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Autore: Nina Ninetta    04/05/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9
… ed ecco perché scappo …
 
Eri non ebbe il coraggio di rifiutare il tè che sua madre le aveva preparato. Glielo adagiò sul comodino al fianco destro del letto, chinandosi sulle ginocchia e scostandole una ciocca di capelli che le era caduta al lato del viso. Avevano gli stessi capelli, neri e lisci, e come sua figlia anche Yumiko a quell’età li aveva portati lunghi fin oltre la metà della schiena e con la riga centrale. In verità li aveva tenuti così fino alla morte di Joaquin, quando aveva preso la drastica e sofferta decisione di tagliarli. Era stato come una specie di rito d’iniziazione, un nuovo look per una nuova vita. Dal punto di vista pratico, invece, i tanti impegni – come il lavoro e una figlia da crescere – non le permettevano di averne cura e i capelli lunghi se trascurati sono un vero e proprio inno alla sciattezza.
Eri bevve un piccolo sorso di tè, ma il suo stomaco ne rifiutò dell’altro. Per tutto il pomeriggio ne aveva bevuto almeno tre tazze a casa di Kingsley Rodriguez e quell’ennesima le dava il volta stomaco. Così disse a sua madre che era stanca e preferiva dormire:
«Ok» rispose Yumiko tornando in posizione eretta «Se vuoi domattina non ti sveglio per andare a scuola» prese la tazza dal comò
«No, no!» sbottò Eri, improvvisamente attenta «Voglio andare, cioè devo per forza, c’è la spiegazione sul teorema di non-mi-ricordo-chi e se me la perdo …»
«Va bene» Yumiko le rimboccò le coperte dopo averle lasciato un bacio sui capelli e uscì, chiudendo la porta. Quell’improvviso desiderio di andare a scuola la insospettiva e non poco. Pensò che forse era riuscita ad integrarsi con gli altri, magari questa nuova amica con cui aveva trascorso il pomeriggio era davvero una brava ragazza, come la sua compagna di banco in Giappone. Già, il loro addio era stata l'ennesima legnata che aveva spezzato il cuore di Eri, per questo motivo se avesse trovato un’amica che sarebbe riuscita a rimpiazzare quella sarebbe stata la benvenuta in famiglia.
 
Ricardo Salas aveva bevuto il suo tè, trovandolo squisito, quasi quanto quello che gli preparava la sua mamma quando da bambino si svegliava nel cuore della notte per una scossa di terremoto. Rimasto solo aveva avuto tutto il tempo di studiare la stanza che lo circondava, comodamente seduto sulla sedia vicino al tavolo. La cucina e il soggiorno erano separati solo da un muretto, davanti alla tv c’era un divano, al canto di questo la cuccia di Macchia che adesso sonnecchiava beata. Le tende erano scure e drappeggiate, oltre non si riusciva a vedere nulla. Diversi quadri erano appesi alle pareti, per la maggior parte raffiguravano paesaggi giapponesi, come il monte Fuji o rigogliosi alberi di ciliegio in fiore, immersi in un giardino paradisiaco. Uno in particolare però attirò la sua attenzione, quindi si alzò per osservarlo più da vicino. La tela era divisa in due rettangoli verticali. In quello a sinistra c’era una donna di schiena, seduta su uno sgabello basso, di legno; indossava una specie di vestaglia colorata che lasciava scoperta la spalla sinistra, il capo era torto di lato e la parte del viso che si vedeva era dipinto di uno pallore lunare; i capelli scuri erano raccolti in una crocchia. Nell’altra metà del quadro c’era la stessa donna, con la medesima vestaglia addosso chiusa in vita da una cintura annodata flaccidamente; questa volta l’immagine era frontale e i capelli, lunghi e sciolti, ricadevano come un velo scuro; la pelle del viso non era più bianca, ma aveva il suo colore naturale. Le braccia erano abbandonate lungo il corpo, le mani nascoste dalle maniche larghe e lunghe, gli occhi a mandorla avevano uno sguardo triste, ma allo stesso tempo di sfida, come un felino ferito ma ancora vivo.
