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Autore: Ignis_eye    25/04/2015    3 recensioni
In un macabro castello arroccato su un dirupo, vive una famiglia di nobili vampiri. Ginevra, la contessina, salva la vita a una ragazza mezz'elfa, ritrovandosi ad essere la sua padrona pur non volendolo.
Come se una serva indesiderata non bastasse a scocciarla, si aggiunge un altro problema: una guerra tra vampiri. E qual è il metodo migliore per tessere alleanze se non... un matrimonio?
Seguite le vicende di Ginevra ed Elena, vi accorgerete di quanto le mostruosità più grandi siano in realtà quelle tipicamente umane.
Genere: Azione, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Violenza
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La giovane Elena si chiese cosa causasse quel baccano. Si affacciò alla finestra ma non vide nulla a parte che l’aria tremolava come durante le ore più calde dei mesi estivi.
Niente di strano se non fosse che ormai era calato il sole e non faceva più così caldo. Per non parlare di quella strana sensazione che le faceva venire la pelle d’oca… qualcosa non andava, ne era certa.
Uscì in fretta dalla stanza e cominciò a chiamare Ginevra: prima piano, quasi sottovoce, poi sempre più forte ma non ottenne risposta.
«Signora» disse la nana sbucando fuori da una stanza  «Vostra moglie mi ha dato ordine di non farvi uscire».
La sensazione di malessere, accentuata dallo spavento che le aveva procurato la domestica, crebbe ancora di più.
«Come mai?» domandò tentando di nasconderla.
«Non è sicuro per adesso» rispose vaga «Per cortesia, ritornate nelle vostre stanze. Desiderate qualcosa da bere?».
La voce della nana era dolce come la prima volta che l’aveva sentita ma era tesa, ansiosa. Voleva sapere cosa stava succedendo, voleva saperlo subito.
«Spero che la malattia del silenzio non abbia contagiato anche te».
«Di che parlate?» domandò sinceramente confusa.
«Di… niente, lascia stare» disse scuotendo la testa «Per favore, dimmi solo che succede».
«La signora ha detto di rimanere in casa, è tutto ciò che so».
«Va bene, va bene» dichiarò sconfitta.
A quanto pareva, Ginevra era solita tacere tutto a tutti, non solo a lei.
Scese in fretta le scale, seguita dalla nana che cercava invano di persuaderla a rimanere nella propria camera da letto. Elena era sorda alle sue gentili richieste e soprattutto, era stanca di essere tenuta all’oscuro della faccenda.
Stava per aprire la porta d’ingresso quando la nana, mossa dalla disperazione, l’afferrò per un avambraccio e con sguardo supplichevole la convinse ad arrestarsi.
«Signora, per il vostro bene non aprite quella porta» sussurrò con occhi sbarrati per la paura «Se proprio non resistete alla tentazione di vedere che c’è oltre, guardate dalla serratura, è abbastanza grande».
Il tono implorante che mai nessuno aveva usato con lei ebbe l’effetto sperato: la ragazzina si inginocchiò e portò l’occhio all’altezza della fessura in ottone guardandovi attraverso.
Quello che vide la spaventò terribilmente: quattro uomini urlavano adirati oltre i cancelli e colpivano a calci e pugni una barriera che ricopriva tutta la proprietà come una specie di bolla isolandola dai pericoli.
I Diavoli di Torino sembravano tranquilli ma avevano le mani appoggiate ai fianchi, vicino alle spade che riflettevano la fioca luce lunare.
Ginevra, a differenza di tutti gli altri, sembrava davvero a suo agio e spiccava in mezzo a loro per sicurezza ed eleganza del portamento. Sembrava quasi che fosse felice di quella visita inaspettata e tutt’altro che pacifica.
Curiosa, avvicinò ancor di più l’occhio alla fessura fino a sentire sulla guancia il freddo metallo della serratura.
Ginevra si avvicinò al cancello in ferro battuto e ne afferrò le sbarre con tranquillità, come se stesse facendo quattro chiacchiere con un vicino di casa o un amico passato per caso.
