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Autore: With H    07/05/2015    0 recensioni
Dopo sette mesi, il ricordo di quella che era stata l'estate più bella della sua vita non era ancora sbiadito, anzi...
Helis non aveva mai smesso di pensare a Miloš. Questo la porta a prendere la decisione più avventata, impulsiva, folle e meravigliosa della sua vita.
(Il continuo della mia precedente storia "Momenti")
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Era una fresca serata di inizio aprile, la primavera sembrava non voler proprio arrivare e quel clima si adattava all’inverno che lei percepiva dentro di sé.
Le lacrime formavano delle linee ondulate che attraversavano il suo viso fino a perdersi tra i capelli e il colletto della brutta felpa che indossava per stare calda in casa.
Era stata una brutta settimana, anzi, un orribile inizio di quel mese così in contrasto rispetto al mese precedente che avrebbe potuto - senza problemi - considerare il più bello della sua vita. Si sentiva come risucchiata da un buco nero, senza nessun motivo per sorridere o essere contenta, eppure avrebbe dovuto: appena due settimane prima si era laureata e quasi un mese prima era andata da lui.
Osservò la fotografia in formato polaroid che era attaccata al lume sulla sua scrivania con una calamita che la bloccava e lesse la didascalia scritta nella sua scrittura abbastanza ordinata, tendente verso sinistra: “I will always love you”. Lei gliel’aveva dedicata quella canzone, appena conosciuto, come se una parte di sé avesse capito sin da quel momento che sarebbe stato così, che lei l’avrebbe amato per sempre.
Tirò un altro fazzoletto dalla scatola accanto al computer già circondata di fazzoletti usati ed appallottolati, sia per il brutto raffreddore che le era venuto, sia per le lacrime che ormai continuavano a scorrere incessantemente senza che lei riuscisse a fermarle. Non aveva comunque senso. Non poteva fingere di stare bene.
Poi aggiornò la sua homepage di Facebook il cui ultimo stato risaliva a tre giorni prima alle quattro e dodici minuti del mattino: “Elle but une gorgée d’eau et se tourna vers la muraille. [...] Elle n’existait plus.”, erano due frasi tratte dal penultimo capitolo di Madame Bovary di Gustave Flaubert - libro che lei aveva odiato, in effetti - e che in quel momento rispettavano assolutamente il suo stato d’animo. Ricordava perfettamente la spiegazione del suo professore di francese al liceo riguardo quel capitolo: il gesto di girarsi verso il muro rappresentava per la protagonista la rinuncia alla vita sebbene il veleno non l’avesse ancora uccisa, girandosi verso il muro dava volontariamente le spalle al mondo, poi solo dopo un ancora lungo supplizio a causa dell’avvelenamento da arsenico dettagliatamente descritto dall’autore, sarebbe morta. Emma non esisteva più.
Certo, lei non aveva assunto arsenico, ma poteva presupporre che i dolori che provava si avvicinavano molto a quelli descritti nel romanzo francese e, girandosi verso il muro stesa sul suo letto ormai da ore, aveva in qualche modo deciso di rinunciare metaforicamente alla vita. 
Non si era ancora ripresa, ma almeno aveva smesso di restare a letto e aveva finto di riprendere a vivere, ma sembrava la caricatura di se stessa.
Ripensò alla frase che aveva scritto come didascalia ad una foto di fuochi d’artificio che mesi prima aveva pubblicato su Instagram, in seguito alla più bella estate della sua vita.
I respiri o il numero di battiti cardiaci durante la vita di una persona sono irrilevanti. Il nostro petto si gonfia miliardi di volte senza che ce ne rendiamo conto, i nostri polmoni richiedono sempre più aria e il nostro cuore continua a pompare sangue ed altro sangue ancora. È così per tutti gli esseri viventi, non si può cambiare.
Ciò che però rende diversa ogni vita dall’altra, sono i momenti. Quei momenti che il respiro te lo bloccano e ti inchiodano il cuore al petto.
È per momenti del genere che noi siamo vivi, non per il numero di battiti del nostro cuore o dei nostri respiri, quelli ci permettono di sopravvivere. E credo ci sia una bella differenza.
Sorrise mentre un dolore acuto partiva dal petto irradiandosi per tutto il corpo. Dopo l’estate precedente pensava che non avrebbe più vissuto momenti del genere, perché non avrebbe mai potuto sopportare la distanza enorme che la divideva da lui, ma si sbagliava. Per quasi quattro giorni a metà marzo - i più belli di sempre -, le erano stati concessi altri momenti indimenticabili.
