il polsino che gli avvolgeva la mano, mai come in quel momento, gli andava stretto. Se l’era tolto e rimesso almeno quattro volte, nell’indecisione di portarlo sul campo. Non aveva mai giocato senza, ma quel giorno sembrava sortigli l’effetto di un laccio emostatico. Più cercava di tenere a freno l’agitazione e più essa si impadroniva di lui. All’esterno nessuno avrebbe potuto sospettare il suo tormento, a meno che Kim non fosse stata accanto a lui a studiare i suoi silenzi. Aveva bisogno di ascoltare una delle sue frasi di conforto, che normalmente erano delle vere e proprie provocazioni che lo facevano reagire. Quella necessità era esplosa solo una volta messo piede in quello spogliatoio a Trenton, nell’attesa apparentemente infinita che anche il resto dei ragazzi fosse pronto a scendere sul campo.
Era da quasi una settimana ormai che lui e la cestista non si rivolgevano più la parola, usando Trevor o Erin come intermediari per le comunicazioni strettamente necessarie. La posizione di Kim del resto era molto chiara: per lei non aveva alcuna importanza frequentare lo stesso college di Dajan, non era la sua ragazza e aveva ogni diritto a non sentirsi in colpa. Era lui l’ingenuo che si era costruito dei castelli in aria, immaginando che almeno in amicizia, lei desiderasse stare con lui.
Eppure lei sembrava così convinta quando gli aveva dichiarato che, dopo il torneo, il basket sarebbe stato un capitolo chiuso; lei era fatta per l’atletica, era quella la sua vera vocazione e non avrebbe mai rinunciato a quest’ultima per praticare un altro sport. Eppure, una volta che il North Carolina Tar Heels si era presentato alla sua porta, offrendole una borsa di studio per il basket, Kim non aveva esitato a rinnegare la sua fede sportiva.
Tuttavia, ciò che davvero bruciava a Dajan, più di ogni altra cosa, era il silenzio della mora, il fatto che non gli avesse raccontato nulla di tutto ciò, convinta che lui sarebbe stato così egoista da invidiarla e non essere contento per lei.
Dajan non era ipocrita: non aveva problemi ad ammettere che avrebbe voluto avere anche lui la stessa opportunità: anche se il lavoro di sua madre era ben avviato e lui riusciva ad arrotondare lavorando nel weekend, non avevano abbastanza risparmi da parte per pagare l’intera retta del college. Una borsa di studio era la sua unica possibilità di accedere al percorso successivo al diploma.  Tuttavia non per questo, non avrebbe gioito al pensiero che i meriti sportivi di Kim le avrebbero fornito un’opportunità così preziosa. Opportunità che a lui non era stata ancora concessa. Nonostante la trepidazione con cui la famiglia Brooks attendeva una risposta alla domanda di accettazione presentata alla Kentuchy, il college non aveva ancora dato notizie.
Il capitano sbuffò pesantemente: non era il momento giusto per crucciarsi, aveva ben altro nell’immediato di cui preoccuparsi. Si avvicinò al proprio borsone, buttandoci dentro un’occhiata. Nascosto in un angolo, sotto l’asciugamano, giaceva il suo porta fortuna: era un coniglietto di peluche, molto simile a quello che avrebbe dovuto dare a Kim a San Valentino, una settimana prima.
Il regalo in questione, dopo la litigata con la ragazza, era stato lanciato dal capitano con la stessa grazia di una palla, verso il bidone della spazzatura. Non si era nemmeno voltato a controllare il canestro, un ottimo tiratore come lui doveva averlo centrato per forza.
Dopo aver avanzato di qualche passo però, si era pentito di quel gesto: non poteva dimenticare di avere una sorellina di sette anni che avrebbe gioito alla vista di quel peluche, così era tornato indietro, per rimediare a quel gesto dettato dall’impulso. Si era sporto a scrutare nel cassonetto ma, oltre a un paio di sacchi neri dell’immondizia, non aveva visto altro. Aveva controllato sul marciapiede, ma nemmeno lì c’era traccia del pacchetto.  
Accantonò quel piccolo mistero e accarezzò fugacemente il suo portafortuna, stando attento a non farsi scoprire dai compagni. In realtà quasi tutti lì dentro avevano un qualche oggetto al quale erano scaramanticamente legati, ma solo di alcuni Dajan ne conosceva la natura; il suo amico Trevor aveva un portachiavi a forma di cupcake, Steve una sorta di rosario tibetano mentre Wes una pallina antistress a forma di pallone da basket. Mentre posava lo sguardo sui suoi compagni, si materializzò l’immagine di Castiel: troppe volte l’aveva visto rigirarsi tra le mani il primissimo plettro con cui si era approcciato alla musica. Prima di ogni partita, l’ex capitano passava qualche secondo a far flettere l’oggetto contro le dita, producendo un’irritante serie di schiocchi che generalmente scatenavano l’irritazione di Clinton.
Ripensando all’atteggiamento del rosso prima di ogni competizione, Dajan lo invidiò per quanto sapesse essere calmo e concentrato. Il che era sorprendente, considerata la sua indole impulsiva e irruenta; sul campo, Castiel appariva sempre controllato, rilassato, trasmettendo sensazioni analoghe ai compagni.  Più l’avversario che lo fronteggiava era forte e più Black si eccitava all’idea di scontrarlo.
Anche per Dajan era sempre stato così, almeno finché non gli erano stati messi sulle spalle l’onore e l’onere di guidare lui la squadra. Da settimane si crucciava all’idea che forse, Castiel avesse peccato di superficialità nell’affidare a lui il ruolo di capitano: da quando si era assunto quel ruolo, in Dajan si era annidata l’insicurezza di non giocare bene come prima, di essere troppo nervoso.
No, non era quello il momento per i dubbi: avevano una partita da vincere e l’avrebbero combattuta con quella che era considerata la squadra più forte dell’intero torneo.
 
Isiah starnutì ma nessuno dei suoi compagni ribatté prontamente con il classico salute. Si strofinò il naso, aspirando un po' dell'aria stagnante dello spogliatoio. In quella stanza regnava un’atmosfera pesante, aggravata dal silenzio solitario in cui si era trincerato ogni cestista.
La guardia ripensò ai tempi in cui era Boris ad allenarli e lo assalì la nostalgia nel ricordare l’allegria e la confusione che circolavano tra i ragazzi. A quei tempi erano una squadra forte, ma nulla a confronto del livello che avevano raggiunto con la formazione della cosiddetta triade divina.
Durante il primo anno di liceo, Isiah era entrato nella squadra di basket semplicemente perché “era alto”. Il capitano della squadra in quel periodo era Neal Woodruff, un tipo affabile e alla mano. Per uno con il carattere di Isiah non era stato difficile integrarsi, anche grazie all’approccio solare ed espansivo del coach della Saint Mary: Boris.
Con l’inizio del secondo anno, l’allenatore era entrato in palestra annunciando trionfante l’arrivo di una nuova giocatrice: Melanie. Era una ragazza un po’ solitaria, che colpì sin da subito la guardia per il suo approccio schivo verso gli altri. Una volta sul campo però, la bionda dimostrò un’ottima predisposizione per quello sport, anche se il suo fisico minuto, rispetto a quello dei giganti che la circondavano, costituiva un grosso svantaggio. Melanie però dimostrò come esso poteva rappresentare il suo punto di forza, sfruttando la sua statura per passare inosservata durante le partite ed effettuare passaggi chiave.
La Saint Mary dell’epoca era una squadra che collezionava vittorie e sconfitte, come ogni altra squadra liceale. I piazzamenti nei tornei regionali erano più che soddisfacenti ma non per il dirigente scolastico, Mister Wilson. Sosteneva che la scuola avesse un titolo da difendere e che i ragazzi non fossero all’altezza di portarlo, oltre a scagliarsi contro la presenza di una ragazza nella squadra maschile, a suo avviso fonte di indebolimento della potenza offensiva della Saint Mary.
Boris non si lasciava intimidire da quei discorsi: credeva nei suoi ragazzi e, fintanto che loro avrebbero creduto in lui, sarebbe stato al loro fianco. Agli occhi dei cestisti e del loro allenatore, Wilson era solo un patetico preside che ostentava competenze che non gli appartenevano. Mai una volta Boris pensò di assecondare i numerosi consigli o schemi di gioco che l’uomo tentava di imporgli. Tra il coach e i suoi ragazzi, c’era una sorta di complicità nel fare fronte comune contro quel dittatore senza potere.
Tutto era cambiato durante il quarto anno di Isiah. Il cestista rivide davanti agli occhi la scena in cui, in un freddo pomeriggio di novembre, il preside era entrato in palestra, seguito da un ragazzo afroamericano. Quest’ultimo non aveva accennato a mezzo sorriso, e teneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se niente di quanto lo circondava attirasse la sua attenzione. Mister Wilson, dopo aver costretto i ragazzi ad interrompere l’allenamento, presentò il suo pupillo come la speranza della squadra, colui che le avrebbe permesso di fare quel salto di qualità che ancora non era stato fatto. Boris si era limitato a rispondergli con un’occhiata raggelante e per una volta, assecondò l’uomo quando pretese di vedere all’opera il nuovo arrivato. Istintivamente Isiah preferì schierarsi nella squadra avversaria: c’era qualcosa di strano in Julius Lanier, nel modo freddo e impassibile con cui si ergeva nel suo metro e novantadue di altezza ma proprio per questo, era curioso di fronteggiarlo da avversario. Melanie era stata costretta a rimanere in panchina, poiché Wilson aveva sostenuto che avrebbe intralciato il talento del nuovo acquisto della Saint Mary. A quelle parole Isiah e Neal erano sbottati, incuranti della figura rappresentata dal dirigente scolastico:
« Mel è un ottimo elemento » aveva ruggito Reed a denti stretti « lei non sa un caz-…niente per poterla giudicare! » si era corretto all’ultimo.
« quello che il mio compagno vuole dire » era corso ai ripari il capitano « è che la sta sottovalutando »
Il preside però, irritato dalla mancanza di rispetto da parte della guardia, si era imbufalito, apostrofando Boris che era tutta colpa sua se i ragazzi avevano un atteggiamento così irriverente nei suoi confronti.
« potremo smetterla di perdere tempo e deciderci a giocare? »
Quella frase, pronunciata con totale disprezzo e insofferenza, era scaturita da Julius, che era già al centro del campo: voleva essere lui a scontrarsi per la conquista della palla e non lasciava spazio per una discussione. Aveva deciso lui per tutti.
Wilson accantonò la questione ed esortò i cestisti ad iniziare lo scontro. Si portò accanto al coach, tenendo gli occhi puntati su Lanier:
« tieni gli occhi ben aperti Boris: ora vedrai cos’è il vero talento »
 
