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Autore: Claire Penny    25/04/2015    1 recensioni
Vita da rockstar. Nessuna regola. Più soldi di quanti se ne possano contare. Droghe più o meno leggere. Lusso sfrenato. Sesso senza inibizioni. Jared Leto.
Avete presente?
Ecco, la vita di Zoe non ha niente di tutto ciò.
Perchè Zoe ha ventidue anni e considera ormai concluso il capitolo della sua giovinezza in cui sognava di girare il mondo, vivere la "vida loca" e incontrare i suoi idoli. Sente che è ora di tornare con i piedi per terra, iscriversi all'università o cercare un lavoro e cominciare a rendersi utile ad una società che offre alle nuove generazioni un futuro sempre più incerto.
Questo è quello che la ragazza si prepara suo malgrado a fare, mentre salta tra lavoretti in nero e stage sottopagati sperando nel miracolo di un contratto vero e proprio...almeno fino a quando la sua squinternata migliore amica non finisce per iscriverla a sua insaputa ad un casting per un reality show in cui i partecipanti selezionati prenderanno parte al tour dei 30 Seconds To Mars...come stagisti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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*NdA: Mi dispiace averci messo così tanto per pubblicare il nuovo capitolo, purtroppo ho avuto dei problemi con il computer (NUOVO, porca paletta!) che, a quanto pare, possiede il libero arbitrio ed ha quindi deciso di cancellare di sua spontanea volontà l'intero contenuto di diversi file, incluso quello in cui conservavo questa storia e, di conseguenza, questo capitolo, che avevo quasi ultimato. Dopo aver superato l'esaurimento nervoso che ne è conseguito ed aver versato qualche ettolitro di lacrime però, mi sono armata di pazienza e l'ho riscritto daccapo.
Tralasciando le mie sfighe, ho deciso di scrivere le note autrice all'inizio perchè volevo precisare un paio di cose prima che leggeste:
1- ho cercato di documentarmi al meglio su come si sviluppa un reality show e su cosa accada realmente nei backstage dei grandi concerti, ma alcune mie lacune non sono state del tutto colmate quindi, se vedete qualche imprecisione, abbiate pietà.
2- Ovviamente non conosco personalmente i Mars, per cui ho costruito i loro caratteri basandomi sulla loro immagine pubblica e sulla mia contorta fantasia (soprattutto sulla seconda).
3- I personaggi secondari sono stati quasi tutti partoriti dalla sopracitata contorta fantasia.
4- Questa ff è ispirata al periodo 2013/14 anche se non ha un precisa collocazione temporale, pertanto Jared e Shannon hanno ancora i capelli lunghi (lo dico per evitare eventuali lamentele dai più precisini).

Infine, ringrazio Elenaspine e 30STM96 per le gentili recensioni e chiunque altro abbia messo la mia storia tra le storie seguite, le ricordate o (incredibile ma vero) tra le preferite. Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento :)*


COME (E IN QUALI CONDIZIONI) SONO ARRIVATA QUI


Erano lì.
Proprio davanti ai nostri occhi.
In carne, ossa e figaggine.
E con un'aura luminosa tutt'intorno mentre un coro angelico, da qualche parte nella mia testa, intonava una lode a sette voci.
Ero ufficialmente nella stessa stanza - e a meno di tre metri - dai 30 Seconds To Mars.

* * *

[Diverse ore prima]