La sveglia era suonata troppo presto e l’aveva spenta insofferente, quella notte aveva dormito poco e il giorno prima aveva passato quasi tutto il tempo per strada a cercare le ultime cose da comprare per il viaggio.
Si alzò di malavoglia mentre dalla stanza accanto alla sua percepiva il russare leggero della sua nuova coinquilina. Appena sei giorni prima aveva discusso la sua tesi di laurea e a fine mese sarebbe stata proclamata Dottoressa, non era mai stata così orgogliosa di se stessa.
Ma lo stomaco serrato per l’ansia le fece dimenticare velocemente quanto fosse felice. Entrò in bagno a farsi doccia e shampo ed asciugò i capelli con minuzia, poi controllò per l’ennesima volta di essersi fatta una ceretta accurata e di essere impeccabile nei vestiti che aveva scelto. Fece colazione con un po’ di tè caldo alla vaniglia ed alcuni biscotti prima che il suo stomaco si chiudesse del tutto rifiutando altro cibo. Fuori era ancora buio e le aspettava una giornata molto lunga.
Controllò un’ultima volta che avesse tutto quello che le serviva, indossò mal volentieri il suo parka grigio che aveva abbandonato già da un paio di settimane lì a Bologna ma che le serviva in quei giorni in cui avrebbe affrontato temperature sicuramente più rigide, poi uscì di casa.
Aveva prenotato l’aereo e il treno per arrivare a Milano solo quattro giorni prima, poi era stato indetto uno sciopero generale dei mezzi di trasporto. La sua solita fortuna.
Mentre prendeva l’autobus per arrivare in stazione, sperò con tutta sé stessa di non avere intoppi. E fu abbastanza fortunata: i treni Italo partivano, al contrario di quelli di TrenItalia e, una volta arrivata alla stazione di Porta Garibaldi, trovò l’unico Trenord della mattina che sarebbe partito per Malpensa, da lì poi prese il bus per raggiungere il Terminal Due dove pranzò velocemente e poi si avviò all’imbarco anche se mancava più di un’ora all’apertura del gate.
Quando però si avvicinò alla barriera per il controllo passaporti, il suo cuore perse un battito. Si era documentata bene ed aveva letto sia sul sito di ViaggiareSicuri sia sulla guida turistica che aveva comprato che dal 2010 i cittadini dell’Unione Europea non avevano bisogno di passaporto per entrare in Serbia, ma solo della carta d’identità valida per l’espatrio.
Mostrò il suo biglietto e la sua carta d’identità trattenendo il fiato ed incrociando le dita e, quando la fecero passare, quasi si sentì svenire.
Era sveglia dalle sei del mattino, aveva preso quattro mezzi di trasporto differenti per arrivare fin lì rischiando di non poter partire per lo sciopero e in quel momento finalmente sentiva la felicità e anche l’ansia della partenza. Stava sul serio per partire.
Mentre aspettava l’apertura del gate, una dolcissima bambina serba l’aveva presa in simpatia e, anche se nessuna delle due riusciva a capire l’altra dato che la piccola non parlava in inglese, si ritrovò a giocare con lei e il suo orsacchiotto di peluche e a ricevere un bacio sulla guancia. Non aveva idea del perché i bambini l’adorassero tanto, eppure era sempre stato così, anche quando aveva fatto l’animatrice e si era quasi ritrovata a detestare tutti quegli stressanti bambini del Mini Club.
Purtroppo perse di vista la bambina e sua madre quando salì sull’aereo, ma i suoi pensieri erano già altrove, quella era stata la decisione più folle, avventata, impulsiva e probabilmente meravigliosa della sua vita e, nonostante i suoi non fossero stati molto d’accordo e lei avesse più paura di quanta ne mostrasse, non riusciva a pentirsi di quella scelta.
Da dopo l’estate avevano preso progressivamente a risentirsi soprattutto da Natale, poi poco prima del suo penultimo esame, lui le aveva detto scherzando che poteva andare lì a rilassarsi un po’ e alla fine da quello scherzo avevano iniziato a metterci entrambi il pensiero sperando di potersi rivedere. E, dopo aver fatto la discussione della tesi, aveva deciso di prenotare e fregarsene di tutto il resto. Tra l’altro marzo era l’ultimo mese utile per poter percorrere quella tratta con la Easyjet perché da aprile sarebbe stata eliminata.