Dopo appena due minuti di gioco, in campo era sceso il gelo: Lanier aveva sbaragliato gli avversari, segnando un numero impressionante di canestri a distanza di pochissimo tempo l’uno dall’altro.
Anche se era passato un anno, Isiah ricordava ancora la sensazione di estrema inferiorità che l’aveva divorato in quel momento, con le ginocchia puntate contro il pavimento, nel disperato tentativo di riprendere fiato. Il ragazzo non gli aveva dato tregua, l’aveva ricorso per tutta la partita e in ogni scontro, era sempre stato il primo a spuntarla.
Julius era un genio del basket, il miglior giocatore liceale che avesse mai incontrato: forte, scattante, sicurò di sé. Sembrava progettato geneticamente per incarnare lo stereotipo del giocatore perfetto.
Senza mezzi termini, il preside aveva ordinato a Boris di nominare il nuovo arrivato capitano, detronizzando così Neal. A quell’imposizione però, Boris non era riuscito a trattenersi: erano volate parole pesanti che solo la presenza dei ragazzi era riuscita a trattenere nei due adulti l’istinto di usare termini più volgari e dispregiativi.  
Anche se era palpabile la reticenza che Boris nutriva verso il nuovo ragazzo, l’allenatore cercò di fare del suo meglio per dissimularla e accoglierlo in squadra. Riconosceva il talento di Lanier e non era professionale trasferire in quel cestista l’antipatia che lo legava al preside.
Per quanto ci provasse però, Julius faceva vacillare i suoi buoni propositi: il ragazzo si affermò sin da subito come una persona asociale, presuntuosa ed egoista. Niente sembrava scalfirlo, amava stare da solo anche fuori dal campo, ragion per cui i suoi compagni di squadra e di classe sapevano molto poco della sua famiglia. Aveva uno stile di gioco estremamente individualista e non riteneva nessuno dei suoi compagni all’altezza di affrontarlo.
Il perdurare di quella situazione, unita alle vittorie che la Saint Mary cominciò ad accumulare grazie ai canestri di Lanier, convinse il resto dei giocatori di essere realmente dei perdenti.
Prima che Boris potesse notarli, nella squadra cominciarono a serpeggiare sentimenti di rassegnazione e amarezza: Julius poteva anche essere detestabile, ma era un fenomeno e per sbaragliare la concorrenza, la Saint Mary HS aveva bisogno di lui.
Il coach era l’unico a non portarlo su un palmo di mano, trattandolo esattamente come tutti gli altri e quella mancanza di elogi innervosiva visibilmente il ragazzo, che proprio per l’irremovibilità dell’uomo, non era ancora diventato capitano.
Se tutti i ragazzi si erano rassegnati alla propria inferiorità, Isiah non poteva considerarsi parte di quel gruppo: aveva un orgoglio sportivo da difendere e l’unico modo per farlo era dimostrare a tutti che Julius non era l’unica risorsa per la squadra. Era convinto che chiunque potesse dare il suo contributo, anche se il talento di Lanier sembrava eclissare l’impegno altrui. Si trattava solo di impegnarsi di più, prendere Julius come modello di ispirazione per fare meglio e non per demoralizzarsi.
Isiah si era così convinto che per poter dimostrare agli altri la fondatezza del suo punto di vista, doveva passare direttamente ai fatti; non era un’impresa facile, considerata la proverbiale pigrizia che si associava sin dalla nascita alla sua personalità. D’altronde era a causa di quella inerzia che spesso si presentava in ritardo agli allenamenti, talvolta saltandoli completamente.
« no » aveva giurato a sé stesso « è ora di smetterla di cazzeggiare: mi impegnerò per diventare più forte » Scoperte le sue intenzioni, i suoi compagni avevano scherzato sul fatto che non avrebbe resistito a lungo, tornando ad essere il solito Isiah Reed pacioso e spensierato.
Lui si limitava a sorridere convinto, lasciandoli parlare: li avrebbe ammutoliti, portandoli poi dalla sua parte non appena sarebbe riuscito a dimostrare loro quale fosse il giusto atteggiamento.
Un sabato mattina, aveva trovato Melanie nel campetto dietro casa, intenta a lanciare la palla a canestro. Rimase a guardarla per qualche minuto, in disparte, mentre lei collezionava una serie perfetta di tiri andati a segno. Ne contò trenta, tutti perfettamente eseguiti. Durante le partite era raro che fosse la ragazza a tirare a canestro e proprio per questo, quel giorno Isiah rimase positivamente impressionato dalla precisione della playmaker. Attirò la sua attenzione e la vide portarsi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio destro, sorridendo in leggero imbarazzo. In quel periodo, la ragazza portava i capelli lunghi anche se, dopo il cambio di look, la guardia scoprì che la preferiva con un taglio più sbarazzino.
Quel sabato mattina, Isiah scoprì che, analogamente a lui, anche Melanie aveva iniziato ad allenarsi con impegno fuori dalla palestra e scoprire in lei un’alleata, l’aveva spinto a formulare insieme una promessa:
« la squadra tornerà ad essere unita come prima che arrivasse Julius: dimostreremo agli altri che l’unico atteggiamento da perdenti è quello che porta a lamentarsi delle proprie debolezze, senza fare nulla per affrontarle. Julius è forte e questo deve essere uno sprono per migliorarci, per portarci al suo livello, non per demoralizzarci » aveva sentenziato. Melanie si era limitata ad annuire convinta. Le era piaciuto sin da subito il carattere del cestista, era un trascinatore, un capitano nato, anche se preferiva far passare inosservata quella sua capacità.
Mese dopo mese, grazie all’assiduità del loro impegno, Isiah e Melanie miglioravano a vista d’occhio: il primo perfezionò a tal punto la precisione di lancio che cominciò a circolare la diceria sulla sua imbattibilità come guardia tiratrice. All’inizio i suoi compagni scherzavano su quella serie ininterrotta di tiri perfetti ma pian piano cominciarono ad accorgersi che non era solo un’incredibile questione di fortuna.
I lanci di Isiah erano diventanti infallibili.
Analogamente cominciarono ad associare la presenza di Melanie in una squadra, alle vittorie di quest’ultima: chi finiva in squadra con la ragazza, durante gli allenamenti, vinceva sempre. Fu da quell’osservazione che i cestisti cominciarono ad accorgersi della preziosità del ruolo rivestito dalla playmaker, che riusciva a rubare palle anche quando il gioco sembrava sul punto di arenarsi, creando delle traiettorie impossibili.
Fu così che al rientro dalle vacanze estive, durante il primo allenamento, il resto della squadra cominciò a guardare i due compagni con occhi diversi: stavano sbocciando, mentre loro rimanevano ancorati alla solita mediocrità.
Isiash e Melanie non era più come loro, li stavano distanziando. Stavano diventando come Julius.
Boris notò allora che c’era qualcosa di strano nel modo in cui i ragazzi si approcciavano ad Isiah, che prima era sempre al centro del gruppo; in modo quasi impercettibile, con gesti quotidiani di apparente irrilevanza, la squadra sembrava averlo ostracizzato, come se non appartenesse più ad essa. Con Melanie, se già da prima l’interazione non era molto intensa, venne annientata completamente..
Il tentativo dei due cestisti di risollevare il morale delle squadra, aveva avuto un effetto opposto a quello desiderato: non erano più come gli altri, era diventati fonte di invidia, aizzata dalle lodi di un preside che, dopo una schiacciante vittoria a Chicago, aveva battezzato i tre “la triade divina”.
Quel giorno, con un punteggio di 120 a 23 era nata la leggenda.
Da quel momento in poi, la situazione era degenerata irreversibilmente: lo spirito di squadra era stato annientato, i suoi compagni guardavano Isiah e Melanie con un misto di diffidenza e disprezzo, come se il talento che era esploso in loro fosse un pretesto per umiliarli più di quanto non facesse Lanier.
Melanie, infastidita dal peso di quel titolo, conferitole dall’ipocrisia di un uomo che l’aveva sempre denigrata, si era chiusa ancora più in se stessa.
Non avevano altra scelta che mantenere quella fama che si erano guadagnati, portando la Saint Mary alla vittoria e attirando l’attenzione di grosse squadre professionistiche.
Nell’arco di un anno, tra i giocatori non si respirava più quell’allegria e divertimento per cui Boris li aveva conosciuti: i ragazzi erano come annichiliti, schiacciati dall’invadenza sul campo di quei tre mostri che li ecclissavano totalmente. Boris cercava di esortarli, di convincerli ad impegnarsi, ma poiché l’esito di ogni partita era scontato, la squadra si limitava a rispondergli che, fintanto che avevano la triade divina, il loro contributo era insignificante.
Demoralizzato per quella situazione, il coach, verso l’inizio del quinto anno di Isiah, aveva gettato la spugna. Si era presentato in palestra salutando i ragazzi e affermando che le loro strade si sarebbero divise:
« non posso essere una guida per la squadra, se non c’è più nessuna squadra a seguirmi » era stato l’amaro commento dell’uomo, prima di chiudersi alle spalle la porta della palestra, lasciando ai cestisti la triste consapevolezza che non l’avrebbe mai più riaperta.
 
Isiah sospirò: non poteva fare più nulla per togliersi da quella situazione. Si rammaricava soprattutto del fatto di aver trascinato con sé anche Melanie, fornendole un pretesto perché la squadra si allontanasse anche da lei. Era vero che la ragazza si distingueva per un carattere un po’ introverso ma sul campo era una persona completamente diversa: interagiva con i compagni, si entusiasmava, era eccitata: Tutto ciò prima di diventare la playmaker del mitico trio.
La guardia udì un verso stizzito e si voltò verso la porta, contro la quale era appoggiato il capitano: Julius era sempre il primo a cambiarsi e, solo perché l’allenatore glielo aveva imposto, era costretto ad aspettare che tutti i suoi compagni fossero pronti prima di abbandonare lo spogliatoio.
Quando anche l’ultimo giocatore si sistemò le scarpe, il ragazzo si limitò a grugnire seccato:
« era ora »
 
Ambra sollevò gli occhi al cielo: erano dieci minuti che Armin insisteva per farle cambiare idea su un videogame uscito un anno prima. Appena la ragazza aveva criticato la qualità grafica dei personaggi, il moro era partito con una filippica difensiva, che aveva estraniato il resto dei suoi amici dall’intervenire.
« spero che inizino subito, non ne posso più di sentirlo parlare di PSP! » sbuffò Rosalya, in trepidante attesa. Sin da quando si era seduta, aveva iniziato a torturare nervosamente l’orlo del maglione, unica azione che le permetteva di stemperare un po’ dell’eccitato nervosismo che aumentava di minuto in minuto; lei meglio di chiunque altro, sapeva quando quella partita fosse importante per Erin e se l’avesse persa, non era sicura che l’amica avrebbe retto alla delusione.
« beh, Ambra non sembra lamentarsi » considerò Alexy, con una risatina, osservando la bionda rispondere a tono a quella conversazione. La secondogenita di casa Daniels, diversamente dal resto dei ragazzi, non era insofferente alla fissa di Armin, viceversa, con le sue osservazioni, gli offriva nuovi spunti per una discussione che non accennava a scemare.
Iris nel frattempo spostò lo sguardo sulla fasciatura che avvolgeva il polso abbronzato di Dake.
Il giorno prima, assieme a Kentin ed Alexy, i quattro erano andati ad arrampicare: a Morristown infatti avevano inaugurato una palestra con una parete rocciosa che aveva riscosso un successo incredibile, accogliendo un sacco di sportivi e non. Il biondo però, aveva fatto un movimento sbagliato con la mano, provocandosi una slogatura:
« ehi Dake, la mano come va? Ti fa’ male se la tocchi? » si preoccupò la rossa.
Quella premura fece sorridere il surfista che, istintivamente si voltò leggermente verso Kentin, lanciandogli un’occhiata beffarda e vittoriosa. Quest’ultimo aveva uno sguardo di fuoco che scoppiò appena sentì il ragazzo dire:
« prova e vediamo » le sussurrò dolcemente, allungando il braccio verso di lei e passandolo davanti a Rosalya, che si sentiva alquanto di troppo tra i due.
Dopo qualche secondo di indecisione, le dita di Iris sorvolarono la pelle di Dake, atterrando vicino al pollice. Provò a stringere delicatamente, ma il ragazzo non reagì minimamente. Si sentiva un po’ sciocca ad assecondare quella richiesta, finché non fu l’ex cadetto a sbottare irritato:
« così non sente male per forza! »
Lo vide allungare il busto in avanti, frapponendosi tra Rosalya e Dake. Con la delicatezza di uno scaricatore di porto, Kentin serrò con veemenza la sua mano in quella del biondo, che protestò dolorante:
« ahi cazzo! »
« ecco vedi? Hai le terminazioni dolorifiche ancora funzionanti » lo derise il moro tornando composto e restituendogli un ghigno trionfante. Non ancora soddisfatto di quell’infantile vittoria, aggiunse « comunque Dakota con te davanti Violet non vede un tubo. Vero? »
Si girò verso la timida e silenziosa artista seduta accanto a lui che avvampò all’istante, farfugliando frasi sconclusionate.
« gli spalti sono fatti a gradoni apposta » obiettò Dake, sorridendo ipocrita e trattenendo il nervoso « Violet ci vede benissimo »
Iris si girò e, valutando velocemente la situazione, dichiarò:
« ha ragione Kentin: Violet è piccolina, non ha la visuale sgombera. Potresti fare cambio con lei Dake e sederti vicino a lui al posto suo? ».
Gli occhioni chiari e dolci della ragazza, bastarono ad annullare le difese del ragazzo che, a malincuore, effettuò lo scambio, trovandosi accanto l’ex cadetto.
Rosalya, assistendo a quella scena, scosse il capo; si lamentava spesso dell’ingenuità che Erin manifestava nelle situazioni amorose, ma quella di Iris raggiungeva livelli che nemmeno la loro amica aveva sperimentato.
« la prossima volta metti la museruola ai tuoi spasimanti » le sussurrò sottovoce « non intendo passare tutta la partita a sentirli abbaiare l’uno contro l’altro »
« sono miei amici! » protestò Iris, senza farsi sentire dagli altri due.
« e io sono Batman » borbottò la stilista, incrociando le braccia al petto, scocciata.
Quel diversivo l’aveva distolta per un attimo dai suoi pensieri, ma ci pensò esultanza di Lin a destare l’interesse generale:
« STANNO USCENDO! » esultò la cinesina, balzando in piedi.
Armin e Ambra smisero di discutere, così come Kentin e Dake, Alexy ripose in tasca il cellulare, mentre Rosalya ed Iris si allungarono in avanti, puntando tutti lo sguardo verso il campo sotto di loro.
« sono gli avversari » osservò piatto Kentin « hanno le divise verdi »
« complimenti genio. A quanto pare non sei daltonico » commentò Dake.
Prima che il moro potesse rispondergli, Rosalya si voltò, incenerendo i due nemici con lo sguardo:
« Dake, Kentin: a cuccia! »
I due rimasero interdetti dalla ferocia dello sguardo della ragazza e, mentre il primo ridacchiava divertito, il secondo era rimasto inebetito. La stilista non si curò più di loro e tornò a fissare con apprensione la scena sotto di lei:
« eddai Cip » la pregò « SBRIGATIII! »
 
Boris vide i suoi giocatori fare il loro ingresso ordinatamente e in silenzio. Dajan era in testa alla squadra e teneva lo sguardo fisso sul campo, troppo concentrato per guardare altrove. Anche il resto dei ragazzi sembrava completamente assorto nei propri pensieri, da non cercare di interagire con i compagni.
Appena il pubblico riuscì a vederli, esplose in urla incoraggianti, facendoli sobbalzare per lo spavento: alzando gli occhi, videro tutti gli studenti del Dolce Amoris che si erano alzati in piedi ad applaudirli e a tifare per loro, provocando un chiasso assordante, degno del tifo di una squadra professionista. Udivano cori confusi, di cui era praticamente impossibile estrapolare il senso delle parole.
Quella scena risvegliò e rallegrò istantaneamente gli animi, con l’effetto più efficace e istantaneo di qualsiasi discorso di incoraggiamento: Trevor e Wes cominciarono a pavoneggiarsi, gesticolando pose e movimenti assurdi mentre il resto della squadra si limitava a salutare i tifosi con sorrisi allegri e anche un po’ imbarazzati, per quell’attenzione di cui erano il fulcro scatenante.
Clinton buttò l’occhio sulla panchina vuota e brontolò:
« possibile che anche oggi Erin e Kim si facciano aspettare? »
L’allenatore sorrise beffardo e replicò:
« in realtà quelle due hanno già iniziato il riscaldamento cinque minuti fa »
I ragazzi spostarono stupefatti lo sguardo verso la loro metà campo, dove due figure solitarie era impegnate a lanciare la palla a canestro. Erin fu la prima ad accorgersi del loro arrivo e, abbandonando la palla, si fiondò verso i cestisti:
« alla buon’ora! Si può sapere perché ci avete messo tanto? Avete pettinato le Barbie? »
Rimasero alquanto sbigottiti per quella reazione: non l’avevano mai vista così carica prima di una partita. Nei suoi occhi si leggeva eccitazione allo stato puro, la frenesia di iniziare a giocare. Con il loro ritardo, i maschi si erano persi una scena altrettanto memorabile quanto quella di cui erano appena stati protagonisti: quando anche Erin e Kim erano uscite allo scoperto, poco prima di loro, gli studenti erano esplosi: le due erano sobbalzate, tanto il boato era stato improvviso e fragoroso. La più piccolina delle due, era stata catturata da una macchia rossa che aveva poi scoperto essere un cartellone. Mettendo a fuoco aveva letto la scritta “FORZA ATLANTIC! VAI CIP!” e il disegno di uno scoiattolino con la divisa da basket. Aveva sorriso sfrontata, vedendo tutti i suoi amici in piedi per lei, con Rosalya in testa al coro.
« insomma! » si spazientì « volete darvi una mossa? La Saint Mary è già sul campo! » li incitò, battendo violentemente i palmi delle mani.
Boris ridacchiò e commentò compiaciuto:
« fatevi contagiare dall’entusiasmo di Erin! Non abbiate quelle facce lunghe. Se capiscono che avete paura di loro, avrete perso » li provocò.
« non abbiamo paura di loro » precisò Dajan, risentito nell’orgoglio.
« allora dimostratelo » asserì il coach, battendogli una mano sulla spalla.
Erin lanciò un’occhiata fugace all’altro lato del campo e intercettò subito Melanie. Era impegnata con lo stretching ma non per questo non si accorse dell’attenzione che le stava dedicando la rivale. La vide alzarsi da terra, strofinando le mani l’una contro l’altra, a togliere i residui di polvere che erano rimasti attaccati.
Si guardarono dritte in faccia, senza alcuna esitazione. Per un attimo sembrava che l’una volesse raggiungere l’altra, colmare i quindici metri che le distanziavano ma entrambe realizzarono che quello che sentivano in quel momento non era necessario esprimerlo a parole. Si scambiarono un cenno d’intesa, carico di stima reciproca e desiderio incontenibile di fronteggiarsi.
Il desiderio di dimostrare all’altra il proprio valore sul campo.
 