20 Giugno, ore 5.40.
Il suono della mia vecchia e maledetta sveglia irruppe nel silenzio della mia camera dopo appena tre ore di sonno.
Sempre che rotolarsi nel letto ad occhi chiusi possa definirsi "sonno".
Stavo per allungare il braccio e spegnere l'aggeggio infernale, ma mia madre mi precedette. Sarei anche potuta essergliene grata se la sua mossa successiva non fosse stata quella di liberarmi brutalmente dalle coperte nelle quali mi ero avvolta a mo' di crisalide, un po' per il clima insolitamente fresco, un po' per la mia fobia del Mostro Carnivoro che, secondo le mie paure ancestrali, viveva sotto il mio letto in attesa del momento migliore per aggredirmi e saziarsi delle mie interiora.
-Maaammaaaa!- protestai, andando a tastoni per il letto, cercando di riappropriarmi delle coperte.
Per tutta risposta, mia madre spalancò i balconi della mia camera che, disgraziatamente, è situata ad est, aggiungendo così all'insonnia e all'ipotermia improvvisa, anche la cecità temporanea dovuta alla luce del sole.
-Non provarci nemmeno- mi minacciò, nello stesso momento in cui riuscii finalmente ad afferrare un lembo del lenzuolo. -Oggi i ritardi non sono contemplati. Se hai sonno dormirai in aereo-
Aereo.
Quella parola agì sulla mia mente come una specie di password che sbloccò la mia memoria a lungo termine, facendomi ricordare nel giro di pochi istanti quanto accaduto nell'ultimo mese e mezzo.
Rivolsi lo sguardo ai piedi del mio letto. Le mie valige erano sempre lì, ancora aperte e non ancora pronte. Avevo passato le ultime settimane a passare in rassegna il mio guardaroba e le mie (precarie) finanze allo scopo di arricchirlo, ma non ero esattamente soddisfatta del risultato.
Non ero mai stata una fashion victim e generalmente non mi preoccupavo molto di come mi vestivo  - eccezion fatta per le grandi occasioni - . Per come la vedevo io, la giusta maglietta ed il giusto paio di jeans rappresentavano un pass-par-tout per qualunque circostanza. Che mi piacesse o meno però, ormai avevo accettato di partecipare al Mars Camp Project e, di conseguenza, di avere uno o più obbiettivi puntati contro come un'arma per la maggior parte della giornata. Ovviamente, questo fatto collocava automaticamente la cosa nella categoria delle "grandi occasioni".
Già, obbiettivi. Gli oggetti che mi avrebbero privata di una delle cose a cui tenevo di più al mondo: la mia privacy.
A quel pensiero, istintivamente rivolsi lo sguardo ad un oggetto che si trovava sopra al mio comodino: quella che avevo ribattezzato "MarsCam".
Stando a quanto diceva la lettera con cui era arrivata all'incirca una settimana prima, avrei dovuto raccontare a quella piccola videocamera ogni dettaglio riguardante le nuove esperienze, i pensieri e le emozioni che di lì a poco avrebbero caratterizzato le mie giornate. Una specie di confessionale portatile, insomma.
Si trovava sul mio comodino per il semplice motivo che avevo provato ad ottimizzare le mie ore insonni della notte precedente cercando di capire come funzionasse.
L'ho già detto che m'intendo di tecnologia tanto quanto di fisica quantistica?
Era molto probabile che per errore ci avessi registrato un paio di minuti di primo piano delle mie narici, delle mie sopracciglia o del pavimento, mentre cercavo di carpire i segreti del misterioso congegno che avevo tra le mani, anche se, solo a guardarlo, mi trasmetteva un senso di inquietudine.
Perchè inquietudine? Beh, non so dire con esattezza quando abbia cominciato a sentirmi così, sta di fatto che, sin da quando ero piccola, trovarmi nei paraggi di qualunque apparecchio in grado di fotografare o videoregistrare mi aveva sempre fatta sentire tremendamente a disagio. E detestavo ancora di più riconoscermi in una foto o in un filmato.
Odiavo il modo in cui apparivo, mai abbastanza sorridente, troppo sciatta, con un fisico maledettamente diverso da quello che desideravo ed una perenne espressione da sogliola appena pescata - consiglio vivamente di andare a cercare su Google qualche immagine del suddetto pesce, tanto per farvi un'idea - . Ovviamente poi, odiavo riascoltare anche la mia voce, che registrata suonava sempre tremendamente nasale ed irritante.
No, non avevo proprio idea di come sarei riuscita a convivere con la MarsCam e con le decine di altre telecamere che per i successivi due mesi e mezzo mi avrebbero ronzato costantemente intorno. Il piano migliore che ero riuscita ad ideare consisteva nel pregare e sperare che, con il passare dei giorni, mi sarei semplicemente abituata a quella nuova condizione e che, di conseguenza, il mio disagio - così come la mia famigerata espressività da sogliola - si sarebbero attenuati fino a scomparire del tutto.
In poche parole, confidavo in un miracolo.
Ad ogni modo, avevo preso quella decisione oltre un mese prima, dopo aver valutato attentamente i pro e i contro almeno un milione di volte: ormai era tardi per tirarsi indietro e comunque non avevo certo intenzione di farlo dopo tutta la preparazione psicologica delle ultime settimane.
Era fatta: avrei preso parte alla prima edizione del Mars Camp Project.
Il fatto che le ragioni che mi avevano portato a quella scelta non fossero esattamente convenzionali, non cambiava nulla. Sarei partita, avrei vissuto un'avventura che in molti non avrebbero nemmeno mai osato sognare e mi sarei lasciata la mia incasinata vita in Italia alle spalle, anche se solo per un po'.
Ad oggi, ancora non ho capito cosa esattamente mi abbia spinto a formulare un pensiero così incredibilmente idiota. Forse la mia poca conoscenza nei confronti dell'ambiente dei reality show - e sarebbe strano, visto e considerato che ho trascorso la mia adolescenza di fronte ai programmi stermina-neuroni di Mtv. Forse il fatto che, in quel momento, anche una vacanza sulla Striscia di Gaza mi sarebbe sembrata più allettante che rimanere a crogiolarmi nelle sfighe che mi riservava la mia terra natia. Forse, molto più semplicemente, i miei genitori mi avevano nascosto l'esatto numero di cadute che avevo fatto dal seggiolone qund'ero ancora troppo piccola e scema per poterle contare o almeno ricordare.
Sta di fatto che, sì, ero in qualche modo convinta che partecipare a quel benedetto programma sarebbe stata una specie di rilassante vacanza. Non avevo ancora idea che quella su cui stavo per salire era una giostra dalla quale sarebbe stato molto difficile scendere.
E, soprattutto, l'esatto contrario dell'aggettivo "rilassante".