Più la guardava e più a Ricardo sembrava di star vedendo Yumiko. Tuttavia una persona timida come lei non poteva essere la stessa che stava osservando, con quell’aria così fiera. Poi ripensò a come le fosse apparsa diversa quella sera, quando avrebbe raggiunto sua sorella anche a piedi se fosse stato necessario. Quel luccichio che d’improvviso si era acceso negli occhi, quell’atteggiamento caparbio di qualcuno che deve fare una cosa, senza ma e senza se …
Yumiko alle sue spalle tossicchiò, senza sapere come annunciarsi, e lui si voltò verso di lei:
«Scusami, stavo guardando questo quadro …» Yumiko bevve dalla tazza di sua figlia Eri «… è stupendo. Anzi, lei è stupenda. Sembra, non so, “finta”» Ricardo era tornato ad osservare il dipinto, quindi si rigirò verso Yumiko ridacchiando «Se ti capita di trovarne una così fammela conoscere.»
Lei abbandonò la tazza sul tavolo, pulendosi le labbra con un tovagliolo, prima di affermare:
«Sono io» lo spagnolo sbatté le palpebre un paio di volte «Quella nel quadro intendo, sono io» lui alzò di nuovo lo sguardo sulle due figure al muro:
«Allora sono fortunato» le sorrise e Yumiko avvertì qualcosa smuoversi dentro di sé «Non ho bisogno di cercarla per conoscerla» la ragazza non rispose e lui continuò «Cos’eri? Una specie di modella in Giappone?»
«No, niente di tutto questo. Diciamo che fui proclamata reginetta della scuola a diciassette anni e un mio compagno di classe mi supplicò di lasciarmi dipingere»
«Stavate insieme?» chiese Ricardo e Yumiko arrossì, se solo avesse saputo che a quell’età aveva già una figlia di qualche anno
«Oh no, no. É gay e adesso è diventato uno dei più famosi disegnatori di manga»
«Di cosa?» Yumiko rise e gli spiegò in breve che i manga sono i fumetti di ciò che nel resto del mondo chiamano “cartoni animati” «Suppongo che questa non sia una vestaglia normale» aggiunse lui e ancora una volta la donna sorrise
«É un kimono, un abito della tradizione giapponese e lì ero vestita da geisha» Salas fece per parlare, ma lei lo anticipò, immaginando quello che avrebbe detto, allora gli disse che no, una geisha non è una donna di facili costumi. Ricardo sorrise e, prima di raggiungerla al tavolo, lanciò un’ultima occhiata al quadro
«I capelli erano veri o era una parrucca?»
«Verissimi» rispose lei, aprendo l’ultimo sportello in alto della credenza e alzandosi sulle punte per tentare di prendere un oggetto
«Di solito se una donna stravolge tanto la propria acconciatura è perché ha subito un torto amoroso e vuole ricominciare»
«Si, di solito è così» rispose Yumiko, rimanendo sul vago, mentre si dava un ultimo slancio per raggiungere con la punta delle dita quello che cercava. Poi avvertì la presenza di Ricardo Salas al suo fianco, lo fissò dal basso intanto che lui, senza sforzi, le raccoglieva quello che tentava di afferrare, sfiorandole il dorso della mano con il palmo. Forse involontariamente, forse volutamente. Per un attimo anche i loro corpi, come le mani, si erano toccati e lui l’aveva guardata, ma lei aveva distolto lo sguardo.
Ricardo si ritrovò con un pacchetto di sigarette in mano e un accendino, alzò un sopracciglio:
«Fumi?»
«Ogni tanto»
«E perché le nascondi lì sopra, dove non ci arrivi?» le porse le sigarette
«Perché Eri non lo sa» Yumiko se ne accese una, lasciando uscire la prima boccata di fumo. Si puntellò con il bacino contro il bordo dei mobili della cucina, il ragazzo invece tornò a sedersi, versandosi dell’altro tè direttamente dalla teiera. Lo bevve senza toglierle gli occhi di dosso, poi la indicò con l’indice:
«Hai la camicetta sbottonata, cioè non sbottonata, ma …»
Yumiko chinò il capo e vide che per la fretta l’aveva abbottonata male, lasciando scoperto un pezzo della coppa sinistra del reggiseno bianco e uno scampolo di ventre a ridosso dell’ombelico. Si voltò di schiena e con mani impacciate slacciò velocemente i bottoni per poi chiuderli, inserendoli ognuno nella propria asola. Chissà, si chiese, se un giorno avesse smesso di fare figure da quattro soldi davanti al suo capo.
