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Autore: Margarinas    25/04/2015    1 recensioni
Dal primo piccolo capitolo:
Già, perché quello, lo sapevo benissimo, era un buco nero senza fine da cui non riuscivi ad uscire mai. Mai. Nemmeno con tutto l'aiuto del mondo, una parte di te ci sarebbe rimasta dentro per sempre.
Fumo, droga, alcool. Un circolo vizioso destinato a ripetersi. Ecco che cosa deve affrontare Elisa il fatidico giorno del 19 maggio. Ripercorrerà il suo percorso, dal giorno in cui conobbe Elena, il suo sole; fino al giorno della sua prima volta e a quella della sua disintossicazione.
Elisa vuole smettere, ma come fare se non si può cancellare una data dal calendario?
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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 Veloce. Veloce. Dovevo essere veloce.
 Poco dopo esser uscita dal parco densi nuvoloni neri si erano concentrati sopra la mia testa e in men che non si dica un immenso acquazzone si era riversato giù, sulla strada, sugli alberi, sui palazzi e su di me. Dopo pochi minuti ero completamente fradicia.
 I capelli bagnati mi si appiccicavano sulle guance e ad ogni passo le mie scarpe si inzuppavano sempre più. Ero vestita leggera, perciò tremavo anche dal freddo. Un freddo pungente, terribile, mi entrava fin dentro le ossa.
 Ma non era solo il freddo a farmi tremare. Con le mani incrociate sul petto, cercando di riscaldarmi il più possibile, ero finita con il schiacciare ancor di più il piccolo sacchetto che tenevo dentro al reggiseno. A farmi tremare era il pensiero di ciò che stavo per fare. Di ciò che ero convinta a fare, dopo aver promesso, ai miei genitori, alla gente che conoscevo, ma soprattutto a me stessa, di non farlo mai più.
 Eppure eccomi lì, a camminare di sera sotto la pioggia, da sola per i fatti miei, con una bustina di eroina nel reggiseno. Mi maledissi più e più volte quella notte, perché ero una stupida. Ed ero stata una stupida già molto tempo prima.
 Cominciai a correre, d'apprima lentamente, poi sempre più volece per arrivare a casa, la mia vecchia casa, la casa dove avevo iniziato. Era stata la casa di mia nonna, fino a che non era morte e poi mi ci ero trasferita io, finite le superiori. La vita da indipendente, a quei tempi, mi sembrava la cosa più bella del mondo. Andavo e venivo quando mi pareva, facevo quello che volevo, anche se c'era la scocciatura del farsi da mangiare e rifarsi il letto la mattina, ma presto mi ci ero abituata.
 E avevo trovato anche una routine. Lavoravo a giorni alterni, in una piccola casa editrice di scrittori emergenti, prendendo un discreto stipendo che mi permetteva di mantenermi egregiamente. La sera frequentavo un corso serale di primo soccorso, così da tenermi occupata. Invitavo amici e parenti da me ogni sabato sera e avevo deciso perfino di comprare una tartaruga per tenermi compagnia.
 Avevo conosciuto Elena al supermercato, così, per caso. Era un pomeriggio nuvoloso, e ne avevo approfittato per uscire a rifornire il frigo. Dopo aver finito la spesa mi ero diretta verso la cassa e mentre, per i fatti miei stavo mettendo la lattina di piselli nella borsa, uno strillo aveva catturato la mia attenzione.
 La cassiera teneva in mano un barattolo di purea di mela, una cosa che adoravo mangiare fin da piccola. Lei mi guardava sorridendo con quei luminosi occhi azzurri. Anche io avevo sorriso.
 «Lo mangio anche io!» aveva detto con la sua voce squillante. «Lo adoro!»
 E da lì, giorno dopo giorno avevamo iniziato a parlare, da un «Ciao» a un «I budini alla vaniglia sono scontati» eravamo passate ad una vera e propria conversazione. Non sapevo nemmeno come definirla, a quel tempo. Non era una mia amica, eppure quando nel nostro piccolo supermercato la incontravo per i corridoi o alla cassa le raccontavo alcune cose, non importanti ma interessanti, e a quel tempo, lei, non era nemmeno una conoscente sporadica.
