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Autore: Kary91    04/05/2015    7 recensioni
{Post-saga | Posy Hawthorne & Aris Shaw (OC, Distretto 2)}
“È una rosa?”
“Già. Come quella del principe nano o come si chiama…”
“Piccolo Principe” lo corressi, inginocchiandomi di fronte al muro. “Ci manca la campana di vetro, però.”
“La che?” mi chiese Aris, aggrottando le sopracciglia. “Ma che razza di fesserie ti leggi, tu?”
“Sei più grande di me, però non sai proprio niente!” dissi io, dopo aver sbuffato. “La campana di vetro serve a proteggere la rosa! Così nessuno può farle del male.”
A quel punto, Aris si chinò per potermi parlare a faccia a faccia e mi sorrise. Non era uno di quei sorrisi antipatici di chi ti vuole prendere in giro. Era un sorriso buono, da amico. Un sorriso che mi piaceva.
“Beh, a questa rosa qui la campana di vetro non serve” mi spiegò, battendo la mano sul muro. “Perché ci sono io a proteggerla.”
Questa storia partecipa all'ultimo turno del contest "1 su 24 ce la fa" indetto da ManuFury
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Famiglia Hawthorne, Gale Hawthorne, Nuovo personaggio, Posy Hawthorne, Rory Hawthorne
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Figli del Giacimento - The Hawthorne Family.'
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Premessa. La protagonista di questa storia è Posy Hawthorne, la sorellina di Gale. La storia è ambientata circa cinque anni dopo la rivolta, quando Posy ha all’incirca 9, 10 anni. Aris, il co-protagonista, è un ragazzino un po’ delinquente figlio del generale dell’accademia di Aeronautica dove ha studiato Gale nel Distretto 2. La storia si alterna ad alcuni versi della canzone “Guerriero” di Marco Mengoni, da cui ho preso ispirazione per scrivere.

 

 

«Fa bene l’aver avuto un amico, anche se poi si muore.»

Il Piccolo Principe. Antoine de Saint-Exupéry

 

 

Guerriero

guer

 

Ho letto che quando una persona muore il corpo le diventa tutto freddo.

Il cuore smette di battere; gli occhi non vedono più, anche se non sembra, perché certe volte rimangono aperti. Il cervello si spegne e, a quel punto, tutto ciò che c’era dentro si cancella, come per magia. Forse è proprio questa la cosa più triste: le persone morte non si ricordano più di noi. Non possono parlarci, abbracciarci o prenderci in giro, perché anche se il loro cuore ricominciasse a battere non capirebbero comunque chi siamo.

Per questo ho portato il mantello. Perché sono sicura che, se un giorno il corpo di Aris riprendesse a funzionare, guardandolo si ricorderebbe subito di me. In fondo sono stata io a farglielo, anche se lui non l’ha mai visto. Gliel’avevo promesso, gli avevo promesso che gliel’avrei portato, ma Aris non ha aspettato le vacanze di metà marzo come tutti gli anni. In quel periodo andavo sempre nel Distretto 2 a trovare mio fratello Gale, ed era lì che vedevo Aris. L’ho fatto anche quest’anno e lui è qui, di fronte a me, ma adesso si è spento ed è freddo. Non può vedere il mantello, perché i suoi occhi non funzionano più e, anche se andassero ancora bene, vedrebbe lo stesso tutto buio, perché l’hanno chiuso in una bara.

Hanno paura le persone morte? Sentono il freddo? Oggi c’è un vento forte, da far gelare il sangue nelle vene, e Aris dentro quella scatola di legno non ha nemmeno un giubbotto. Lo so anche se non l’ho visto, perché me l’ha detto Gale.

Gale sa tutto di Aris-da-spento, perché non l’ha lasciato mai solo da quando gli hanno detto che era morto. Non è tornato a casa nemmeno per mangiare e la soldatessa bionda che sembra sempre arrabbiata[1] ha dovuto praticamente trascinarlo via dalla stanza dove tenevano Aris, per farlo dormire qualche ora; tanto non ha dormito comunque.

Questa mattina l’ho visto piangere per la prima volta. Ha pianto come un bambino piccolo e anche se l’abbiamo abbracciato tutti – io e la mamma, Vick, Sapheen (è così che si chiama la soldatessa) – non è servito a niente. Voleva molto bene ad Aris; questo perché mentre io, Vick e Rory eravamo nel Distretto 12, era lui il suo fratellino, anche se all’inizio non si piacevano per niente. In fondo neanche a me Aris è piaciuto molto la prima volta che ci siamo incontrati. L’ho conosciuto alla scuola per soldati-piloti dove studiava Gale e me lo ricordo bene, anche se è successo più di quattro anni fa, quando dovevo ancora compierne sei. Lui ne aveva nove, ma gli piaceva sembrare più grande e faceva sempre il duro e lo scontroso, specie con i soldati.

Ho detto che Aris non mi era piaciuto molto, ma questo non è del tutto vero. La verità è che lì per lì lo trovai antipatico, ma cambiai idea quasi subito. Accadde il giorno in cui decisi che i principi azzurri non mi interessavano più, almeno per il momento; il giorno in cui capii che a loro preferivo i guerrieri.

 

Giuro sarò roccia contro il fuoco e il gelo

Veglio su di te, io sono il tuo guerriero

 

 

“Chi è quel ragazzino?” domandò la mamma a Gale, guardando, come me, quel bambino che ci fissava con le mani in tasca e il cappuccio sulla testa. Aveva la pelle più scura di quelli del Due un po’ come la mia e grandi occhi marroni.

