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Autore: Nina Ninetta    30/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6
Sono solo ali e piume
 
Yumiko sollevò le palpebre una volta, le richiuse, se le stropicciò con i pugni e le riaprì definitivamente. Era distesa di lato sul divano, Macchia se ne stava accoccolata ai suoi piedi, alzò la testa per scambiare uno sguardo con la padrona, la quale le concesse una lunga carezza, mentre le immagini del sogno che aveva fatto prendevano forma nella propria mente. Aveva sognato Joacquin Morales, non che fosse una novità, certo, la cosa strana è che si era rivolto a lei con un’espressione felice. Da quando il suo innamorato era passato a miglior vita, Yumiko l’aveva sempre sognato triste, spesso seduto in un angolo a piangere, senza che le sue consolazioni potessero aiutarlo. Lo vedeva con la testa fra le mani a gemere come un bambino, mentre le diceva che se voleva veramente aiutarlo doveva smettere di soffrire. Yumiko non credeva nei sogni, ma la sua okaasan, sua madre, aveva insistito per andare a rendere omaggio ad una vecchia cieca che si diceva parlasse coi morti. Così la donna cieca, ma che sapeva riconoscere una banconota da diecimila yen da una di mille solo odorandola, le ordinò di smetterla di disperarsi per la morte del suo fidanzato, o lui non avrebbe potuto riposare in pace e, soprattutto, che avrebbe dovuto iniziare a prendersi cura di sua figlia, senza provare vergogna alcuna. La vecchia usò parole meno chiare e decisamente più criptiche, definendo Joacquin Morales “l’amore venuto dal sud” e sua figlia Eri “la tua meticcia”. Yumiko provò a dare ascolto ai suoi consigli e le cose migliorarono, seppur dopo diverso tempo. Ora Joacquin le aveva sorriso, avrebbe dovuto farle piacere, tante volte aveva immaginato il momento in cui lui le avrebbe rivolto di nuovo un sorriso, ed invece provava un’enorme vuoto dentro.
Il cellulare vibrò e vide lampeggiare sul display la bustina di un messaggio ricevuto: Eri la informava di non preoccuparsi, l’avrebbe riaccompagnata a casa la sua amica. Allora Yumiko le scrisse per chiederle come sarebbe tornata, non le piaceva il fatto che se ne andasse a zonzo dopo il tramonto. Eri la tranquillizzò rispondendole che sarebbe tornata in macchina. “Chi guida, scusa?” continuò Yumiko intanto che iniziava a prepararsi per il lavoro. “La mamma, mi pare ovvio! Buon lavoro … sorellona” Yumiko lesse e scosse il capo. Sorellona, come no! Aveva proferito quella bugia inutilmente e anche ingenuamente, figuriamoci se uno come il suo capo potesse interessarsi ad una ragazza più vecchia di lui e … scialba. 
La donna si guardò allo specchio, gli occhi allungati erano contornati di nero, le guance appena colorate di rosa, le labbra lucide. Cercò e trovò il mascara, pensò che un altro po’ di colore e volume alle ciglia non avrebbe guastato, quindi si sistemò la frangia con le dita, spazzolò i capelli lunghi fino alla base del collo e lanciò un’ultima occhiata generale. No, se fosse stata un uomo non si sarebbe neanche presa la briga di voltarsi per osservare una come lei. Da quella famosa notte in cui Ricardo Salas si era presentato, era stata sempre più accorta al trucco e all’abbigliamento che indossava per andare a lavoro, nonostante lì avesse dovuto mettere la divisa da coniglietta. Tuttavia non l’aveva più rivisto. Neanche di sfuggita, neanche per sbaglio. Avrebbe potuto chiedere ad Oscar, la drag queen, e spesso si era dovuta morsicare la lingua per non farlo. E non l’aveva fatto.
Prima di uscire di casa scrisse un post-it per Eri, in cui la informava che c’era del riso scaldato e verdura cotta al vapore nel microonde, quindi lo appiccicò fra le calamite sull’anta del frigorifero. Riempì la ciotola di Macchia con i suoi croccantini preferiti, abbondò con l’acqua e uscì.