In quel momento le dispiacque non poco avere un udito umano, però… c’era un modo per sentire meglio.
Focalizzò la sua energia magica nelle orecchie e pronunciò un frase che aveva imparato quando Ginevra le impartiva brevi lezioni di magia.
All’inizio sentì un forte fischio seguito da dolore ai timpani, come se un ferro rovente li avesse trapassati, ma in pochi secondi il bruciore passò e cominciò a udire qualche parola.
«Credi di farmi paura?!» si infervorò uno degli uomini «Sono un vampiro tanto quanto te!».
«Se è così perché non sei venuto solo?» lo schernì Ginevra.
Con queste parole lo fece infuriare non poco, tanto che lui la ricoprì di insulti.
«Esci fuori e combatti!» la sfidò di nuovo «O hai paura di allontanarti da quella cagna della tua mogliettina?».
Elena non poté vederlo, ma il sorriso beffardo sul volto di Ginevra se n’era andato tutto d’un colpo.
Forte dell’effetto che quelle parole ebbero sulla vampira, lo sconosciuto continuò più scurrile che mai.
«Allora? Vieni fuori. Non aver paura di abbandonarla, prometto che una volta che ti avrò uccisa non la tratterò troppo male».
«Attento alle tue parole» lo mise in guardia con tono feroce «Potrebbero fare più male a te che a me».
Non comprendendo il senso della frase, lui continuò imperterrito fissandola con astio e sputando insulti velenosi.
«Dai, che aspetti? Non ucciderò subito la tua puttanella dopo essermela scopat-».
Non fece in tempo a finire la frase che il pugno destro di Ginevra aveva già raggiunto la sua mascella con una potenza inaudita anche per un vampiro. Lui cadde a terra picchiando violentemente la testa al suolo e alzando una nuvola di polvere mentre Ginevra in un battito di ciglia uscì dal cancello. Prima che Elena potesse vedere la mossa successiva della vampira, gli altri tre compagni del caduto la circondarono. I Diavoli di Torino sguainarono le spade pronti ad intervenire ma la voce di Ginevra li fermò all’istante:
«Non uscite! Proteggete la villa!».
Turbati da quell’ordine, i mercenari si guardarono l’un l’altro con nervosismo e Prisco fu obbligato ad alzare la voce per convincerli a rimanere ai propri posti.
Elena però era certa che qualcosa non andasse, o meglio, che qualcuno mancasse. Li contò e si accorse che in effetti i mercenari erano solo cinque.
«Signora».
La ragazzina sussultò sentendo quella voce profonda e lo spavento annullò l’effetto dell’incantesimo.
«Signora, seguitemi».
Era uno dei Diavoli: alto, ben proporzionato, abbronzato.
«Come mai?».
«Ginevra mi ha ordinato che nel caso in cui lei fosse uscita dalle mura, io avrei dovuto farvi da guardia del corpo fino al suo rientro. Questo è accaduto, perciò mi occuperò della vostra sicurezza».
La nana si accorse dell’incertezza della mezzana e con uno sguardo materno la incoraggiò ad alzarsi e a fidarsi dell’uomo.
«Signora, voi non potete restare qui: se quei vampiri entrassero dalla porta principale, vi avrebbero in pugno. Saliamo al piano di sopra».
A quanto pare non era destino che potesse seguire il combattimento. Non che volesse farlo per amore della battaglia o per soddisfare qualche sua sadica fantasia, voleva solo… starle accanto.
Ginevra poteva benissimo cavarsela senza di lei, ma poterla guardare mentre combatteva le faceva sperare che ogni pugno diretto a lei la mancasse; il piacere stava tutto lì, nell’attimo in cui Ginevra non veniva colpita dal nemico. Ma la sua amata sposa sembrava non volerle concedere nemmeno questo, così si sentì costretta a seguire la nana e il mercenario nella propria stanza.
 

 
 
«Mossa incauta la tua, contessina» disse uno dei tre sottolineando malignamente l’ultima parola.
Forse sperava di farle perdere le staffe ma aveva fatto male i suoi conti, perché Ginevra non mosse un dito.