“Il figlio del capo” rispose mio fratello, indicando con il mento una cornice appesa a una parete. Dentro c’era la foto di un uomo tutto vestito bene, con un cappello da capitano. Gale ci aveva spiegato che era il Generale Shaw, il capitano dell’Accademia. “Si chiama Aris; avrà otto o nove anni, ma è un piccolo delinquente. Certe volte ho rischiato di prenderlo a pugni, sa come far perdere la pazienza alle gente.”

In quel momento Aris si avvicinò a noi. Gale gli presentò i miei fratelli e spiegò che avevano solo un po’ più della sua età, ma lui fece spallucce e non disse nulla. Rimase zitto e non guardò nessuno in faccia, anche quando Vick gli sorrise e gli diede la mano per farsela stringere. E, dopo una prima occhiataccia, non guardò più nemmeno Rory.

Guardava me: solo me. Sorrise, prendendomi in giro con gli occhi.

“Non sapevo che avevi[2] una sorella piccola” disse poi a Gale, avvicinandosi a me. Mi nascosi dietro le gambe di mio fratello; se non gli piacevano Rory e Vick non volevo piacergli nemmeno io.

“Come ti chiami, piccoletta?”

Ci misi tanto tempo a rispondergli.

 “Posy.”

Il ragazzino mi guardò come se avessi detto una cosa stupida o molto buffa.

“Posy? Che nome strano!”

La sua risposta mi fece arrabbiare.

“Non è strano, l’ha scelto mio papà!” spiegai, uscendo da dietro le gambe di Gale. “Significa fiore, uno di quelli belli tipo la rosa del Piccolo Principe. Non l’hai letto?” chiesi, parlando del mio libro preferito. A cinque anni e mezzo ero sicura che tutti i ragazzini avessero almeno sentito parlare del Piccolo Principe.

Aris si mise a ridere e fece più volte no con la testa.

“Io non leggo, mocciosa” mi rispose poi, con le mani in tasca. “Ho di meglio da fare.”

Mentre parlava giocava con un accendino, accendendo la fiamma e poi spegnendola con due dita. Avrei voluto gridargli di smetterla, perché avevo paura che si facesse male, ma da un lato ero anche curiosa: come faceva a non bruciarsi?

“Di meglio tipo cosa?” domandai, guardandolo male: si dava tante arie, ma non poteva essere poi così impegnato come voleva farmi credere. In fondo era perfino più piccolo di Vick.

Aris ci pensò su per un attimo, battendo un piede per terra. Infine, fece un sorriso di quelli furbetti.

“Combatto il crimine; sono un guerriero” rispose tutto fiero, mettendosi a braccia conserte.

Rory lo fissò come se pensasse che fosse matto. Quando Aris lo guardò male, brontolò qualcosa a denti stretti e chiese Vick di accompagnarlo a prendere una bibita, prima di uscire dalla stanza con lui. Io ero troppo interessata al discorso di Aris, per supplicarli di portarmi con loro.

“Allora sei come Gale?” chiesi, indicando mio fratello; lui e la mamma se ne erano andati dall’altra parte del salone e stavano parlando a bassa voce.

A quel punto, Aris fece una cosa bruttissima: sputò per terra, prima di scuotere forte la testa.

“Mai. Tuo fratello è uno schifosissimo soldato[3]” mi disse, disgustato. “Io non faccio lo schiavetto dei miei superiori come lui e i suoi amichetti. Che hai?” chiese poi, quando mi voltai dall’altra parte.

Le sue parole mi avevano fatta infuriare; avrei voluto pestargli il piede, ma preferii girarmi e basta, perché avevo un po’ paura di lui. Non mi fidavo delle sue arie da duro, con quel suo cappuccio sulla testa e l’accendino.

“Hai detto che mio fratello è schifosissimo” borbottai, mettendomi a braccia conserte. “Non voglio più essere tua amica.”

Aris fece di nuovo quella risatina da duro che non mi piaceva per niente.

“Sai che me ne faccio di una piccoletta come te… ” lo sentii rispondere. Volevo voltarmi per scoprire se stava ancora giocando con l’accendino, ma non lo feci. “… Ho ben altro da fare, te l’ho già detto.”

Mi misi le mani sulle orecchie per non ascoltarlo. Se da un lato i suoi commenti mi avevano fatto arrabbiare, dall’altro mi spiaceva doverci litigare. Ero curiosa di scoprire cosa facesse esattamente un guerriero e come faceva Aris a combattere il crimine, se aveva solo nove anni. Ma avevo la testa dura, proprio come i miei fratelli, e continuai a ignorarlo.

Aris si arrabbiò; lo capii anche se non potevo vederlo, perché lo sentii sbuffare e poi tirare un calcio a una sedia.

Passò tanto tempo – o almeno così mi sembrò – e alla fine lui si inginocchiò di fronte a me. Mi tolse le mani dalle orecchie e, anche se lottai con lui per tenerle sulla mia testa, non sembrava più arrabbiato.

“Ehi, vuoi vedere una cosa?” mi chiese, facendo uno di quei sorrisi misteriosi che avevo visto tante volte sulle labbra dei miei fratelli, quando mi preparavano qualche sorpresa.

Feci no con la testa, anche se in realtà avrei voluto dirgli di sì. Aris sembrò capirlo, perché frugò nelle tasche di quei pantaloni larghissimi e tirò fuori una bomboletta rossa e una nera.

“Coprimi” mi disse, incominciando ad agitarne una. Lo guardai confusa, non sapendo cosa fare. Pensai che forse aveva freddo, così mi offrii di cercargli una coperta.

Aris sbuffò spazientito. Poi, però, si mise a ridere.