 
Oscar si accomodò sullo sgabello dinnanzi a Yumiko, chiedendole un “bicchierino”. Con un sorriso comprensivo la donna gli versò un po’ di Jack Daniel’s, ma lui ne chiese di più e lei obbedì, sporgendosi in avanti, puntellandosi sui gomiti adagiati alla superficie del banco:
«Allora nii-chan, serataccia?!» il suo “fratellone” Oscar la guardò fra sopracciglia finte e piume viola che gli cadevano davanti al volto dal cappello che teneva in testa, quindi sospirò:
«Le nuove ballerine non sanno neanche sculettare, così perderemo i clienti e a quello lì pare non fregargliene niente»
«Quello chi?» chiese Yumiko senza smettere di sorridere. Oscar si scostò leggermente di lato e lei vide un gruppo di persone sedute intorno ad un tavolo. C’erano soprattutto ragazze giovani e avvenenti - Yumiko ne contò cinque . Nonostante la luce soffusa, non era difficile immaginarle con addosso le vestaglie di seta bianca del night club che indossavano a fine serata per nascondere le loro nudità, fare il giro della sala salutando i clienti più importanti o quelli nuovi, invitandoli con smancerie a non perdersi l’esilarante spettacolo della sera successiva. Fra queste fanciulle era impossibile non accorgersi di lui e, manco a dirlo, quando Yumiko lo vide smise di sorridere. Oscar ingollò in un solo colpo il liquore e posò il bicchiere sul bancone producendo un colpo secco. Storse il muso per il sapore forte e amaro, dalla trachea il senso di bruciore si diffuse fino allo stomaco:
«Guardalo! Si diverte come se non rischiasse di essere fatto fuori dagli altri!»
Ricardo Salas si voltò verso di loro, quasi si sentisse osservato. Sorrise di sbieco all’amico, quindi posò gli occhi sulla barista, la quale prontamente distolse lo sguardo, imbarazzata. Oscar gli fece un cenno con il capo prima di tornare a studiare Yumiko e la sua reazione. La vide fingere di essere occupata a lavare il bicchiere che gli aveva servito, il viso era completamento oscurato sotto la frangia. Oscar aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò, allora diede un paio di colpetti sulla superficie di linoleum del banco a mo’ di saluto e Yumiko si sforzò di sorridergli:
«Stai attenta, tesoro. Solo questo: stai attenta» disse allontanandosi sotto lo sguardo perplesso di lei che, come una calamita attratta dal ferro, si ritrovò ad osservare nella direzione in cui era accomodato il suo datore di lavoro. Lui la stava già scrutando. Di fronte a quello sguardo incalzante e sfrontato Yumiko si sentì le gambe molli, le mani immobili a tenere il bicchierino che, riempiendosi d’acqua sotto il getto della fontana, creava una specie di brutta fontanella. Solo quando Ricardo abbozzò un sorrisino Yumiko si decise a chinare la testa e chiudere il rubinetto.
Gli diede le spalle e asciugò il bicchiere con uno straccio, riponendolo dove l’aveva preso. Si obbligò a riassettare il suo lato di bar senza alzare gli occhi da quello che era impegnata a fare. Forse trascorsero secondi, forse minuti, fatto sta che udendo la sua voce così vicina la donna giapponese sobbalzò:
«Si?!» chiese semplicemente Ricardo. Aveva l’aria di uno che se la spassa alla grande:
«Pr-prego?» continuò Yumiko, sbattendo le palpebre un paio di volte
«Ho notato che mi stai osservando da po’ …» il tono di lui era basso e tranquillo, non lasciava trasparire alcuna particolare emozione, eccetto quella del divertimento. Girò intorno al bancone facendo scivolare l’indice sulla superficie ripulita da poco, senza abbassare mai lo sguardo da lei, fermandosi solo quando le fu di fronte, senza nient’altro a interporsi fra loro due « … devi dirmi qualcosa?»
«No, señor, non devo dirle nul-»
Fu un attimo e la terra tremò.