* * *

-Di sicuro hanno fatto un grande affare a sceglierti: sei un essere imbarazzante a tempo pieno, farai sicuramente alzare l'audience!-
Buongiorno signore e signori! Benvenuti a questa nuova edizione della Fiera del Tatto e della Delicatezza, come sempre presieduta da Miss Elena!
Mi voltai verso i sedili posteriori dell'auto e lanciai un'occhiata inceneritoria alla mia cosiddetta "amica".
-Se questo è il tuo modo di incoraggiarmi, sarebbe stato più serio e produttivo da parte tua rimanere a casa a studiare. Ti ricordo che gli esami incombono- le ricordai, sorridendo sadica.
Tirare in ballo gli imminenti esami di maturità, quella che al momento era la più grande preoccupazione di Elena, ottenne l'effetto desiderato e quest'ultima decise saggiamente di piantarla con le frecciatine. In compenso cominciò a stilare un elenco lungo quanto la Divina Commedia riguardante le milleduecento cose che avrei dovuto fare una volta che mi fossi trovata al cospetto di Jared, Shannon e Tomo.
-Dar loro un bacio da parte sua.
-Farsi fare un autografo con dedica.
-Farsi fare un video con dedica.
-Aggiornarla costantemente su qualunque dettaglio riguardante la loro vita, dal vestiario a quello che avevano mangiato a pranzo, passando per la marca di carta igenica che preferivano e altre cazzate del genere.
-Trovare un valido avvocato in grado di difendermi dalle probabili accuse di stalking che sarebbero conseguite al punto precedente.
-eccetera, eccetera...
Smisi di ascoltarla dopo qualche minuto, ossia dopo la sua richiesta di portarle a casa come souvenir una ciocca dei capelli shatushati di Jared Joseph "Jesus" Leto e trascorsi il resto del viaggio in auto a guardare fuori dal finestrino, a salutare tutti quei panorami familiari che non avrei più rivisto fino quasi all'autunno successivo.