“Quando qualcuno ti chiede di coprirlo, piccoletta, significa che devi guardargli le spalle” mi spiegò, prima di ricominciare a ridacchiare, quando si accorse che avevo incominciato a fissargli la schiena. “Nascondimi! Coprimi significa ‘nascondimi’!”

Lo guardai male, infastidita dalle sue risatine, ma poi mi misi davanti a lui. Aris mi sorrise e si inginocchiò a terra, aprendo una bomboletta. Quando incominciò a spruzzare il colore sul muro, mi preoccupai tantissimo. Ero sicura che una cosa del genere non si potesse fare e avevo paura che uno di quei soldati dall’aria cattiva che giravano per l’Accademia sarebbe venuto a sgridarci. Quando lo dissi ad Aris, lui fece spallucce.

“Non ti accadrà niente, tranquilla” promise, continuando a colorare il muro con la sua vernice. “Non devi avere strizza, quando sei con me: ti guardo le spalle.”

Finalmente, incominciai a capire il significato di quella frase sulle spalle. Significava ‘aiutarsi a vicenda’, un po’ come facevamo io e i miei fratelli. Significava avere un’altra persona, oltre alla mamma, Gale, Rory e Vick che voleva proteggermi.

Quando Aris finì il disegno, si alzò e mi scompigliò i capelli.

“Che te ne pare, nanetta?”

Feci una smorfia, perché era bruttissimo sentirsi chiamare nanetta: non ero mica così bassa! Nella mia classe c’erano ben tre bambini più piccoli di me. Quando guardai il suo disegno, però, smisi di sentirmi tanto arrabbiata: era un fiore bellissimo, dai grandi petali rossi.

“È una rosa?”

Aris si mise di nuovo le mani in tasca.

“Già. Come quella del principe nano o come si chiama…”

“Piccolo Principe” lo corressi, inginocchiandomi di fronte al muro. Passai le dita sulla vernice e si sporcarono tutte di rosso. “Ci manca la campana di vetro, però.”

“La che?” mi chiese Aris, aggrottando le sopracciglia. “Ma che razza di fesserie ti leggi, tu?”

“Sei più grande di me, però non sai proprio niente!” dissi io, dopo aver sbuffato. “La campana di vetro serve a proteggere la rosa! Così nessuno può farle del male.”

A quel punto, Aris si chinò per potermi parlare a faccia a faccia e mi sorrise. Non era uno di quei sorrisi antipatici di chi ti vuole prendere in giro. Era un sorriso buono, da amico. Un sorriso che mi piaceva.

“Beh, a questa rosa qui la campana di vetro non serve” mi spiegò, battendo la mano sul muro. “Perché ci sono io a proteggerla.”

E, anche se non ero ancora bravissima a leggere, in quel momento mi sembrò di leggere nel sorriso di Aris che non stava parlando del disegno, ma di me.

“È così che fanno i guerrieri, vero?” domandai, arrossendo un pochino. “Proteggono le rose?”

“Ma che?…” borbottò lui. Fece no con la testa, come se mi credesse matta. Poi, però, mi sorrise.

“Sì, dai. A volte lo fanno” rispose, spettinandomi tutta.

Risi anch’io, perché quel gesto non mi aveva dato poi così fastidio. Fu quello il momento in cui capii di aver trovato un nuovo amico. Non era buono e gentile come i principi azzurri, ma per qualche strana ragione mi sembrava ancora più bello, forte e speciale di loro.

 

Vinceremo contro tutti e resteremo in piedi

E resterò al tuo fianco fino a che vorrai

Ti difenderò da tutto, non temere mai

 

*

 

Ci sono tante persone che, come me, sono venute a portare un regalo per Aris, prima che la sua scatola di legno venga messa sotto terra. I miei preferiti sono i giornaletti di Dreika Malden; Dre non è solo il fratello di Sapheen-la-soldatessa-bionda, ma è anche un fumettista. Aris andava matto per i suoi personaggi. Diceva che erano quelli i veri guerrieri; non i soldati, ma gli eroi che salvavano la vita agli altri di nascosto, senza dover seguire gli ordini di nessuno. Quelli che pensavano con la loro testa e che mica erano sempre tutti perfettini, ma nemmeno facevano finta di esserlo, a differenza dei militari importanti come suo padre o quelli di grado inferiore, come quei burattini dei suoi fratelli. Io non capivo quasi mai le sue parole, ma mi piaceva leggere i fumetti assieme a lui. Si capiva che ci credeva veramente in quello che diceva e forse, da grande, sarebbe davvero diventato un super-eroe come quelli che ammirava tanto. Dreika Malden lo sa bene, per questo è venuto al suo funerale e gli ha portato dei giornaletti: perché come me spera che, se un giorno Aris tornasse ad accendersi, sfogliando quelle pagine riuscirebbe a ricordarsi di essere un eroe. Uno di quelli a cui non servono i poteri magici, per aiutare le persone: niente morsi di ragno o strani pipistrelli, per Aris Hiram Shaw. A lui bastavano alcune parole speciali, uno scudo di plastica e una torcia per farmi la passare la paura.

Era un eroe vero, di quelli che sanno come scacciare gli incubi e i draghi degli altri, anche se i mostri sotto il letto ce li hanno pure loro.