I bicchieri caddero dagli scaffali producendo un tintinnio sinistro di vetri che si infrangono; le bottiglie di liquore prima si scossero urtando fra loro, poi quelle più leggere precipitarono sul pavimento come corpi che si gettano da un balcone. Da subito si udirono le urla delle poche persone ancora in sala, per lo più si trattava di gente che al night ci lavorava, qualcun altro gridò di proteggersi la testa infilandosi sotto i tavoli.
Yumiko si piegò su sé stessa, difendendosi la testa con le mani, ma Salas la afferrò per il polso e la trascinò giù con sé, incastrandosi in uno spazio angusto e libero sotto al bancone. Quello era il posto della spazzatura che era stata portata fuori dall’addetta per quella sera. Stupidamente Yumiko si ritrovò a pensare che da quando aveva conosciuto Ricardo non l’avevano più inserita nella turnazione dei turni per buttare l'immondizia.
Una mano le carezzava i capelli, l’altra la sentiva tiepida e rassicurante all’altezza dello sterno, appena sotto il seno destro. Il cuore di lui batteva forte, lo avvertiva chiaramente grazie all’orecchio adagiato sul suo petto. Yumiko si rese conto di essere addosso al suo capo, il quale la teneva stretta manco fosse stata una bambina da proteggere.
In fondo, si disse, dopo tanto tempo era bello tornare un po’ bambina e non dover pensare sempre a tutto, allora abbassò le palpebre e si godette il terremoto.
 
La terra smise di tremare dopo diversi secondi.
All’improvviso i bicchieri sul banco avevano iniziato a tintinnare, le bottiglie di liquore erano cadute al suolo con un tonfo acuto, l’aria si era impregnata di un pesante odore di alcool e le voci strillanti delle ballerine erano rimbombate come sirene.
La terra aveva smesso di scuotersi, eppure un tremolio smuoveva ancora Yumiko che finalmente si decise a riaprire gli occhi. Come aveva inteso non era il suo corpo a tremare, ma quello contro il quale era rannicchiata. Sollevò il capo per guardare Ricardo, attraverso il palmo poggiato al petto sentiva il suo cuore pompare come un ossesso. Lui si sforzò di sorridere:
«Diciamo che il terremoto non è proprio la mia passione.»
Yumiko lo fissò per un po’, stordita e stralunata. Il sorriso del ragazzo era contratto in una smorfia, controluce spiccava il sudore sulla fronte, il suo corpo continuava a tremare. La ragazza gli prese la mano e la sentì gelida. Sapeva benissimo come si chiamava quello stato d’animo: paura. L’aveva provata la notte in cui era morto il suo fidanzato e aveva continuato a sentirla ogni volta che Eri aveva avuto la febbre così alta da farla delirare.
Già, Eri!
Eri aveva paura del terremoto quasi quanto Ricardo Salas, con la differenza che lei era a casa da sola. Yumiko tentò di uscire dalla stretta del suo capo in maniera goffa, udendo appena le parole di lui che la raccomandavano di fare attenzione ai vetri sul pavimento. Yumiko uscì carponi, incurante delle mattonelle bagnate e dei pezzi di vetro che si infilarono nei palmi delle mani. Salas la seguì a ruota, mentre da lontano gli occhi scrutatori di Oscar osservavano ogni loro movimento.
La pedinò fin dentro gli spogliatoi, lì il chiasso della sala si udiva appena. La maggior parte dei dipendenti del locale si erano fermati a confrontare le proprie emozioni a proposito della scossa, molti erano scappati fuori a prendere una boccata d’aria, pensando che se ne fosse arrivata un’altra lì erano al sicuro.
Yumiko aprì il suo armadietto e prese a sfilarsi il vestito da coniglietta, rimanendo in biancheria intima, Ricardo non si preoccupò di guardare altrove, né lei aveva tempo di pensarci. La sua mente era rivolta esclusivamente alla figlia.
«Tutto ok?» le chiese
«Eri è a casa da sola …» rispose Yumiko meccanicamente, indossando i jeans
«Eri sarebbe tua sorella, giusto?»