* * *

Erano passati diversi anni dalla prima nonchè unica volta che ero stata all'aeroporto Marco Polo di Venezia. Curiosamente, l'unico ricordo nitido che avevo di quel giorno era ambientato proprio davanti al grande tabellone indicante gli orari delle partenze degli aerei che stavo scrupolosamente esaminando assieme a mia madre e ad Elena, alla ricerca del mio volo: Parigi, 9.45.
Avevo preso solo due volte un aereo, prima di quel giorno e la cosa non mi aveva mai reso particolarmente nervosa...almeno fino a quando l'iperprotettività e il pessimismo che da sempre caratterizzavano il lato materno di mia madre non avevano deciso di unire le forze, dando vita ad una sequenza infinita di paranoie a proposito di (im)probabili scenari catastrofici riguardanti il mio aereo, ognuno dei quali terminava ovviamente con uno schianto, un'esplosione e nessun superstite.
Ovviamente, la mia amorevole mammina si era premurata di descrivermeli tutti nei minimi dettagli, giusto per rendermi partecipe delle sue ansie.
-C'è scritto che puoi già recarti al check-in- annunciò Elena, indicandomi un punto sulla parte in alto a sinistra del tabellone. Seguendo il suo dito, finalmente trovai la scritta luminosa che stavo cercando, quella indicante il mio volo.
Nonostante fossero passati anni dall'ultima volta che avevo preso l'aereo, ricordavo ancora abbastanza bene quali fossero le procedure pre-imbarco. Quindi, prima di passare al check-in, affidai i miei bagagli e tutto il loro contenuto ad una biondina sui trent'anni con un sorriso talmente forzato da farmi sospettare una paralisi facciale. Dopo averle pesate ed etichettate, la bionda depose le mie valigie su di un nastro trasportatore e, nel giro di qualche secondo, le vidi allontanarsi dal mio campo visivo.
Considerate le precedenti esperienze di alcuni miei conoscenti, sperai ardentemente che non fosse l'ultima volta.
Prima di mettermi in coda per il check-in, tornai da mia madre e da Elena per l'ultimo saluto.
Quest'ultima non disse niente,  mi fissò per qualche istante con un mezzo sorriso e poi mi strinse a sè. Tutta la voglia di stuzzicarmi che aveva fino a poco prima sembrava improvvisamente scomparsa.
Niente frecciatine, nessun commento ironico sul fatto che non le sarei mancata per niente, nessuna considerazione sulla vita che, senza di me, sarebbe stata molto meno stressante, niente battute a sfondo sessuale sui Mars. Solo un abbraccio della serie "strizzapolmoni" che ricambiai, anche se non con altrettanta forza.
Poi fu il turno di mia madre, che replicò il gesto di Elena, con la sola differenza che il suo abbraccio (classificabile come "incrinacostole") durò più a lungo.
Molto più a lungo.
Abbastanza a lungo da compromettere le mie capacità respiratorie e farmi rischiare la cianosi.
Tuttavia non tentai nemmeno una volta di ribellarmi. Quegli abbracci erano stati un must della mia infanzia e, di conseguenza, sapevo bene che sarebbe stato più facile liberarsi dalla stretta di un anaconda affamato.
Quando finalmente mi lasciò andare per asciugarsi le lacrimucce che le erano comparse agli angoli degli occhi, mi illusi che gli "arrivederci" strazianti e strappalacrime fossero terminati e cercai di dirigermi il più in fretta possibile verso il...
-Tesoro!?-
Avevo gioito troppo presto.
-Cosa c'è, mamma?- risposi, approfittando del fatto che le stessi dando le spalle per alzare gli occhi al cielo. Purtroppo non ero riuscita ad allontanarmi abbastanza infretta da riuscire a fingere di non averla sentita.
-Te la sei ricordata la crema solare, vero?-
Tu che stai Lassù, ti prego, ascoltami. Sono Zoe. Sì, quella che da piccola usava l'acquasantiera per schizzare la gente che entrava in chiesa. Lo so che non abbiamo avuto un gran dialogo negli ultimi...ehm...otto anni e mezzo ma se puoi, ti supplico, risparmiami almeno questa umiliazione...
-E gli occhiali da riposo? Guarda che mi sembrava di averli visti sul tavolino del salotto. E la giacca? Hai messo un cambio di vestiti nel bagaglio a mano, vero? Hai scritto l'indirizzo di casa sull'etichetta delle valigie? E ricordati di chiamarci almeno una volta al giorno...-
Evidentemente il Grande Capo non aveva granchè voglia di sprecare misericordia con la miscredente che andava in chiesa solo a Natale e Pasqua.
Mia madre quindi continuò ad elencare tutti i luoghi comuni delle raccomandazioni genitoriali mentre io annuivo esasperata, sperando che tutto ciò cessasse al più presto.
-...e se ti perdi, mi raccomando, cerca un vigile o un...-
-...poliziotto- la interruppi. -Non raccogliere le siringhe da terra, non dare confidenza a nessuno, non accettare caramelle o soldi dagli sconosciuti a meno che non siano davvero, davvero tanti-.
Lo sguardo inceneritore della mia apprensiva mammina mi fece capire che non aveva apprezzato la battuta, al contrario di Elena, che però tentò di far passare la sua risata per un colpo di tosse.
-Eddai, mamma, ho ventidue anni! Non trattarmi come una marmocchia! Specialmente in pubblico...-
Per tutta risposta, mia madre sorrise e vidi i suoi occhi ricominciare ad inumidirsi.
-Lo so, pulce, ma non posso farci niente. Tu sei e sarai sempre la mia marmocchia-.