 

Io sono un guerriero

Veglio quando è notte

Ti difenderò da incubi e tristezze

 

Non temere il drago

Fermerò il suo fuoco

Niente può colpirti dietro questo scudo[4]

 

 

Faceva un sacco di caldo, quella notte. Continuavo a girarmi nel letto senza riuscire ad addormentarmi, perché le lenzuola mi si appiccicavano alla pelle sudaticcia. Quando finalmente riuscii a prendere sonno, feci un incubo di quelli terribili. Sognai il cielo che crollava e distruggeva le case e i negozi del Distretto 12, alzando grandi polveroni neri. Draghi grandissimi sputavano fuoco sui tetti delle botteghe e il Palazzo di Giustizia cadeva a terra in mille pezzi, mentre le persone scappavano urlando. Nel sogno mi ero nascosta sotto il letto assieme a Vick, ma uno dei draghi era riuscito a trovarci e con le sue unghie stava tirando via il tetto della nostra stanza. Si preparava a sputare fuoco su di noi, mentre Vick ed io ci abbracciavamo stretti, chiamando la mamma, Gale e Rory, che erano da qualche parte sotto le macerie.

“Mamma!” stavo ancora urlando, quando i miei occhi si aprirono di scatto. Il drago stava facendo tremare le pareti, ma svegliandomi scoprii che non c’era nessun drago, e che qualcuno mi stava scuotendo per le spalle.

Capii che era Aris dal modo in cui mi stava chiamando.

“Ehi, piccoletta” disse due o tre volte, fino a quando non smisi di lamentarmi. “Brutto incubo, eh?” mi chiese poi, sedendosi sul letto di fianco a me. “Ti stavi agitando tutta.”

Mi guardai attorno, sentendomi confusa. Ero nella stanza degli ospiti a casa di Gale, nel Distretto 2. Come quasi ogni anno ero venuta a stare da lui qualche settimana per le vacanze estive e, come quasi ogni notte, Aris si era intrufolato dentro per venire a vedere come stavo. Le prime volte mi ero spaventata molto nel sentire qualcuno che entrava nella mia cameretta di soppiatto, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine.

Aris aveva appena compiuto undici anni e dall’inizio dell’estate si era trovato un nuovo passatempo, l’ennesimo che lo metteva spesso nei guai: entrava nelle case delle persone che gli piacevano poco – gente con la puzza sotto il naso o persone manesche, che se la prendevano quasi sempre con le femmine, i bambini o gli animali – e le spaventava o combinava qualche marachella. Certe volte s’intrufolava in qualche casa e basta, così per passare il tempo giusto perché sapeva farlo, senza sapere chi ci vivesse dentro. Quasi sempre lasciava un messaggio: disegni fatti con le sue bombolette che, ormai lo sapevo, si chiamavano graffiti.

“Sognavo i draghi” sussurrai, stiracchiandomi e stringendomi le ginocchia al petto. “Stavano distruggendo il mio Distretto, come quando ci sono stati i bombardamenti.”

“Ci pensi ancora tanto, eh?” mi chiese lui, mettendomi un braccio intorno alle spalle. Mi appoggiai al suo braccio e chiusi gli occhi; aveva un odore strano, Aris. Un misto tra vernice spray e fumo.

“Se stanotte cadesse di nuovo il cielo, se arrivassero i draghi, non saprei come fermarli” gli spiegai, mentre lui tornava a giocherellare con il suo accendino. “Non saprei dove scappare; Gale ed io moriremmo.”

La fiamma dell’accendino si spense di scatto. Aris mi guardò strano per un po’, poi scese dal letto.

“Aspettami qui” mi disse, uscendo di corsa.

Lo aspettai con la luce della lampada da comodino accesa e le finestre socchiuse, anche se si moriva di caldo. Quando tornò non aveva più l’accendino, ma una specie di coperchio di metallo, di quelli per le pentole. Mi puntò contro la sua torcia e vidi sul suo volto quel sorriso furbetto che mi faceva sempre.

“Perché sei andato a prendere un coperchio?” chiesi, incuriosita. Forse aveva fame e se ne era andato in cucina a prepararci qualcosa da mangiare.

Aris mi mise l’oggetto sulla testa e si lasciò cadere sul letto.

“Ma quale coperchio? Questo qui è uno scudo incantato: sono andato a prenderlo nel mio covo segreto.”

Erano settimane che Aris si vantava di aver trovato un rifugio tipo quelli che hanno i super-eroi dei fumetti, ma non mi ci aveva mai portata. Ogni tanto gli tenevo il muso per quello, ma di solito mi dimenticavo in fretta di essere stata arrabbiata con lui e tornavamo amici come prima. Visto che quella notte me l’aveva ricordato, però, gli misi il broncio, anche se ormai mi ero convinta che non esistesse nessun covo segreto.

“Non è vero, è solo un coperchio” gli dissi, incrociando le braccia sul petto. Aris sbuffò più forte e me lo buttò sulle gambe.

“Ahi, stupido! Fa male!”

“Fidati che con questo la strizza ti passa. È fatto apposta per sembrare una robetta da niente, così nessuno me lo ruba. Però è uno scudo da guerriero fatto di un materiale anti-fiamma, pensato apposta per vedersela con i draghi o le esplosioni. Protegge te e tutti quelli che ti stanno intorno.”

Mi misi a ridere, e guardai meravigliata quello scudo. Non credevo per davvero alle parole di Aris – non del tutto, almeno – ma quando toccai il manico freddo di quel coperchio sentii una strana calma entrarmi dalle dita e salire fino alla testa.

“Resti qui fino a quando non mi addormento?” chiesi poi, appoggiando lo scudo sul comodino. Aris fece spallucce e si sedette vicino a me, appoggiando la schiena alla parete dietro il letto.

“Per forza, altrimenti ti metti a frignare.”

Gli diedi un calcio e lui si mise a ridere. Mentre cercava di farmi il solletico, mi accorsi di degli strani segni che aveva su alcuni punti delle braccia e dietro il collo.

“Che cosa sono?” dissi, provando a toccarne uno. Aris si spostò subito, come se avesse preso la scossa.