Il cuore di Yumiko mancò un battito. Si chiuse i bottoni della camicia in maniera frettolosa e si sedette sulle panche per liberarsi dei tacchi e allacciare le scarpette da ginnastica, chiuse la cerniera del borsone e afferrò il giubbotto, quindi alzò gli occhi a mandorla su di lui:
«Mi dispiace, domani andrò via un’ora più tardi, ma stasera non posso rimanere a dare una mano a pulire» fece un leggero inchino «Gomena sai» con quell’ultima richiesta di perdono uscì dalla stanza e si diresse direttamente al parcheggio, senza neanche fermarsi a dare spiegazioni a coloro che gliene chiedevano.
 
Ricardo Salas rimase qualche minuto negli spogliatoi femminili, seduto sulle panche. Qualcosa era cambiato d’improvviso nello sguardo di quella donna minuta. Era come se la ragazza timida e impacciata che conosceva avesse lasciato il posto ad una specie di gemella completamente diversa, caparbia e risoluta. Dal momento in cui aveva pensato a sua sorella Eri, Yumiko si era trasformata in un’altra persona, con una nuova luce negli occhi e quella luce Ricardo non riusciva a togliersela dalla testa. Alcune ballerine entrarono nella stanza, una si arrestò sulla soglia della porta vedendolo, l’altra al contrario gli si accostò accattivante, iniziando a slacciarsi la cintura della vestaglia e affermando che il terremoto l’aveva tanto spaventata. Ricardo si alzò assicurandole che il terremoto lo aveva spaventato più di quanto avesse fatto con lei, quindi uscì.
Oscar lo vide attraversare la sala come un fulmine, deviando le domande dei suoi dipendenti con scrollatine di spalle e pacche amichevoli. La stessa drag queen tentò di fermarlo, ma alla fine decise di seguirlo quando si rese conto che stava andando di tutta fretta al parcheggio, dove pocanzi aveva visto incamminarsi Yumiko.
Quest’ultima era ancora lì, seduta al posto di guida della sua Toyota Yaris che non voleva saperne di partire. In effetti era da qualche giorno che faceva fatica ad avviarsi, ma abbandonarla proprio in quel momento a Yumiko parve una vera bastardata!
Batté entrambe le mani sulle sterzo, inveendo nelle due lingue che conosceva meglio, ma soprattutto in spagnolo. Le sembrava che le parolacce ispaniche avessero un maggior phatos rispetto a quelle giapponesi. Sobbalzò quando sentì bussare al finestrino e lo abbassò vedendo il volto di Salas oltre di esso:
«Che succede?» le domandò e questa volta sembrava tornata la Yumiko che lui conosceva meglio, insicura e balbettante, mentre gli spiegava fra una parola comprensibile e un’altra un po’ meno, che la macchina non voleva mettersi in moto «Aspettami qui» le disse prima di tornare verso il locale.
 
Appoggiato alla porta d’ingresso Ricardo trovò proprio la persona che stava cercando: Oscar. Questi se ne stava a braccia conserte e lo sguardo penetrante, con l’aria di uno che dice “non mi freghi, ho capito tutto!”. Salas gli chiese le chiavi della sua macchina senza tanti preamboli:
«A che ti servono?» volle informasi Oscar
«La macchina di Yumiko non parte e devo accompagnarla a casa» Oscar acuì lo sguardo, ma Ricardo lo conosceva fin troppo bene per sapere che diffidava di quella situazione «E dai, Oscar! É urgente! La sua sorellina è da sola a casa e lei è preoccupata»
«La mia preoccupazione è un’altra invece …» Ricardo sbuffò:
«Non succederà niente. La accompagno a casa e poi torno qui a prendere te»
«L’ultima volta che hai detto una frase simile ho dovuto dormire nel locale e dopo due mesi piangevi perché credevi di aver messo incinta la ballerina che “avevi solo accompagnato a casa”» continuò la drag queen facendo il segno delle virgolette con le dita. Di nuovo Salas sbuffò, mostrandogli il palmo:
«Oscar, dammi le chiavi!»
