Premessa.
La protagonista di questa storia è Posy Hawthorne, la sorellina di Gale. La
storia è ambientata circa cinque anni dopo la rivolta, quando Posy ha all’incirca
9, 10 anni. Aris, il co-protagonista, è un ragazzino un po’ delinquente figlio
del generale dell’accademia di Aeronautica dove ha studiato Gale nel Distretto
2. La storia si alterna ad alcuni versi della canzone “Guerriero” di Marco Mengoni, da cui ho preso ispirazione per scrivere.
«Fa bene l’aver
avuto un amico, anche se poi si muore.»
Il Piccolo Principe. Antoine de Saint-Exupéry
Guerriero
Ho letto
che quando una persona muore il corpo le diventa tutto freddo.
Il cuore
smette di battere; gli occhi non vedono più, anche se non sembra, perché certe
volte rimangono aperti. Il cervello si spegne e, a quel punto, tutto ciò che
c’era dentro si cancella, come per magia. Forse è proprio questa la cosa più
triste: le persone morte non si ricordano più di noi. Non possono parlarci,
abbracciarci o prenderci in giro, perché anche se il loro cuore ricominciasse a
battere non capirebbero comunque chi siamo.
Per questo
ho portato il mantello. Perché sono sicura che, se un giorno il corpo di Aris
riprendesse a funzionare, guardandolo si ricorderebbe subito di me. In fondo
sono stata io a farglielo, anche se lui non l’ha mai visto. Gliel’avevo
promesso, gli avevo promesso che gliel’avrei portato, ma Aris non ha aspettato
le vacanze di metà marzo come tutti gli anni. In quel periodo andavo sempre nel
Distretto 2 a trovare mio fratello Gale, ed era lì che vedevo Aris. L’ho fatto
anche quest’anno e lui è qui, di fronte a me, ma adesso si è spento ed è
freddo. Non può vedere il mantello, perché i suoi occhi non funzionano più e,
anche se andassero ancora bene, vedrebbe lo stesso tutto buio, perché l’hanno
chiuso in una bara.
Hanno
paura le persone morte? Sentono il freddo? Oggi c’è un vento forte, da far
gelare il sangue nelle vene, e Aris dentro quella scatola di legno non ha
nemmeno un giubbotto. Lo so anche se non l’ho visto, perché me l’ha detto Gale.
Gale sa
tutto di Aris-da-spento, perché non l’ha lasciato mai solo da quando gli hanno
detto che era morto. Non è tornato a casa nemmeno per mangiare e la soldatessa
bionda che sembra sempre arrabbiata[1]
ha dovuto praticamente trascinarlo via dalla stanza dove tenevano Aris, per
farlo dormire qualche ora; tanto non ha dormito comunque.
Questa
mattina l’ho visto piangere per la prima volta. Ha pianto come un bambino
piccolo e anche se l’abbiamo abbracciato tutti – io e la mamma, Vick, Sapheen (è così che si chiama la soldatessa) – non è
servito a niente. Voleva molto bene ad Aris; questo perché mentre io, Vick e
Rory eravamo nel Distretto 12, era lui il suo fratellino, anche se all’inizio
non si piacevano per niente. In fondo neanche a me Aris è piaciuto molto la
prima volta che ci siamo incontrati. L’ho conosciuto alla scuola per
soldati-piloti dove studiava Gale e me lo ricordo bene, anche se è successo più
di quattro anni fa, quando dovevo ancora compierne sei. Lui ne aveva nove, ma
gli piaceva sembrare più grande e faceva sempre il duro e lo scontroso, specie
con i soldati.
Ho detto
che Aris non mi era piaciuto molto, ma questo non è del tutto vero. La verità è
che lì per lì lo trovai antipatico, ma cambiai idea quasi subito. Accadde il
giorno in cui decisi che i principi azzurri non mi interessavano più, almeno
per il momento; il giorno in cui capii che a loro preferivo i guerrieri.
Giuro sarò roccia contro il fuoco e il gelo
Veglio su di te, io sono il tuo guerriero
“Chi è
quel ragazzino?” domandò la mamma a Gale, guardando, come me, quel bambino che
ci fissava con le mani in tasca e il cappuccio sulla testa. Aveva la pelle più
scura di quelli del Due – un
po’ come la mia – e grandi occhi marroni.
“Il figlio
del capo” rispose mio fratello, indicando con il mento una cornice appesa a una
parete. Dentro c’era la foto di un uomo tutto vestito bene, con un cappello da
capitano. Gale ci aveva spiegato che era il Generale Shaw, il capitano
dell’Accademia. “Si chiama Aris; avrà otto o nove anni, ma è un piccolo
delinquente. Certe volte ho rischiato di prenderlo a pugni, sa come far perdere
la pazienza alle gente.”
In quel
momento Aris si avvicinò a noi. Gale gli presentò i miei fratelli e spiegò che
avevano solo un po’ più della sua età, ma lui fece spallucce e non disse nulla.
Rimase zitto e non guardò nessuno in faccia, anche quando Vick gli sorrise e
gli diede la mano per farsela stringere. E, dopo una prima occhiataccia, non
guardò più nemmeno Rory.
Guardava me: solo me.
Sorrise, prendendomi in giro con gli occhi.
“Non
sapevo che avevi[2]
una sorella piccola” disse poi a Gale, avvicinandosi a me. Mi nascosi dietro le
gambe di mio fratello; se non gli piacevano Rory e Vick non volevo piacergli
nemmeno io.
“Come ti
chiami, piccoletta?”
Ci misi
tanto tempo a rispondergli.
“Posy.”
Il
ragazzino mi guardò come se avessi detto una cosa stupida o molto buffa.