“Niente di che” rispose poi, alzando le spalle per nascondere il collo con la canottiera. “Ferite di guerra. Ogni guerriero ne ha qualcuna.”

“Questo lo so!” risposi subito, contenta di non dovermi far spiegare sempre tutto. “Rory una volta mi ha detto che papà gli ha detto che i ribelli hanno tante cicatrici. Tu sei un ribelle[5]?”

Aris fece una faccia orgogliosa.

“Certo. Tutti i veri guerrieri lo sono. Adesso però vedi di dormire, nanerottola, o tuo fratello sentirà la tua vocetta stridula e verrà qui a romperci i coglio...”

Si interruppe a metà della parola: sapeva che non mi piacevano le parolacce.

Feci sì con la testa e mi rannicchiai al suo fianco. Guardai lo scudo sul comodino e chiusi gli occhi, più tranquilla rispetto a prima. Il letto era ancora più caldo con Aris vicino a me, ma sapere che era lì mi faceva sentire al sicuro: Aris-il-guerriero era sicuramente lo scudo migliore del mondo.

“Lo sai, sei fortunata” mi sussurrò lui a un certo punto. “Tuo fratello non è male, per essere un soldato. Si vede che ti copre le spalle. E poi si sta meglio, senza padri intorno: quelli sanno solo farti del male.”

“Mio papà era bravissimo” risposi, infastidita. “Però è vero che sono fortunata ad avere Gale. E Rory, e Vick.”

Rimanemmo di nuovo in silenzio per dei minuti, poi accadde una cosa strana. Mi tornarono alla mente gli strani segni sulle braccia di Aris ed ebbi una voglia matta di fargli una domanda, anche se non ero sicurissima di voler sentire la sua risposta.

“È stato tuo papà? A farti le ferite di guerra?”

Aris non mi rispose. Avrei voluto che ci fosse più luce per capire se stava arrossendo: forse anche lui, come il Piccolo Principe, diventava tutto rosso quando la risposta a una domanda era sì.

Improvvisamente mi alzai a sedere e lo abbracciai. Non sapevo bene perché, ma qualcosa nella sua faccia mi aveva fatto pensare che fosse triste.

Aris mi puntò contro la torcia e strizzai forte gli occhi, riparandomi contro il suo petto.

Quando riuscii a guardarlo, decisi che sembrava un po’ arrossito per davvero.

“Che fai, piccoletta?” mi chiese, scuotendo la testa come se avessi appena detto qualcosa di buffo.

“Ti copro le spalle” risposi, facendogli un sorriso furbetto.

Aris rise di nuovo come faceva le volte in cui mi prendeva in giro; poi, però, mi abbracciò anche lui.

“Se vuoi coprirmi le spalle, mi puoi fare un mantello” scherzò, facendomi il solletico.

Risi di nuovo e poi appoggiai la testa contro la sua spalla.

“Te ne porterò uno, un giorno” decisi, dandogli un colpetto sul petto come faceva sempre lui con Quinn e Gale. “Promesso.”

Quella notte, per la prima volta da giorni, i draghi tornarono a lasciarmi stare.


Ti riparerò da inganni e maldicenze

E ti abbraccerò per darti forza sempre

 

*

Lotterò con forza contro tutto il male

E quando cadrò tu non disperare


C’è una frase che il Piccolo Principe dice al pilota verso la fine del libro: ‘fa bene l’aver avuto un amico, anche se poi si muore.’

Quando l’ho letta per la prima volta non ero sicura di averla capita. Ora invece la capisco eccome, ma non mi ci trovo per niente d’accordo.

L’aver avuto un amico che adesso sta in una cassa di legno fa male, talmente male che è un po’ come morire assieme a lui. Anche tu diventi freddo e tutto ti si irrigidisce. Il tuo cervello non funziona più bene e va sempre a finire che pure tu ti spegni. Non ti va di ridere o di giocare con i tuoi fratelli. Se ti accendi è solo per piangere, mentre abbracci uno stupido coperchio di metallo.

Aris è morto a tredici anni e un quarto, alle ventitré e trenta di un venerdì freddo e pieno di nebbia.

È morto cercando di difendere una ragazza che non conosceva, poco più grande di lui. Poco più piccola di Vick. Un ubriaco le stava dando fastidio e Aris l’ha spinto contro il muro, ma non è riuscito a farla franca come capitava sempre quando rubacchiava in giro, beveva e sporcava i monumenti del Distretto solo per fare arrabbiare suo papà.

Il coltello del ragazzo ubriaco gli ha colpito prima il fegato, poi il cuore. È scappato via prima che qualcuno chiamasse l’ambulanza.

Ho letto che, quando una persona muore, il corpo le diventa tutto freddo. Mi domando se sia così anche nel momento in cui succede. Ogni giorno, da quando Aris è morto, mi chiedo se abbia sentito freddo o se abbia avuto paura. Se abbia sentito male come adesso ne sento io, mentre la bara viene posata nel buco dentro al terreno, le persone piangono e la mamma mi stringe così forte la mano da stritolarla.

Voleva solo aiutare, Aris, ma questo non l’ha mai capito nessuno. Né il suo papà o i suoi fratelli, né le persone di tutte quelle Accademie da cui è stato cacciato quando era piccolo. Era uno di quei super-eroi dei fumetti che gli piacevano tanto, quelli che combinano un sacco di guai, ma che poi di nascosto salvano le vite degli altri. Era la mia campana di vetro e se penso che non lo vedrò mai più, che non incontrerò mai qualcun altro con addosso quello strano odore di fumo e vernice, il cuore mi batte così forte e la paura è talmente tanta che quasi mi convinco di avere i draghi sopra di me. Li vedo volare e sputare fuoco, la testa mi gira e le lacrime tornano.