Da quando le squadre erano giunte al completo sul pitturato, il tempo volò.
Finalmente i presenti, atleti e pubblico ricevettero l’atteso segnale.
Il riscaldamento era finito.
La sfida doveva iniziare.
Erin deglutì vistosamente seguendo il quartetto di cestisti con cui avrebbe aperto la partita. Si allineò tra Dajan e Trevor, mentre Steve e Liam erano già in posizione.
Davanti a loro, il quintetto avversario in cui la ragazza notò subito una grande assenza: Melanie non c’era. La Saint Mary schierava il capitano Julius Lanier, Mitch Sharman, Denzel Simpson, Isiah Reed e Charlotte O’ Connor, la seconda ragazza della squadra. Boris aveva ammesso di non avere alcuna informazione su di lei, in quanto quest’ultima non frequentava il Saint Mary durante il suo periodo di permanenza in quell’istituto. I ragazzi della Atlantic avevano visto poche partite in cui era stato dato spazio a quell’elemento e ne avevano dedotto che non rappresentasse una grossa minaccia. Gli avversari quindi non volevano ancora schierare la triade divina al completo e nelle maglie rosse si innescarono una serie di ragionamenti scaturiti da quella scelta strategica. C’era chi come Liam che sospettava che la Saint Mary li stesse sottovalutando oppure altri giocatori più esperti, come Dajan, che immaginavano che era un modo per non affaticare la vera pupilla della squadra, per schierarla al momento più opportuno.
Melanie quindi riposava in panchina, con le braccia conserte e la cerniera della felpa completamente aperta, lasciando intravedere la sottostante divisa verde. In quell’occasione però aveva rinunciato al suo inseparabile i-pod, tenendo tutti i sensi in allerta.
I giocatori, dopo una fugace stretta di mano, si misero in posizione.
Trevor lanciò un’occhiata d’intesa all’amico Dajan, pronto a balzare per la conquista della palla. A fronteggiarlo Lanier, che lo squadrava minaccioso. Da vicino i muscoli del collo erano evidentemente tesi e sembrava quasi di vedere l’arteria pulsare sotto la pressione del sangue che veniva convogliato al cervello.
« che ansia » mormorò la gola secca del professor Faraize. Era una persona molto emotiva, i cui nervi venivano messi a dura prova dallo stress, anche quello più lieve.
Dalla panchina era palpabile la rivalità tra le due squadre, fomentata dall’ostilità tra i due capitani:
« anche se è non è la finale, quelle che ora sono presenti sul campo sono le due squadre più forti del torneo » dichiarò Boris con le possenti braccia incrociate davanti al petto; poteva dirsi orgoglioso di averle allenate entrambe. Vedere i suoi ex ragazzi fronteggiare i nuovi, lo metteva in una strana posizione. Tifava per la Atlantic ma in cuor suo, si sentiva un po’ in colpa all’idea di gioire per la sconfitta della Saint Mary.
Erin aveva il cuore in gola. Il suo corpo stava tremando, ma non capiva se era per l’agitazione o per la fibrillazione; desiderava solo cominciare a correre, per sfogare quella snervante fissità ad attendere il fischio d’inizio.
L’arbitro si portò a centro campo, tenendo in equilibrio la palla sul palmo della mano: da quel momento in poi, i dieci ragazzi non avrebbero avuto occhi che per quell’oggetto sferico.
« signore e signori » annunciò uno dei due cronisti, appositamente assoldati per commentare l’evento « cominciate il conto alla rovescia: il gioco sta per iniziare! »
 