Se ne stava in piedi al centro del triangolo formato dai tre uomini e, al contrario di loro, stava dritta in piedi anziché acquattata.
«Molto meno sconsiderata della vostra, bifolchi».
Uno di loro scattò in avanti ma lei si abbassò appena in tempo e nel rialzarsi gli sferrò un pugno allo stomaco che lo fece piegare in due, poi, mentre con un calcio gli mandò fuori posto la mascella, sorrise: davvero bastava una parolina innocente a farli arrabbiare?
“Due sono a posto, ma il pericolo non è passato. Almeno Elena è al sicuro in casa con uno dei Diavoli di Torino e Cerbero”.
Il ringhio gutturale del vampiro alle sue spalle l’avvisò del suo attacco e le permise di prepararsi: con un salto in aria invertì le posizioni, con un calcio lo fece cadere a terra e con il tallone gli spezzò un ginocchio con un rumore che avrebbe fatto accapponare la pelle anche ai più insensibili.
Ora ne mancava solo uno, ma quel codardo si mise a correre in aperta campagna.
“Non posso lasciarlo scappare… tempo due ore e mi troverei di nuovo sotto assedio!”.
Costretta dalle circostanze, Ginevra si mise a rincorrerlo nel buio: i suoi occhi non lo perdevano di vista e dopo neanche un minuto gli era alle calcagna.
«Fermati!» gli intimò «Ormai non puoi più scappare né nasconderti!».
Ghignò: poteva percepire la sua paura, poteva vederlo immobile in mezzo al campo di frumento mentre cercava una via di fuga inesistente.
Con una velocità sorprendente, il fuggiasco scattò alla propria sinistra verso un canale; con un salto lo superò ma Ginevra, prevedendo la sua mossa, lo afferrò per una gamba e lo sbatté al suolo con un tonfo sordo.
Prima che lui avesse l’opportunità di rialzarsi, lei lo prese per un braccio e gli spezzò la spalla strappandogli un urlo di dolore: si rotolava a terra e guaiva senza sosta come se non fosse stato un vampiro ma un umano.
Ginevra ne restò disgustata: si era scomodata a uscire per eliminare quella feccia? Avrebbe fatto meglio a lasciare il lavoro sporco ai mercenari.
“Voi siete il sudiciume su cui si basa l’impero: solo sudditi senza spina dorsale permettono ad un simile sistema di esistere e prosperare”.
Infastidita dai lamenti di quell’essere insulso, lo riempì di calci in faccia finché non udì un dente rimbalzare sui sassi che tempestavano terreno duro.
«Dimmi, putrido scocciatore» lo interpellò «Chi ha mandato voi quattro contro di me?».
«Nessuno» rantolò l’altro.
«Bugiardo!».
Lo colpì ancora con violenza schizzando di sangue l’erba secca.
«Vampiri di basso livello come voi non escono a caccia di quelli come me! Parla!».
«N-no».
Seguirono altri calci che gli sfigurarono il volto ma lui non aprì bocca, così Ginevra dovette passare alla persuasione.
«Nonostante tu sia un ratto di fogna confronto a me, sei pur sempre un vampiro. Se mi dirai chi ti ha mandato, ti ucciderò nel modo più indolore che esista. In caso contrario… sai bene cosa succederebbe» sussurrò con un ghigno divertito.
Lui abbassò lo sguardo, terrorizzato: aveva già sentito parlare di Ginevra e di come avesse eliminato certi mostri, non voleva fare la stessa fine.
«Ti conviene deciderti in fretta, perché se non mi perviene risposata, la intenderò come un rifiuto».
Lo sconosciuto venne colto da improvvisi tremori ma non rispose nulla.
«Allora cominciamo».
Con un sorriso pazzo concentrò la propria energia nel piede destro e lo calò con forza sulla caviglia del vampiro che però non si mosse.
“Cosa?!”.
Gli aveva staccato il piede e spappolato le giunture, non poteva non aver sentito niente.
“Ma… E’ morto!”.