* * *

Straordinariamente, ero riuscita a non fare figure di merda al check-in e in quel momento mi trovavo seduta comoda ad aspettare la chiamata per il mio aereo. Non avrebbero però cominciato ad imbarcare i passeggeri prima delle nove e un quarto, quindi tanto valeva sfruttare quel tempo combinando qualcosa di utile, ergo: era ora di far fruttare il mio diploma di perito turistico e di entrare in modalità "anglofona".
Dunque, a noi due, MarsCam.
Estrassi la videocamera dal mio bagaglio a mano e mi puntai l'obbiettivo contro.
...
Okay, non avevo la minima idea di cosa dire.
Cioè, quali potevano essere le parole giuste per rompere il ghiaccio? Un "Buongiorno a tutti"? troppo formale.
 Un "Ehi, gente!"? Se volevo suicidarmi socialmente già dal primo giorno, tanto valeva indossare una maglietta con la scritta "SONO UN'EMERITA SFIGATA" a caratteri cubitali.
Chiusi gli occhi e sospirai.
-Dio, mi sto davvero facendo paranoie su come parlare ad una videocamera?- mi chiesi, a bassa voce.
Alla fine ricordai che qualunque registrazione sarebbe dovuta passare in sala montaggio prima di essere inserito nei vari episodi quindi, se anche qualcosa fosse andato storto, avrebbero sicuramente provveduto a compiere qualche miracolo tecnologico che nel programma mi avrebbe fatta apparire come una persona normale. Conclusione: tanto valeva parlare a ruota libera.
-Ciao, mi chiamo Zoe Caivano, ho ventidue anni, vivio in Italia e, a differenza dei miei futuri colleghi, questa è la prima volta che mi trovo davanti ad una videocamera di mia spontanea volontà-.
Così cominciò la mia prima video-confessione. Parlai di me, della mia vita, di come fossi finita lì e del giorno in cui ero venuta a sapere di tutta quella sottospecie di complotto per farmi partecipare di cui, in realtà, sapevo ancora troppo poco.
A nulla infatti erano serviti i miei innumerevoli tentativi di esorcere qualcosa a coloro che sapevano (Elena e Cecilia) e a chi sospettavo sapesse (mia madre).
Ero talmente presa dal mio sfogo da non fare minimamente caso alle persone che, sedute poco disanti da me, ogni tanto mi lanciavano occhiate della serie questa-è-fuori e da dimenticarmi addirittura della mia faccia da sogliola, che dall'obbiettivo veniva riflessa nel piccolo schermo aperto della MarsCam.
L'unica cosa che riuscì a distrarmi fu la chiamata per il mio volo.
Dopo una frettolosa conclusione, ficcai la MarsCam nella mia borsa e mi misi in coda per mostrare il biglietto e potermi imbarcare.
L'ora e quaranta minuti che trascorsi in aereo fu relativamente tranquilla. Ascoltai musica, sbranai la merendina ai cereali che mi offrì un gentile steward, ammirai lo spettacolo delle nuvolette che scorrevano pigre sotto di noi e la visione del mondo sottostante: monti, boschi sterminati, campagna, centri abitati, grandi città. un panorama che non avrebbe mai smesso di affascinarmi. Quel "relativamente" era dovuto al fatto che ogni minima turbolenza suscitava in me un pensieri ottimisti quali: Moriremo tutti! Moriremo tutti! Moriremo tutti!
I miei primi passi in suolo francese furono caratterizzati dalla mia solita nausea post-atterraggio. Dopo essermi letteralmente trascinata dall'aereo all'aeroporto, la prima cosa che feci fu cercare di identificare una sedia dove potermi riprendere o morire in pace, a seconda.
Fortunatamente prevalse la prima e, dopo una capatina alla toilette dove constatai con sollievo di non avere più quel gradevole colorito verde che di solito assumeva il mio viso in quelle circostanze, mi avviai all'uscita dove, secondo le istruzioni che avevo ricevuto qualche giorno prima via mail, un autista mi stava aspettando per accompagnarmi al quartier generale (ossia l'hotel).
Lo identificai come un elegante tizio sulla cinquantina che reggeva un cartello con su scritto "CAIVANO / ISAKSSON"
Isaksson? E chi cappero era? Non mi avevano detto nulla riguardante gli altri partecipanti al programma, se non che in tutto eravamo in sei.
-Ehm, Bonjour- salutai, rispolverando per la prima volta dopo la maturità i tre anni di francese che avevo tentato di reprimere assieme al ricordo di quella sadica strega della mia professoressa. -Je suis Zoe Caivano. Parlez-vous anglais?*-
Sperai ardentemente che la risposta fosse affermativa, considerato che con l'inglese mi trovavo molto più a mio agio e che, solo con quella frase, avevo già fatto sfoggio di circa un terzo dei vocaboli francesi che ricordavo.
