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Autore: sof_chan    30/04/2015    2 recensioni
Ho in mano da pochi giorni il libro “Aceri e Amore: cento poesie di cento poeti giapponesi”
Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di Chihayafuru?
E del Karuta?
Bene!
Scopo della mia raccolta? Fornirmi di queste poesie per parlare di Zoro e Nami!
Sarà un'impresa ardua (e soprattutto lunga) ma spero di farcela.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nami, Roronoa Zoro, Un po' tutti | Coppie: Nami/Zoro
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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#3 Nell’angoscia

Nagete tote

Tsuki ya wa mono o

Omowasuru

Kakochigao naru

Waga namida kana

 

Nell’angoscia

è alla luna

che penso:

forse il suo volto incolpo

per le mie lacrime.

 

Le lacrime solcavano silenziose quel volto chino di donna carnefice e vittima.

Scendevano lente lungo il profilo contratto, intrappolandosi acerbe tra le labbra serrate, per poi ricadere, arrendevoli, nella bacinella d’acqua ghiacciata.

Una lacrima, poi un’altra, e un’altra ancora, a disperdersi insieme annullando quella trasparenza, impregnandosi di quel rosso cremisi che con tenacia beffarda non voleva andare via.

Stringeva tra le mani la maglia bianca di Zoro, macchiata di sangue.

E restava immobile Nami, lo sguardo spento e consumato da quella ferita, la mente annebbiata dal sangue che perdeva solo vivacità ma restava ben visibile, si ergeva indisturbato proprio come un giudice severo pronto a dar sfogo alla condanna.

E i raggi di luna, così candidi e schietti, si posavano dolcemente sull’acqua sporca, evidenziando con subdola ferocia il gesto infido che aveva aggiunto un altro inutile solco su quel corpo già provato da infinite battaglie.

Tutta colpa della luna.

Di quella luna ingannevole, spietata e disonesta come una donna.

Ladra di sogni e portatrice di desideri che non possono essere sussurrati.

Luna che mostra il sentiero, ma risparmia consigli sui pericoli della strada che lei stessa ti porta a percorrere.

E la luna si era affrettata quella sera nel mostrare il suo lato oscuro, quello d’incantatore delizioso che sveglia la pazzia, incalza i gesti e i respiri sopiti.

Nami come una bambina, come una stolta egoista ed esigente mocciosa, si era lasciata afferrare da quell’astro celeste.

 

L’aveva osservato per parecchio tempo dalla finestra della cucina, attento e vigile mentre si apprestava alla cura delle sue katane.

Era là, seduto sul ponte della nave immerso tra i raggi silenziosi che propagavano, con infinitesimale accuratezza, ogni singolo suo gesto.

E lo guardava Nami, senza riuscire ad immaginare cosa potesse passare nella testa di un ragazzo come lui. A volte le veniva persino voglia di staccargliela quella testa verde e scuoterla per bene, per sentire che rumore facesse. Ma ormai conosceva Zoro, sapeva benissimo il mondo racchiuso in ogni parola non detta, la risolutezza e la dedizione di ogni suo ghigno mal celato.

E grazie alla luna quella sera si vedeva come in pieno giorno, e in quell’armonia dei suoi gesti c’era una vibrazione che conquistava il cuore. Quella folle danza fatta di carta di riso piegata tra pollice e indice, quel dolce tintinnio di panno imbevuto di olio di garofano passato sulla lama limpida, aveva rapito la cartografa.

Tuttavia, mentre si lasciava cullare in silenzio da quei movimenti, qualcosa in quelle movenze cominciò a procurarle un senso di disagio, rendendole difficile il respiro, come se della polvere andasse a infiltrarsi tra le vie respiratorie. Lentamente ma con regolarità, fino a soffocarla.

Lo sguardo di Zoro era cambiato, era dolce e gentile mentre impugnava la compagna bianca. Sorrideva… Un sorriso semplice e genuino, di quelli caldi e casti. E accarezzava piano quella katana, come un uomo che stringe, che bacia protettivo il suo amore. E quei gesti ardevano negli occhi nocciola della rossa che pregava, affascinata da quell’immagine donatagli dalla luna, implorava per una  -breve ed effimera- carezza, labile e fuggevole come l’ultimo volo di una farfalla.

Tristezza.

Mentre carezzava con le dita il vuoto dai contorni umani che le era rimasto nell’aria si sentiva terribilmente triste. Come se un’ingiustizia le avesse tolto qualcosa di importante e sconosciuto.

Continuava ad osservarlo mentre indossava la sua fedele compagna, facendola roteare con destrezza diverse volte nella mano. Poi all’improvviso l'uomo, come se prendesse mira con una pistola, chiuse un occhio e puntò la spada contro la luna. I raggi lunari, riflettendosi sulla lama, per un attimo illuminarono il suo profilo. Nella luce del plenilunio la lama sembrava un germoglio di ciliegio, capace nella sua semplicità perfetta di spaccare la superficie del suolo. Quel loro rapporto era qualcosa che, con ogni probabilità, connetteva il nulla con il tutto. Si muoveva con lentezza e dava fendenti nell’aria notturna. Non c’era nulla che ostacolasse i loro movimenti, la notte era profonda, il tempo era flessibile. Una profondità e una flessibilità che la luce della luna esaltava. Con lei era diverso! Lei, quella katana bianca era diversa! Quando la maneggiava portava il suo stesso essere con una naturalezza e una grazia particolari. Come un uccello che prende il vento verso un altro mondo. Sembrava quasi che l’uno venisse a colmare una mancanza dell’altro, e viceversa.