Dajan e Julius si avvicinarono ancora di più. L’arbitro guardò prima l’uno poi l’altro e annuì.
Si portò il fischietto alle labbra e, insieme al suono stridulo emesso dall’oggetto, lanciò la sfera verso l’alto.
« SI INIZIAAA! »
I due ragazzi scattarono fulminei verso l’alto, mentre dalla platea si levarono cori eccitati.
Fu la tempistica di Lanier a spuntarla, riuscendo a strappare la palla al capitano avversario, direzionandola verso Mitch.
« merda! » ghignò Dajan a denti stretti. I suoi piedi non fecero quasi in tempo a ritoccare terra che una saetta con la divisa rossa sfrecciò accanto a lui, intercettando la sfera che non era riuscito a conquistare
Prima che Mitch potesse accogliere la palla tra le mani, Erin si era già allontanata di due passi, palleggiandola velocissima: la passò a Trevor, mentre sia la sua squadra che quella avversaria, restavano di stucco; era successo tutto troppo velocemente e l’altezza della ragazza le aveva permesso di muoversi con l’agilità di un furetto
« GRANDE CIIIP! » aveva urlato Rosalya, sgolandosi.
« la palla è in mano a Trevor Mc Connell, ala grande della Atlantic High School »
Il ragazzo si trovò di fronte Denzel così optò per un passaggio laterale, appena notò la presenza di Steve alla sua destra.
« saremo noi a inaugurare il tabellone » sibilò, sfidando l’avversario davanti a lui, mentre la palla volava via.
« non credo proprio » chiarì Lanier, materializzandosi lì vicino.
La sfera infatti stoppò la sua corsa, finendo nelle grandi mani del capitano che volò via verso il canestro.
« non esiste che segnino il primo punto » giurò Dajan a sé stesso, partendo alla rincorsa. Accanto a sé, vide la figura minuta di Erin e questo lo fece ghignare eccitato: era un’ottima spalla che quasi non gli faceva sentirla la mancanza di quel ragazzo con il numero 11 sulla maglia. Quasi.
La mora si portò alle spalle dell’avversario il quale non si era accorto di lei: era troppo impegnato a tenere d’occhio la sua controparte avversaria, Dajan. Ciò gli impedì di prepararsi all’intervento di Erin che, da dietro, riuscì a fargli perdere il controllo palla. Questa venne rapidamente intercettata dal capitano della Atlantic, mentre Lanier farfugliò furente:
« questa è la prima e ultima volta che mi freghi, nanetta »
La cestista però sorrise soddisfatta: essere riuscita a beffare un simile colosso della pallacanestro, era un’enorme gratificazione, ma non c’era il tempo per godersela. Partì per dare supporto alla sua squadra, che aveva già guadagnato la metà campo. La palla era passata da Dajan a Steve, pronto a tirare a canestro; il pivot della Atlantic si mise in posizione di lancio e lasciò che la sfera abbandonasse le sue mani, diretta sicura verso il canestro ma una figura agile e scattante ne disturbò la traiettoria; Lanier sorrise soddisfatto mentre la miglior guardia della squadra, Isiah Reed, si impossessava della palla:
« spettacolare stoppata di Isiah Reed che ha intercettato il tiro avversario, salvando il proprio canestro! »
La sua entrata era stata una dimostrazione di grande potenza nel salto, che aveva lasciato Steve sgomento. L’avversario nel frattempo aveva palleggiato per un paio di metri, trovandosi davanti Liam e Trevor. Le braccia dei due ragazzi sembrano non lasciargli alcuna apertura laterale, costringendolo a pensare fuori dagli schemi.
« vai Trevor! » lo incitò Kim dalla panchina, scalpitando dalla voglia di trovarsi sul campo.
Isiah valutò l’area attorno a sé, ma nessuno dei suoi compagni era a portata di tiro. O gli avversari erano particolarmente bravi a marcarli, oppure la sua squadra pensava che potesse cavarsela da solo.
« è in trappola » constatò vittorioso Clinton dalla panchina.
La guardia avversaria però non tradiva alcun timore. Aveva perennemente un’espressione beffarda e sicura di sé, che quando era sul campo esplodeva in tutta la sua essenza. C’era un’area dello spazio che le due maglie rosse stavano trascurando di considerare e che pertanto poteva essere sfruttata. La guardia fletté le gambe verso il basso, per poi allungarsi verso l’alto tenendo la palla sopra la testa:
« m-ma sta tirando a canestro da quella distanza? » esclamò Liam sconvolto.
La guardia avversaria infatti si trovava circa a metà campo, troppo lontano dal cesto per poter essere sicuro di centrarlo. Anche il resto della squadra del Dolce Amoris, sia chi era seduto in panchina, che ci era sul campo, era rimasto spiazzato. La palla stava descrivendo una parabola altissima, impossibile da intercettare.
« non può entrare… » mormorò Steve sconcertato, seguendo inerme con gli occhi la traiettoria della sfera. Era un dato di fatto che più la parabola descritta dalla palla fosse arcuata, più fosse difficile per un tiratore calcolare la posizione in cui essa sarebbe atterrata. Fu per questo che, quando la sfera scivolò lungo la rete del canestro, la Atlantic rimase sgomenta, mentre attorno a loro si levavano commenti delusi da parte del pubblico del Dolce Amoris.
Isiah Reed, all’apparenza un ragazzo pacioso e innocuo, sul campo era un cestista temibile, capace di incutere soggezione negli avversari. Quando Boris aveva comunicato ai suoi ragazzi il suo record di infallibilità nel centrare i canestri, tutti avevano creduto ad un’esagerazione. Ora non ne era più così convinti
I primi tre punti erano così andati alla Saint Mary e nonostante le spettacolarità dell’azione, ne era derivata solo un moderato applauso e qualche esultazione solitaria da parte dei tifosi delle maglie verdi. Lysandre notò che anche nella panchina avversaria nessuno si era particolarmente entusiasmato per quell’azione: i cestisti sembravano annoiati, come se non avessero assistito a nessuna scena particolare o imprevista.  
Anche ad Ambra e Violet non era sfuggita quell’osservazione: puntarono l’attenzione sugli spalti opposti a quelli dove si trovavano lei e gli altri, individuando la scuola avversaria; gli studenti non apparivano granché interessati alla partita, come se la loro presenza nell’arena fosse frutto di un’imposizione e non di una scelta volontaria. Gli unici a sostenere la Saint Mary erano persone troppo grandi per essere dei liceali, persone quindi che conoscevano i cestiti solo per i loro meriti sportivi:
« sembra che la Saint Mary non sopporti la Saint Mary » mormorò Lysandre tra sé e sé, ma rimase inascoltato dagli amici che erano troppo presi a seguire le azioni sul campo.
Trevor serrò la mascella mentre Denzel, passandogli accanto, ghignò:
« non sottovalutateci »
« nemmeno voi » lo ammonì l’ala grande, precipitandosi al contrattacco: Steve aveva rimesso la palla in campo, passandola a Liam.
« Liam a destra! » lo guidò l’unica voce femminile della sua squadra. Nonostante l’avvertimento di Erin, Mitch gli aveva appena soffiato la palla e con il resto dei compagni si dirigeva verso il canestro.
« questo è fuori discussione! » giurò Erin a sé stessa, ma si trovò di fronte Lanier.
« tu nanetta da qui non ti muovi » sentenziò minaccioso, lasciandola perplessa: per quanto fosse migliorata, rimaneva indiscutibilmente l’elemento più debole della Atlantic, quindi non capiva perché un simile talento venisse sprecato per marcare una come lei. Seguì da lontano il percorso della sfera che nel frattempo era passata a Denzel che a sua volta cercava Reed. Quest’ultimo però era attorniato ancora una volta da Trevor e Liam.
Erin pensò di aggirare la barriera di Lanier, voltandosi ma trovò davanti a sé l’unico elemento di cui si era completamente dimenticata l’esistenza:
« tutta tua O’ Connor » la scaricò Lanier, liberando la propria marcatura su Erin e raggiungendo Denzel.
« mi ha fregata » pensò la mora tra sé e sé, tenendo lo sguardo puntato sulla silenziosa ragazza che si era agilmente frapposta tra il suo cammino. Provò a muoversi verso destra, ma la giocatrice imitò il suo movimento e così con i successivi. Nemmeno le finte sembravano funzionare su quella ragazza.
Denzel intanto aveva trovato in Lanier l’unica possibilità di sbarazzarsi della sfera, così la lanciò verso il compagno, anche perché aveva appena ricevuto un comando inappellabile da quest’ultimo..
Dajan spiccò un salto per intercettare il tiro ma Julius non glielo permise: si alzò anch’egli in volo e si verificò una sorta di scontro aereo tra i due corpi, da cui quello di Lanier ne uscì vincitore. Il numero cinque cadde a terra, rialzandosi prontamente. L’arbitro non aveva osservato alcuna irregolarità quindi doveva solo pensare a impedirgli di segnare il secondo canestro.
Cercò l’appoggio dei compagni e trovò Steve libero sulla sinistra. Era l’unico a non essere marcato e questo gli offriva la possibilità di muoversi come credeva. Erin era rimasta bloccata a metà campo con quella O’Connor, la cui difesa sembrava impenetrabile. Eppure la mora era particolarmente agile nel liberarsi dalle marcature. Presto ci sarebbe riuscita, Dajan ne era sicuro, quindi doveva approfittare del canestro rimasto incustodito degli avversari, che si trovava alle spalle della mora. Lanier era partito a saltare sotto il cesto e con lui, anche Steve, pronto a stoppare la palla.
« butta la palla Stevee! » gli ordinò Dajan. Il compagno si limitò ad assecondare quell’ordine e, cercando di battere l’avversario sulla tempistica, appena intercettò la sfera, la fece volare in una direzione casuale. Dajan allora spiccò un balzo e se ne riappropriò, mentre dagli spalti del Dolce Amoris giungevano urla entusiaste e di incitamento, che soffocavano quelle deboli dei tifosi della Saint Mary:
« Erin, tua! » le urlò, lanciando la palla talmente lontana che oltrepassò la ragazza, finendo alle sue spalle dove il campo era rimasto libero. A quel punto l’avversaria fu costretta ad abbandonare la marcatura e precipitarsi ad intercettare la sfera. Tutti gli altri giocatori erano partiti al contrattacco, mentre Erin palleggiava furiosamente verso il canestro avversario, assolutamente sgombero di cestisti. La precisione di tiro non era il suo forte, ma non aveva altra scelta. Se avesse atteso un secondo di più, Charlotte le avrebbe disturbato il lancio e nel frattempo Reed l’avrebbe raggiunta, rubandole probabilmente la palla.
Sotto la pressione e l’urgenza del momento, stabilì che la decisione migliore fosse rischiare il tiro: lasciò quindi che la palla volasse verso l’alto ma si accorse, sin da quando perse il contatto con le sue dita, che non sarebbe mai entrata. Stava per prendersela con sé stessa per aver sprecato quell’opportunità, quando vide scattare accanto a sé la figura di Dajan che, con un elegante alley-oop migliorò il tiro, centrando la palla a canestro.
« ottimo lavoro Cip! » le sorrise il capitano, sollevandole il pollice verso l’alto, mentre Erin era troppo inebetita per ribattere che il merito era tutto del ragazzo. Attorno a loro erano esplosi cori forsennati e studenti e amici avevano cominciato a saltare sugli spalti per i primi punti segnati dal loro liceo. Persino tra i tifosi avversari c’era chi aveva applaudito per quella spettacolare azione.
Di sfuggita Erin riuscì a notare finalmente anche la presenza di sua zia Pam e del suo ragazzo, che applaudivano orgogliosi.
Charlotte osservò quella scena in silenzio, mentre recuperava la palla; quel Brooks era un capitano molto diverso da quello che tiranneggiava sulla sua squadra.
« O’ Connor! » la sgridò per l’appunto Lanier, incollerito dall’esitazione della ragazza. Quella strigliata la spaventò, innescando in lei l’urgenza di rimettere in campo la sfera. Incrociò lo sguardo convinto di Isiah, così optò per effettuare a lui il passaggio:
« ecco che la palla è passata a Reed! Il numero 4 si dirige verso la metà campo avversaria»
« Trevor! Liam! Dovete marcarlo! » li rimproverò furente Boris dalla panchina, gesticolando animatamente. C’era un solo modo per annientare la guardia della Saint Mary e consisteva nell’impedirle di toccare palla, anche se questo significava bloccare ben due giocatori
« non potresti startene buono buono Reed? » finse di supplicarlo l’ala grande, appena riuscì a frapporsi al suo cammino.
« eh eh » ridacchiò la guardia, senza cessare di palleggiare « ti piacerebbe eh? » e si preparò per un nuovo tiro. Questa volta era ancora più lontano da canestro e se l’avesse centrato, avrebbe definitivamente assodato la paternità di un talento invidiabile. Come pochi secondi prima, Reed piegò le gambe per poi distenderle verso l’alto:
« non mi freghi un’altra volta fratello » ghignò Trevor, saltando anch’egli verso l’alto, per bloccare una palla che immaginava sarebbe volata sopra la sua testa.
« vuoi scommettere? » lo schernì l’altro e, con un ghigno divertito, anziché far passare la sfera nella direzione in cui l’ala aveva elevato un muro, la passò di lato, verso Denzel.
I piedi di Trevor toccarono terra prima di quelli di Isiah, che non riusciva a levarsi un sorriso vittorioso dal volto:
« brutto figlio di… » cercò di trattenersi la maglia rossa, mentre l’avversario si allontanava soddisfatto. Denzel nel frattempo era sfrecciato via palleggiando. Lanier si stava misurando con Dajan, che sembrava non lasciargli aperture. La strategia della Atlantic prevedeva quindi il blocco delle due punte di diamante della squadra, anche se tanto Lanier quanto Reed erano esperti nel sottrarsi a marcature.
« Reed che passa la palla » commentò compiaciuto Randy, l’allenatore della Saint Mary « questo sì che è interessante »
« è sveglio quel ragazzo. Ha colto al volo il discorso che hai fatto ieri alla squadra » commentò la sua assistente, Paula. L’uomo spostò quindi lo sguardo dalla guardia tiratrice al capitano della Saint Mary, per poi sospirare:
« è Julius che mi preoccupa »
« già » si limitò a rispondere la donna.
I due capitani si stavano fronteggiando: Lanier si spostò a destra e Brooks ne imitò il movimento; provò allora a sinistra, ma la marcatura era serrata. Non poteva demordere, voleva quella palla poiché il prossimo canestro doveva essere opera sua.
« passa! » ruggì a Denzel, ordinandogli di tirare. Il compagno di squadra quasi si spaventò per quel comando e, dopo un’iniziale perplessità, lanciò la sfera come gli era stato minacciosamente intimato. C’erano altri giocatori in posizione migliore a cui effettuare il passaggio ma il timore che l’ala grande aveva sempre nutrito verso l’imponente capitano, gli impedì di disobbedire a quell’imposizione.
Dajan e Lanier saltarono all’unisono ma fu il secondo a conquistare il pallone, lasciando l’altro con un pugno di mosche. Partì verso il canestro avversario raggiungendolo in pochi secondi. Ad attenderlo, per la difesa rossa, trovò Steve e Liam mentre come unico supporto, il suo compagno di squadra, Mitch Sharman, in qualità di ala piccola.
Lanier superò agilmente la linea dei tiri liberi e a quel punto la Saint Mary poteva mettersi comoda: il capitano aveva raggiunto una posizione in cui mai e poi mai avrebbe passato la sfera.
Una volta entrato in quell’area, il gioco individualista del pivot, diventava ancora più egoistico: la sua arroganza lo portava a convincersi dell’infallibilità delle sue schiacciate, ragion per cui la palla non doveva essere passata a nessuno. Era un dato di fatto, un dogma insindacabile che la sfera sarebbe entrata dove esattamente lui aveva previsto che entrasse, a canestro.
Ignaro di tale realtà, istintivamente Liam si portò davanti a Sharman, per intercettare un probabile passaggio da parte del capitano, ma quella strategia si rivelò inutile. Lanier non aveva motivo per dubitare della propria elevazione, né tanto meno della sua schiacciata. Spiccò un salto portentoso, al quale cercò di opporsi Steve, balzando a sua volta verso l’alto. La difesa della Atlantic riuscì ad afferrare il pallone ma non riuscì ad impedire dalla forza incredibile che veniva applicata su di esso, di mandarlo a canestro.
I piedi dei due avversari ritoccarono il suolo, lasciando uno dei due sconvolto: in vita sua Steve non aveva mai avvertito tanta potenza in una schiacciata. Nonostante fosse l’atleta più alto presente sul campo, si sentì come se Lanier lo soverchiasse.
« ehi Steve! È troppo presto per farsela sotto! » lo redarguì una voce femminile. Il ragazzo guardò in avanti e vide quella che nelle ultime settimane era diventata una sua cara amica: Erin gli sorrideva incoraggiante, con stampato in volto l’espressione più viva e bella della squadra; tra tutti e dieci i giocatori presenti sul pitturato, lei era quella che si stava divertendo di più. Nelle sue arterie c’era il giusto equilibrio di adrenalina e ossigeno, frammisti all’emozione che suscitava in lei la sua squadra.
Anche se lei non lo sapeva, in passato anche Castiel, in vece di capitano, se ne era uscito con esclamazioni analoghe, anche se decisamente più scurrili di quelle che aveva usato la tweener. Era soprattutto per quella sua capacità di sciogliere la tensione che mancava tanto ai suoi compagni, ma fortunatamente, stavano riscoprendo in Erin un talento simile. Forse era stata proprio l’amicizia tra i due ex compagni di banco che aveva fatto sì che l’una prendesse una parte dei pregi dell’altro.
« questa è la mia Erin » gongolò Boris orgoglioso da bordo campo e, spostandosi lungo la linea, cominciò ad incitare:
« FORZA RAGAZZI! STATE PIÙ ATTENTI AI PASSAGGI LATERALI! »
Anche il resto dei cestisti rimasti in panchina davano man forte con il tifo.
Il contrasto con gli stati d’animo avversari era fin troppo evidente, quasi stridente: a pochi metri di distanza, nella panchina del Saint Mary, imperava la calma più completa. Nessuno dei giocatori si era alzato o urlava versi di incoraggiamento alla squadra, neanche quando le azioni erano particolarmente meritevoli. Assistevano tutti in silenzio alla partita, come se vincere o perdere non facesse alcuna differenza.
« non può giocare tutta la partita in questo modo Randy » commentò gravemente Paula « non questa volta… devi dire qualcosa a Lanier »
« non servirebbe » s’intromise una voce maschile, costringendo i due coach a voltarsi verso Neal, l’ex capitano della squadra. Teneva il busto piegato in avanti, seguendo il gioco senza battere ciglio. Dopo la partenza di Boris e il subentro di Randy, il nuovo allenatore si era piegato ad assecondare l’imposizione del preside, eleggendo Julius nuovo capitano della squadra e incrinando ancora di più la stabilità psicologica dei giocatori.
« quando mai è successo che Lanier abbia passato la palla sotto canestro? Appena mette piede in quell’area, l’azione è sua, non ha bisogno di nessun’altro » spiegò il ragazzo, stringendo i pugni.
« sarà costretto a cambiare atteggiamento » ragionò il coach « la Atlantic che non ha ancora scoperto tutte le sue carte e quando lo farà, dovremo essere pronti a tenerle testa »
« non accadrà mai » mormorò convinto « Lanier che fa gioco di squadra? Tanto vale allora credere agli unicorni » sputò.
Randy rimase in silenzio mentre Paula, irritata da quel disfattismo, si inalberò:
« insomma, cos’è quest’arrendevolezza? Siete una squadra! Abbiate un po’ di fiducia nei vostri compagni! »
« squadra? » ridacchiò nervosamente un secondo giocatore di nome Hector « ma dove hai gli occhi Paula?! Non vedi che stiamo cadendo a pezzi? » si indignò, distendendo un braccio verso il pitturato « cos’è che ci tiene uniti? Se non fosse per il colore delle maglie, neanche si capirebbe chi gioca contro chi! »
« è quello che cerco di farvi capire da mesi ragazzi » intervenne Randy, cominciando a preoccuparsi seriamente per i moti di ribellione che si stava fomentando in panchina.