Sollevandolo per il bavero della giacca vide chiaramente gli occhi rivoltati all’indietro e la bava che gli usciva dalla bocca mescolarsi al sangue sul suo volto.
Lo scosse e dalla bocca uscì un denso fiotto di sangue grumoso che le sporcò la mano fino al polso. Non era normale una cosa del genere. Non l’aveva nemmeno colpito allo stomaco.
Lo gettò a terra e dalla bocca e dalle ferite il sangue usciva copioso inzuppando la terra polverosa e raccogliendosi in piccole pozzanghere emanando un fortissimo odore ferroso.
Il corpo esanime del vampiro si rinsecchì in pochi secondi fino ad assomigliare a una mummia e quando Ginevra lo toccò con la punta della scarpa, la pelle quasi si polverizzò completamente.
Anche le ossa avevano perso la normale resistenza e si frantumarono sotto i suoi piedi come rametti secchi.
Ginevra si lavò in fretta la mano nell’acqua fresca e placida del canale eliminando ogni impurità.
“Devo tornare indietro, non posso assentarmi più a lungo”.
Colta da un sospetto, corse più veloce che mai alla villa e quello che vide la riempì di sgomento: il cancello era divelto, i corpi degli assedianti ridotti a fragili scheletri e i mercenari combattevano contro decine e decine di marionette di legno.
“Morgana!” pensò colma di rabbia.
Piccoli fuochi appiccati all’erba secca si espandevano verso la villa e alcune marionette picchiavano già alla porta.
L’odore di bruciato la colpì ancor prima di arrivare nelle immediate vicinanze e quello del sangue le si appiccicò addosso non appena entrò nel cortile disseminato di cadaveri di marionette.
«Prisco!» esclamò.
«Signora, ci hanno attaccato di sorpresa!» rispose lui menando fendenti a un manichino che lo attaccava «Le barriere si sono disattivate all’improvviso e loro sono entrati!».
Ginevra si voltò verso la porta pronta a intervenire ma enormi viticci uscirono dal terreno e avvolsero i corpi lignei degli assedianti.
Decine e decine di enormi piante rampicanti crebbero a dismisura in pochi istanti coprendo le pareti della villa e creando una solida barriera contro gli attacchi dei manichini; questi venivano stritolati fino a creparsi o a esplodere tra i tentacoli verdi spargendo attorno schegge e organi.
Quei maledetti pezzi di legno erano fin troppo familiari a Ginevra, doveva intervenire subito prima che causassero guai seri.
Poggiò le mani a terra ed espanse la propria energia magica che si diffuse attorno a lei sottoforma di cerchi concentrici azzurrognoli: il terreno tremò e dal sottosuolo emersero dei cadaveri dalla pelle nera e avvizzita.
Dalle loro bocche riarse uscivano respiri affaticati e rantoli animaleschi; camminavano lentamente ma inesorabilmente, sfidando i colpi degli assedianti che non avevano effetto sulle loro membra insensibili.
Le loro orbite prive di occhi cacciavano le marionette e le loro mani ossute le ghermivano senza lasciare via di scampo finché, con le braccia straordinariamente potenti, le riducevano a pezzi e ne ingoiavano gli intestini o qualunque altra parte organica.
Il rumore dei denti che masticavano senza sosta faceva da sottofondo alla battaglia assieme al clangore delle armi dei mercenari che affrontavano coraggiosamente anche più di un nemico alla volta.
«Prisco, potete farcela qui?».
«Signora, è il nostro dovere!» ribatté fiero «Voi andate!».
Lanciando un ultimo sguardo alle sue spalle Ginevra si fece spazio tra i viticci che si ritrassero docilmente al suo passaggio richiudendosi dietro di lei.
All’interno la casa era silenziosa e il rumore della battaglia arrivava attutito, ma le sue orecchie percepirono dei passi al piano superiore.
«Signora!» esclamò uno dei mercenari quando la vide apparire.
«Vai ad aiutare i tuoi compagni, qui ci penso io» ordinò.
«Subito!» e scappò all’istante.