 Non sapevo nemmeno il suo nome. La sua targhetta, appesa alla camicia da commessa, recava due semplici iniziali: E. B. Non mi ero mai soffermata troppo su come si chiamasse, mi piaceva come persona per le cose che diceva, come le diceva. Aveva un sacco di storie da raccontare, divertenti a volte, altre tristi, altre ancora senza un finale, perché, come appresi in seguito, ad Elena non piacevano i finali.
 E poi un giorno, mentre mi accingevo a prendere un vasetto di miele dallo scaffale in alto, mentre lei accovacciata a terra metteva a posto i succhi di frutta, interruppe il mio discorso.
 «Ti va di prendere un caffè più tardi?» fu quasi costretta ad urlare, per superare il mio poderoso timbro di voce, un po' roco.
 Sul subito rimasi spiazzata dalla sua domanda, e senza pensarci accettai. In effetti non c'era molto da pensarci, ci conoscevamo da settimane e io mi trovavo bene in sua presenza e per lei era lo stesso. Dal basso mi aveva sorriso, poi con un veloce cenno del capo era sparita, dicendomi di aspettarla fuori. E così avevo fatto, senza domande. Con la mia spesa in mano l'avevo vista uscire con un paio di jeans logori e una maglietta sgualcita di varie tonalità di rosso. Per guarnire il tutto, una sciarpa legata intorno al collo con un nodo. Ero scoppiata a ridere vedendola.
 Poi mi ci ero abituata. Il suo look, così sbarazzino, era molto spesso ripetitivo, ma mai stancante. Indossava spesso quella maglietta rossa e potevi vedergliela addosso anche due volte a settimana, ma Elena era così... così Elena, da farti dimenticare tutto il resto di lei, se non la sua voce, mentre ti stava parlando, o i suoi occhi, mentre ti stava ascoltando.
 Il primo pomeriggio passato insieme fu diverso da quelli passati nel negozio. Fu più intimo. Lei mi raccontò di sè, solo l'essenziale, solo quello che basta per non dire troppo e al tempo stesso non dire poco. Elena aveva questa dote naturale di affascinare le persone.
 Da quel giorno la considerai un'amica. Cominciammo ad uscire insieme, lei mie presentò i suoi amici e mi raccontò sempre più di sé. Mi raccontò della sua infanzia disturbata, dei maltrattamenti subiti dal padre, di quando a diciassette anni era fuggita e si era ritrovata senza un soldo e con un abbonamento della metro scaduto. Mi raccontò di come aveva conosciuto Aurora che le aveva offerto un tetto per dormire e le aveva trovato un lavoro.
 Quando Elena raccontava i suoi occhi si riempivano di un'antica tristezza, che nemmeno io avevo mai provato prima. Rimaneva lì, seduta sulla terrazza di casa mia a fumare una sigaretta dopo l'altra, con lo sguardo rivolto verso il sole al tramonto. I capelli neri oscillavano lentamente seguendo il ritmo del vento. E io rimanevo lì, a fissarla, ad ascoltarla perché altro non si poteva fare.
 Elena non aveva bisogno delle solite parole idiote di conforto, lei aveva bisogno di essere ascoltata. Così avevo fatto per giorni e giorni, guardando il tramondo, rimanendo in silenzio fino a che pure lei aveva smesso di parlare e il silenzio aveva riempito quei giorni. Con un sorriso, spegnendo l'ultima sigaretta, alzandosi dalla sedia rumorosamente, non era entrata in casa ad armeggiare con il mio antico bollitore.
 Ogni volta io ero rimasta lì, con una sigaretta in mano, respirando il suo fumo piano piano a vedere il sole morire, pensando. Elena era entrata nella mia vita come un raggio di sole solitario in un giorno di pioggia. Da quel momento Elena aveva illuminato i miei giorni, ad uno ad uno. Perché lei era stata il mio sole, e io le ruotavo intorno perché senza avrei finito con il morire. Era entrata nella mia vita come un uragano, strappandomi dalla noiosità con cui mi stavo circondando, trasformandola in una cosa migliore.
 Lei era il mio sole e per quel periodo, fui convinta, che sarebbe stato così per sempre.