« e noi che possiamo farci? » sbottò un terzo giocatore, Gavin « tu non puoi capire cosa voglia dire essere in squadra con tre promesse del basket! » dichiarò, abbassando la voce in modo che Melanie non potesse udirlo « ci sentiamo delle nullità a loro confronto! Lanier che non esita a umiliarci con le sue dimostrazioni di superiorità, guardandoci dall’alto in basso… e forse la cosa peggiore sono gli sguardi quasi colpevoli che ci lanciano Reed e Melanie, come se si volessero scusare per essere troppo bravi. La loro modestia finisce per insultare la nostra dignità. Preferirei perdere questa partita vedendo un po’ più squadra e un po’ meno triade divina, che vincerla con la consapevolezza che il merito è legato a sole tre persone »
Nessuno osò aggiungere altro perché nelle parole del centro erano racchiusi i pensieri di tutti.
Randy irrigidì la mandibola: la situazione era più critica di quanto avesse carpito e la tensione della gara la stava facendo emergere con violenza. Doveva sedare quegli attriti interni prima che compromettessero definitivamente l’esito dello scontro, iniziativa che avrebbe dovuto intraprendere molto prima. A nulla era servito dialogare con Julius, era sordo a qualsiasi ragionamento. Doveva escogitare un modo per costringerlo a fidarsi della sua squadra e abbandonare le sue manie di protagonismo.
Negli ultimi minuti, mentre erano impegnati in quella discussione, la Atlantic si era portata in vantaggio, come riassunsero le voci dei cronisti:
« a metà del primo quarto stiamo assistendo ad un magnifico gioco da parte della Atlantic che si porta in vantaggio di 23 a 17 »
Con il trascorrere dei minuti, lentamente ma inesorabilmente, il liceo Dolce Amoris aveva guadagnato l’inerzia della partita: la palla era quasi sempre nelle mani dei giocatori maglia rossa, che si stavano quasi imponendo sugli avversari.
« ragazzi, state calmi » affermò Randy, tenendo gli occhi puntati il campo; gli era venuta una mezza idea, anche se non poteva dirsi certo che avrebbe funzionato. Era un rischio, ma andava corso per sbloccare una situazione che altrimenti sarebbe rimasta immutata e li avrebbe condannati alla rovina.
« non possiamo battere la Atlantic con lo schema classico, presto il divario di punteggio si incrementerà se non interveniamo alla svelta. L’unica soluzione è il gioco di squadra, come quello che avevate ai tempi di Boris… come quello che vi stanno dimostrando i vostri avversari » dichiarò, ammirando un bellissimo passaggio di Erin verso Liam « e visto che Julius non vuole capirlo con le parole, lasceremo che siano i fatti a parlare »
« che intendi? » domandò Neal e il coach, con un sorriso enigmatico, si accucciò ad illustrare ai ragazzi il suo piano.
Liam aveva padronanza della sfera e la ripassò ad Erin, che era in posizione. La sua avversaria, Charlotte, cercò di sbarrarle la strada, ma non ci riuscì: con la scioltezza di un’anguilla, la mora scivolò sotto il suo naso e cercò l’ala grande, Trevor. Quell’ultimo passaggio in particolare era stato particolarmente applaudito perché la 4^ C, classe a cui appartenevano i due cestiti, era al completo e pronta a sostenere i suoi compagni.
« VAI TREVOOOR! »
« FORZA ERIIN! »
« GRANDE CIIIP!! » strillò Rosalya, agitando il cartellone.
Dake e Kentin indietreggiarono con il torace, infastiditi da quell’acuto portentoso:
« ehi Rosa, datti una calmata! Sembri un ultrà » si lagnò il moro. La stilista si girò di scatto e li guardò talmente male che i due non spiccicarono alcun commento aggiuntivo.
« la palla è in mano al numero 7, Trevor Mc Connell della Atlantic High School » riportò la voce del cronista « che si sta dirigendo verso il canestro avversario. Trova Mitch Sharman sull’ala destra »
In pochi attimi i giocatori si concentrarono nell’area destra del campo: Trevor smise di palleggiare e, dovendo passare la sfera, optò per Steve; cercò di descrivere una parabola altissima, in modo che solo l’amico riuscisse ad intercettarla ma aveva sottovalutato la presenza di Reed e Lanier: i due talenti spiccarono un salto, attorniando Steve e fu Lanier ad impossessarsi della sfera; in quell’azione, il capitano urtò il corpo del compagno di squadra ma una volta a terra, non si scusò affatto, anzi lo provocò:
« come sempre Reed, la palla è mia » lo derise sprezzante.
Erin rimase spiacevolmente sorpresa da quel commento; nello sguardo del capitano avversario c’era una presunzione che finì per strappare un verso stizzito alla guardia. Non era una semplice provocazione tra due compagni, era un vero e proprio affronto tra due rivali.
Erano passati sette minuti dall’inizio del gioco ma le erano bastati per avere già un quadro completo degli avversari: erano una squadra fortissima, la più forte del torneo, ma avevano un punto debole che, specularmente, nella Atlantic, era il punto il forza: il gioco di squadra.
Anche Dajan sembrò averlo capito, poiché fissava unicamente Lanier con espressione seria. Era su di lui che si concentrava il gioco e, se isolato, i suoi compagni erano allo sbando.
« Liam! Io a te marchiamo Lanier. Con Reed se la vede Trevor »
Il biondo rimase sorpreso da quel cambio di tattica, mentre l’ala grande borbottava sarcastico:
« ma grazie Dajan, tu sì che sei un amico, mi lasci a fare da solo il grosso del lavoro »
« non avevi detto che volevi essere al centro dell’attenzione oggi? » ribadì divertito l’amico. Ormai era entrato a pieno regime nel ritmo di gara. In aggiunta, aveva capito come sfruttare a suo vantaggio l’egocentrismo di Lanier. Del resto, era stato Boris ad avvertirlo di ricorrere a quella strategia appena lo avesse ritenuto opportuno e quel momento era arrivato: Lanier era rimasto l’unico a combattere per la palla, dopo aver annientato lo spirito dei suoi compagni.
Trevor nel frattempo aveva sorriso, schioccando il collo di lato:
« da un grande potere, derivano grandi responsabilità » recitò solenne, portandosi davanti a Isiah che non potè fare a meno di ridacchiare per la buffonaggine dell’avversario. In fondo gli stava molto simpatico anche se quello non era il contesto migliore per farsi nuovi amici. Avrebbe sempre voluto avere in squadra un elemento così esuberante, ma non aveva mai potuto godere di quella fortuna.
Lanier stava puntando al canestro così Dajan e Liam, come da accordi, si precipitarono contro di lui, per disturbarne il lancio. Erin marcava Sharman, Steve si occupava di Denzel, mentre Trevor teneva Reed tutto per sé. Nessuno della Atlantic si preoccupava di Charlie, poiché ormai era chiaro: arrivato sotto canestro, Julius Lanier non avrebbe passato la palla a nessuno, tanto meno alla giocatrice che era visibilmente l’anello debole della Saint Mary.
Il capitano ghignò divertito: era inutile bloccare il resto dei suoi compagni, la palla era sua e avrebbe eseguito un’ottima tripla sotto gli occhi di Dajan e Liam. I due però non intendevano certo lasciargli segnare così facilmente: si posizionarono l’uno davanti l’altro dietro, attendendo il momento opportuno.
« passa quella cazzo di palla Lanier! » lo rimproverò Reed che era riuscito a liberarsi da Trevor, ma rimase inascoltato. Eppure si era messo in posizione perfetta per ricevere la palla, non c’era nessuna interferenza e la precisione di tiro della guardia era indiscutibilmente migliore di quella del capitano.
Julius quindi fece qualche finta, infruttuosa, palleggiando la sfera con maestria tra le gambe e appena individuò il momento propizio, la portò sopra la testa; spiccò un salto, inclinando il busto all’indietro: eseguì un perfetto tiro in sospensione ma per l’elevazione di Dajan non fu difficile interromperne il percorso.
Dalla panchina della Atlantic si levarono versi di approvazione, così come dagli spalti, mentre le maglie verdi sedute a bordo campo non rimasero affatto sorprese da quella scena.
La maglia rossa si era così impossessata della sfera, sorridendo beffarda sotto lo sguardo dell’avversario; i suoi compagni, senza che Dajan dicesse nulla, si erano già disposti secondo il loro schema classico: Erin lo seguiva da dietro, Trevor e Liam lungo le ali mentre Steve era già sotto il canestro avversario. Infatti, prima ancora che Dajan disturbasse il tiro di Lanier, Steve era partito verso l’area del canestro, convinto che il suo capitano sarebbe riuscito a rubare il pallone.
Era quello che Boris più adorava di quei ragazzi: la cieca fiducia che nutrivano gli uni per altri, unita alla capacità di prevederne le azioni come quando Dajan aveva eseguito quel magnifico alley-oop con l’assist di Erin. Il capitano sapeva che la ragazza avrebbe fatto la scelta più intelligente, lanciando la palla a canestro, per cui ne aveva anticipato le intenzioni presentandosi sotto la rete.
«l’hai notato anche tu Paula? » chiese Randy, intercettando l’occhiata pensierosa della coallenatrice, fissa sul capitano avversario. La donna annuì e, a conferma che i loro pensieri erano sincronizzati, esplicitò:
« i salti di quel ragazzo diventano sempre più alti. Credo che la sua capacità di elevazione superi quella di Julius e Isiah »
Dajan aveva passato la sfera a Trevor che l’aveva convogliata a Liam. Con un tiro laterale finì nelle mani di Steve e a quel punto concludere l’azione con una schiacciata fu inevitabile.
Dagli spalti si levarono dei cori mostruosi e, con un certo sconcerto, i cestisti del Dolce Amoris videro alcuni dei loro professori più integerrimi, esultare come degli hooligan. In particolare l’arcigna professoressa Fraun, che girava voce avesse una tresca con il loro palestrato coach, era una delle più esaltate; urlava minacce che i suoi ragazzi fortunatamente non potevano sentire della serie:
« SE NON SEGNATE SUBITO UN ALTRO CANESTRO, INTERROGAZIONE A TAPPETO QUANDO TORNATE!!! »
Per quanto fossero bizzarri i suoi moti di sprono, di certo non battevano la ridicolosità delle domande del vecchio professore di musica, Mister Timmons che, oltre ad essere molto anziano, era completamente a digiuno di basket:
« c-chi ha segnato gol? » aveva balbettato spaventato, appena il fragore della platea l’aveva destato dal suo imminente appisolarsi. Era stato trascinato quasi a forza a quella partita dalle più giovani ed entusiaste Miss Robinson e Miss Joplin, ma il povero vecchietto assisteva al gioco senza riuscire a distinguere per bene i giocatori. Ad un certo punto aveva addirittura scambiato Erin e Charlie per due ragazze pon-pon.
Nella panchina avversaria, c’era una sola persona che riusciva a trovare lo spirito per sorridere:
« così è questa la Atlantic » riflettè tra sé e sé Melanie. In lei lottavano sentimenti contrastanti: da un lato l’invidia per quella squadra così affiatata, composta innanzitutto da un capitano vero, che non perdeva di vista l’azione dei suoi compagni; Dajan era un playmaker nato e non mancava di sostenere ogni singolo elemento. L’ala grande, Trevor Mc Connell aveva continuamente un sorriso divertito stampato in faccia, che si specchiava in Isiah ogni volta che l’avversario gli diceva qualcosa. Era da tempo che non vedeva la guardia divertirsi tanto. Se non fossero stati rivali in quel momento, sembrava che a fronteggiarsi fossero due amici. C’era poi Liam Farrell, l’ala piccola che era concentrato al massimo, scattante come un ghepardo appena la palla sfuggiva al controllo della sua squadra. Sotto canestro si ergeva la figura altissima di quel gigante buono che era Stephen Grint; si capiva che era un bravo ragazzo, dallo sguardo dolce e dalle premure che aveva riservato ad Erin sin da quando era entrata sul campo. Infine c’era proprio lei, Erin Travis.
Era per la presenza di quella ragazza che Melanie non riusciva a farsi dominare dall’invidia per una squadra così diversa dalla sua. Così simile alla squadra che aveva sempre desiderato.
Vedere Erin sul campo accendeva la sua voglia di misurarsi con lei e con se stessa, sperimentare un gioco nuovo, più dinamico e imprevedibile. L’avversaria aveva sicuramente uno stile più immaturo del suo e, forse proprio per questo, più istintivo. Aveva lanciato una palla a canestro senza avere la certezza di centrarlo, ma sapendo che nel bene o nel male, la sua squadra l’avrebbe sostenuta. Charlie invece giocava con la costante tensione che le provocavano i modi bruschi di Julius, che la rimproverava continuamente per ogni singola distrazione o errore.
Melanie ne era convinta: Erin era un capitano nato. Era lei il vero perno della squadra, quella che riusciva a motivare tutti, più di quanto non riuscisse a fare Dajan. Vederla correre sul pitturato, con quell’espressione determinata incrollabile, era un’iniezione gioia e divertimento, che stimolava in chiunque la voglia di prendere la palla e sbatterla ritmicamente contro il pavimento.
Ormai Melanie non aveva più dubbi: era chiaro ciò che intendeva Boris quando le aveva chiesto di parlare alla sua cestista; Erin Travis era la proiezione di se stessa, quando il basket era un gioco, prima che uno sport e conoscendola, la cestista aveva riscoperto sentimenti che pensava fossero ormai sopiti.
Rivedere quell’entusiasmo, toccarlo quasi con mano tanto era concreto, cominciò a farla tremare d’impazienza:
« quando intendi farmi giocare Randy? » domandò tamburellando le dita contro il braccio e tenendo lo sguardo fisso sul campo.
Il suo coach, Paula e il resto della squadra si voltarono sorpresi.
Durante una partita, la playmaker non fiatava mai, si chiudeva nel suo mondo, talvolta persino ascoltando musica. Il che era facilmente comprensibile, non solo per la sua natura silenziosa ma anche perché non aveva bisogno di preoccuparsi per le sorti della squadra; il contributo di Julius e Isiah era sempre sufficiente a portarli alla vittoria.
Quel giorno però Melanie aveva deciso di abbattere il suo muro, dare un segnale di vita e soprattutto, dichiarare la sua voglia di giocare:
« al secondo quarto » le promise l’uomo, stupendo tutti.
« e perché non subito? » domandò Paula sconvolta « siamo sotto di 30 a 19 Randy! Cosa aspetti a metterla sul campo? Julius non sta più segnando da quando viene marcato!»
L’uomo fece spallucce, sorridendo divertito mentre i suoi ragazzi lo fissarono basiti:
« coach… » boccheggiò Neal confuso.
« fidatevi di me ragazzi. Lasciamo che la Atlantic si prenda il suo vantaggio e poi giocheremo come vi ho detto prima »
Nel frattempo la partita era proseguita e mancavano dieci secondi alla fine del primo quarto, durante i quali le maglie verdi tentarono un’azione che venne però stoppata da Steve, acclamata dalle urla del pubblico.
L’arbitro fischiò la fine dei primi dieci minuti di gioco, assestando un punteggio di 33 a 19 a favore della squadra di Morristown.
I cestisti poterono così ritornare al campo base, dove ad attenderli c’erano i loro amici e compagni:
« ottimo lavoro ragazzi! » li accolse Boris, battendo le mani più volte, mentre i ragazzi in panchina si affrettavano ad allungare asciugamani per tamponarsi il sudore e bottigliette d’acqua « adesso per il secondo quarto vi voglio più offensivi. Kim entri al posto di Erin, Wes al posto di Steve »
Nascondere la delusione per quella sostituzione fu molto difficile per la tweener, ma era la decisione del coach e alla fine, ciò che contava davvero quel giorno, era vincere; battè una mano sulla spalla dell’amica e commentò:
« falli neri Kim »
L’ex velocista le sorrise e, inconsciamente, cercò incerta lo sguardo di Dajan. Non si erano ancora parlati quella mattina, ma si erano limitati a scambiarsi sguardi sfuggenti ed imbarazzanti, Dajan nel timore che Kim l’avesse visto la sera precedente e la ragazza nel disagio di sapere che era proprio così.
Lo vide irrigidirsi per un istante ma ricevette un pizzicotto talmente forte da Trevor che protestò:
« ehi! Che cazzo ti prende? »
« le questioni personali stanno fuori dal campo » completò per lui Erin, guardando con gravità prima il capitano poi la ragazza.
« ovvio » commentò il moro, massaggiandosi il braccio indolenzito.
Mentre Boris definiva gli ultimi dettagli della loro strategia, Randy aveva accerchiato i suoi cestisti:
« Julius » lo chiamò « smettila di fare l’orgoglioso. Hai visto prima? Hai perso un tiro che poteva essere un canestro se avessi passato la palla a Charlie! »
Oltre al mancato passaggio a Reed infatti, durante la partita c’erano state un altro paio di occasioni in cui il capitano aveva preferito azzardare dei tiri a canestro piuttosto che lanciare la sfera all’unica giocatrice disponibile a riceverla:
« tzè » commentò cinico il ragazzo « figuriamoci! Se anche l’avessi passata, gliel’avrebbero rubata in un secondo »
Charlotte abbassò lo sguardo mortificata, mentre Neal interveniva:
« sei un coglione Lanier! Abbassa la cresta! » ringhiò, scattando in piedi e portando i loro visi a distanza ravvicinata. Lo fissava dritto negli occhi, iniettati di sangue e disprezzo. Se non si fossero trovati in quel luogo pubblico, sotto gli occhi scrupolosi di migliaia di spettatori, gli avrebbe volentieri assestato un pugno:
« io almeno posso alzarla la cresta, ex capitano » lo sfottè borioso, dondolando il capo e accorciando ancora di più la distanza tra di loro, facendo vacillare l’autocontrollo del compagno.
« allora entro io? » tagliò corto Melanie, infastidita e intenzionata ad interrompere quello scambio di battute.
« sì, se vogliamo batterli è l’unica soluzione » replicò Paula.
Si pentì all’istante di quella frase infelice ma vera: così dicendo, aveva demotivato ulteriormente il resto della squadra e la playmaker sentì una stretta al cuore. Gettò l’occhio alla sua destra, vedendo nella panchina avversaria sorrisi e pacche sulle spalle, che nella sua erano scomparsi da più di un anno.  
« non è l’unica soluzione Randy » intervenne un timbro maschile, che portò tutti a concentrare l’attenzione su Isiah. Anche Melanie lo fissò con curiosità e, soprattutto, con speranza:
« non hai visto come mi marca stretto quel Mc Connell? Riesco anche a smarcarmi, ma poi mi rubano la palla che mi sento quasi un idiota » ammise, anche se in realtà nessuno dei presenti condivideva quell’osservazione. Era palese l’impacciato tentativo della guardia di risollevare l’autostima dei compagni, ma nonostante le buone intenzioni, non sortì l’effetto sperato. Tuttavia Isiah proseguì imperterrito « e se vogliamo dirla tutta, anche tu Julius sei diventato inutile ora che hai addirittura due giocatori a sbarrarti la strada » aggiunse con un sorrisetto canzonatorio. Diversamente dalla prima, quell’ultima osservazione era più che pertinente. Mentre solo in un paio di occasioni, Trevor era riuscito a beffare Reed, da quando Dajan e Liam avevano cominciato a marcare Lanier, il capitano non era più riuscito a sfiorare la sfera.
Dopo aver udito quella constatazione, il numero uno serrò la mascella: detestava ammetterlo, ma Isiah aveva ragione, verso la fine del quarto per lui era diventato impossibile muoversi liberamente e ricevere il pallone.
« allora Isiah tu rimani in panchina ed entra Neal al posto tuo » stabilì Randy, mentre tra il gruppo di ragazzi si levavano dei cori di disapprovazione, primo tra tutti, quello di Lanier:
« che cosa? » protestò il capitano « così ci condanni alla sconfitta! Da che parte stai Randy? »
« Julius! » lo sgridò Paula « alla prossima protesta te ne stai in panchina fino alla fine del torneo, chiaro? »
Lanier sbuffò contrariato, allontanandosi dalla panchina mentre il resto della squadra fissava attonito il loro allenatore. La sua strategia era insensata, non era Isiah il giocatore da sostituire così Randy approfittò dell’assenza momentanea del capitano, per aggiornare la squadra sulla loro strategia.
Era un azzardo, ma era anche l’unica mossa per cambiare le carte in tavola.
 