Ginevra aprì la porta della camera di Elena e la trovò rannicchiata sul letto accanto alla nana che tentava di confortarla come poteva.
La vampira chiamò da parte la domestica e le ordinò di andare dal resto della servitù e di prepararsi a scappare, poi si dedicò alla ragazzina.
«Elena…».
«Padrona, sono tantissimi, ci uccider-».
«Taci!» la zittì bruscamente «Non devi più chiamarmi in quel modo! Ricordati che ora sei mia moglie! E che non ti veda più a farti consolare dalla servitù!».
«Ma-».
«Ma niente!» urlò adirata rovesciando il tavolino al centro della stanza «Adesso che sei la signora di questa casa non devi mostrare debolezze davanti ai servi!».
Il duro e improvviso rimprovero spaventò Elena che si rannicchiò ancor di più, timorosa di un ulteriore sfogo della vampira, sfogo che però non arrivò.
«Ora alzati» ordinò ansante «Dobbiamo fuggire».
Ginevra era estremamente seria: gli occhi di ghiaccio bruciavano di collera e i denti assassini si mostravano in tutta la loro letalità, lasciati scoperti dalle labbra arricciate.
Elena non l’aveva mai vista così, nemmeno la nefasta notte in cui Thauron aveva cercato di violentarla. Neanche quella notte il suo corpo androgino era così contratto dalla rabbia e i suoi pugni così stretti da  diventare bianchi.
Si alzò ubbidiente e si avvicinò timorosa alla vampira furente che però, contrariamente da quanto si aspettasse, non la redarguì ma le asciugò con il pollice una lacrima che stava per rigarle il volto.
«Elena» sussurrò alzandole il viso per incrociare il suo sguardo «Non morirai stanotte».
La ragazzina le poggiò le mani sul petto sentendo palpitare il cuore sotto il palmo della mano destra. E il cuore della vampira non era di certo l’unico a battere all’impazzata.
«Come fai a dirlo?».
«Il nostro patto prevedeva che io trovassi il vampiro che ha sterminato la tua famiglia, giusto? Non mi pare di averlo ancora fatto. Non posso infrangere un giuramento, perciò prima che una di noi due muoia, io devo onorare la promessa fatta».
«Ginevra…».
Non credeva che se ne ricordasse ancora, temeva l’avesse dimenticato.
«Mia sposa, ora dobbiamo andare» mormorò allontanandola da sé «I nostri soldati non potranno reggere ancora per molto».
«S-sì».
La seguì fino al pianterreno dove il rumore della battaglia era assai più forte e dove le piante rampicanti avevano invaso l’atrio per bloccare le marionette che erano riuscite a penetrare all’interno.
Una di queste si divincolava disperatamente come avrebbe fatto un essere umano e, prima di essere disintegrata dalla pianta, fissò Elena con un paio di imploranti occhi castani.
Erano lacrime quelle? La ragazzina non ebbe abbastanza tempo per rendersene conto perché gli occhi schizzarono fuori dalle orbite non appena un viticcio strinse la testa così forte da farla rompere come un uovo.
Elena ebbe un conato di vomito e se Ginevra non le avesse fatto strada fino all’esterno, certamente avrebbe rimesso sui resti sanguinolenti di quell’essere.
«Cerbero!» chiamò Ginevra «Cerbero! Vieni qui!».
Da dietro un mucchio di carcasse balzò fuori il cane a tre teste: uno dei musi laterali era ferito ma gli altri erano sani e aggressivi, ruggenti.
«Elena, sali in groppa, presto!».
Mentre la ragazza montava sul possente cane demoniaco, i servi uscivano di casa uno dietro l’altro, protetti da Lazzaro che aveva preso la sua forma di lupo e che si mostrava mortale anche con una sola zampa anteriore: tenendosi in equilibrio sulle posteriori, scaraventava a metri di distanza le marionette con forti zampate e quelle che si avvicinavano troppo finivano tra  i suoi denti.
«Signora, noi ci siamo tutti ma i cavalli sono stati uccisi!» gracchiò il nano domestico.
“Maledizione! Sarà più difficile…”.
«Andremo a piedi!».