“Posy? Che
nome strano!”
La sua
risposta mi fece arrabbiare.
“Non è
strano, l’ha scelto mio papà!” spiegai, uscendo da dietro le gambe di Gale.
“Significa fiore, uno di quelli belli tipo la rosa del Piccolo Principe. Non
l’hai letto?” chiesi, parlando del mio libro preferito. A cinque anni e mezzo
ero sicura che tutti i ragazzini avessero almeno sentito parlare del Piccolo
Principe.
Aris si
mise a ridere e fece più volte no con la testa.
“Io non leggo,
mocciosa” mi rispose poi, con le mani in tasca. “Ho di meglio da fare.”
Mentre
parlava giocava con un accendino, accendendo la fiamma e poi spegnendola con
due dita. Avrei voluto gridargli di smetterla, perché avevo paura che si
facesse male, ma da un lato ero anche curiosa: come faceva a non bruciarsi?
“Di meglio
tipo cosa?” domandai, guardandolo male: si dava tante arie, ma non poteva
essere poi così impegnato come voleva farmi credere. In fondo era perfino più
piccolo di Vick.
Aris ci
pensò su per un attimo, battendo un piede per terra. Infine, fece un sorriso di
quelli furbetti.
“Combatto
il crimine; sono un guerriero” rispose tutto fiero, mettendosi a braccia
conserte.
Rory lo
fissò come se pensasse che
fosse matto. Quando Aris lo guardò male, brontolò qualcosa a denti stretti e
chiese Vick di accompagnarlo a prendere una bibita, prima di uscire dalla
stanza con lui. Io ero troppo interessata al discorso di Aris, per supplicarli
di portarmi con loro.
“Allora
sei come Gale?” chiesi, indicando mio fratello; lui e la mamma se ne erano
andati dall’altra parte del salone e stavano parlando a bassa voce.
A quel
punto, Aris fece una cosa bruttissima: sputò per terra, prima di scuotere forte
la testa.
“Mai. Tuo
fratello è uno schifosissimo soldato[3]”
mi disse, disgustato. “Io non faccio lo schiavetto dei miei superiori come lui
e i suoi amichetti. Che hai?” chiese poi, quando mi voltai dall’altra parte.
Le sue
parole mi avevano fatta infuriare; avrei voluto pestargli il piede, ma preferii
girarmi e basta, perché avevo un po’ paura di lui. Non mi fidavo delle sue arie
da duro, con quel suo cappuccio sulla testa e l’accendino.
“Hai detto
che mio fratello è schifosissimo” borbottai, mettendomi a braccia conserte.
“Non voglio più essere tua amica.”
Aris fece
di nuovo quella risatina da duro che non mi piaceva per niente.
“Sai che
me ne faccio di una piccoletta come te… ” lo sentii rispondere. Volevo voltarmi
per scoprire se stava ancora giocando con l’accendino, ma non lo feci. “… Ho
ben altro da fare, te l’ho già detto.”
Mi misi le
mani sulle orecchie per non ascoltarlo. Se da un lato i suoi commenti mi
avevano fatto arrabbiare, dall’altro mi spiaceva doverci litigare. Ero curiosa
di scoprire cosa facesse esattamente un guerriero e come faceva Aris a
combattere il crimine, se aveva solo nove anni. Ma avevo la testa dura, proprio
come i miei fratelli, e continuai a ignorarlo.
Aris si
arrabbiò; lo capii anche se non potevo vederlo, perché lo sentii sbuffare e poi
tirare un calcio a una sedia.
Passò
tanto tempo – o almeno così mi sembrò – e alla fine lui si inginocchiò di
fronte a me. Mi tolse le mani dalle orecchie e, anche se lottai con lui per
tenerle sulla mia testa, non sembrava più arrabbiato.
“Ehi, vuoi
vedere una cosa?” mi chiese, facendo uno di quei sorrisi misteriosi che avevo
visto tante volte sulle labbra dei miei fratelli, quando mi preparavano qualche
sorpresa.
Feci no
con la testa, anche se in realtà avrei voluto dirgli di sì. Aris sembrò
capirlo, perché frugò nelle tasche di quei pantaloni larghissimi e tirò fuori
una bomboletta rossa e una nera.
“Coprimi”
mi disse, incominciando ad agitarne una. Lo guardai confusa, non sapendo cosa
fare. Pensai che forse aveva freddo, così mi offrii di cercargli una coperta.
Aris
sbuffò spazientito. Poi, però, si mise a ridere.
“Quando
qualcuno ti chiede di coprirlo, piccoletta, significa che devi guardargli le
spalle” mi spiegò, prima di ricominciare a ridacchiare, quando si accorse che
avevo incominciato a fissargli la schiena. “Nascondimi! Coprimi significa
‘nascondimi’!”
Lo guardai
male, infastidita dalle sue risatine, ma poi mi misi davanti a lui. Aris mi
sorrise e si inginocchiò a terra, aprendo una bomboletta. Quando incominciò a
spruzzare il colore sul muro, mi preoccupai tantissimo. Ero sicura che una cosa
del genere non si potesse fare e avevo paura che uno di quei soldati dall’aria
cattiva che giravano per l’Accademia sarebbe venuto a sgridarci. Quando lo
dissi ad Aris, lui fece spallucce.
“Non ti
accadrà niente, tranquilla” promise, continuando a colorare il muro con la sua
vernice. “Non devi avere strizza, quando sei con me: ti guardo le spalle.”
Finalmente,
incominciai a capire il significato di quella frase sulle spalle. Significava
‘aiutarsi a vicenda’, un po’ come facevamo io e i miei fratelli. Significava
avere un’altra persona, oltre alla mamma, Gale, Rory e Vick che voleva
proteggermi.