Non voglio starci in questo posto, se Aris continuerà a stare spento. Non voglio sentire il mio corpo caldo, il mio cuore che batte, il cervello che funziona. Voglio far sparire tutto con un CLICK!, come succedeva quando Aris schiacciava il pulsante della sua torcia e non riuscivo a vedere più nulla.

E vorrei riaccendermi solo quando sentirò il suo ‘piccoletta’ e vedrò la fiamma del suo accendino che si muove a destra e a sinistra mentre tutto il resto scompare.

Solo allora potrà aver fatto bene l’aver avuto un amico, come dice il Piccolo Principe. Solo allora, quando sentirò nel mio orecchio la risata da duro di Aris, potrò smettere di essere triste.

Penso a questo, mentre mi avvicino alla bara e apro il mantello; è giallo come la luce della sua torcia, giallo come il suo colore preferito – lo so anche se non me l’hai mai detto, perché quando gliel’ho chiesto è arrossito – giallo come la felpa col cappuccio che aveva la prima volta che ci siamo parlati.

Lo appoggio alla cassa di legno e rabbrividisco, perché mi accorgo che è fredda.

“Ti copro le spalle” bisbiglio, sistemando meglio la stoffa sulla sua scatola di legno. Spero che il mantello lo protegga e lo tenga al caldo, così come lui ha fatto con me. “Io ti coprirò sempre le spalle.”

Mi metto a piangere non appena la terra incomincia a cadere sopra di lui. Mi avvicino a Gale e gli stringo forte la mano, fino a quando la bara non scompare sotto i nostri occhi. A quel punto, quasi nello stesso momento, mio fratello ed io ci voltiamo verso il signor Shaw. Ha addosso la divisa, se ne sta vicino ai due fratelli più grandi di Aris e continua a guardare per terra. La sua faccia è seria come sempre e non piange, ma credo che soffra lo stesso, anche se è sempre stato terribile con Aris. Anche se lo trattava male e non gli piaceva, così come ad Aris non piaceva lui.

Quando il signor Shaw, assieme agli altri soldati, fa il saluto militare verso il cumulo di terra che nasconde Aris-da-spento, capisco che adesso la pensa come me. Adesso sa che suo figlio era un guerriero e che in fondo gli voleva bene.

Dovrei esserne contenta, ma non lo sono.

Perché mi sarebbe tanto piaciuto che l’avesse capito prima.

 

Oltre queste mura troverò la gioia

O forse la mia fine comunque sarà gloria

E non lotterò mai per un compenso

Lotto per amore, lotterò per questo

 

 

Vent’anni dopo

Io sono un guerriero e troverò le forze

Lungo il tuo cammino

Sarò al tuo fianco mentre

Ti darò riparo contro le tempeste

E ti terrò per mano per scaldarti sempre

 

Oggi piove così tanto che, se solo ascoltassi il mio istinto, me ne resterei rintanata in casa a leggere qualche libro di quando ero ragazzina. Invece sono in viaggio, mano nella mano con Dru e mio figlio Liam, mentre l’altra mia bambina, Leah, saltella allegra verso ogni pozzanghera che nota, agganciata alle dita del papà.

 

Gale ci precede, seguito a poca distanza da mio nipote Joel. Vorrei raggiungerli, ma una parte di me continua a ricordarmi che in questo momento è lui quello che ha bisogno, più di tutti, di arrivare a destinazione prima degli altri. Mi ricorda che Gale voleva bene ad Aris quanto e forse anche più di me e che è giusto che si prenda questo momento per sé.

Imbocchiamo il vicolo che porta al War-R!ot, il locale di fianco all’Accademia che un tempo era come una seconda casa per Gale e il suo migliore amico Quinn, quando vivevano nel Due. Lo era stato anche per Aris, in realtà, perché ha iniziato a bazzicarci dentro quando aveva più o meno otto anni e rubava soldi al padre per passarli al proprietario di maniera che lui non facesse obiezioni sulla sua giovane età.

Vedo mio fratello esitare di fronte al locale, prima di superarlo sulla sinistra. Lo seguo, avvertendo un’insolita morsa all’altezza dello stomaco dovuta alla curiosità, mista a un pizzico di tensione.

Stringo più forte la mano di Dru, quando un vecchio garage sgangherato appare di fronte a noi. Le pareti sono dipinte di un giallo ocra mezzo scrostato, e la plastica sul tetto produce un rumore terribile, quando viene colpita dalla pioggia. Un murales scolorito s’intravede a malapena sul portello.

È stato Tarim, il fratello di Aris, a parlare a Gale di questo posto. I Pacificatori avevano trovato delle chiavi nelle tasche dei jeans del piccolo Shaw la notte in cui era morto, ma nessuno dei famigliari era mai riuscito a capire cosa aprissero fino a quando, qualche settimana prima, la sorella del ragazzino – Cora – non si era imbattuta in quel garage. Il murales dipinto sulla porta era mezzo scolorito, ma la firma di chiunque l’avesse fatto era ancora evidente, in un angolo in basso a destra.

Quel pomeriggio, Cora era tornata lì con le chiavi di Aris e il portellone si era aperto. Erano le stesse chiavi che Gale sta girando in questo momento, trafficando con la serratura arrugginita.

Entriamo in fretta per difenderci dalla pioggia, mentre Dru cerca a tentoni un interruttore. Un bzzz elettronico precede l’arrivo della luce fioca delle lampade e, a quel punto, la morsa allo stomaco mi avviluppa anche il petto. Il familiare odore di vernice mi riempie le narici, mescolandosi a quello di chiuso, e quasi mi pare di sentire del fumo a completare quel miscuglio.