«No»
«Sono stato l’unico amico che ti è rimasto vicino dopo che avevi tentato di baciare Mattias nel bagno della scuola a 15 anni» quella era la storia – vera – che Ricardo usava sempre quando voleva qualcosa da lui perché sapeva non ci sarebbe stato debito capace di supplire a quell’inconfutabile prova di amicizia. Infatti Oscar estrasse il portachiavi dalla tasca e glielo lasciò cadere al centro del palmo che subito si chiuse a pugno «Grazie, amico!» Salas gli fece l’occhiolino e trottò via. Oscar scosse il capo e tornò dentro. Aveva la sensazione che quella sera avrebbe dovuto lavorare anche lui per ripulire il night club.
 
La macchina di Oscar era una di quelle sportive a due posti, di un giallo canarino che non passava di certo inosservata, ma che in fondo si addiceva perfettamente al suo padrone e alla sua caratteristica principale: l’egocentricità.
Yumiko non si era fatta supplicare e già dopo il primo invito del suo capo a seguirlo, l’avrebbe accompagnata lui a casa, aveva lasciato l’abitacolo della Yaris afferrando al volo il borsone ed entrando nell’auto gialla. Sapeva che si trattava della macchina di Oscar, ma non aveva fatto domande in merito, non le importava di chi fosse realmente quel veicolo e perché avesse lui le chiavi. Ciò che contava per lei era arrivare a casa il prima possibile e assicurarsi che Eri stesse bene. Inoltre una vocina dentro di sé le suggeriva di fidarsi di Ricardo Salas: forse erano gli occhi profondi che – volendo – potevano ricordare quelli di Joaquin; forse il sorriso spontaneo che gli fioriva sulla bocca quando le parlava. O forse tutti e due.
Il ragazzo guidò per le strade della capitale senza premere sull’acceleratore, nonostante avesse fretta di raggiungere la casa di Yumiko il prima possibile. Un po’ perché non conosceva la strada e la ragazza giapponese gli faceva da navigatore – gira a destra, la prossima a sinistra, all’incrocio vai dritto –, ma anche perché c’erano forze dell’ordine che stavano avendo premura di tranquillizzare le persone invitandole a tornare nelle proprie abitazioni: il terremoto non aveva recato alcun danno a cose o persone, come diceva il radiogiornale.
Quando Ricardo aveva avviato la macchina del suo amico, in automatico si era acceso lo stereo e il cd di canzoni anni 60’ aveva invaso l’angusto abitacolo. Era la musica preferita di Oscar e in altre circostanze avrebbero riso, ma in quel momento non lo fecero, poi Salas aveva cercato una stazione radio che li informasse sulla situazione del loro Paese, così erano venuti a conoscenza che l’epicentro era stato a diversi chilometri da Madrid.
«Hai sentito? Non ci sono stati danni» disse lui a metà del viaggio, quando le uniche frasi che si erano scambiati erano state inerenti alla via da percorrere
«Hai» Yumiko rispose con un secco “si”, continuando a guardare fuori dal finestrino, quindi indicò a destra «Gira qui, gira qui!» e Salas eseguì, comprendendo che avrebbe dovuto aspettare un momento migliore per scambiare due parole con lei, così rimase in silenzio fino a raggiungere il palazzo dove viveva la giapponese.
 
In tutta sincerità Ricardo si era aspettato una casa più decadente, magari in periferia, invece l’appartamento di Yumiko era sito in una delle vie principali della capitale che si collegava bene con il centro della città. Il palazzo, seppur antico, era tenuto in perfetto stato e la gente che sostava davanti al portone d’ingresso sembravano famiglie per bene.
La ragazza si precipitò fuori dalla macchina, dimentica del borsone e di ringraziarlo, o perlomeno salutarlo. Ricardo la chiamò, ma lei non si voltò indietro, sparì all’interno del palazzo e a lui non rimase che spegnere l’auto e seguirla. La gente li guardò, le signore scossero il capo: per loro una ragazza così giovane con una figlia, senza un marito e lontana chilometri da casa era una bestemmia, figuriamoci presentarsi lì con un uomo che guidava una macchina sportiva di colore giallo, con i capelli rasati ai lati e i tatuaggi che spiccavano sulle braccia!