Quando
Aris finì il disegno, si alzò e mi scompigliò i capelli.
“Che te ne
pare, nanetta?”
Feci una
smorfia, perché era bruttissimo sentirsi chiamare nanetta: non ero mica così
bassa! Nella mia classe c’erano ben tre bambini più piccoli di me. Quando
guardai il suo disegno, però, smisi di sentirmi tanto arrabbiata: era un fiore
bellissimo, dai grandi petali rossi.
“È una
rosa?”
Aris si
mise di nuovo le mani in tasca.
“Già. Come
quella del principe nano o come si chiama…”
“Piccolo
Principe” lo corressi, inginocchiandomi di fronte al muro. Passai le dita sulla
vernice e si sporcarono tutte di rosso. “Ci manca la campana di vetro, però.”
“La che?”
mi chiese Aris, aggrottando le sopracciglia. “Ma che razza di fesserie ti
leggi, tu?”
“Sei più
grande di me, però non sai proprio niente!” dissi io, dopo aver sbuffato. “La
campana di vetro serve a proteggere la rosa! Così nessuno può farle del male.”
A quel
punto, Aris si chinò per potermi parlare a faccia a faccia e mi sorrise. Non
era uno di quei sorrisi antipatici di chi ti vuole prendere in giro. Era un
sorriso buono, da amico. Un sorriso che mi piaceva.
“Beh, a
questa rosa qui la campana di vetro non serve” mi spiegò, battendo la mano sul
muro. “Perché ci sono io a proteggerla.”
E, anche
se non ero ancora bravissima a leggere, in quel momento mi sembrò di leggere
nel sorriso di Aris che non stava parlando del disegno, ma di me.
“È così
che fanno i guerrieri, vero?” domandai, arrossendo un pochino. “Proteggono le
rose?”
“Ma che?…”
borbottò lui. Fece no con la testa, come se mi credesse matta. Poi, però, mi
sorrise.
“Sì, dai.
A volte lo fanno” rispose, spettinandomi tutta.
Risi
anch’io, perché quel gesto non mi aveva dato poi così fastidio. Fu quello il
momento in cui capii di aver trovato un nuovo amico. Non era buono e gentile
come i principi azzurri, ma per qualche strana ragione mi sembrava ancora più
bello, forte e speciale di loro.
Vinceremo contro tutti e resteremo in piedi
E resterò al tuo fianco fino a che vorrai
Ti difenderò da tutto, non temere mai
*
Ci sono
tante persone che, come me, sono venute a portare un regalo per Aris, prima che
la sua scatola di legno venga messa sotto terra. I miei preferiti sono i
giornaletti di Dreika Malden;
Dre non è solo il fratello di Sapheen-la-soldatessa-bionda,
ma è anche un fumettista. Aris andava matto per i suoi personaggi. Diceva che
erano quelli i veri guerrieri; non i soldati, ma gli eroi che salvavano la vita
agli altri di nascosto, senza dover seguire gli ordini di nessuno. Quelli che
pensavano con la loro testa e che mica erano sempre tutti perfettini, ma nemmeno
facevano finta di esserlo, a differenza dei militari importanti come suo padre
o quelli di grado inferiore, come quei burattini dei suoi fratelli. Io non
capivo quasi mai le sue parole, ma mi piaceva leggere i fumetti assieme a lui.
Si capiva che ci credeva veramente in quello che diceva e forse, da grande,
sarebbe davvero diventato un super-eroe come quelli che ammirava tanto. Dreika Malden lo sa bene, per
questo è venuto al suo funerale e gli ha portato dei giornaletti: perché come
me spera che, se un giorno Aris tornasse ad accendersi, sfogliando quelle
pagine riuscirebbe a ricordarsi di essere un eroe. Uno di quelli a cui non
servono i poteri magici, per aiutare le persone: niente morsi di ragno o strani
pipistrelli, per Aris Hiram Shaw. A lui bastavano alcune parole speciali, uno
scudo di plastica e una torcia per farmi la passare la paura.
Era un
eroe vero, di quelli che sanno come scacciare gli incubi e i draghi degli
altri, anche se i mostri sotto il letto ce li hanno pure loro.
Io sono un guerriero
Veglio quando è notte
Ti difenderò da incubi e tristezze
Non temere il drago
Fermerò il suo fuoco
Niente può colpirti dietro questo scudo[4]
Faceva un
sacco di caldo, quella notte. Continuavo a girarmi nel letto senza riuscire ad
addormentarmi, perché le lenzuola mi si appiccicavano alla pelle sudaticcia.
Quando finalmente riuscii a prendere sonno, feci un incubo di quelli terribili.
Sognai il cielo che crollava e distruggeva le case e i negozi del Distretto 12,
alzando grandi polveroni neri. Draghi grandissimi sputavano fuoco sui tetti
delle botteghe e il Palazzo di Giustizia cadeva a terra in mille pezzi, mentre
le persone scappavano urlando. Nel sogno mi ero nascosta sotto il letto assieme
a Vick, ma uno dei draghi era riuscito a trovarci e con le sue unghie stava
tirando via il tetto della nostra stanza. Si preparava a sputare fuoco su di
noi, mentre Vick ed io ci abbracciavamo stretti, chiamando la mamma, Gale e
Rory, che erano da qualche parte sotto le macerie.
“Mamma!”
stavo ancora urlando, quando i miei occhi si aprirono di scatto. Il drago stava
facendo tremare le pareti, ma svegliandomi scoprii che non c’era nessun drago,
e che qualcuno mi stava scuotendo per le spalle.