Le fiamme si espandevano e ormai avevano raggiunto la villa che lentamente, assieme ai rampicanti magici, prese fuoco.
Il fumo era insopportabile per la maggior parte di loro e in molti dovettero coprirsi la bocca.
«Elena, metti questo davanti alla bocca e respira solo con il naso» disse porgendole un fazzoletto bianco e immacolato.
«Ginevra, i Diavoli di Torino?» domandò portandosi il fazzoletto al viso «Sono troppo pochi!».
«Lo so bene, per questo tu e gli altri ve ne andrete subito».
Senza lasciarle il tempo di obiettare, ordinò a Lazzaro di scortare tutti in un posto sicuro e di nascondersi.
«Ai vostri ordini, signora» ringhiò. Il muso allungato gli dava difficoltà nel parlare.
«Abbi cura di loro, soprattutto di mia moglie».
Con un inchino del capo, il licantropo asserì e guidò il gruppo verso il cancello, lasciato libero grazie all’opera dei cadaveri che divoravano le marionette senza sosta.
Ginevra non salutò Elena, ma i suoi occhi furono l’ultima cosa che guardò prima di lanciarsi nella mischia.
 

 

«Prisco! Rispondi!» lo chiamava ininterrottamente ma lui non rispondeva. Ormai temeva che fosse morto, ma per puro caso, guardando verso un cespuglio in fiamme, lo vide lottare contro un manichino assai più grande degli altri che aveva occhi e bocca umani, bocca che conteneva centinaia di aghi al posto dei denti.
Il nemico fece uno scatto in avanti per morderlo alla giugulare ma il mercenario fu più veloce e si scansò di lato, permettendo a Ginevra di allontanare con un calcio il gigante di legno.
«Signora!» esclamò sorpreso «Cosa ci fate qua? Dovete fuggire!».
«Taci! Io non scappo, dovresti saperlo!» ringhiò.
All’ammonimento severo, seguì un sorriso orgoglioso che riempì di coraggio anche il mezzo-demone. Con Ginevra in campo, anche gli altri sarebbero stati spronati combattere con fierezza.
«Raggruppa gli altri, dobbiamo agire insieme se vogliamo vincere!».
«Ai vostri ordini!».
Sfruttando un misterioso potere che solo i Diavoli di Torino avevano, li richiamò a sé. Era come un richiamo mentale o forse una specie di impulso, fatto sta che raggiunse tutti i mercenari che in pochi attimi si trovarono lì. Venivano rincorsi dalle marionette ma queste erano bloccate dai cadaveri ambulanti che le afferravano e non le lasciavano più andare; alcuni erano ormai senza gambe a causa degli scontri, ma si trascinavano sulle braccia e continuavano imperterriti la loro marcia in cerca di carne da mettere nelle bocche senza labbra.
«Diavoli, dobbiamo eliminare tutte le marionette ma per farlo dobbiamo restare uniti o verremo sopraffatti!».
«Obbediamo!» esclamarono in coro.
«Create un cerchio e attaccate solo i manichini che vi stanno davanti! Io penserò a spegnere le fiamme!».
«Agli ordini!».
Mentre loro si occupavano degli assalitori, lei intervenne sulle fiamme che però non accennavano a smorzarsi neanche con gli incantesimi magici più potenti; la leggera brezza notturna sembrava nutrire le lingue di fuoco che scoppiettavano rumorosamente man mano che consumavano i viticci e disperdevano scintille roventi che sembravano migliaia di piccole stelle.
“Questa è opera di Morgana, non c’è modo di fermare l’incendio” rimuginò “Della villa non mi importa molto, ma devo mettere al riparo i miei oggetti più preziosi!”.
Camminò tra le fiamme che intaccarono subito gli orli dei suoi vestiti ma che non ustionarono la sua pelle, poi si fece largo tra i rami aggrovigliati all’interno della villa, i quali bruciavano già. Spezzava i rami carbonizzati alzando polvere fuligginosa che veniva inghiottita dalle fiamme nel tentativo di raggiungere il piano superiore: non poteva permettere che i suoi tesori venissero distrutti, senza di essi sarebbe stato impossibile ricrearsi un’altra vita lontano da lì.
