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Autore: RandomWriter    10/05/2015    12 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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NOTE INTRODUTTIVE:
 
Cominciavo a perdere le speranze, ma finalmente sono riuscita a inserire un disegno nel capitolo (\^o^/).
A questo punto ve lo chiedo come favore personale per appagare il mio tentativo di sorprendervi con una scena caruccia: NON SCORRETE IL CAPITOLO FINO IN FONDO, PRIMA DI AVERLO LETTO.
Volete sapere quanto è lungo? Nessun problema, 44 pagine (ok, forse è un problema, ma questa volta, contrariamente alle precedenti, mi sono rifiutata di spezzarlo).
E’ una parte della storia che mi ha messo una certa tachicardia, quindi non vedevo l’ora di pubblicarla, sbarazzandomene una volta per tutte u.u

Mi dileguo… e sinceramente, non so davvero quando troverò il tempo per il prossimo capitolo, ma consolatevi, questo è il più lungo scritto finora…quindi, buona lettura!


 
 
 
49.
CARDIOPALMA – Seconda parte
 

 
 
Lanier si portò a bordo campo, mentre il resto dei giocatori prendeva posizione. Nelle sue iridi castane, Dajan notò subito qualcosa di diverso: l’avversario aveva una strana luce negli occhi, alimentata da sentimenti che durante i due quarti precedenti non aveva provato.
Boris aveva ragione, la vera partita era appena iniziata.
Il ragazzo sogghignò eccitato, distendendo e contraendo spasmodicamente le dita; ogni suo muscolo vibrava in preda ad una trepidante frenesia di misurarsi con la squadra più forte che avesse mai incrociato sul pitturato.
Tutte le sue insicurezze e timori, relativi alla sua inettitudine come capitano, si erano dileguati, lasciando in Dajan solo la consapevolezza di non essere mai stato più concentrato e motivato: avrebbe guidato i suoi compagni, fino a condurli al traguardo della vittoria.
In piedi, lungo il perimetro di gioco, Boris guardava orgoglioso i suoi ragazzi, indugiando l’attenzione su ogni singolo elemento. Partì dal giocatore che era a pochi metri da lui, Wesley; il cestista era un dongiovanni, costantemente distratto dalle presenze femminili e sempre alla ricerca di nuove prede, poiché non riusciva a tenere in piedi una relazione che durasse più di un mese. Quel giorno però la guardia non aveva minimamente calcolato lo stuolo di studentesse adoranti che li incitavano dagli spalti, lasciandosi assorbire completamente dalla tensione della gara. L’adulto si sentì quasi in colpa ad avergli fatto credere di avere realmente una nipote bellissima da presentargli, ma di quell’incresciosa situazione se ne sarebbe occupato successivamente.
Benjamin, che insieme a Clinton era uno degli acquisti più recenti della squadra, tradiva un certo nervosismo, penalizzato appunto dalla scarsa esperienza cestistica rispetto ai veterani come Dajan. Non staccava gli occhi da Lanier, muovendosi nervosamente sul posto alla minima reazione del giocatore, anche se solo il fischio dell’arbitro ne avrebbe autorizzato l’inizio dell’azione.
Dietro di lui, Liam che insieme a Dajan e Steve, andava a costituire il trio di giocatori storici dell’Atlantic, poiché tutti e tre avevano aderito al club di pallacanestro sin dal loro primo anno al Dolce Amoris. Si sistemò la fascetta nera, in modo che i ciuffi biondi non gli fossero d’impiccio durante la partita e strizzò l’occhio verso la sua compagna, che gli aveva appena detto qualcosa di buffo.
Erin, la vera rivelazione del torneo.