-Bonjour, mademoiselle Caivano. Oui, je parlé anglais**- mi rassicurò l'uomo, sorridendo. -Io sono Jules, il suo autista. Mi dispiace chiederle di attendere ancora un po', ma l'aereo della signorina Isaksson è in leggero ritardo. Stando a quanto comunicatomi, sarebbe dovuto arrivare circa venti minuti prima del suo-.
E così stavo finalmente per conoscere un'altra partecipante. A giudicare dal cognome, ipotizzai che potesse essere norvegese, finlandese, svedese...insomma, che venisse dalle parti dei Vichinghi e di Babbo Natale.
Per ammazzare il tempo, io e Jules ci scambiammo qualche formale informazione sulle rispettive vite e luoghi d'origine. Scoprii così che aveva sempre vissuto a Parigi, era sposato con due figli, che faceva l'autista da quasi trent'anni e che durante la sua carriera aveva portato a spasso gentaglia del calibro di Sharon Stone, Johnny Depp e altre celebrità.
Allo stesso modo lui scoprì che ero disoccupata da un mese e mezzo, patogicamente single e che ad una gita a Venezia svoltasi durante la settimana del Festival del Cinema, avevo incontrato Daniel Radcliffe mentre usciva dal bagno di un bar***.
Proprio mentre ero immersa nel racconto di quest'ultimo aneddoto però, venni interrotta da qualcuno che, alle mie spalle, si schiarì la voce in modo ambiguo.
Quando mi voltai, mi ritrovai di fronte ad una statuaria ragazza bionda alta come minimo dieci centimetri più del mio metro e settantatre, con occhi chiari e pelle diafana da perfetta scandinava.
La mia autostima affondò inserorabilmente come il Titanic nel giro di un paio di secondi.
-Perdonate l'interruzione. Sono Rebeka Isaksson, penso mi steste aspettando- disse, con voce seria e formale, che rifletteva perfettamente la sua espressione. -Mi scuso per l'attesa. Purtroppo l'aereo era in ritardo-.
-Nessun problema- rispose Jules, tendendo e stringendo la mano a Rebeka. -Io sono Jules, il vostro autista. Vogliamo andare?-
Io e la valchiria affonda-autostima annuimmo e, una volta recuperati i bagagli e tirato un opportuno sospiro di sollievo per il fatto che non mancasse nulla all'appello, ci incamminammo verso l'uscita dell'aeroporto Charles de Gaulle.
-Comunque io sono Zoe, piacere di conoscerti- dissi, sorridendole il più amichevolmente possibile.
In risposta ottenni un sorrisino di cortesia autentico come una banconota da tre euro e della durata di circa un quarto di secondo, cosa che un po' mi infastidì. Decisi di sorvolare, del resto l'avevo appena conosciuta.
-Allora, ehm...di dove sei?- chiesi, tentando nuovamente di avviare una conversazione.
-Svezia- si limitò a rispondere lei in tono piatto, senza nemmeno guardarmi negli occhi.
Da "un po' infastidita" passai alla modalità "assai scocciata" e decisi di lasciar perdere i tentativi di stabilire i contatti col pianeta Sono-Gnocca-Sono-Bella-Sono-una-Fotomodella.
E io avei dovuto trascorrere l'intera estate con questa? Per la serie "chi ben comincia..."
Feci per la seconda volta appello al mio lato religioso nel giro di mezza giornata - che, ricordiamolo, era stato dissotterrato quella stessa mattina dopo quasi un decennio di letargo - per supplicare il Big Boss affinchè il resto della combriccola con cui avrei dovuto condividere quell'esperienza non fosse socievole come la ghiacciola che mi camminava accanto.
A risollevarmi il morale però, ci pensò Jules non appena ci indicò l'auto con cui ci avrebbe accompagnato all'hotel: una magnifica limousine nera.
E qui, per la prima volta, io e Rebeka ci trovammo d'accordo su qualcosa, ossia la reazione di fronte a quella magnifica - e lunghissima - automobile.
Ripensai istintivamente alla mia auto, una Fiat Panda grigia del '97 che avevo comprato usata un paio d'anni prima e che, visto i sacrifici che avevo dovuto fare per riuscire a permettermela, io avevo sempre considerato al pari di una Porsche.
Confronto che andò a quel paese esattamente un secondo dopo essermi trovata davanti quella meraviglia.
Rebeka e io eravamo così prese a far ricongiungere la nostra mandibola al resto del corpo da non accorgerci nemmeno del cameraman che si trovava accanto all'auto e che, al nostro arrivo, aveva acceso la propria telecamera giusto in tempo per riprendere le nostre espressioni da tonni boccheggianti.