 Arrivai sotto al portone del mio ex appartamento con il fiatone. Completamente fradicia, rovistai nella borsa in cerca delle chiavi che avevo sgraffiniato dal cassetto in camera dei miei. Aprii la pesante porta così famigliare ed entrai. La luce si accese non appena avvertì un movimento, presi l'ascensore e salii al quinto piano.
 Cominciai a svestirmi già prima di aprire la porta di casa. Odorava di chiuso, nonostante mio fratello ci avesse passato un weekend solo una settimana prima. Buttai i vestiti bagnati per terra e in intimo raggiunsi la terrazza. Tirai su la tapparella e spalancai le porte a vetri. L'aria fredda mi graffiò il viso, ma non ci feci caso. Camminai meccanicamente fino alla camera da letto.
 Entrai ed accesi la luce. Il letto era ancora lì, dove l'avevo lasciato l'ultima volta, solo con una coperta diversa. Nulla era cambiato se non che tutti i miei oggetti erano spariti. Aprii l'armadio e presi le prime cose che mi capitarono a tiro, vestiti puliti di mio fratello che teneva qui per ogni evenienza.
 Mi sedetti sul letto, tirando fuori il sacchetto e poggiandolo sul comodino. Nello stesso posto dove avevo appoggiato il primo sacchetto la prima volta. Andai a prendere la borsa in salotto e tornai in camera. Tirai fuori tutto il vecchio occorrente che ero riuscita a nascondere prima che mi portassero a disintossicarmi. Non sapevo nemmeno perché l'avevo fatto, forse ero troppo strafatta per fare qualcosa di lucido o forse l'avevo conservato per un'occasione come questa.
 Mi accorsi, però, di aver dimenticato l'accendino. Cercai ovunque, ma non lo trovai. Dovevo averlo, per forza, dimenticato da Nik. Imprecai infuriata. Non potevo tornare da Nik a quel punto. Rimasi dieci minuti a fissare il soffitto dopo essermi distesa sul letto. A pensare a niente, solo, a fissarlo.
 Ricordai. Il doppio fondo del mio cassetto. Lì, ci avevo messo un accendino, appunto, per le emergenze. Mi alzai di scatto e aprii il cassetto. Se mio fratello non lo aveva scoperto, sarebbe andato tutto bene. Alzai il doppiofondo e lo trovai. Lo presi in mano stringendolo forte.
 Non avevo più aperto quel doppiofondo dal 18 maggio di due anni prima. Come potevo saperlo? Non mi era neanche passato per la testa di provare a controllare in casa mia, non... non ci avevo pensato. Che stupida che ero stata! Mi schiaffeggiai da sola quando sentii le guance rigarmisi di lacrime. Era sua, per forza. Chi altri poteva fare una cosa del genere?
 Presi il pezzo di carta ripiegato accuratamente tra le mani. Aprii la lettera con piccoli e lenti movimenti, per paura. Di cosa non lo sapevo. Ormai non sapevo più niente. Tirai fuori i fogli bianchi riempiti di parole, di inchiostro scuro, nero. Riempiti di lacrime, qua e là, dove l'inchiostro era visibilmente sbavato.
 Lessi la prima riga e un singhiozzo mi strappo il respiro. Singhiozzai ancora e ancora, fino a che, non ebbi paura di aver cancellato ogni parola con le mie lacrime. Mi ripresi quel tanto che bastava per riuscire a leggere.
 E lessi.
       "Casa tua, 18 maggio. Ore 23.34
Cara Elisa,
ti scrivo questa lettera per...




Perdonate, di nuovo, gli errori ortografici, sono stata sveglia tutta la notte, ieri, e adesso sono un po' tanto stanca... perdonatemi.
All'inizio avevo strutturato questa storia un po' diversamente, ma poi mi sono accorta che sarebbe venuto tutto molto meglio in questo modo.
Ho parlato di Elena in questo capitolo, perché volevo far capire come e chi fosse e cosa contasse per Elisa.
Il prossimo capitolo sarà interamente dedicato alla lettera, quindi credo che sarà un capitolo corto.

Le recensioni sono bene accette, buona lettura.
-Marga, frabbricante di biscotti al burro.

Ps. ho guardato la settima stagione di Doctor Who, ieri notte. Reduce dalla rigenerazione di Eleventh, "GERONIMO"!
Capitemi...
  
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