Boris ridacchiò, ripensando alla prima partita della ragazza, durante la quale aveva persino tentato di abbandonarli, travolta dai propri demoni interiori. Per un attimo persino lui era arrivato a dubitare della forza d’animo della cestista, ma Erin alla fine non aveva deluso le aspettative, tornando sul campo più combattiva che mai.
Dopo l’incontro con la Berrytown High School, il processo di maturazione sportiva della ragazza era stato fulmineo e inesorabile: giocava ogni partita al massimo delle sue capacità che, anche se non erano equiparabili al talento di giocatori come Dajan o Trevor, si rivelavano comunque preziose, prime tra tutte la sua capacità di rubare la palla e tenere alto il morale dei compagni. Il coach tornò indietro con la mente, ricordando una sua fidanzatina del liceo che, caratterialmente, rivedeva molto nella sua cestista, e solo per quel dolce e nostalgico ricordo, non poteva fare a meno di osservare Erin con una certa tenerezza.
La riflessione di Boris, aveva lasciato per ultimo il loro capitano, Dajan.
Sin da quando la squadra gli aveva annunciato il passaggio di testimone per il titolo di capitano, l’allenatore si era accorto immediatamente che Dajan non era convinto della scelta dell’ex capitano. Il playmaker, ancora di più di Liam, non riusciva a prendere con leggerezza i propri doveri all’interno della squadra, aumentando così in lui lo stress e la tensione pre gara. Fortunatamente, con l’avanzare delle partite, complice la solidarietà dei compagni e il susseguirsi di vittorie, Dajan aveva imparato ad essere un leader, senza lasciarsi troppo condizionare dal peso che derivava da quel titolo.
Quel giorno in particolare, il talento del ragazzo era sotto gli occhi di tutti; inoltre non tradiva alcuna emozione che non fosse una pura gioia di trovarsi sul pitturato, ad affrontare dei cestisti fortissimi.
Proprio in virtù delle sue qualità, Dajan non poteva che essere il miglior avversario per Julius; fronteggiare un capitano così altruista e premuroso verso i suoi compagni, era indubbiamente una fonte di ispirazione per Lanier, una dimostrazione del perché doveva ridimensionare la propria alterigia e cambiare atteggiamento: solo con il gioco di squadra si poteva arrivare alla vittoria ed entrambi i ragazzi erano determinati a raggiungerla.
L’allenatore della Atlantic High School non era l’unico impegnato a meditare sui suoi ragazzi; a pochi metri da lui infatti, Randy osservava Julius con un sorriso compiaciuto stampato in faccia. Quest’ultimo era impegnato a interagire con i compagni, dando loro sommarie indicazioni circa la disposizione sul campo; diversamente dal solito, nel suo approccio non c’era quello sprezzo con cui era solito rivolgersi agli altri, ma solo una misurata compostezza degna di un leader.
Vide Mitch lanciare uno sguardo nervoso sul tabellone segnapunti, imitato poi da altri giocatori. Erano in svantaggio, la Atlantic era riuscita a distanziarli notevolmente durante il secondo quarto e quella condizione era totalmente estranea ad una squadra imbattibile come la Saint Mary.
Melanie venne percorsa da un brivido, che stemperò saltellando sul posto. Se non avessero iniziato da lì a poco, avrebbe avuto un collasso, tanta era la voglia di misurarsi con gli avversari:
« che c’è pulce, ansia? »
La bionda si voltò alla sua destra, verso Isiah, incrociando il suo sguardo solare.
« chiamiamola eccitazione » gli sorrise convinta.
Lui tornò a guardare dritto davanti a sé, tenendo le mani appoggiate sulle ginocchia e il busto piegato in avanti:
« tieni gli occhi bene aperti Mel… questa sarà la partita del vero Saint Mary »
 