Non sapeva bene per quale motivo visto che il volo era totalmente pieno, ma in quel momento non se ne preoccupò troppo perché impegnata a non farsi schiacciare dalla signora sovrappeso e dal figlio alto quasi due metri che erano seduti accanto a lei.
Quando l’aereo decollò, avvertì l’ansia aumentare.
Non aveva idea di come sarebbero stati quei giorni, non si vedevano da sette mesi e forse era cambiato tutto, magari a lei poteva non piacere più - aveva visto alcune sue foto recenti e constatato che fosse un po’ ingrassato -, oppure lui poteva non essere più attratto da lei. Ad ogni modo non aveva mai smesso di pensarlo, duecentouno giorni e lui era sempre stato il protagonista dei suoi pensieri, anche involontariamente.
Non prendeva l’aereo esattamente da quando aveva lasciato lui, duecentouno giorni prima e, in quell’occasione, ricordava solo di aver passato tutto il viaggio ad osservare la brutta tappezzeria del sedile davanti mentre le lacrime le rigavano il viso e il dolore l’avvolgeva come un opprimente mantello. In quel momento, a confronto, la sua felicità invece avrebbe potuto fungere da energia alternativa per far volare l’aereo perché quello era un sogno che si realizzava; l’aveva desiderato così tanto e immaginato troppe volte che quasi non le sembrava vero, ma in poco più di un’ora avrebbe riabbracciato di nuovo il bellissimo animatore serbo che l’aveva fatta innamorare.
Poi la stanchezza ebbe il sopravvento e in qualche punto impreciso tra l’Italia e i Balcani, si addormentò mentre la sua mente elaborava infinite possibilità di come avrebbero potuto svolgersi quei giorni.
Si svegliò a venti minuti dall’arrivo, oppressa dal caldo e dai due compagni di viaggio che le erano accanto e alla fine si trovò a fare conversazione spiegando evasiva perché si stava recando in quella città, la donna le rivolse un sorriso complice dicendole che le sarebbe piaciuta molto, il ragazzo invece sembrava un po’ deluso.
Quando l’aereo atterrò all’Aeroporto di Belgrado, respirava a fatica e maledisse la sua ansia. Passò di nuovo il controllo documenti e poi decise di andare in bagno prima di incontrarlo. 
Si guardò allo specchio mentre si lavava le mani ed aveva l’espressione tirata dalla tensione; rivolse al suo riflesso uno sguardo d’ammonizione come se trovasse assurdo che fosse agitata e si ripeté mentalmente che sarebbe andato tutto bene, poi uscì dal gate.
I suoi occhi impiegarono una manciata di secondi per trovare quelli meravigliosi di Miloš tra le varie persone e, quando lui le sorrise, Helis ebbe la sensazione che il suo cuore avesse ripreso a battere dopo mesi in cui era stato inquietantemente fermo nel suo petto, in attesa.
Gli si avvicinò velocemente e, con più slancio di quanto si aspettasse da se stessa, gli avvolse un braccio al collo mentre lui le dava un veloce bacio sulla guancia e sorrideva in quel modo dolcissimo in cui aveva sempre sorriso quando lei lo abbracciava.
Avrebbe voluto restare ad abbracciarlo ancora per molto, ma lui con molta galanteria le prese la valigia di mano e le fece strada verso l’uscita dell’aeroporto consigliandole di mettere il parka.
— Com’è andato il viaggio? 
Helis era avida di guardarlo, di ogni minimo particolare che non aveva potuto vedere in quei lunghi mesi e, nonostante tutto, lui le sembrava sempre incredibilmente bello. 
— Bene. 
— Sei arrivata da Milano... Pensavo venissi da Roma. — mormorò mentre apriva la portiera di una Fiat Punto verde acqua che si intonava perfettamente al colore dei suoi occhi.
— Emh... Roma è distante da Bologna. Aspetta, non posare la valigia, dovrei darti una cosa...
Aggrottò la fronte rivolgendole uno sguardo dolce che le bloccò il respiro — Puoi darmela dopo a casa, se vuoi...
Annuì indecisa — Forse sarò troppo imbarazzata dopo.
— Imbarazzata per cosa? — le chiese perplesso mentre sistemava la sua valigia nel portabagagli — Non devi... Puoi darmela quando saremo da soli nella mia stanza oppure ora, come preferisci.