Capii che
era Aris dal modo in cui mi stava chiamando.
“Ehi,
piccoletta” disse due o tre volte, fino a quando non smisi di lamentarmi.
“Brutto incubo, eh?” mi chiese poi, sedendosi sul letto di fianco a me. “Ti
stavi agitando tutta.”
Mi guardai
attorno, sentendomi confusa. Ero nella stanza degli ospiti a casa di Gale, nel
Distretto 2. Come quasi ogni anno ero venuta a stare da lui qualche settimana
per le vacanze estive e, come quasi ogni notte, Aris si era intrufolato dentro
per venire a vedere come stavo. Le prime volte mi ero spaventata molto nel
sentire qualcuno che entrava nella mia cameretta di soppiatto, ma ormai ci
avevo fatto l’abitudine.
Aris aveva
appena compiuto undici anni e dall’inizio dell’estate si era trovato un nuovo
passatempo, l’ennesimo che lo metteva spesso nei guai: entrava nelle case delle
persone che gli piacevano poco – gente con la puzza sotto il naso o persone
manesche, che se la prendevano quasi sempre con le femmine, i bambini o gli
animali – e le spaventava o combinava qualche marachella. Certe volte
s’intrufolava in qualche casa e basta, così per passare il tempo giusto perché
sapeva farlo, senza sapere chi ci vivesse dentro. Quasi sempre lasciava un
messaggio: disegni fatti con le sue bombolette che, ormai lo sapevo, si
chiamavano graffiti.
“Sognavo i
draghi” sussurrai, stiracchiandomi e stringendomi le ginocchia al petto.
“Stavano distruggendo il mio Distretto, come quando ci sono stati i bombardamenti.”
“Ci pensi
ancora tanto, eh?” mi chiese lui, mettendomi un braccio intorno alle spalle. Mi
appoggiai al suo braccio e chiusi gli occhi; aveva un odore strano, Aris. Un
misto tra vernice spray e fumo.
“Se
stanotte cadesse di nuovo il cielo, se arrivassero i draghi, non saprei come
fermarli” gli spiegai, mentre lui tornava a giocherellare con il suo accendino.
“Non saprei dove scappare; Gale ed io moriremmo.”
La fiamma
dell’accendino si spense di scatto. Aris mi guardò strano per un po’, poi scese
dal letto.
“Aspettami
qui” mi disse, uscendo di corsa.
Lo
aspettai con la luce della lampada da comodino accesa e le finestre socchiuse,
anche se si moriva di caldo. Quando tornò non aveva più l’accendino, ma una
specie di coperchio di metallo, di quelli per le pentole. Mi puntò contro la
sua torcia e vidi sul suo volto quel sorriso furbetto che mi faceva sempre.
“Perché
sei andato a prendere un coperchio?” chiesi, incuriosita. Forse aveva fame e se
ne era andato in cucina a prepararci qualcosa da mangiare.
Aris mi
mise l’oggetto sulla testa e si lasciò cadere sul letto.
“Ma quale
coperchio? Questo qui è uno scudo incantato: sono andato a prenderlo nel mio
covo segreto.”
Erano
settimane che Aris si vantava di aver trovato un rifugio tipo quelli che hanno
i super-eroi dei fumetti, ma non mi ci aveva mai portata. Ogni tanto gli tenevo
il muso per quello, ma di solito mi dimenticavo in fretta di essere stata
arrabbiata con lui e tornavamo amici come prima. Visto che quella notte me
l’aveva ricordato, però, gli misi il broncio, anche se ormai mi ero convinta
che non esistesse nessun covo segreto.
“Non è
vero, è solo un coperchio” gli dissi, incrociando le braccia sul petto. Aris
sbuffò più forte e me lo buttò sulle gambe.
“Ahi,
stupido! Fa male!”
“Fidati
che con questo la strizza ti passa. È fatto apposta per sembrare una robetta da
niente, così nessuno me lo ruba. Però è uno scudo da guerriero fatto di un
materiale anti-fiamma, pensato apposta per vedersela con i draghi o le
esplosioni. Protegge te e tutti quelli che ti stanno intorno.”
Mi misi a
ridere, e guardai meravigliata quello scudo. Non credevo per davvero alle
parole di Aris – non del tutto, almeno – ma quando toccai il manico freddo di
quel coperchio sentii una strana calma entrarmi dalle dita e salire fino alla
testa.
“Resti qui
fino a quando non mi addormento?” chiesi poi, appoggiando lo scudo sul
comodino. Aris fece spallucce e si sedette vicino a me, appoggiando la schiena
alla parete dietro il letto.
“Per
forza, altrimenti ti metti a frignare.”
Gli diedi
un calcio e lui si mise a ridere. Mentre cercava di farmi il solletico, mi
accorsi di degli strani segni che aveva su alcuni punti delle braccia e dietro
il collo.
“Che cosa
sono?” dissi, provando a toccarne uno. Aris si spostò subito, come se avesse
preso la scossa.
“Niente di
che” rispose poi, alzando le spalle per nascondere il collo con la canottiera.
“Ferite di guerra. Ogni guerriero ne ha qualcuna.”
“Questo lo
so!” risposi subito, contenta di non dovermi far spiegare sempre tutto. “Rory
una volta mi ha detto che papà gli ha detto che i ribelli hanno tante cicatrici.
Tu sei un ribelle[5]?”
Aris fece
una faccia orgogliosa.
“Certo.
Tutti i veri guerrieri lo sono. Adesso però vedi di dormire, nanerottola, o tuo
fratello sentirà la tua vocetta stridula e verrà qui a romperci i coglio...”
Si
interruppe a metà della parola: sapeva che non mi piacevano le parolacce.