Il secondo quarto stava iniziando e le due squadre cominciarono a spostarsi verso il centro del campo.
« Kim! » si sentì chiamare la ragazza. Si voltò verso quel ragazzo a cui non era ancora riuscita a parlare direttamente; Dajan dietro di lei, le sorrideva conciliante, segno che l’ascia di guerra era sotterrata; quella partita era troppo importante per lasciarsi condizionare dai loro attriti, inoltre era passata quasi una settimana e il tempo per il rancore doveva cessare. Qualsiasi cosa le volesse dire in quel momento, lei avrebbe accolto quelle parole con gioia, solo perché a pronunciarle era stato lui:
« non vedevo l’ora di giocare questa partita con te » farfugliò in leggero imbarazzo, grattandosi la nuca mentre Kim si scioglieva come un ghiacciolo in un caldo pomeriggio estivo. La discussione che si era accesa tra di loro una settimana prima era improvvisamente svanita, lasciandosi alle spalle borse di studio e college lontani. La voglia di vincere quella partita, la consapevolezza che in nome di quella vittoria tutto il resto era secondario, li aveva spinti spontaneamente verso una non dichiarata riconciliazione.
Il sorriso radioso del ragazzo le era mancato da morire, così, con il cuore che le martellava in petto, gli sussurrò imbarazzata ma guardandolo dritto negli occhi:
« stavo pensando la stessa cosa, capitano »
Da dietro, a interrompere quel quadretto romantico, arrivò la presenza chiassosa di Trevor che portò un braccio dietro il collo dell’amico e l’altro dietro quello della ragazza:
« così vi voglio! » urlò allegro.
« che schifo Trev! Sei tutto sudato » si lagnò l’amica sottraendosi a quella stretta ascellare.
Erin passò lo sguardo da quel mitico trio di amici verso la ragazza che, come stavano annunciando i cronisti, avrebbe fatto il suo ingresso in scena:
« tra le file della Saint Mary ecco che vediamo scendere in campo una delle promesse della WNBA: Melanie Green al posto di Charlotte O’ Connor »
Ironico che, proprio quando la cestista era stata schierata dalla sua squadra, per Erin fosse arrivato il momento di farsi da parte. Tuttavia era solo questione di tempo: prima della fine della partita l’avrebbe affrontata di persona, Boris gliel’aveva promesso, quindi doveva solo pazientare.
Per la seconda volta, per l’arbitro arrivò il momento di fischiare l’inizio dello scontro e a fronteggiarsi c’erano nuovamente i due capitani. Dajan notò nel suo avversario un’espressione diversa da quella adottata in precedenza. C’era qualcosa che lo turbava, dal modo in cui teneva le palpebre abbassate, come assorto nei suoi pensieri. Non osò provocarlo, approfittando di quella situazione. Infatti, non appena l’arbitro lanciò la palla in aria, fu il capitano della Atlantic a vincere lo scontro aereo:
« VAI COSÌ DAJANNN!! » urlò Rosalya, che in vita sua non aveva mai parlato con il cestista.
La palla conquistata dal capitano arrivò a Liam che sfrecciò lontano. Sharman gli si frappose ma il giocatore fu più agile e riuscì a passare la sfera a Wes. La guardia era troppo lontana dal canestro per poter tentare una tripla, che si sarebbe rivelata necessaria visto che Lanier e Neal stavano accorrendo nella sua direzione; vide Kim sbracciarsi alla sua destra e, senza pensarci un secondo di più, lanciò la palla a lei. Con quell’oggetto tra le mani, l’aspirante promessa dell’università della North Carolina riuscì a scartare facilmente Sharman, che a causa del fisico, era molto meno agile di lei. Stava cercando qualcuno a cui effettuare il passaggio quando sentì la palla venirle meno: si voltò di scatto e si accorse della presenza, fino a quel momento invisibile, di Melanie. L’avversaria si era mossa con la circospezione di un furetto, portandosi alle sue spalle, lasciandola a bocca asciutta. Boris aveva avvertito la sua giocatrice: rubare la palla era la specialità di Melanie, unita ad un’incredibile talento come playmaker; la biondina riusciva a strappare palloni con una destrezza furtiva e aveva sempre un quadro completo della situazione sul campo, riuscendo a decidere rapidamente a chi indirizzare la sfera appena conquistata. Infatti quest’ultima era già nelle mani di Neal che era partito per il canestro. Lanier era braccato da Dajan e Wes e pertanto, continuava a soffiare frustrato:
« che strategia del cazzo » sibilò furente « il vostro è un gioco di merda: passare tutto il tempo a farmi da baby sitter »
I due però non si scomposero e non gli lasciarono alcuna apertura. Dajan continuava a controllare il gioco nell’altra metà campo dove il resto della sua squadra era partito all’inseguimento di Neal. La guardia avversaria aveva ripassato la palla a Melanie che a sua volta l’aveva convogliata a Denzel. Il ragazzo si guardava intorno indeciso su quale passaggio effettuare, perdendo secondi preziosi.
Lanier sbuffò frustrato: senza di lui la squadra era persa e quindi, nonostante quello che aveva appena detto ai suoi avversari, considerava intelligente la loro strategia. Isolandolo, la Saint Mary aveva visto diminuire notevolmente la potenza offensiva, già compromessa dall’uscita di scena del loro miglior clutch shooter, Reed.
Anche se per bloccare Lanier, l’Atlantic teneva impegnati due dei suoi giocatori, di cui uno era addirittura il migliore, gli altri tre riuscivano a tenere testa al resto della squadra. Quella Phoenix, che era subentrata a Travis, anche se era meno portata per il controllo palla, era molto più veloce ed agile.
La partita aveva preso dei binari che Lanier non aveva mai accettato ossia affidare interamente il gioco al resto della squadra. Fissava impotente i passaggi di palla, i tiri mancati e fremeva dalla voglia di trovarsi sotto canestro, toccare quel ferro con una delle sue invincibili schiacciate per far aumentare quell’umiliante 19 che stabiliva il loro punteggio.
« Green passa la palla a Sharman, ma viene deviata da Mc Connell che parte in contropiede! »
La sfera era finita nelle mani di Trevor che, con il supporto della sua squadra alle spalle, stava puntando al canestro.
Dagli spalti, la sua ragazza Brigitte, assisteva all’azione senza battere ciglio. Il suo ragazzo era spettacolare e i commenti estasiati delle due amiche che l’avevano accompagnata, ne erano una conferma.
Poiché non poteva avanzare, a causa della barriera creata da Dajan e Wes, Lanier si voltò e puntò anch’egli al proprio canestro: doveva impedire alla Atlantic di segnare, arrivare sotto rete prima che lo facesse Trevor. Ignorò che anche Neal e Melanie erano pronti a spalleggiarlo; gli sarebbe bastato stoppare il tiro dell’avversario e avrebbe così recuperato la palla.
La maglia rossa però aveva già intuito le intenzioni del capitano avversario e prima che quest’ultimo potesse raggiungerlo aveva già passato la palla a Dajan che non doveva più occuparsi di marcare il nemico. Il ragazzo, con agilità pazzesca dei piedi, riuscì a superare facilmente Melanie, dribblandola.
Quell’azione caricò la folla degli studenti del Dolce Amoris e per la prima volta anche i cestisti di quella scuola si accorsero di un dettaglio che solo le menti più attente come quella di Ambra e Lysandre avevano considerato: il tifo per gli avversari era quasi inesistente. Dalla parte opposta rispetto all’anello di spettatori che tifavano per la scuola di Morristown, non si levava quasi nessun esortazione. Solo Boris poteva facilmente immaginare cosa ne giustificasse quella passività: prima di abbandonare il Saint Mary, aveva notato che gli studenti di quell’istituto prendevano sempre meno parte alle manifestazioni sportive di basket, perché irritati dal gioco della loro squadra. Non c’era gusto ad assistere a partite in cui l’esito era scontato e le azioni erano sempre a carico degli stessi tre giocatori. Addirittura Boris, appena aveva messo piede nell’arena, si era sorpreso che così tanti ragazzi fossero accorsi a riempire gli spalti avversari, ma poi considerò che, il preside Wilson aveva probabilmente dichiarato obbligatoria la partecipazione all’evento.
Il fatto che quasi tutta la studentesca del Saint Mary fosse forzatamente presente però non la vincolava ad esprimersi a favore dei colleghi sul campo.
« certo che potrebbero anche incitare un po’ i loro compagni » borbottò Kentin, incrociando le braccia al petto « sembra che non gliene freghi niente. Mi chiedo allora perché siano venuti ad assistere alla partita »
« se è per questo nemmeno tu ti stai impegnando granché con il tifo! » lo bacchettò Rosalya.
« eh? Ma che vuoi? Mi sto godendo la partita, piuttosto che sbraitare come un’oca »
« Rosa calmati! » ridacchiò Iris, trattenendo l’amica che era scattata in piedi.
« questo qui è la reincarnazione di Castiel » lo additò, rivolgendosi alla rossa « stesso modo di provocare! »
« Castiel! Esci da questo corpo! » scherzò Armin, congiungendo le dita a formare una croce e girandosi verso il moro.
« idiota » borbottarono in coro Rosalya e Kentin, mentre Ambra sogghignava. Non ricordava di essersi mai divertita tanto in vita sua come quel giorno. Tornò a guardare il campo, dove vide Dajan passare il pallone nella mani di Wes.
Il ragazzo mirò al canestro, ma per sua sfortuna, prese il tabellone ligneo, così la sfera rimbalzò nella direzione sbagliata. La palla era altissima, e nessun giocatore era alla giusta distanza per intercettarla in tempi brevi. Lanier stava per saltare quando vide una figura coprire la sua visione aerea: Neal aveva spiccato un salto dalla lunga distanza e, tendendo il bicipite al massimo, era riuscito a prendere la palla al rimbalzo.
Il suo capitano rimase impressionato da quella manifestazione di abilità fisica tanto che per un attimo si immobilizzò. Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva visto un’azione così convincente da parte dell’ex capitano. Anche tra gli spettatori si levarono delle esclamazioni stupite: una reazione.
Il primo segnale di vita e di stupore in una partita che forse, cominciava a farsi interessante anche tra le file del Saint Mary.
I piedi della guardia avevano ritoccato il suolo e doveva trovare qualcuno a cui passare la sua conquista: c’erano solo due opzioni, o puntare a Sharman oppure al capitano. Istintivamente Julius si protese in avanti pronto a ricevere quella sfera che sicuramente gli sarebbe arrivata: era in posizione migliore rispetto a Mitch, oltre che essere indubbiamente più affidabile.
Tuttavia, nonostante la sua sicurezza matematica, l’azione non si svolse come aveva preventivato; dopo avergli lanciato un’occhiata fugace e apatica, Neal aveva cercato il contatto visivo con Mitch. Era a lui che era andata quella tanto agognata palla.
Si svolse tutto in un attimo, eppure Julius visse quella scena a rallentatore: lui, che sin dalle scuole medie, era sempre il primo a ricevere la sfera, quello che veniva scelto per primo per fare le squadre, era diventato l’opzione da scartare. Lo sguardo insofferente che gli aveva rivolto di Neal gli bruciava sulla pelle come un marchio rovente.
Randy aveva assistito così all’inaugurazione del suo piano, osservando in Julius la reazione che si aspettava.
Sharman partì in contropiede, mentre tutti gli altri giocatori si spostavano:
« Wes, rimani tu qui! » gli ordinò Dajan, indicando Lanier.
Quello fu un colpo durissimo da incassare per l’avversario. Anche il capitano della Atlantic aveva realizzato che non era necessario marcarlo stretto. Non era più una minaccia perché i suoi compagni di squadra l’avevano ostracizzato.
Il comportamento di Neal, era bastato a convincere Dajan che gli attriti interni erano sfociati.
« non preoccupatevi troppo per Lanier » aveva detto loro Boris prima del secondo quarto « non mi stupirebbe se ad un certo punto smettessero di passargli la palla. I suoi compagni non lo sopportano, oggi più che mai visto che è più arrogante del solito »
Dajan non intendeva indugiare un minuto di più appresso a quel talento solitario: se Boris aveva visto giusto, almeno per un po’, Lanier sarebbe rimasto fuori dal gioco e lui doveva approfittarne per incrementare ulteriormente il loro vantaggio.
« Dajan sta facendo una partita spettacolare » commentò Faraize con orgoglio. Dei 33 punti realizzati fino a quel momento, più della metà erano opera del playmaker. Anche Boris era estremamente fiero del ragazzo, ma non poteva fare a meno di fissare l’altro capitano, quello con la maglia verde.
Gli occhi del coach erano quindi puntati su quel ragazzone di un metro e novantadue piazzato vicino alla linea di fondo campo. Era inerme, con Wes davanti che non sapeva bene come comportarsi: Lanier non provava nemmeno a liberarsi di lui, restava lì, impalato mentre tutto il resto dei giocatori era impegnato nella metà opposta dell’area di gioco.
Non era un mistero che la sua squadra non lo sopportasse ma dall’alto della sua presunzione, Julius credeva che quegli atteggiamenti fossero dettati unicamente dall’invidia per il suo talento. Era per questo che, se doveva interagire con qualcuno, lo faceva solo con Reed e Green, a suo avviso gli unici giocatori che meritassero la sua considerazione.
La bontà di Boris impedì all’uomo di gioire per quella scena: voleva la vittoria della sua squadra, ma non a quel prezzo; Julius non doveva perdere il suo smalto, doveva solo imparare ad essere più collaborativo e meno presuntuoso. I loro sguardi si incrociarono ed istintivamente Boris gli fece cenno di riunirsi al resto della Saint Mary. In quell’attimo era come se fossero tornati dalla stessa parte e Julius scoprì in quei pochi secondi che in fondo, quell’allenatore gli mancava molto.
Si liberò facilmente da Wes e raggiunse i compagni.
Trovò che la sfera era palleggiata da Denzel e nessun altro giocatore maglia verde era disponibile a ricevere il tiro. Puntò allora lo sguardo sul membro più sfuggente della squadra, Melanie che, dribblando Kim, riuscì ad accogliere il passaggio quando questo arrivò. A quel punto Denzel si avvicinò al canestro, ma Trevor anticipò le sue intenzioni.
« Mel! Qui! » la incitò Lanier precipitandosi sotto la rete circolare.
Eppure, non fu a lui che arrivò il tiro della playmaker: la compagna lo ignorò completamente, come se fosse invisibile e cercò Neal, dietro al capitano. Fece per lanciargli la palla, cosicché Dajan e Kim si frapposero nella sua linea di passaggio ma lei, con un sorriso beffardo, all’ultimo corresse la posizione e lanciò la palla a canestro, centrandolo in pieno.
« GRANDE! » urlò Isiah dalla panchina.
Julius era rimasto senza parole.
Stordito e confuso.
Non riusciva ad inviperirsi, tanto era sconvolto. Lui era in posizione perfetta, avrebbe messo a punto una tripla formidabile e invece la playmaker l’aveva deliberatamente ignorato:
« perché non me l’hai passata? » quasi le sussurrò, incredulo:
« e tu perché non la passi mai? » replicò lei asciutta, spostandosi con il resto della squadra, per contrastare l’azione dell’Atlantic che aveva il possesso palla.
Lo abbandonarono lì, sotto il canestro avversario, senza prestargli ulteriori attenzioni.
Lanier avrebbe voluto urlarle che lui era una garanzia, che una volta in mano sua, la palla finiva irrimediabilmente a canestro, ma non era vero, ne aveva avuto la dimostrazione nel primo quarto.
Sentì un brivido percorrergli la schiena, come scaturito dall’irrazionale consapevolezza di essere osservato: voltandosi, vide Boris, il suo ex allenatore, fissarlo ancora una volta a braccia conserte da fondo campo.
Lo sguardo severo e al contempo paziente sembrava dirgli:
« te l’avevo detto Jules »
Era l’unico a chiamarlo così e Lanier aveva sempre fatto finta che quel nomignolo lo infastidisse. Gli tornò alla mente allora il discorso che gli fece l’uomo un anno prima, nell’intervallo tra il secondo e il terzo quarto di una partita molto simile a quella che stavano disputando in quel momento:
 