Salas la inseguì lungo la rampa di scale, tenendo il borsone nella mano sinistra e mantenendosi al corrimano con la destra, facendo le scale a due a due, ma Yumiko era piccoletta e scaltra e la raggiunse solo davanti alla porta di casa. Era in preda al panico, non riusciva a infilare la chiave nella serratura, tanto era agitata. Ricardo le posò una mano sulla sua, Yumiko si voltò a guardarlo, aveva le lacrime agli occhi e il cuore in gola:
«Calma» strinse un po’ di più la presa e fece scattare la chiave nella serratura una volta «Calma» disse di nuovo aprendola.
 
Eri se ne stava sotto al tavolo della cucina con Macchia stretta al petto. Si dondolava avanti e indietro, sussurrando all’animale che la mamma sarebbe arrivata presto, senza dimenticare di pregare suo padre di non lasciarla sola.
Yumiko la vide solo accendendo la luce e illuminando il soggiorno/cucina, si affacciò sotto il tavolo e le porse la mano, parlandole in giapponese. Ricardo Salas rimase sulla soglia dell’ingresso, il borsone ancora in mano, ad osservare la scena. C’era qualcosa di tremendamente materno nel loro abbraccio, nelle parole sussurrate che, nonostante non comprendesse, sembravano di conforto per quella ragazzina terrorizzata. Le vide incamminarsi l’una abbracciata all’altra all’interno della casa e ancora attese, chinandosi sulle ginocchia quando Macchia gli si avvicinò, scodinzolando e con la lingua di fuori. La carezzò, chiedendole se avesse fatto un buon lavoro tenendo compagnia alla sua padroncina, poi sorrise, continuando che era davvero brutta, tutta rinsecchita e con quella macchia nera sull’occhio. Il cane in tutta risposta abbaiò un paio di volte. Yumiko ritornò dopo qualche minuto e sembrò ricordarsi solo in quel momento di lui e della sua presenza. Si scusò, come oramai faceva sempre ogni qual volta lo incontrava, per un motivo o per un altro. Si chinò leggermente in avanti e si scusò ancora per avergli lasciato il borsone che si affrettò a prendere con sé, si scusò di nuovo per averlo lasciato sulla soglia della porta e un po’ per rispetto, un po’ per soggezione, lo invitò ad entrare, spiegando che voleva mettere a bollire dell’acqua per preparare del tè ad Eri. Mentre Yumiko metteva il bollitore sul fuoco, Ricardo rifiutò e disse di dover andare via, frattanto gli altri condomini stavano ritornando nelle loro case, lanciando sguardi di dissenso verso i due ragazzi all’entrata dell’appartamento. Yumiko arrossì vistosamente. Salas si disse che era ora di andare, eppure non ne aveva nessuna voglia:
«Tua sorella sta bene?» chiese
«Abbastanza. Il terremoto l’ha sempre spaventata a morte» Yumiko se ne stava di fronte a lui, con le braccia conserte
«La capisco. Crescendo il terrore passa un pochino, ma non del tutto»
«Già …» fece Yumiko
«Già …» fece eco Salas.
Per diversi secondi tacquero. Macchia era tornata a dormire nella sua cuccia e anche il mormorio degli altri abitanti del palazzo si era affievolito parecchio, poi il fischio del bollitore arrivò come una manna dal cielo e Yumiko fu costretta a smuoversi – in realtà non aspettava altro. D’istinto si rivolse a Ricardo:
«Rimani per una tazza di tè?» lui avrebbe tanto voluto risponderle di si, ma le parole di Oscar gli rimbombavano nella testa come proiettili
«No, credo sia megliooo … » con il pollice indicò le scale dietro di lui. Yumiko intanto stava già versando l’acqua calda nella teiera e predisponendo le tazze su un vassoio:
«Il tè distende i nervi, aiuta a placare la paura»
«Ok, se è solo per una tazza di tè …»
La donna gli sorrise e si avviò verso la camera di sua figlia con una tazza fumante, mentre Ricardo si chiudeva la porta alle spalle: in fondo un po’ di tè non aveva mai ucciso nessuno.
 
 
 
  
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