Feci sì
con la testa e mi rannicchiai al suo fianco. Guardai lo scudo sul comodino e
chiusi gli occhi, più tranquilla rispetto a prima. Il letto era ancora più
caldo con Aris vicino a me, ma sapere che era lì mi faceva sentire al sicuro:
Aris-il-guerriero era sicuramente lo scudo migliore del mondo.
“Lo sai,
sei fortunata” mi sussurrò lui a un certo punto. “Tuo fratello non è male, per
essere un soldato. Si vede che ti copre le spalle. E poi si sta meglio, senza
padri intorno: quelli sanno solo farti del male.”
“Mio papà
era bravissimo” risposi, infastidita. “Però è vero che sono fortunata ad avere
Gale. E Rory, e Vick.”
Rimanemmo
di nuovo in silenzio per dei minuti, poi accadde una cosa strana. Mi tornarono
alla mente gli strani segni sulle braccia di Aris ed ebbi una voglia matta di
fargli una domanda, anche se non ero sicurissima di voler sentire la sua
risposta.
“È stato
tuo papà? A farti le ferite di guerra?”
Aris non
mi rispose. Avrei voluto che ci fosse più luce per capire se stava arrossendo:
forse anche lui, come il Piccolo Principe, diventava tutto rosso quando la
risposta a una domanda era sì.
Improvvisamente
mi alzai a sedere e lo abbracciai. Non sapevo bene perché, ma qualcosa nella
sua faccia mi aveva fatto pensare che fosse triste.
Aris mi
puntò contro la torcia e strizzai forte gli occhi, riparandomi contro il suo
petto.
Quando
riuscii a guardarlo, decisi che sembrava un po’ arrossito per davvero.
“Che fai,
piccoletta?” mi chiese, scuotendo la testa come se avessi appena detto qualcosa
di buffo.
“Ti copro
le spalle” risposi, facendogli un sorriso furbetto.
Aris rise
di nuovo come faceva le volte in cui mi prendeva in giro; poi, però, mi
abbracciò anche lui.
“Se vuoi
coprirmi le spalle, mi puoi fare un mantello” scherzò, facendomi il solletico.
Risi di
nuovo e poi appoggiai la testa contro la sua spalla.
“Te ne
porterò uno, un giorno” decisi, dandogli un colpetto sul petto come faceva
sempre lui con Quinn e Gale. “Promesso.”
Quella notte, per la prima
volta da giorni, i draghi tornarono a lasciarmi stare.
Ti riparerò da inganni e maldicenze
E ti abbraccerò per darti forza sempre
*
Lotterò con forza contro tutto il male
E quando cadrò tu non disperare
C’è una frase che il Piccolo Principe dice al pilota verso la fine del libro:
‘fa bene l’aver avuto un amico, anche se poi si muore.’
Quando
l’ho letta per la prima volta non ero sicura di averla capita. Ora invece la
capisco eccome, ma non mi ci trovo per niente d’accordo.
L’aver
avuto un amico che adesso sta in una cassa di legno fa male, talmente male che
è un po’ come morire assieme a lui. Anche tu diventi freddo e tutto ti si
irrigidisce. Il tuo cervello non funziona più bene e va sempre a finire che
pure tu ti spegni. Non ti va di ridere o di giocare con i tuoi fratelli. Se ti
accendi è solo per piangere, mentre abbracci uno stupido coperchio di metallo.
Aris è
morto a tredici anni e un quarto, alle ventitré e trenta di un venerdì freddo e
pieno di nebbia.
È morto
cercando di difendere una ragazza che non conosceva, poco più grande di lui.
Poco più piccola di Vick. Un ubriaco le stava dando fastidio e Aris l’ha spinto
contro il muro, ma non è riuscito a farla franca come capitava sempre quando
rubacchiava in giro, beveva e sporcava i monumenti del Distretto solo per fare
arrabbiare suo papà.
Il
coltello del ragazzo ubriaco gli ha colpito prima il fegato, poi il cuore. È
scappato via prima che qualcuno chiamasse l’ambulanza.
Ho letto
che, quando una persona muore, il corpo le diventa tutto freddo. Mi domando se
sia così anche nel momento in cui succede. Ogni giorno, da quando Aris è morto,
mi chiedo se abbia sentito freddo o se abbia avuto paura. Se abbia sentito male
come adesso ne sento io, mentre la bara viene posata nel buco dentro al
terreno, le persone piangono e la mamma mi stringe così forte la mano da
stritolarla.
Voleva
solo aiutare, Aris, ma questo non l’ha mai capito nessuno. Né il suo papà o i
suoi fratelli, né le persone di tutte quelle Accademie da cui è stato cacciato
quando era piccolo. Era uno di quei super-eroi dei fumetti che gli piacevano
tanto, quelli che combinano un sacco di guai, ma che poi di nascosto salvano le
vite degli altri. Era la mia campana di vetro e se penso che non lo vedrò mai
più, che non incontrerò mai qualcun altro con addosso quello strano odore di
fumo e vernice, il cuore mi batte così forte e la paura è talmente tanta che
quasi mi convinco di avere i draghi sopra di me. Li vedo volare e sputare
fuoco, la testa mi gira e le lacrime tornano.
Non voglio
starci in questo posto, se Aris continuerà a stare spento. Non voglio sentire
il mio corpo caldo, il mio cuore che batte, il cervello che funziona. Voglio
far sparire tutto con un CLICK!, come succedeva quando Aris schiacciava
il pulsante della sua torcia e non riuscivo a vedere più nulla.
E vorrei
riaccendermi solo quando sentirò il suo ‘piccoletta’ e vedrò la fiamma del suo
accendino che si muove a destra e a sinistra mentre tutto il resto scompare.