— Dopo, va bene. — sussurrò sentendo la sua voce particolarmente stridula e si detestò per la sua timidezza.
Una vocina maligna nella sua testa le ricordò che quello era stato il ragazzo della sua prima volta e doveva davvero smetterla di essere così in imbarazzo, ma questo contribuì solo a farla arrossire ulteriormente.
Si trovava nell’auto di un ragazzo semisconosciuto, in un paese lontano dal suo e, inaspettatamente, si sentiva esattamente dove doveva essere.
Con lui.
Parlarono del più e del meno per evitare silenzi imbarazzanti e lui le annunciò che sarebbero andati un po’ a Belgrado prima di andare a prendere la sorella a lavoro e poi tornare a casa dove li aspettava il tipico pranzo domenicale serbo. Helis pensava di non aver capito bene, dato che erano quasi le quattro del pomeriggio e che probabilmente non sarebbero arrivati a casa sua prima di un’ora e per lei a quell’ora al massimo avrebbe preso tè con i biscotti, ma non disse nulla, si era ripromessa che si sarebbe adattata alle loro tradizioni senza fare storie.
Miloš parcheggiò vicino lo Zoo, a Kalemegdan, la fortezza romana e bizantina situata su una collinetta di Belgrado. Era una brava guida turistica e le spiegava ogni cosa attento affinché lei capisse i termini in inglese che adoperava, poi si ritrovarono al punto più panoramico del posto ed Helis, che era impegnata a guardarsi intorno e a guardare lui che parlava, restò letteralmente senza fiato.
La vista era spettacolare, si vedeva gran parte di Belgrado e il Sava e il Danubio - i due fiumi che attraversavano la città - che si incrociavano sotto il suo sguardo illuminati da un sole che lentamente scendeva verso l’orizzonte creando un gioco di luci e colori incredibile.
— Wow... 
Miloś sorrise e salì in piedi su un muretto, le porse la mano per aiutarla a fare lo stesso ma lei si mise prima seduta e poi salì perché non era agile come lui. Generalmente soffriva di vertigini, ma in quel momento con Miloš che le stava accanto e ancora la teneva per mano, non ebbe paura, pensò solo che quel panorama era bellissimo e che il contatto tra di loro le provocava i brividi. Una parte di lei avrebbe voluto urlare al mondo intero quanto le era mancato.
Scese con un salto e poi aiutò lei, le rivolse uno sguardo dolce prima di lasciarle la mano, dopodiché tornarono all’auto. Helis si rilassò sul sedile beandosi del caldo dell’abitacolo; Belgrado non era fredda, ma il vento faceva percepire una temperatura più bassa.
Lungo la strada si fermarono a prendere la sorella di Miloš che Helis aveva già visto in foto ed immaginava che avesse più o meno la sua stessa età. Si presentarono, ma poi lei iniziò a parlare in serbo con il fratello, probabilmente perché non conosceva bene l’inglese come lui.
Circa in mezz’ora arrivarono a Pančevo, Miloš per quasi tutto il tragitto le aveva fatto mostrato varie cose, ma lei iniziava a sentirsi a disagio perché si avvicinava il momento in cui avrebbe conosciuto i suoi genitori e, per un assurdo motivo, voleva davvero fare una buona impressione su di loro.
Parcheggiò e, quando uscirono dalla macchina, Helis si trovò l’uomo che presumibilmente doveva essere suo padre che teneva a guinzaglio un bellissimo Husky siberiano.
Tese la mano al padre di Miloš che le rivolse uno sguardo sorridente e forse anche un po’ sorpreso, poi fece per accovacciarsi ad accarezzare il cane, ma Miloš la tirò dolcemente verso di sé affinché non lo toccasse, gli rivolse un’occhiataccia.
— Perché? Non ho paura dei cani... — protestò a bassa voce. 
Lui trattenne appena un sorriso divertito — Meglio di no, a volte è pazzo. Andiamo dentro...
Il padre di Miloš aveva già preso la valigia e portata in casa e lei si sentì molto in imbarazzo per questo, salì i cinque scalini di pietra ed entrò in casa dove, prima dell’ingresso vero e proprio, c’era una sorta di disimpegno dove Miloš e sua sorella Ivanka le dissero di levarsi i suoi stivaletti e le diedero delle pantofole morbide e troppo grandi per lei per accedere in casa.