 

Rabbia, gelosia, amarezza.

Travolta da quest’imprevedibilità di sentimenti la ragazza si mosse, portando avanti i suoi passi succube di una sensazione strana, mai provata. Come se non fosse neppure lei stessa. Non lo era, era un’altra che aveva trovato comodo prendere il suo aspetto decisa a metter fine a quell’incontro di anime sovrumane. E la sua coscienza no, non s’era accorta e per sbaglio l’aveva seguita.

E sì… Era proprio in un grosso guaio la sua coscienza.

Arrivò dietro lo spadaccino, passi lenti e silenziosi, proprio da abile ladra quale era. Con un gesto istintuale prese in mano la Wadō Ichimonji appena posata dall’uomo.

 

E correva, correva come una vittima che sfugge all’assassino.

Come una mocciosa che giocava a nascondino.

Come un topo che accelera per non essere divorato dal gatto.

Un folle passatempo il suo, reso ancora più illecito dalla consapevolezza che non era la preda. Perché le grida di Zoro che quasi imploravano l’arresto non erano dirette a lei.

Lui non rincorreva le sue ciocche ramate, non voleva afferrarla.

Non la stava rincorrendo, no!

Lui avrebbe per sempre inseguito quella maledetta spada, unica testimone del suo passato da difendere.

Entrò in libreria la rossa, sicura di aver fatto perdere momentaneamente le sue tracce.

Si guardò intorno e prese finalmente la decisione.

Ma mentre, cercando di restare in equilibro sulla sedia, adagiava la katana tra i libri in alto allo scaffale fu sorpresa dalla porta sbattuta con violenza.

Fu un attimo, quell’istante breve ma essenziale per scorgere negli occhi di Zoro una rabbia mai vista. O forse era delusione?

La sedia scricchiolò e la presa salda al manico venne meno.

Non cadde a terra.

Non venne ferita da quell’oggetto tagliente che fino a poco prima cadeva dal ripiano puntando verso il suo viso.

Sentiva un braccio reggerla con forza e, aprendo gli occhi, vide la mano grande e sanguinante dello spadaccino che stringeva la lama senza fodera.

Il sangue scorreva copioso.

Una ferita, un’altra cicatrice.

Ed era stata sua la colpa.

Non c’erano state battaglie, nessun marine ad attaccare la nave. Nessuno scontro con occhi di Falco, nulla di tutto questo.

Lei lo aveva macchiato col suo stupido egoismo.

L’oggetto rubato fu subito accolto dal legittimo proprietario che, con estrema urgenza, lavò via la striscia di sangue che colava dalla lama d’argento. L’aveva pulita con la sua maglia bianca.

Bianca come il suo spirito puro.

Ora rossa di un peccato altrui.

 

Silenzio.

 

Frammenti di parole vagavano nell’aria, quasi le fossero stati strappati. Voleva urlare, chiedere scusa, implorare quegli occhi scuri e fermi su di lei. Ma all’improvviso le frasi erano svanite. Era stata come defraudata da quelle labbra serrate e quello sguardo deluso, quelle iridi tradite che sembravano poter trapassare la membrana opaca.

E quello stesso silenzio fu interrotto dai passi pesanti dell’uomo che andava via, lontano. Portando via con sè la sua unica alleata.

Aveva fatto qualcosa di veramente brutto. Imperdonabile!

 

 

La luna era alta nel cielo.

La sua candida luce beffeggiava la ragazza.

L’aveva illusa, l’aveva manipolata.

E la ragazza era ancora là, a piangere lacrime rosse.

Il suo era un volto spento, tra le mani continuava a stringere quella maglia che proprio non voleva nascondere il suo peccato.

-Mocciosa! Guarda che non si lava da sola. Se continui a stare ferma, imbambolata a contemplare l’acqua del rubinetto, di certo io non avrò la maglia pulita!

Si, era proprio una mocciosa. Gelosa dei giocattoli altrui. Invidiosa di un oggetto.

Mocciosa!

 

Le si affiancò, prendendo il pezzo di stoffa macchiato e immergendolo nell’acqua sporca.

Lei finalmente alzò lo sguardo, dai suoi occhi traboccò un’altra lacrima che in meno di un secondo le scivolò lungo la guancia e cadde con un piccolo tonfo sul pavimento. A quest’ultima ne seguì un’altra, poi un’altra ancora.

All'improvviso il calore di un abbraccio.

Pianse in silenzio, macchiando di mascara la camicia del samurai. Con la mano sinistra lui la sorreggeva, con la destra le accarezzava i capelli e in quella posizione aspettò a lungo che smettesse di piangere.

-Andrà via, buzzurro?

-Certo che andrà via. Scomparirà fino a non vedersi più.

Lei si strinse ancora più forte in quell’abbraccio, cercando il calore e la protezione che fino a qualche ora prima erano destinati alla Wadō Ichimonji.

Poi guardò la luna sorridendole di rimando.

Perché, si sa, la luce della luna ha questa capacità, far vedere a volte l’invisibile.

   
 
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