Solo
allora potrà aver fatto bene l’aver avuto un amico, come dice il Piccolo
Principe. Solo allora, quando sentirò nel mio orecchio la risata da duro di
Aris, potrò smettere di essere triste.
Penso a
questo, mentre mi avvicino alla bara e apro il mantello; è giallo come la luce
della sua torcia, giallo come il suo colore preferito – lo so anche se non me
l’hai mai detto, perché quando gliel’ho chiesto è arrossito – giallo come la
felpa col cappuccio che aveva la prima volta che ci siamo parlati.
Lo
appoggio alla cassa di legno e rabbrividisco, perché mi accorgo che è fredda.
“Ti copro
le spalle” bisbiglio, sistemando meglio la stoffa sulla sua scatola di legno.
Spero che il mantello lo protegga e lo tenga al caldo, così come lui ha fatto
con me. “Io ti coprirò sempre le spalle.”
Mi metto a
piangere non appena la terra incomincia a cadere sopra di lui. Mi avvicino a
Gale e gli stringo forte la mano, fino a quando la bara non scompare sotto i
nostri occhi. A quel punto, quasi nello stesso momento, mio fratello ed io ci
voltiamo verso il signor Shaw. Ha addosso la divisa, se ne sta vicino ai due
fratelli più grandi di Aris e continua a guardare per terra. La sua faccia è
seria come sempre e non piange, ma credo che soffra lo stesso, anche se è
sempre stato terribile con Aris. Anche se lo trattava male e non gli piaceva,
così come ad Aris non piaceva lui.
Quando il
signor Shaw, assieme agli altri soldati, fa il saluto militare verso il cumulo
di terra che nasconde Aris-da-spento, capisco che adesso la pensa come me.
Adesso sa che suo figlio era un guerriero e che in fondo gli voleva bene.
Dovrei
esserne contenta, ma non lo sono.
Perché mi
sarebbe tanto piaciuto che l’avesse capito prima.
Oltre queste mura troverò la gioia
O forse la mia fine comunque sarà gloria
E non lotterò mai per un compenso
Lotto per amore, lotterò per questo
Vent’anni dopo
Io sono un guerriero e troverò le forze
Lungo il tuo cammino
Sarò al tuo fianco mentre
Ti darò riparo contro le tempeste
E ti terrò per mano per scaldarti sempre
Oggi piove così tanto che, se solo ascoltassi il mio
istinto, me ne resterei rintanata in casa a leggere qualche libro di quando ero
ragazzina. Invece sono in viaggio, mano nella mano con Dru
e mio figlio Liam, mentre l’altra mia bambina, Leah,
saltella allegra verso ogni pozzanghera che nota, agganciata alle dita del
papà.
Gale ci
precede, seguito a poca distanza da mio nipote Joel. Vorrei raggiungerli, ma
una parte di me continua a ricordarmi che in questo momento è lui quello che ha
bisogno, più di tutti, di arrivare a destinazione prima degli altri. Mi ricorda
che Gale voleva bene ad Aris quanto e forse anche più di me e che è giusto che
si prenda questo momento per sé.
Imbocchiamo
il vicolo che porta al War-R!ot, il locale di fianco
all’Accademia che un tempo era come una seconda casa per Gale e il suo migliore
amico Quinn, quando vivevano nel Due. Lo era stato anche per Aris, in realtà,
perché ha iniziato a bazzicarci dentro quando aveva più o meno otto anni e
rubava soldi al padre per passarli al proprietario di maniera che lui non
facesse obiezioni sulla sua giovane età.
Vedo mio
fratello esitare di fronte al locale, prima di superarlo sulla sinistra. Lo
seguo, avvertendo un’insolita morsa all’altezza dello stomaco dovuta alla
curiosità, mista a un pizzico di tensione.
Stringo
più forte la mano di Dru, quando un vecchio garage
sgangherato appare di fronte a noi. Le pareti sono dipinte di un giallo ocra
mezzo scrostato, e la plastica sul tetto produce un rumore terribile, quando
viene colpita dalla pioggia. Un murales scolorito s’intravede a malapena sul
portello.
È stato
Tarim, il fratello di Aris, a parlare a Gale di questo posto. I Pacificatori
avevano trovato delle chiavi nelle tasche dei jeans del piccolo Shaw la notte
in cui era morto, ma nessuno dei famigliari era mai riuscito a capire cosa
aprissero fino a quando, qualche settimana prima, la sorella del ragazzino –
Cora – non si era imbattuta in quel garage. Il murales dipinto sulla porta era
mezzo scolorito, ma la firma di chiunque l’avesse fatto era ancora evidente, in
un angolo in basso a destra.
Quel
pomeriggio, Cora era tornata lì con le chiavi di Aris e il portellone si era
aperto. Erano le stesse chiavi che Gale sta girando in questo momento, trafficando
con la serratura arrugginita.
Entriamo
in fretta per difenderci dalla pioggia, mentre Dru
cerca a tentoni un interruttore. Un bzzz
elettronico precede l’arrivo della luce fioca delle lampade e, a quel punto, la
morsa allo stomaco mi avviluppa anche il petto. Il familiare odore di vernice
mi riempie le narici, mescolandosi a quello di chiuso, e quasi mi pare di
sentire del fumo a completare quel miscuglio.
Non riesco
più a prestare attenzione ai miei figli, che saltellano incuriositi per il
garage facendo ondeggiare le mantelline gocciolanti. Né a Dru
e a Joel, che stanno osservando con attenzione due guantoni da boxe appesi a un
chiodo alla parete. Ho occhi solo per la parete di fondo del garage e so che
per mio fratello è lo stesso. Lo sento vicino a me e avverto il suo braccio
attorno alla vita, mentre le lacrime incominciano a scivolarmi lungo le guance.