Documenti, monili, libri… doveva fare in fretta.
Scardinò la porta dello studio colpendola con il palmo della mano e arraffò velocemente tutti gli oggetti che le capitavano sottomano tenendoli tra le braccia.
“Più di così non posso salvare” si rese conto amareggiata “Ma queste sono le cose più importanti”.
Ridiscese le scale evitando le vampate di calore che avrebbero potuto danneggiare i preziosissimi libri che reggeva, poi deviò verso le cucine.
Nascosta sotto il pavimento, c’era una botola che portava in una specie di seminterrato umido e odoroso di muffa. Decisamente piccolo e buio, ma per quelle poche cose andava più che bene.
A mani nude scavò una buca sotto lo strato di cemento grezzo che faceva da pavimento, ripose gli oggetti in una cassetta di legno e la sotterrò prima di risanare la pavimentazione con un incantesimo.
“Che la morte possa cogliere gli sciagurati che oseranno curiosare da queste parti”.
 
 


 
«Signora!» esclamarono i Diavoli di Torino non appena la videro uscire dalle fiamme «Abbiamo ucciso tutte le marionette!».
«Eccellente, adesso possiamo andare!».
Batterono in ritirata, sapendo che quando fosse finito l’incendio sarebbero tornati, se non per viverci, almeno per eliminare ogni traccia del loro passaggio e raccogliere ciò che fosse rimasto.
Si diressero nel buio della campagna rischiarato dall’enorme rogo crepitante ma appena un centinaio di metri oltre le mura, vennero assaliti da altri manichini: alcuni spuntarono davanti a loro marciando ordinatamente, altri emersero da un piccolo canale d’irrigazione ricoperti di fanghiglia, molti apparvero da una macchia d’alberi che delimitava alcune proprietà.
All’improvviso Ginevra percepì la loro energia, rimasta nascosta fino a quel momento e non ebbe bisogno di girarsi per capire che erano completamente circondati.
“Un’imboscata!”.
«Diavoli, come abbiamo annientato gli altri annienteremo anche questi! Attaccate!».
All’unisono i mercenari si lanciarono contro i nemici menando fendenti per aprire un varco, ma feriti e decisamente in inferiorità numerica vennero fagocitati dalla massa di manichini che li accerchiarono singolarmente allontanandoli gli uni dagli altri.
Ginevra, intanto, decimava i nemici a velocità sovrannaturale distruggendoli con una potenza tale da spargere i loro resti semi-umani tutt’intorno in un cerchio di sangue e membra; l’eccitazione della battaglia le dava energia infinita, la spingeva a uccidere nemico dopo nemico, la caricava di un macabro desiderio di sangue e morte.
Sorrideva, Ginevra, divertita da quel bagno di sangue come non ne vedeva più da tempo; sentiva il cuore massacrarle il petto, l’odore del sangue marcio che scorreva in quei fantocci la disgustava terribilmente ma allo stesso tempo l’aveva inebriata come un alcolico troppo forte che poi causa dipendenza.
E lei non aveva alcuna intenzione di opporre resistenza all’effetto di quel liquore maledetto.
Trascinata dalla battaglia non si accorse nemmeno che il sangue che ricopriva il campo di battaglia si raccolse in un cerchio perfetto tutt’attorno a lei e che all’improvviso divenne totalmente nero. A causa dell’oscurità e dell’enfasi dello scontro nemmeno i bagliori violacei che questo liquido putrescente emanava la distrassero.
Si accorse che qualcosa non andava solo quando tutte le marionette indietreggiarono uscendo dal cerchio ma ormai era troppo tardi.
Venne colta da giramenti di testa e forti fitte all’occhio sinistro: tutto cominciò a girare, la vista era annebbiata e distorta; i rumori arrivavano attutiti e rallentati, poi perse sensibilità alle gambe e cadde.
L’ultima cosa che sentì fu l’odore della terra umida del proprio sangue.
 
  
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