Ok, devo piantarla con i paragoni ittici.
Fu la biondona ad individuarlo e a ricomporsi per prima, ovviamente premurandosi di non farmelo sapere affinchè la mia primissima figura di merda in territorio straniero fosse dettagliatamente registrata.
Dopo aver caricato le nostre valigie nel bagagliaio, Jules, da bravo autista professionista, aprì la portiera posteriore della limousine invitandoci ad entrare e noi, senza farcelo ripetere, ci fiondammo all'interno, seguite dal cameraman, un uomo poco più giovane di Jules che si identificò come Robert.
Gli interni dell'auto erano magnifici, con eleganti sedili di pelle beige, minibar ben fornito, una piccola tv e un pannello touch screen attraverso il quale era possibile accandere la musica, abbassare i finestrini o aprire il tettuccio.
Durante il viaggio, io e Rebeka continuammo a guardarci intorno incredule e a mettere le mani ovunque. Il detto "sentirsi come due bambine in un negozio di caramelle" non sarebbe potuto essere più appropriato. Persino miss Svezia aveva mandato quasi del tutto a quel paese il suo contegno e la sua aria di pseudo-superiorità per testare tutti gli optional di quella lussuosa automobile.
Il tutto, ovviamente, venne opportunamente registrato da Robert, che dal suo angolino seguiva ogni nostra mossa con sguardo divertito.
Ricorderò per sempre quel viaggio, anche se durò appena mezz'ora, come la prima volta in cui mi sentii come una rockstar - sorvolando sull'insignificante dettaglio che l'unico strumento che avessi mai suonato fino a quel momento era il flauto dolce (prontamente archiviato dopo le medie) e che possedevo le capacità canore di una balena in agonia - .
Ero talmente presa da quel primo assaggio di vita da vip, da non rendermi nemmeno conto di essere arrivata a destinazione, almeno fino a quando l'auto non accostò e Jules ci aprì nuovamente la portiera.
Il primo a scendere fu Robert, che ci chiese di aspettare un secondo prima di scendere poichè desiderava riprendere la nostra uscita. Al suo segnale, Rebeka scese a sua volta, seguita da me che tanto per dare un'ulteriore prova del mio essere geneticamente imbranata, appena uscita mi scontrai con la schiena della bionda rischiando di perdere l'equilibrio.
-Ehi!- esclamai, non capendo perchè si fosse bloccata così all'improvviso.
Quando però la guardai, notai che la sua espressione era identica a quella di poco prima, quando avevamo visto la limousine. Seguii il suo sguardo ed immediatamente capii cos'avesse catturato la sua attenzione in quel modo.
Oh. Santo. Tomo.
Era uno scherzo?
Ci trovavamo di fronte nientemeno che al bellissimo, lussuosissimo, maestosissimo Four Seasons George V di Parigi.
-Noi- chiesi, anche se non sapevo con esattezza a chi mi stessi rivolgendo -alloggeremo qui?!-
Non ottenni risposta ma non me ne preoccupai: se anche l'avessi ricevuta, probabilmente non l'avrei nemmeno sentita, tanto ero inebetita.
L'enorme costruzione bianca era divisa in due edifici di otto piani uniti al centro dall'ingresso principale - che contava solo il pianterreno - davanti a cui ci trovavamo.
Ad ogni finestra erano esposti magnifici fiori viola che davano al complesso un delicato tocco di colore e, al centro, esattamente sopra alle nostre teste, sventolavano tre bandiere: quella francese, quella canadese ed una verde che però non riuscii a riconoscere.
Mentre Rebeka ed io studiavamo ogni dettaglio dell'edificio che avevamo davanti cercando di riprenderci dallo shock, Jules si premurò di scaricare i nostri bagagli per consegnarli ad un facchino che prontamente li caricò su uno di quei carrelli dorati tipici degli aberghi di cui ignoro il nome tecnico.
-Signorine- disse infine Jules, distraendoci dalla contemplazione dell'hotel. -E' stato un piacere accompagnarvi fin qui. Vi auguro una buona permanenza a Parigi-.
Lo sarà sicuramente pensai.
Dopo aver ringraziato e salutato Jules, finalmente entrammo nell'albergo scortate da Robert e dal facchino che aveva preso in custodia le nostre cose.
Pur intuendo già dall'esterno che cosa ci aspettasse, rimanemmo comunque senza parole per la terza volta nel giro di nemmeno un'ora. Questo perchè neanche nelle mie più dettagliate fantasie di quando, da bambina, giocavo a fare la principessa avevo mai osato sognare un castello delle fiabe di una bellezza simile.