Di fronte
a noi, un murales occupa l’intera parete, in un turbinio di colori sgargianti,
anche se rovinati dall’umidità. Riesco a riconoscere con poco sforzo lo stile
leggermente infantile di Aris in quei tratti a bomboletta, nonostante fossi
appena una bambina l’ultima volta che ho visto uno dei suoi lavori.
“Chi l’ha
fatto, mamma?” chiede Leah, appoggiando una mano alla parete e rincorrendo le
linee nere che disegnano sul muro il contorno di un mantello. “Sembra uno di
quei disegni che ci sono nei fumetti di Blue.”
“Ne posso
avere uno così anche nella mia stanza, mamma?” entra subito nel discorso Liam, osservando ammirato il graffito.
Mi
appoggio una mano alla bocca, stringendomi più forte a mio fratello. Il murales
ritrae un ragazzino dalla carnagione olivastra e il volto semi-coperto dal
cappuccio del suo mantello giallo. Lo sfondo del paesaggio è un agglomerato di
macerie e fiamme, ma in primo piano ci sono solo persone che passeggiano
tranquille per strada, dirette verso un edificio che, forse per via di
questioni soggettive, mi ricorda proprio il R!ot.
In
lontananza, nel cielo scuro, si possono riconoscere delle figure alate dalla
coda irta di spine; una scia di fuoco fuoriesce dal muso di una di loro ed è
diretta verso le persone in primo piano, ma la bomboletta del ragazzo con il
mantello sembra in grado di neutralizzarla.
Infine,
fra le persone attorno al giovane, noto una bambina. Ha i capelli neri spartiti
in due trecce e tiene in mano una sorta di disco grigio, puntato verso i
draghi: uno scudo. La ragazzina sorride, tutt’altro che spaventata. Come se le
macerie e le creature aggressive sullo sfondo non fossero per lei altro che un
ricordo sbiadito o un brutto sogno ormai superato.
Sorride, e
il ragazzino con il mantello sorride con lei.
Sorrido
anch’io, fra le lacrime, appoggiando la mano sul murales di Aris.
Ho trovato
un pezzo di lui.
Ho trovato
il covo del guerriero.
*
Attraverseremo insieme questo regno
E attenderò con te la fine dell'inverno
Dalla notte al giorno, da Occidente a Oriente
Io sarò con te e sarò il tuo guerriero
Sono ormai trascorsi due anni dal giorno in cui abbiamo
trovato il rifugio di Aris.
Un pomeriggio, a qualche settimana di distanza da
quell’evento, scrissi un’e-mail a Dre Malden; lo vedo ancora almeno una volta ogni sei mesi,
durante le sue brevi incursioni nel Distretto 12 in cui viene a trovare il suo
unico nipotino, Joel.
Dre rispose
alla mia e-mail dopo meno di una settimana e continuammo a scriverci a lungo,
ma dovette passare quasi un anno prima che il motivo di quello scambio di
conversazioni fra noi desse i suoi frutti.
Accadde un giorno come tanti, mentre portavo mio figlio
Kyle in edicola. Avevo promesso che gli avrei comprato uno di quei fumetti per
cui lui e Blue andavano matti; l’insistenza di mio figlio non era l’unico
motivo per cui, quel sabato mattina presto, avevo permesso al mio piccolo di
buttarmi giù dal letto senza nemmeno ribattere. Ce n’era un secondo, ma non ne
avevo parlato con nessuno al di fuori di Gale. Mi sentivo in colpa a tenermelo
per me, ma in qualche modo sentivo che quella era una cosa nostra, e volevo
considerarla tale ancora per un po’.
Il tragitto verso l’edicola era breve, ma quel mattino
particolare sembrò durare un’eternità. Quando Kyle si trovò di fronte allo
scaffale dei fumetti, un sorriso timido illuminò il suo sguardo solare, mentre
i suoi occhioni grigi mi chiedevano silenziosamente il permesso di poter dare
un’occhiata.
Lo lasciai
fare, mentre cercavo di trovare il coraggio di seguirlo.
Non mi ero ancora convinta quando, pochi minuti più
tardi, Kyle mi trotterellò incontro con due fumetti fra le mani. Riconobbi
subito il primo, il nuovo numero della sua serie preferita, mentre la vista del
secondo giornaletto fece subito accelerare i battiti del mio cuore.
“Posso prendere anche questo, mamma?” chiese Kyle,
nascondendo il volto nella felpa, come faceva sempre quando si vergognava o
voleva chiedermi di comprargli qualcosa.
Osservai con attenzione la copertina del fumetto per
cercarne l’autore, anche se non avevo poi così bisogno di farlo: lo stile di Dreika Malden, così come per me
era stato al suo tempo quello di Aris, era inconfondibile. Perfino Kyle, che
non sapeva ancora leggere, doveva essersi accorto che quel fumetto era stato
scritto dal suo autore preferito. Probabilmente era per quello che l’aveva
scelto.
Sorrisi, sfiorando con malinconia mista a tenerezza il
volto del protagonista in primo piano.
Il sorriso
si trasformò tutto a un tratto in una risata, che sorprese me quanto mio
figlio. Risi tanto, non riuscendo a fare a meno di scoccare un’occhiata verso
l’alto, al mio vecchio amico cielo.
“Certo che
puoi prenderlo” permisi infine, accarezzando la zazzera corvina di mio figlio.