Quando tornò a voltarsi, lui abbozzò un sorriso e alzò la tazza a mo’ di brindisi:
«Complimenti, è ottimo!» Yumiko ringraziò con un filo di voce nella propria lingua madre «Dal Giappone alla Spagna…» sospirò Ricardo « … scusami se insisto, ma proprio non riesco ad immaginare un solo motivo che ti abbia spinta a trasferirti qua con tua sorella …»
«Necessità» fu la risposta tutt’altro che esaustiva di Yumiko e Salas sghignazzò scuotendo il capo
«Ho capito, proprio non vuoi dirmelo. Non è che per caso sei una specie di spia giapponese inviata dal governo per ammazzarci tutti?» questa volta fu lei a ridacchiare.
Avrebbe potuto raccontarglielo il motivo per cui si trovava così lontano da casa, ma per quanto si sforzasse temeva che lui sarebbe potuto … cosa? Toglierle il lavoro? E per quale ragione avrebbe dovuto farlo? Allontanarsi da lei e cambiare quello che erano diventati? Perché, cos’erano di preciso?
«E ti sei ambientata bene a Madrid?» continuò Ricardo e Yumiko scrollò le spalle. Avrebbe potuto confessargli che in fondo la conosceva già quella città, che una volta era venuta con Joaquin Morales, ma di nuovo rimase in silenzio, preferendo rimanere sul vago «E a tua sorella? A lei piace qui?»
«Eri ha sicuramente avuto più difficoltà di me e no, non impazzisce per questa città»
«Bene!» Ricardo Salas si alzò e batté il palmo sulla superficie del tavolo, Yumiko lo seguì con lo sguardo, mentre il cellulare di lui squillava. Lo sentì rispondere ad Oscar e confermagli che sarebbe passato a prenderlo fra qualche minuto, chiusa la telefonata tornò con l’attenzione su di lei «Farò in modo che tua sorella ami questo Paese quanto il suo. Il segreto sta nel vedere il lato positivo anche nelle cose negative» le fece l’occhiolino e si congedò con un’alzata di mano sul pianerottolo, prima che Yumiko chiudesse la porta d’ingresso a doppia mandata dall’interno della casa.
Rimasta sola si accomodò sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, ripensando all’incredibile serata che aveva trascorso, lentamente sprofondò nel mondo dei sogni, con la consapevolezza che per far amare Madrid a sua figlia ci sarebbe voluto una specie di miracolo.
 
Eri si svegliò per la prima volta nella sua vita con sua madre ancora addormentata. La trovò accucciata in posizione fetale sul divano, con la schiena contro la spalliera. Sul tavolo c’erano due tazze vuote e all’improvviso si ricordò della notte appena trascorsa, del terremoto e di una persona ferma sulla soglia della porta, un piede dentro e uno fuori, ma lì per lì non riuscì a mettere a fuoco l’immagine, anche se le sembrava di averla già incontrata. Tornò a guardare sua madre: svegliarla le parve un vero e proprio atto egoistico, allora scarabocchiò quattro ideogrammi su un post-it che incollò allo schermo del televisore – in modo che Yumiko lo vedesse non appena avesse riaperto gli occhi – e si preparò ad affrontare il suo primissimo viaggio in autobus.
Prendere il pullman fu meno traumatico di quello che si era aspettata. Forse i suoi coetanei si erano abituati alla sua presenza, o forse il loro interesse per lei era scemato, fatto sta che nessuno la fissò più del dovuto, anzi, addirittura qualcuno le si sedette vicino.
Kingsley la salutò con un bacio sulla guancia, prima di prendere posto nello stesso banco, sorridente. Eri arrossì sentendo la pelle bruciare là dove lui aveva posato le labbra, anche se solo per un istante.