Non riesco più a prestare attenzione ai miei figli, che saltellano incuriositi per il garage facendo ondeggiare le mantelline gocciolanti. Né a Dru e a Joel, che stanno osservando con attenzione due guantoni da boxe appesi a un chiodo alla parete. Ho occhi solo per la parete di fondo del garage e so che per mio fratello è lo stesso. Lo sento vicino a me e avverto il suo braccio attorno alla vita, mentre le lacrime incominciano a scivolarmi lungo le guance.

Di fronte a noi, un murales occupa l’intera parete, in un turbinio di colori sgargianti, anche se rovinati dall’umidità. Riesco a riconoscere con poco sforzo lo stile leggermente infantile di Aris in quei tratti a bomboletta, nonostante fossi appena una bambina l’ultima volta che ho visto uno dei suoi lavori.

“Chi l’ha fatto, mamma?” chiede Leah, appoggiando una mano alla parete e rincorrendo le linee nere che disegnano sul muro il contorno di un mantello. “Sembra uno di quei disegni che ci sono nei fumetti di Blue.”

“Ne posso avere uno così anche nella mia stanza, mamma?” entra subito nel discorso Liam, osservando ammirato il graffito.

Mi appoggio una mano alla bocca, stringendomi più forte a mio fratello. Il murales ritrae un ragazzino dalla carnagione olivastra e il volto semi-coperto dal cappuccio del suo mantello giallo. Lo sfondo del paesaggio è un agglomerato di macerie e fiamme, ma in primo piano ci sono solo persone che passeggiano tranquille per strada, dirette verso un edificio che, forse per via di questioni soggettive, mi ricorda proprio il R!ot.

In lontananza, nel cielo scuro, si possono riconoscere delle figure alate dalla coda irta di spine; una scia di fuoco fuoriesce dal muso di una di loro ed è diretta verso le persone in primo piano, ma la bomboletta del ragazzo con il mantello sembra in grado di neutralizzarla.

Infine, fra le persone attorno al giovane, noto una bambina. Ha i capelli neri spartiti in due trecce e tiene in mano una sorta di disco grigio, puntato verso i draghi: uno scudo. La ragazzina sorride, tutt’altro che spaventata. Come se le macerie e le creature aggressive sullo sfondo non fossero per lei altro che un ricordo sbiadito o un brutto sogno ormai superato.

Sorride, e il ragazzino con il mantello sorride con lei.

Sorrido anch’io, fra le lacrime, appoggiando la mano sul murales di Aris.

Ho trovato un pezzo di lui.

Ho trovato il covo del guerriero.

*

 

Attraverseremo insieme questo regno

E attenderò con te la fine dell'inverno

Dalla notte al giorno, da Occidente a Oriente

Io sarò con te e sarò il tuo guerriero

 

Sono ormai trascorsi due anni dal giorno in cui abbiamo trovato il rifugio di Aris.

Un pomeriggio, a qualche settimana di distanza da quell’evento, scrissi un’e-mail a Dre Malden; lo vedo ancora almeno una volta ogni sei mesi, durante le sue brevi incursioni nel Distretto 12 in cui viene a trovare il suo unico nipotino, Joel.

 

Dre rispose alla mia e-mail dopo meno di una settimana e continuammo a scriverci a lungo, ma dovette passare quasi un anno prima che il motivo di quello scambio di conversazioni fra noi desse i suoi frutti.

 

Accadde un giorno come tanti, mentre portavo mio figlio Kyle in edicola. Avevo promesso che gli avrei comprato uno di quei fumetti per cui lui e Blue andavano matti; l’insistenza di mio figlio non era l’unico motivo per cui, quel sabato mattina presto, avevo permesso al mio piccolo di buttarmi giù dal letto senza nemmeno ribattere. Ce n’era un secondo, ma non ne avevo parlato con nessuno al di fuori di Gale. Mi sentivo in colpa a tenermelo per me, ma in qualche modo sentivo che quella era una cosa nostra, e volevo considerarla tale ancora per un po’.

Il tragitto verso l’edicola era breve, ma quel mattino particolare sembrò durare un’eternità. Quando Kyle si trovò di fronte allo scaffale dei fumetti, un sorriso timido illuminò il suo sguardo solare, mentre i suoi occhioni grigi mi chiedevano silenziosamente il permesso di poter dare un’occhiata.

 

Lo lasciai fare, mentre cercavo di trovare il coraggio di seguirlo.

Non mi ero ancora convinta quando, pochi minuti più tardi, Kyle mi trotterellò incontro con due fumetti fra le mani. Riconobbi subito il primo, il nuovo numero della sua serie preferita, mentre la vista del secondo giornaletto fece subito accelerare i battiti del mio cuore.

 

“Posso prendere anche questo, mamma?” chiese Kyle, nascondendo il volto nella felpa, come faceva sempre quando si vergognava o voleva chiedermi di comprargli qualcosa.

 

Osservai con attenzione la copertina del fumetto per cercarne l’autore, anche se non avevo poi così bisogno di farlo: lo stile di Dreika Malden, così come per me era stato al suo tempo quello di Aris, era inconfondibile. Perfino Kyle, che non sapeva ancora leggere, doveva essersi accorto che quel fumetto era stato scritto dal suo autore preferito. Probabilmente era per quello che l’aveva scelto.

 

Sorrisi, sfiorando con malinconia mista a tenerezza il volto del protagonista in primo piano.

 

Il sorriso si trasformò tutto a un tratto in una risata, che sorprese me quanto mio figlio. Risi tanto, non riuscendo a fare a meno di scoccare un’occhiata verso l’alto, al mio vecchio amico cielo.