La mamma di Miloš, una simpatica signora un po’ in sovrappeso, si presentò con calore anche se le rivolse uno sguardo indagatore che la rendeva molto affine alle mamme del Sud Italia gelose dei propri figli maschi; poi scambiò un veloce sguardo con il figlio e tornò a guardare lei con più dolcezza ed Helis si domandò cosa le avessero suggerito gli occhi di Miloš che era alle sue spalle.
— Vieni, andiamo di sopra nella mia stanza. — le sussurrò lui facendola arrossire e sperò vivamente che la sua famiglia non se ne accorgesse.
Lo seguì per due piani, al secondo c’era il bagno, la stanza dei genitori e quella della sorella e il terzo era occupato quasi totalmente dalla sua camera mansardata e da un piccolo salottino o qualcosa del genere che Helis immaginò usasse solo lui.
La stanza di Miloš era spaziosa, con due letti poco più grandi delle dimensioni del singolo in Italia affiancati a due pareti opposte, quello per gli ospiti era sistemato impeccabilmente ed era circondato da un armadio a ponte molto grande, sulla parete accanto al letto di Miloš invece era attaccata una bacheca in sughero piena di fotografie ed altre cose varie, poi c’era un divanetto ed in fondo alla stanza, al lato opposto della porta, c’era un’ampia finestra che dava sul piccolo cortile dove c’era il loro cane.
— Questo è il tuo letto... — mormorò poggiando la sua valigia accanto al letto ed Helis improvvisamente si sentì arrossire di nuovo, l’idea di dormire nella stessa stanza con Miloš la agitava — Vuoi farti una doccia o preferisci aspettare dopo pranzo? — annuì confermando la seconda ipotesi, lui la scrutò per qualche secondo e poi si mise seduto sul suo letto — Allora? Cosa volevi darmi?
Aveva l’espressione di un bambino in attesa, il suo meraviglioso bambino serbo di ventotto anni. Prese un lungo respiro mentre accovacciata recuperava il pacchetto con il regalo per lui, pentendosi della scelta che aveva fatto e convinta che ne avrebbe potuto trovare uno migliore, anche se non sapeva cosa. Si avvicinò a Miloš che alzò i suoi occhi su di lei e la invitò a sedersi sul letto accanto a lui, lo accontentò e gli porse ansiosa il pacchetto. All’interno c’era un souvenir delle Due Torri di Bologna e poi una scatola di una gioielleria dove gli aveva preso un bracciale.
— Qui è dove abito io. — mormorò avvertendo di nuovo la voce diventarle stridula — Se prosegui dritto con le Due Torri alle tue spalle, si arriva a casa mia. — Miloš sorrise e poi aprì il pacchetto dicendole che non doveva spendere soldi per lui, ma in realtà sembrava curioso come un bambino ed Helis non poté fare a meno di sorridere mentre un amore fortissimo le si irradiava dal petto, aprì la scatolina ed accennò ad un sorriso, poi la guardò — In Italia si usa regalare bracciali?
Arrossì — No... Semplicemente l’ho visto ed ho pensato di regalartelo.
Sorrise ancora estraendolo dal suo pacchetto — Mi piace. — ribadì provando a metterlo, ma da solo non ci riusciva così glielo porse avvicinandole il braccio affinché glielo mettesse lei.
— Non devi metterlo per forza...
— Voglio.
Helis provò ad allacciarglielo al braccio ma il contatto del braccio di Miloš sulle sue gambe e il suo sguardo su di sé la mettevano in agitazione e si rese conto di tremare un po’.
— Ehi, rilassati... — le sussurrò divertito con il solo risultato di agitarla di più; quando finalmente riuscì a chiuderlo, Miloš si rese conto che il bracciale gli stava largo e, notando l’espressione delusa di Helis che quasi rischiava di essere sull’orlo delle lacrime, le sorrise dolcemente — Mi piace...
Helis non era certa che dicesse sul serio, non riusciva a riconoscere la bugia ma non le sembrava nemmeno propriamente la verità — Ti sta largo...
— Non importa... Grazie. — disse dandole un bacio sulla guancia e lei, istintivamente, gli avvolse un braccio al collo stringendolo a sé.
Avvertì il suo respiro caldo sul collo e mentre cercava di avvicinarsi di più a lui e colmare qualsiasi distanza tra di loro, sentì la voce della madre che dal piano terra diceva qualcosa.
Miloš si allontanò piano da lei — Andiamo, è pronto il pranzo.

   
 
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