«Ho una cosa per te» annunciò lui, rovistando nel suo zaino, quindi le porse un foglio di quaderno ripiegato. Quando Eri lo aprì vide un bellissimo drago disegnato a matita e sfumato con la tecnica del chiaroscuro «Ho cercato su Google e ho scoperto che è uno dei simboli del Giappone» la ragazzina alzò gli occhi dal disegno per guardare lui, sentiva le lacrime pungere nella gola e quel solletico nel naso che sempre provava quando le veniva da piangere. Non sapeva cosa dire, era solo un disegno, ma per lei valeva quanto un diamante. Di slancio lo abbracciò e lui ne approfittò per rinnovarle l’invito a studiare insieme, quel pomeriggio.
«Stessa ora?» chiese Eri, ancora stretta a lui
«Stessa ora»
«Stesso posto?» si allontanò da lui per guardarlo in faccia
«Stesso posto» le sorrise Kingsley, ma quel pomeriggio non si sarebbero incontrati.
Tornando a casa, nella limousine guidata dal fido Alfonso, Kingsley apprese che l’uomo aveva il resto della giornata libera; inoltre la casa era stranamente vuota e silenziosa: sapeva che sua madre era impegnata nella nuova campagna di sensibilizzazione per le donne vittime di abusi e violenze fra le mura domestiche, dove era stata invitata in quanto moglie del ministro degli affari esteri, ma la servitù? Dov’era?
Il ragazzo pensò che forse i suoi genitori adottivi avevano dato loro un giorno di riposo – finalmente! Kingsley allora si diresse alla biblioteca dove quel pomeriggio avrebbe studiato con Eri, a proposito, sarebbe dovuto andarla a prendere di persona, era arrivato il momento di presentarsi come un diciassettenne qualunque e fare le cose che fanno tutti i ragazzi alla loro età. Si sarebbero potuti intrattenere in centro a gustare un gelato, o sfrecciare fra il traffico all’ora di punta, magari sul motorino che gli era stato regalato ad un Natale di qualche anno fa, senza usarlo se non per girare in tondo al palazzo in cui abitava. Il tonfo di qualcosa che cadeva sul pavimento lo destò dalle sue fantasie da adolescente e sulle ore che avrebbe trascorso con la sua compagna di scuola, su quello che avrebbero potuto fare. Il rumore era provenuto proprio dalla biblioteca. Aprendo la porta istintivamente chiamò Rosita, la governante, ma la scena che si ritrovò davanti agli occhi lo ghiacciò da capo a piedi:
«Pa-pà?»
«Kingsley!» l’uomo spinse via da sé l’altro che gli stava addosso, avvicinandosi al ragazzo che lo osservava con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. Suo padre, un uomo sulla sessantina, alto un metro e sessantacinque al massimo, tozzo e grassoccio, aveva la camicia bianca sbottonata e la patta dei calzoni aperti lasciava intravedere le mutande di cotone. A Kingsley parve di scorgervi un leggero rigonfiamento, allora distolse immediatamente lo sguardo, con lo stomaco sottosopra «Kingsley!» ripeté l’uomo provando a ricomporsi quanto più possibile «Kingsley! Non ti azzardare a dire niente a nessuno!» Nonostante la situazione fosse completamente a suo svantaggio, pensò il ragazzo, il suo caro paparino adottivo continuava a comportarsi come se fosse il sovrano indiscusso del mondo, e soprattutto della sua vita. L'adolescente spostò lo sguardo da quell’ometto che anni addietro l’aveva trascinato dall’altra parte dei Pirenei, sulla persona che gli stava tenendo “compagnia”. Era alta e i capelli scuri impomatati erano tirati all’indietro, si stava riallacciando la cintura e si era già infilato la maglia, i loro occhi si incontrarono a metà strada. Era bello, molto bello, la carnagione chiara e liscia, i lineamenti gentili.
«Kingsley Rodriguez!» di nuovo suo padre lo chiamò scuotendolo per le braccia «Hai capito quello che ti ho detto?!» il ragazzo si liberò della presa con uno strattone e corse via.
No, quel pomeriggio non avrebbe avuto tempo da dedicare né ai compiti, né alla sua nuova e cara amica di scuola.
 
 
 
 
  
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