Erano rimasti loro due nello spogliatoio, dopo che il coach aveva invitato il resto della squadra a lasciarli soli.
« c’è una cosa che non riesco a capire Julius: perché giochi a basket? Questo sport non fa per te »
Quell’osservazione aveva spiazzato il pivot, tanto che in un primo momento non era riuscito a replicare. Lui, che era sempre stato lodato come un talento della pallacanestro, sentirsi rivolgere quella critica, era qualcosa che prima che irritarlo lo destabilizzava. Non capiva e, come spesso accadeva, la sua incomprensione alla fine si trasformò in rabbia:
« COME SAREBBE A DIRE NON FA PER ME? SONO UN ASSO! SENZA DI ME LA SQUADRA NON SAREBBE QUELLO CHE È! »
Boris non batté ciglio e si avvicinò alla porta. Ormai il tempo stava per scadere e dovevano tornare sul campo. Prima di abbandonare la stanza, si girò verso il moro e dichiarò gravemente:
« senza di te, la squadra sarebbe una vera squadra »
 
I minuti passavano e il vantaggio della Atlantic cresceva: 22 a 40
« non si capisce cosa stia succedendo al capitano della Saint Mary » osservò basito uno dei due cronisti.
« hai ragione David. Lanier è rimasto immobile sotto il canestro avversario, mentre l’azione si svolge dalla parte opposta del campo. Che sia una strategia? »
La verità era che non riusciva a portarsi nell’altra metà campo dove la Atlantic stava compiendo delle azioni spettacolari. Era come se le sue gambe pesassero improvvisamente quintali. Vedeva Dajan maneggiare la palla con una destrezza al punto che era difficile seguirne la traiettoria. Persino Melanie non riusciva a sottrargli la sfera. Appena sembrava che fosse riuscita a metterlo alle strette, il ragazzo progettava passaggi dietro la schiena, che sorprendevano la playmaker.
Era sorprendente come quel ragazzo sconosciuto, mai sentito nominare prima, fosse sbocciato così tanto durante il torneo. Aveva passato la palla a Wes che aveva preso la mira, compiendo un’ottima tripla.
22 a 42.
Il tifo era esploso, mentre la Atlantic si complimentava con la sua guardia tiratrice. Neal aveva preso la palla ma la ragazza avversaria ci aveva messo pochi secondi per rubargliela. Quelle maglie rosse non lasciavano un secondo di tregua alla Saint Mary:
« JULIUS! » sbraitò Paula da bordo campo, ma il ragazzo sembrava sordo ad ogni richiamo.
Era come stregato.
Guardava con disincanto i giocatori che si muovevano a qualche metro di distanza, come se lui non avesse alcun diritto a partecipare all’azione.
« senza di te la squadra sarebbe una vera squadra » gli aveva detto Boris mesi prima.
Vide Melanie strappare la palla a Kim e passarla a Sharman che a sua volta l’aveva fatta volare a Denzel. Quest’ultimo aveva dribblato Trevor ed era riuscito ad avanzare verso la metà campo. Era stata una sequenza rapidissima di passaggi di cui da troppo tempo non era testimone.
Boris aveva ragione: senza di lui, erano una squadra.
Quando lui era stato annichilito, contrariamente alle aspettative, la Saint Mary aveva cominciato a reagire: non era quella realtà indolente e amorfa che immaginava. C’era interazione tra i suoi componenti, una rete di scambi a cui lui non aveva diritto di partecipare.
La palla volò fuori dal campo, mentre Kim tentava di impossessarsene ma, prima della rimessa in gioco, si sentì tuonare un:
« TIME OUT! »
Contro ogni previsione, era stato l’allenatore della Atlantic HS a chiedere l’interruzione della partita.
Sorpresi, i suoi giocatori si avvicinarono alla panchina, guardando con curiosità il loro coach.
Gli avversari ne approfittarono per raggiungere la propria ed abbeverarsi. Julius fu l’ultimo ad aggregarsi al gruppo e non spiccicò mezza parola.
« che c’è Bors? Stavamo giocando alla grande » protestò Kim.
« tu signorina vedi di controllarti un po’! Quest’ultima palla l’hai proprio buttata via! » la rimproverò « e poi ti fai rubare troppo facilmente la palla da Melanie. Quella è furba, devi tenerla più d’occhio. Quanto a te Dajan, torna a marcare tu Lanier, mentre Wes occupati solo di segnare »
« ma non hai visto? » protestò il capitano « nemmeno la sua squadra lo caga! Che senso ha marcare un giocatore che non riceve la palla dai suoi compagni? »
« fa’ quello che ti ho detto » tagliò corto l’allenatore « ora non c’è molto tempo per le spiegazioni » commentò guardando nervosamente il tabellone. Erano trascorsi cinque minuti dall’inizio del quarto e ne mancavano altri cinque.
« fa’ come ti ho detto e ne parliamo dopo all’intervallo » ripetè convinto. Il capitano annuì, mentre Kim rincarnava la dose:
« c’è poco da fare Dajan, quello è il tuo uomo »
« tu allora cerca di tenere d’occhio la tua donna » scherzò l’amico.
Erin sorrise sollevata, vedendo i due andare d’accordo: Kim gliel’aveva promesso, durante la partita i loro screzi sarebbero stati accantonati per il bene della squadra e così era stato. Durante tutto il quarto, la tweener non aveva risparmiato la sua gola dall’urlare incitamenti e consigli, sommando la sua voce alle migliaia provenienti dagli spalti.
Nella panchina avversaria, nel frattempo, Randy dava le ultime disposizioni. Non aveva accennato minimamente all’ostracismo a cui era stato sottoposto Julius. Si era limitato a fare finta di nulla e rimetterlo in campo, come se nulla fosse; mentre i giocatori tornavano sul pitturato, Paula commentò:
« speriamo che questa cosa non ci si ritorca contro »
« diamogli un po’ di fiducia » le sorrise l’uomo. Seppur palesasse una certa sicurezza, dentro di sé Randy era tirato come una corda di violino. Sentiva molto la responsabilità per l’esito di quello scontro e non poteva permettersi assolutamente di perdere. Ne andava della fama dell’istituto.
Aveva chiesto lui ai suoi ragazzi di isolare il capitano, di fargli capire le reali conseguenze del suo comportamento individualista. Sperava che il divario di punteggio, il vantaggio guadagnato dagli avversari, si traducesse in Julius nell’urgenza di cambiare sé stesso; perché se c’era una cosa che Lanier faticava ad accettare più del gioco di squadra, era sicuramente la sconfitta.
Ora Randy doveva solo sperare che nel ragazzo si innescasse la molla giusta, quello che l’avrebbe portato ad ammettere i suoi errori e cercare di rimediare ad essi.
Dajan si posizionò davanti a Julius e lo guardò dritto negli occhi; la sua espressione era ancora più pensierosa e combattuta rispetto a quando avevano iniziato il quarto.
Da un lato si sentiva sollevato, poiché sapeva che in quello stato il ragazzo non gli avrebbe dato filo da torcere, ma dall’altro quell’apatia lo annoiava; aveva bisogno di fronteggiare un degno avversario per portare al massimo il suo livello agonistico. Non era stimolante misurarsi contro un’ombra, visto che quello che aveva davanti era solo una proiezione sbiadita del talento che si accompagnava al nome di Julius Lanier.
Melanie rimise la palla in gioco, che finì tra le mani di Denzel. I giocatori della Atlantic ci misero poco a fargli una barriera e conquistare l’azione.
« perché Lanier non fa nulla? » chiese Erin dalla panchina, mentre la sua squadra, poco dopo, segnava un altro splendido canestro.
« perché è in panne » commentò Boris « ha sempre pensato di essere lui quello che poteva isolarsi dalla squadra ma ora è la squadra che ha isolato lui… e questo cambio di prospettiva fa male, perché subentra quell’orribile sensazione di essere rifiutati dagli altri»
« ma che senso ha tagliarlo fuori? » insistette Erin.
Boris però non le rispose e cominciò a urlare istruzioni ai suoi ragazzi.
Passarono altri quattro minuti nei quali la Saint Mary non riuscì a fare alcun canestro e nell’arco dei quali, le mani di Lanier non toccarono mai la palla.
Finalmente però, a venti secondi dalla fine del secondo quarto, la palla sfuggì al controllo dei giocatori, puntando in direzione del ragazzo. Gli sembrava passata un’eternità da quando le sue dita erano entrate in contatto con quel cuoio butterato. Alzò il mento, vedendola arrivare dall’alto e allungò istintivamente il braccio per afferrarla.
Quel tocco gli diede una carica che sembrava dimenticata dal suo corpo. Come se una scarica elettrica fosse scaturita da quel semplice oggetto, Julius avvertì che la sua energia veniva risvegliata; partì come un razzo verso il canestro avversario, cogliendo di sorpresa Dajan.
Era stato tutto troppo improvviso, l’accelerata da zero a mille aveva impedito al numero cinque di accorgersi che era scattata una molla nell’avversario, quella stessa che il suo allenatore aspettava con ansia. Le squadre raggiunsero i rispettivi capitani, anche se la Saint Mary lo fece con la rassegnata consapevolezza di non essere di alcun aiuto: il loro capitano era già sulla linea di tiro, in prossimità del canestro e non si era voltato mezzo secondo per controllare a chi passare la palla.
Il piano di Randy era fallito e Lanier era rimasto lo stesso di sempre. Poteva optare per una delle sue famose schiacciate e sarebbero riusciti a chiudere il quarto con un 24 a 35, tamponando il vantaggio degli avversari.
Neal si era portato alla destra del canestro e sollevò lo sguardo mentre il suo capitano spiccava un salto, tenendo la palla salda sulla sua mano sinistra, poiché era mancino.
Anche Dajan e Steve, con una tempistica leggermente in ritardo, spiccarono verso l’alto, per contrastare il tiro. Lanier li vide elevarsi accanto a lui: la palla sarebbe entrata con una probabilità molto alta, il margine di possibilità che gli avversari riuscissero a impedirglielo era minimo ma non trascurabile. Eppure, c’era un modo per annullarlo completamente e portare la percentuale di successo al cento per cento.
Avrebbe dovuto fare qualcosa che nessuno si aspettava da lui, ma al contempo, qualcosa che tutti erano in attesa che facesse: così, sotto gli occhi attoniti dei presenti, Julius Lanier deviò il tiro dal canestro verso il suo compagno di squadra, Neal Heyman.
« Neal tua! » gli urlò, chiamandolo per nome per la prima volta da quando si erano conosciuti.
La guardia accolse quel pallone tra le mani come se avesse appena ricevuto la materializzazione dello Spirito Santo. Sgranò gli occhi mentre il salto dei tre giocatori era in fase discendente.
Non c’era tempo da perdere per lo shock: rapidamente, presa la mira e da ottima guardia qual era, segnò una meravigliosa tripla.
Negli spalti della Saint Mary gli studenti erano basiti quanto i giocatori sul campo. Dopo un paio di minuti però esplosero in una serie di urla entusiastiche.
Quell’azione era stata imprevedibile e, proprio per questo, sensazionale.
L’arbitro fischiò la fine del secondo quarto, mentre Neal ancora guardava incredulo il suo capitano.
Gli aveva regalato un’azione splendida, rinunciando per una volta alla possibilità di segnare di persona.
Lanier si era allontanato dal campo senza fiatare, mentre la squadra lo fissava perplessa, con il sottofondo dei mormorii del pubblico.
« allora? » sbottò burbero, girandosi di scatto « vi date una mossa? » li rimproverò.
Era leggermente in imbarazzo, perché coglieva perfettamente il motivo del loro stupore e smarrimento. Melanie ridacchiò mentre Isiah, alzandosi dalla panchina, gli andò incontro e gli diede una portentosa pacca sulla spalla:
« e bravo il nostro capitano! Ogni tanto ci riservi anche tu qualche sorpresina »
« chiudi quella boccaccia Reed » farfugliò Julius, nascondendo il viso dietro un asciugamano.
Anche il resto dei cestiti rimasti in panchina era spiazzata. Per loro, che avevano passato anni a sopportare l’arroganza e l’egocentrismo di Lanier, quella scena era stata epica. Forse era presto per illudersi che qualcosa fosse cambiato nel ragazzo, ma quel piccolo segnale incoraggiava la speranza.
« ottimo lavoro ragazzi! » si complimentò Boris, applaudendo i suoi giocatori; non era tanto il fatto di aver concluso anche il secondo quarto in vantaggio, quanto la gioia che era nata in lui per il gesto di Julius. Si voltò a guardarlo e, seminascosto dall’asciugamano che aveva calato sulla sommità del capo, lo vide lanciargli un fugace sorriso d’intesa.
Ne era sicuro. Finalmente aveva capito.
 
« da questo momento in poi ragazzi, inizia la vera partita » dichiarò Boris una volta che la squadra fu tutta riunita nello spogliatoio.
I ragazzi si erano disposti lungo le due pareti della stanza e ascoltavano in silenzio le indicazioni dell’uomo.
« dimenticate la Saint Mary che avete visto finora! Quella che giocherà da adesso in poi sarà la vera squadra e non sto parlando di triade divina: anche gli altri giocatori come Neal Heyman tireranno fuori la grinta, ne sono convinto. State quindi attentissimi ai passaggi, ne faranno un sacco e, conoscendo Melanie, saranno difficilissimi da intercettare… è per questo che Erin » le disse, guardando la ragazza « entrerai al posto di Kim, ti ho allenata apposta per questo »
La mora cominciò a fremere, investita da una gioia incontenibile.
 