 Il pavimento di marmo era decorato con eleganti disegni ed era così lucido che riuscii addirittura a scorgervi una delle mie anarchiche ciocche di capelli mentre cercava di liberarsi dalla coda di cavallo in cui l'avevo costretta. Al centro della hall, proprio davanti a noi, una magnifica e colorata composizione floreale si elevava, grazie ad alcuni sostegni di vertro, dal pavimento fino ad uno dei lampadari di cristallo che campeggiavano sontuosi sulla sala. Lanciando un fugace sguardo intorno alla sala prima di recarmi alla reception, notai un'incredibile quantità di dettagli, dalle statue, alle colonne, ai suppellettili, ognuno dei quali contribuiva a rendere quella stanza la più lussuosa in cui avessi mai messo piede.
Ero sul punto di esclamare qualcosa come "porca vacca!", ma mi trattenni. Esibire il mio lato da scaricatrice di porto in un luogo raffinato come quello sarebbe stato opportuno come bestemmiare in chiesa.
-Bonjour!- esclamò sorridente la receptionist, un'elegante signora sulla quarantina con i capelli marmorizzati in un'impeccabile messa in piega e un sorriso talmente smagliante da fare concorrenza a una pubblicità della Colgate.
-Salve, siamo Rebeka Isaksson e Zoe Caivano- esordì Rebeka. Lo shock derivato dallo scoprire che ricordava il mio nome quasi superò tutti quelli delle ultime ore.
La donna digitò qualcosa sul computer che aveva davanti e poi si rivolse nuovamente a noi, il tutto senza affievolire di un millimetro il suo sorrisone. Ipotizzai che dovesse esserci una clausula nel suo contratto di lavoro che implicava di sorridere sempre, anche davanti al cliente più stronzo e scortese.
Al suo posto, probabilmente mi avrebbero licenziato quindici minuti dopo avermi assunta.
-Molto bene!- Esclamò. -Vi stavamo aspettando, gli altri vostri compagni sono già arrivati-.
Ecco, ci mancava giusto il ritardo per mettere subito in chiaro chi era la diva e chi l'italiana.
-Sono qui da molto?- chiesi.
-Veramente sono appena arrivati anche loro- disse una voce alle nostre spalle, anticipando la signora della reception. Io e Rebeka ci voltammo nello stesso momento. -Non preoccupatevi, signorine, non siete in ritardo-.
E qui, come si suol dire, si chiude il cerchio.
Perchè erano lì.
Proprio davanti ai nostri occhi.
In carne, ossa e figaggine.
E con un'aura luminosa tutt'intorno mentre un coro angelico, da qualche parte nella mia testa, intonava una lode a sette voci.
Ero ufficialmente nella stessa stanza - e a meno di tre metri - dai 30 Seconds To Mars al gran completo.
Giusto per rendere il tutto ancora più surreale poi, quello che ci aveva appena rivolto la parola e che in quel momento ci stava guardando con quei suoi enormi e meravigliosi occhi azzurri mentre sorrideva era propio Jared Leto.
Ogni area funzionante del mio cervello si attivò nello stesso momento, nel frenetico tentativo di realizzare a pieno la cosa e, al tempo stesso, di elaborare una risposta abbastanza ragionevole da superare il test della famigerata e temutissima prima impressione.
Il risultato fu che il suddetto cervello si trovò sull'orlo di un'implosione e che il primo ricordo che Jared, Shannon e Tomo ebbero di me fu la mia insulsa espressione da sogliola. Tuttavia, anche se ancora oggi mi pare incredibile, riuscii perlomeno a rimanere lucida e cosciente.
Okay, solo cosciente.
Mi ci volle un bel po' a rimettere ordine nella mia testa ma, anche se non so come, ci riuscii. Poi però, proprio quando mi trovai sul punto di riuscire finalmente ad articolare qualcosa (di senso compiuto), vidi Rebeka muoversi in modo strano ai margini del mio campo visivo. Non feci neanche in tempo a voltarmi verso di lei, che questa si accasciò ai miei piedi come un sacco di patate, svenuta.

[* Sono Zoe Caivano, lei parla inglese?
** Buongiorno, signorina Caivano. Sì, io parlo inglese.
*** Episodio realmente accaduto ad una mia amica (che ha ovviamente suscitato in me parecchia invidia) con la sola differenza che il fortunato incontro con Daniel Radcliffe non si è svolto fuori dal bagno ma nel bagno stesso. Considerati i livelli di fanatismo che la mia amica è in grado di raggiungere, non oso immagnare cosa deve aver pensato Mr. Harry Potter. Probabilmente di essere incappato in qualcosa alla "Misery non deve morire".
]

   
 
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