Gli diedi i soldi giusti, perché potesse pagare il proprietario dell’edicola e
lo guardai correre dentro, sforzandomi di ignorare il groppo che avvertivo in
gola. Solo quando mio figlio fu scomparso alla mia vista mi resi conto che il
fumetto era rimasto in mano a me. Lo osservai ancora, come immaginavo avrei
fatto a lungo anche quel pomeriggio e durante i giorni successivi, leggendolo
assieme a Kyle.
In primo
piano, un ragazzino dai capelli scuri e un mantello giallo col cappuccio
spiccava in mezzo al rosso delle fiamme in lontananza, alimentate dai soffi
infuocati di un pugno di draghi. Il giovane volava anch’egli, e teneva una
bomboletta di vernice in una mano e uno scudo di metallo nell’altra.
Il titolo
del fumetto incorniciava la scena, riflettendo lucido i primi pallidi raggi di
sole primaverile che gli rimbalzavano contro: Guerriero.
«E quando ti sarai
consolato (ci si consola sempre) sarai contento di avermi conosciuto. Sarai
sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me.»
Il Piccolo Principe. Antoine de Saint-Exupéry
Note Finali.
Questa storia è
stata scritta per l’ottavo turno del contest “1 su 24 ce la fa” indetto da ManuFury. La consegna chiedeva di scrivere una storia
incentrata sulla morte del nostro personaggio (nel mio caso Posy) o sulla morte
di una persona cara al nostro personaggio. Ho così approfittato di questa
traccia per introdurre un OC che ha sempre fatto parte del mio head-canon per quanto riguarda il futuro di Gale nel Distretto
2: quella peste di Aris. A lui tengo tantissimo e sognavo da un po’ di riuscire
ad introdurlo, per questo spero di non aver sproloquiato troppo finendo con
l’andare fuori tema.
Lo stile della
storia è un po’ diverso da quello che utilizzo di solito, perché dovendo
scrivere in prima persona, mi sono dovuta adattare all’età di Posy. Questa
volta non ho potuto utilizzare l’espediente di lei che racconta da adulta,
purtroppo, (come era invece accaduto in “Il cielo non crolla”) al di fuori
degli ultimi due frammenti di storia che sono ambientati a parecchi anni di
distanza dalla prima parte. La Posy narratrice ha all’incirca nove, dieci
anni e alterna riflessioni ambientate al presente a dei ricordi di quando era
più piccola. I ricordi riflettono anche nello stile la sua età, per questo nel
primo flashback, dove è più piccola, c’è un maggior numero di ripetizioni e un
linguaggio più colloquiale, mentre nel secondo lo stile è leggermente meno
infantile. Ho cercato rendere il racconto il più scorrevole possibile pur
aggiungendo, di tanto in tanto, modi di parlare più fanciulleschi. È
praticamente impossibile raccontare dal punto di vista di un bambino senza
alzare di tanto in tanto, almeno di poco il registro, ma ho cercato di renderlo
il più fedele possibile al modo di pensare di una ragazzina di quell’età.
Fortunatamente per me, Posy ha sempre letto tanto e quindi se la cava
abbastanza anche a raccontare.
Che altro
aggiungere? Per quanto riguarda la morte di Aris, mi sono ispirata
principalmente a due cose: una scena di un film intitolato “Un sogno per
domani” (che non descrivo perché conterrebbe dei grandi spoiler) e un fatto di
cronaca purtroppo realmente accaduto: sto parlando della tragedia di Rob Knox, un ragazzo che era nel cast di Harry Potter è che
è morto per una pugnalata mentre cercava di difendere il fratellino fuori da un
bar. Nel mio head-canon il Distretto 2 del futuro non
è esattamente un bel posto. Già solo il R!ot” è un
locale dove, sul retro, fanno incontri clandestini di pugilato e ho sempre
immaginato che molti ex-adolescenti decisi a offrirsi volontari agli Hunger Games siano finiti là dietro a darsele di santa
ragione.
Inoltre, ho sempre
anche immaginato che nei quartieri messi peggio del Distretto 2 circolassero
diverse Baby Gang, ed è stato proprio un membro di una di queste a infastidire
la ragazza e, in seguito, a ferire Aris a morte. Spero non sia stata una scelta
troppo azzardata, questa mia scelta; forse non si adatta del tutto al contesto
“Hunger Games”, ma purtroppo queste cose accadono
spesso anche qui in Italia, e le vittime alle volte sono ragazzini all’incirca
delle età di Aris o poco più grandi. Ci tenevo che a modo suo morisse da eroe,
senza tuttavia tradire i suoi modi di fare tutt’altro che positivi, perché Aris
non è e probabilmente non sarebbe mai diventato un “Principe Azzurro” come
potrebbe essere invece Dru (il futuro
fidanzato/marito di Posy). Aris era pieno di imperfezioni, però era buono, e ci
tenevo che questo sue essere un ‘guerriero’ emergesse, grazie a questa capacità
che Posy ha sempre avuto di vedere il bello nelle persone.
[1] Sapheen: la madre di Joel.
[2] Il
congiuntivo mancante è voluto. Aris spesso e volentieri cerca di usare dei
termini da grandi per fare il ‘fighetto’, ma la sua grammatica lascia un po’ a
desiderare.
[3] Aris
detesta i soldati, pur essendone praticamente circondato (suo padre è
comandante, entrambi i suoi fratelli frequentano l’Accademia). Questo probabilmente
è dovuto principalmente al suo rapporto molto conflittuale col padre, ma questa
è un’altra storia (!)
[4] I versi
inseriti in alcune parti di storia sono tratti dalla canzone “Guerriero” di
Marco Mengoni.
[5] Questo è un
riferimento a una mia storia su Gale e suo padre, intitolata appunto “Il
Ribelle”.