“ti ho fatta diventare una sorta di tweener”     
“una che?”        
tweener” ripetè l’allenatore, prima di passare alla spiegazione del ruolo “è una posizione non ufficiale della pallacanestro riferita a giocatori che combinano gli attributi di una guardia tiratrice e di un playmaker, ma che non hanno per intero le caratteristiche di uno dei due ruoli. Come il play è più orientato ai passaggi che alla realizzazione, voglio sfruttare la tua visuale di gioco;  tuttavia il tweener manca dell'atteggiamento offensivo di cui un playmaker puro dispone e non ha l'altezza per rientrare nell'ambito del ruolo di guardia tiratrice”
“non c’ho capito granché ma diciamo che sono una specie di ibrido?” 
“diciamo così: in un certo senso ti ho creato un ruolo tutto tuo Erin, su misura per te, sfruttando la tua statura e la tua agilità. Avrai un ruolo per lo più difensivo, hai dei riflessi molto buoni quindi riesci a rubare la palla con grande velocità. In campo ti muovi con una scioltezza che passa quasi inosservata, complice anche il fatto che sembri un folletto se paragonata ai giganti che ti giocano attorno. I tuoi compagni sono abituati alla tua presenza e a tenerti d’occhio, ma sono convinta che per i tuoi avversari sarà molto più difficile: il fatto che tu sparisca durante la partita, sarà uno degli assi nella manica della nostra squadra”

(capitolo 42 – Let’s Move)
 
Ormai aveva capito la strategia di Boris: lei era diventata la controparte di Melanie, anche se un po’ più goffa e inesperta. In fondo era stato proprio l’uomo a modellare lo stile della campionessa e in poco tempo aveva cercato di replicare quello stile in Erin. Quella che si sarebbe disputata sul campo di lì a pochi minuti, era una sfida tra rubapalle.
« Ben, prendi il posto di Trevor, però solo per il terzo quarto. Wes, tu puoi dare di più quindi muoviti! Liam attento ai passaggi laterali mentre tu Dajan… » sin interruppe, fissandolo con serietà « che ti è successo? »
Il capitano lo guardò perplesso, così come il resto della squadra:
« CRISTO SANTO DAJAN! » urlò Boris euforico, facendo sobbalzare un distratto professor Faraize « LI STAI STRACCIANDO! HAI MESSO A SEGNO VENTICINQUE PUNTI TU DA SOLO! AHAHAAHA NON TI MAI VISTO GIOCARE COS’ BENE RAGAZZO! »
Il capitano ridacchiò imbarazzato, ricevendo pacche dai compagni e un sorriso orgoglioso da parte di Kim. Era innegabile: in quella partita il capitano della Atlantic era la stella più brillante presente sul campo.
 
Nello spogliatoio avversario l’imbarazzato silenzio tra i giocatori veniva scandito dalle parole del loro coach, che stava riepilogando la situazione:
« per noi è una novità, ma il fatto è che stiamo perdendo. Siamo sotto di dieci punti ma da adesso in poi cambiamo le carte in tavola. Dobbiamo far vedere loro una nuova Saint Mary, una squadra che nessuno ha mai visto prima. Abbiamo un quarto d’ora di tempo, quindi se qualcuno ha qualcosa da dire lo dica ora, una volta sul campo dovete lasciare da parte ogni attrito »
Nessuno dei ragazzi rispose, ma fissarono tutti di sottecchi il capitano. Lanier stringeva i pugni, combattuto tra il bisogno di esternare i suoi pensieri e l’orgoglio di trattenerli; se erano arrivati a quel punto, poteva solo immaginare quali discorsi fossero stati fatti in panchina, mentre lui era impegnato sul pitturato:
« Julius, sei il capitano. Tocca a te dire qualcosa » gli impartì Paula, per sbloccare la situazione.
Il ragazzo la guardò di striscio mentre le occhiate dei suoi compagni diventavano più esplicite e insistenti; inspirò profondamente, sentendo l’agitazione crescere in lui.
Quello che stava per dire l’avrebbe esposto al ridicolo ma era l’unico modo per poter davvero cambiare qualcosa. Stavano perdendo, soverchiati dal gioco di squadra degli avversari.
Ripensò al giorno in cui Boris gli aveva detto che senza di lui, la Saint Mary avrebbe giocato come una vera squadra e ricordò che, nel tardo pomeriggio, l’allenatore l’aveva chiamato per scusarsi:
 
« Jules, mi dispiace per quello che ti ho detto stamattina. L’ho fatto solo perché voglio vederti cambiare atteggiamento, è solo quello ad essere di ostacolo alla squadra »
« hai poco da dispiacerti, le tue parole non mi hanno fatto né caldo né freddo » mentì il ragazzo, ma la voce roca non ingannò Boris. Sorrise indulgente e proseguì:
« sai, probabilmente non per merito mio, ma sono sicuro che un giorno capirai che a vincere da soli non c’è gusto »
 
Lanier inspirò profondamente.
Riconsiderò le occhiate stupite dei suoi compagni quando aveva finalmente passato la palla a Neal, l’abbraccio di Reed e il sorriso di Melanie: non poteva negare che quelle reazioni lo avessero lusingato. Stavano perdendo e solo per colpa sua. I ragazzi erano disorientati, alla deriva e in qualità di capitano, doveva essere lui a guidarli.
« ok gente » esordì, schiarendosi la voce e alzandosi in piedi « sono un coglione, scusate »
Neal sbattè più volte le palpebre incredulo, mentre tutti gli altri avevano gli occhi fuori dalle orbite; persino Melanie, la più posata del gruppo, aveva un’espressione sconvolta.
Julius, sforzandosi di ignorare la perplessità generale, proseguì:
« stiamo perdendo per colpa mia, perché non riesco a fare gioco di squadra. Il problema è che non possiamo vincere se giochiamo come sempre »
Nessuno fiatava, tutti era ipnotizzati dall’umiltà di quel discorso che risultava assurdo perché tenuto dall’elemento più arrogante della squadra.
« ascoltatemi bene, perché c’è una cosa che deve entrarvi in testa: la leggenda della triade divina è un’emerita cagata »
Reed ridacchiò, incrociando le braccia al petto divertito, mentre Melanie ghignava a sua volta. Per loro era un sollievo sentirsi così ridimensionare, dopo mesi di elogi e lodi.
« per battere la Atlantic dobbiamo impegnarci tutti al massimo, io per primo proverò a fare meno lo stronzo, ma non vi garantisco nulla » chiarì titubante, strappando qualche sorriso, per l’imbarazzata schiettezza con cui aveva fatto quell’ammissione. Era palese che il ragazzo stesse combattendo una strenua lotta interiore tra la sua indole e la necessità di cambiarla.
« vi chiedo solo di provare a giocare come una vera squadra… come lo eravate prima che arrivassi io »
« a rovinare tutto » pensò, ma si astenne dal dirlo. Non voleva apparire fragile o vittimista, aveva pur sempre un orgoglio da difendere. Al termine di quelle parole per i presenti fu difficile trovare qualcosa da dire. Il discorso di Lanier aveva profondamente turbato e impressionato tutti quanti e aggiungere qualcosa senza cadere nel patetico era un’impresa.
Ciò nonostante le parole che aveva usato erano quelle che ognuno dei compagni sperava di sentire e sulle quali non osava sperare da molto tempo:
«beh? Finalmente ci sei arrivato Lanier, se aspettavi un altro po’ ci toccava giocarci la partita per il terzo posto » borbottò Melanie, alzandosi in piedi e dirigendosi verso l’esterno.
Tutti la fissarono sorpresi. Proprio lei che non parlava mai, aveva interrotto quel pesante silenzio.
« dove vai? » le chiese Isiah incuriosito. Placida come una foglia che cade da un ramo, la ragazza replicò:
« a fare la pipì »
Qualcuno sogghignò, anche se non c’era un motivo particolare per cui quella frase risultasse buffa.
Nell’arco di pochi secondi però, una risata contagiosa si diffuse tra i ragazzi.
Non avevano motivo per ridere se non il fatto che sentivano tutti di averne disperatamente bisogno. Le amarezze e gli attriti cominciavano a farsi più sbiaditi e anche se solo con il tempo si sarebbero dileguati, la percezione che l’armonia potesse instaurarsi tra di loro, cominciò a infondere un’energia insperata nei cestisti: nel terzo quarto, la squadra di basket della Saint Mary sarebbe risorta più forte di prima.
 
Tra gli spalti, l’uscita di scena dei giocatori aveva lasciato parecchie incognite e perplessità:
« non sto capendo una mazza! » si lamentò Lin « perché ad un certo punto hanno smesso di passare la palla al numero 1? »
« penso fosse una provocazione, per spingerlo a comportarsi diversamente » ragionò Lysandre « in effetti è stato un po’ rischioso, avrebbe potuto offendersi, adottare un atteggiamento vittimista diventando così autodistruttivo per la squadra »
« credo che puntassero sul detto “quando l’acqua arriva alla gola, o nuoti o affoghi” »
« che intendi? » domandò Iris.
« la Saint Mary sta perdendo e tutto perché quel Lanier vuole fare tutto di testa sua, impedendole di creare degli schemi di gioco come quelli che stiamo attuando noi. Evidentemente quel tizio si è reso conto che il suo comportamento è autodistruttivo per la squadra, quindi se non vuole perdere, deve per forza cambiare atteggiamento »
Kentin e Armin emisero un fischio di apprezzamento, prendendo in giro Ambra per la sua professionale capacità di analisi mentre Dake commentava soddisfatto:
«  la partita si fa interessante »
« perché finora ti sei annoiato? » brontolò Rosalya, impegnata a inviare un messaggio ad Erin.
 
Erin era ancora nello spogliatoio, intenta ad ascoltare le indicazione del coach, quando sentì vibrare il cellulare. Sorrise intuendo chi fosse la mittente e tirò fuori l’apparecchio, mentre Boris continuava a parlare della loro strategia di gioco:
 
“è oggi vero la semifinale? Vedi di vincere, tappa u.u”
 
Il suo stomaco si attorcigliò. Non lo credeva possibile, ma si era completamente dimenticata di lui.
Era talmente presa dalla competizione contro Melanie che il chiodo fisso di Castiel e della lontana Germania era passato in secondo piano.
In altre circostanze quel “tappa” l’avrebbe irritata, ma non in quel momento.
Sorrise, in un sorriso dolce e innamorato che ormai solo lui poteva strapparle e, mentre stava per rispondergli, Boris le intimò:
« Erin! Metti via quel cellulare! Si torna in campo »
A malincuore eseguì l’ordine dell’allenatore, mentre si ingegnava nel trovare la frase più opportuna con cui formulare la risposta al termine della partita.
Prima di arrivare sul campo, l’aveva già memorizzata:
« semifinale vinta. Mi appresto a conquistare anche la finale, tu intanto vedi di procurarmi una brandina: verrò a trovarti pertica »
 
Appena le due squadre ricomparvero sul campo, furono accolte da uno scroscio di applausi e urla, principalmente da parte della tifoseria della Atlantic. Però ai giocatori sul campo non sfuggì che anche tra le file avversarie c’erano dei movimenti che prima sembravano anestetizzati: alcuni studenti avevano applaudito la Saint Mary e altri avevano urlato degli incoraggiamenti.
« finalmente cominciano a svegliarsi anche i tifosi della Saint Mary » commentò apatico Kentin.
« ma tu da che parte stai? » lo ripresero in coro Lin e Rosalya.
Ai lati del campo, i rispettivi coach stavano fornendo le ultime indicazioni.
I giocatori del Dolce Amoris furono i primi a posizionarsi sul pitturato: Dajan a centro campo, con alle spalle Liam, Erin, Benjamin e Wes. Un playmaker con le abilità di un centro, un ala piccola, una tweener e due guardie; nonostante fossero in netto vantaggio, la strategia dell’Atlantic non era improntata a difendere i punti conquistati: volevano essere minacciosamente offensivi.
Dalla panchina avversaria, il primo a staccarsi fu Julius, che si portò davanti a Dajan. Seguì a ruota Neal, che si mise in posizione speculare a Wes. Guardia contro guardia. Per il terzo quarto venne confermata la presenza di Mitch Sharman che, analogamente a Liam Farrell della Atlantic, rivestiva il ruolo di ala piccola. Erin notò finalmente la figura che aspettava con ansia di vedere sul campo: Melanie si liberò della felpa e raggiunse in silenzio i compagni; le sorrise leggermente, e la mora si limitò a ricambiare quell’occhiata; mancava un solo giocatore a completare il quintetto avversario:
« REED, MUOVI QUEL CULO! » urlò Lanier, in direzione della guardia, che si intratteneva placidamente a chiacchierare con Paula.
« arrivo, arrivo, perché devi essere sempre così irruento? » farfugliò la guardia, grattandosi disinteressato l’orecchio « sta’ calmino boss, o ti verrà un ictus »
Nella panchina del Dolce Amoris i cestisti ammutolirono: osservarono Isiah Reed sgranchirsi la schiena mentre il suo capitano borbottava, senza molta convinzione, delle esortazioni per costringerlo a darsi una mossa e Melanie che era impegnata a sistemarsi i polsini.
La Saint Mary metteva in campo la triade divina al completo.
La vera partita era appena iniziata.
 




 

NOTE DELL’AUTRICE:
Dunque, pubblicare questo capitolo oggi è stata una cosa che ha sorpreso anche me, nel senso che fino all’ultimo ero convinta che mai avrei trovato tempo prima di domenica.
Come? Avevo promesso un disegno? Avete ragione… il fatto è questo: come successe per il 47, i miei progetti iniziali erano diversi e quello che avete letto adesso doveva essere solo la prima parte di un capitolo che si sarebbe concluso con il suddetto disegno. Arrivati a questo punto, vi siete lette le bellezza (o la bruttezza) di oltre 30 pagine di Word, che inizialmente erano sessanta… decisamente troppe per un capitolo, così l’ho diviso in due, sperando che la prossima volta sia quella buona in cui questo disegno apparirà u.u (disegno che è pronto da Febbraio).
Ho deciso che non farò più previsioni, visto che non riesco a rispettarne mezza, anzi no, una la posso fare: ci metterò parecchio a sistemare anche il prossimo capitolo, che oltre ad essere incompleto, è anche molto grezzo in alcuni punti (nel senso che sono solo abbozzati i dialoghi e manco si capisce chi parla xD).
Detto questo, prima di lasciarvi mi preme sapere se vi va bene come è descritta la partita… ho voluto essere un po’ dettagliata ma non troppo (anche perché, per quanto abbia cercato di informarmi, non sono una cestista ^^’).
Ok è tutto… ci vediamo tra millonanta settimane :)
Alla prossima!
  
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Giochi di Ruolo > Dolce Flirt / Vai alla pagina dell'autore: RandomWriter