“Certo che puoi prenderlo” permisi infine, accarezzando la zazzera corvina di mio figlio. Gli diedi i soldi giusti, perché potesse pagare il proprietario dell’edicola e lo guardai correre dentro, sforzandomi di ignorare il groppo che avvertivo in gola. Solo quando mio figlio fu scomparso alla mia vista mi resi conto che il fumetto era rimasto in mano a me. Lo osservai ancora, come immaginavo avrei fatto a lungo anche quel pomeriggio e durante i giorni successivi, leggendolo assieme a Kyle.

In primo piano, un ragazzino dai capelli scuri e un mantello giallo col cappuccio spiccava in mezzo al rosso delle fiamme in lontananza, alimentate dai soffi infuocati di un pugno di draghi. Il giovane volava anch’egli, e teneva una bomboletta di vernice in una mano e uno scudo di metallo nell’altra.

Il titolo del fumetto incorniciava la scena, riflettendo lucido i primi pallidi raggi di sole primaverile che gli rimbalzavano contro: Guerriero.

 

«E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre) sarai contento di avermi conosciuto. Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me.»

Il Piccolo Principe. Antoine de Saint-Exupéry

 

Note Finali.

Questa storia è stata scritta per l’ottavo turno del contest “1 su 24 ce la fa” indetto da ManuFury. La consegna chiedeva di scrivere una storia incentrata sulla morte del nostro personaggio (nel mio caso Posy) o sulla morte di una persona cara al nostro personaggio. Ho così approfittato di questa traccia per introdurre un OC che ha sempre fatto parte del mio head-canon per quanto riguarda il futuro di Gale nel Distretto 2: quella peste di Aris. A lui tengo tantissimo e sognavo da un po’ di riuscire ad introdurlo, per questo spero di non aver sproloquiato troppo finendo con l’andare fuori tema.

 

Lo stile della storia è un po’ diverso da quello che utilizzo di solito, perché dovendo scrivere in prima persona, mi sono dovuta adattare all’età di Posy. Questa volta non ho potuto utilizzare l’espediente di lei che racconta da adulta, purtroppo, (come era invece accaduto in “Il cielo non crolla”) al di fuori degli ultimi due frammenti di storia che sono ambientati a parecchi anni di distanza dalla prima parte.  La Posy narratrice ha all’incirca nove, dieci anni e alterna riflessioni ambientate al presente a dei ricordi di quando era più piccola. I ricordi riflettono anche nello stile la sua età, per questo nel primo flashback, dove è più piccola, c’è un maggior numero di ripetizioni e un linguaggio più colloquiale, mentre nel secondo lo stile è leggermente meno infantile. Ho cercato rendere il racconto il più scorrevole possibile pur aggiungendo, di tanto in tanto, modi di parlare più fanciulleschi. È praticamente impossibile raccontare dal punto di vista di un bambino senza alzare di tanto in tanto, almeno di poco il registro, ma ho cercato di renderlo il più fedele possibile al modo di pensare di una ragazzina di quell’età. Fortunatamente per me, Posy ha sempre letto tanto e quindi se la cava abbastanza anche a raccontare.

 

Che altro aggiungere? Per quanto riguarda la morte di Aris, mi sono ispirata principalmente a due cose: una scena di un film intitolato “Un sogno per domani” (che non descrivo perché conterrebbe dei grandi spoiler) e un fatto di cronaca purtroppo realmente accaduto: sto parlando della tragedia di Rob Knox, un ragazzo che era nel cast di Harry Potter è che è morto per una pugnalata mentre cercava di difendere il fratellino fuori da un bar. Nel mio head-canon il Distretto 2 del futuro non è esattamente un bel posto. Già solo il R!ot” è un locale dove, sul retro, fanno incontri clandestini di pugilato e ho sempre immaginato che molti ex-adolescenti decisi a offrirsi volontari agli Hunger Games siano finiti là dietro a darsele di santa ragione.

Inoltre, ho sempre anche immaginato che nei quartieri messi peggio del Distretto 2 circolassero diverse Baby Gang, ed è stato proprio un membro di una di queste a infastidire la ragazza e, in seguito, a ferire Aris a morte. Spero non sia stata una scelta troppo azzardata, questa mia scelta; forse non si adatta del tutto al contesto “Hunger Games”, ma purtroppo queste cose accadono spesso anche qui in Italia, e le vittime alle volte sono ragazzini all’incirca delle età di Aris o poco più grandi. Ci tenevo che a modo suo morisse da eroe, senza tuttavia tradire i suoi modi di fare tutt’altro che positivi, perché Aris non è e probabilmente non sarebbe mai diventato un “Principe Azzurro” come potrebbe essere invece Dru (il futuro fidanzato/marito di Posy). Aris era pieno di imperfezioni, però era buono, e ci tenevo che questo sue essere un ‘guerriero’ emergesse, grazie a questa capacità che Posy ha sempre avuto di vedere il bello nelle persone.

 



[1] Sapheen: la madre di Joel.

[2] Il congiuntivo mancante è voluto. Aris spesso e volentieri cerca di usare dei termini da grandi per fare il ‘fighetto’, ma la sua grammatica lascia un po’ a desiderare.

[3] Aris detesta i soldati, pur essendone praticamente circondato (suo padre è comandante, entrambi i suoi fratelli frequentano l’Accademia). Questo probabilmente è dovuto principalmente al suo rapporto molto conflittuale col padre, ma questa è un’altra storia (!)

 

[4] I versi inseriti in alcune parti di storia sono tratti dalla canzone “Guerriero” di Marco Mengoni.

[5] Questo è un riferimento a una mia storia su Gale e suo padre, intitolata appunto “Il Ribelle”.

   
 
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