Erin aveva lo sguardo talmente concentrato sulla palla che le sembrava di poterla sollevare con la forza del pensiero. Come lei, anche gli altri giocatori non staccavano gli occhi di dosso a quell’oggetto dalla geometria perfetta.
Così, appena l’arbitro fischiò, Lanier fece volare la palla mente dagli spalti si levarono delle esclamazioni entusiaste.  
Il terzo quarto era finalmente iniziato.
Neal si impossessò della palla, sorpassò Wes, deviando con sicurezza il tiro verso Melanie. Erin allargò le braccia, flettendosi in avanti con il corpo e tenendo lo sguardo inchiodato sulla sfera, come le si era raccomandato Boris:
« Melanie è una specialista nelle finte, quindi non farti distrarre dai movimenti del suo corpo come ha fatto Kim, fissa unicamente la palla »
La numero otto infatti si girò verso destra, come se volesse passare il tiro ad un giocatore in quella posizione, ma tanto lei quanto la mora, sapevano che non c’era nessuno:
« ehi non vorrai fregarmi con un no look così banale? » la provocò Erin. La maglia verde ghignò e continuò a giocare intersecando la palla tra le gambe. Avvertì Julius portarsi dietro di lei così riuscì ad aggirare l’ostacolo rappresentato dalla numero dodici.
« passaggio molto furbo di green, che ha intercettato la presenza del capitano lanier alle sue spalle! »
Melanie corse via, mentre Lanier dava indicazioni alle due guardie:
« REED! HEYMAN! AVANTI! »
La potenza offensiva della squadra corse nella direzione indicata dal compagno, preparandosi all’attacco, mentre Dajan guidava i suoi:
« LIAM VA LÌ! » ordinò, indicando Neal.
I ragazzi si trovarono nella metà campo della Atlantic: Lanier aveva il possesso palla ma le sue guardie erano marcate dagli avversari. Sharman era impegnato con Wes ma mancava all’appello la giocatrice più difficile la marcare; il capitano si stupì nel realizzare che la numero dodici avversaria, Erin Travis, stesse tenendo testa alla loro Melanie. Quella novità tuttavia, anziché indispettirlo, gli distorse le labbra in un sogghigno trattenuto: era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui il basket e adrenalina poteva coesistere nel suo universo.
« sei un osso duro tu » commentò Melanie, cercando di muoversi in ogni direzione.
« avevi dubbi? » replicò la mora beffarda.
Julius nel frattempo riuscì ad individuare un’apertura e passò finalmente la palla a Mitch. Era in prossimità del canestro e visto che le guardie erano occupate, doveva provare a tirare lui, anche se, oltre a non essere la sua specialità, era in una posizione svantaggiosa. Dajan approfittò del tempo che serviva al forward per preparare il lancio, passando alle sue spalle; gli rubò la palla e prima che l’avversario potesse pronunciare un’imprecazione, era già sfrecciato via:
« BRAVO DADÀ! » urlò la sorellina Whitney, saltellando sugli spalti, mentre la madre guardava orgogliosa suo figlio. Le due erano frastornate dalle urla e commenti entusiasti dei tifosi del liceo di Dajan i quali, da quando era iniziata la partita, non avevano cessato per un attimo di sostenere la squadra. 
Sharman deglutì frustrato, guardando di sottecchi i compagni, sentendosi colpevole per quella palla persa, azione che poteva costare loro cara, visto lo svantaggio accumulato. Aveva commesso un errore stupido, dimenticandosi della presenza dell’avversario e regalandogli un canestro sicuro:
« NON PREOCCUPARTI SHARMAN! » gli urlò Lanier « adesso la recuperiamo quella fottuta palla! »
I giocatori rimasero sbigottiti per quell’esclamazione e Reed, cogliendo l’occasione al volo, borbottò spiazzato:
« ma che ti sei fumato Jules? »
Gli uscì spontaneo quel soprannome, facendo sorridere beffardo il capitano che era troppo carico da quella sfida per imbarazzarsi per lo sconcerto dei suoi cestisti. Sapeva che il suo cambio di atteggiamento era troppo repentino, quasi irreale e stridente con la sua personalità ma non c’era altra soluzione che cambiare sé stesso, per cambiare le sorti della partita:
« ma sta’ zitto Reed e pensa a segnare! » lo rimbeccò, giusto per non tradire troppo la sua natura burbera.
Isiah scosse la testa divertito, mentre inseguiva Dajan. Erin liberò la marcatura da Melanie e accorse per dare supporto al capitano. La palla passò a Liam e da lui a Wes.
La shooting guard si mise in posizione, lasciando che la palla abbandonasse le sue mani. Con un agile balzo, Melanie gliela schiaffò via, come Dajan aveva fatto poco prima con Mitch, cosicchè la sfera rotolò a terra, per essere rapidamente raccolta da Neal.
Dagli spalti del Saint Mary, la folla cominciò a esultare impazzita: studenti in piedi, cori confusi ma potenti, si potevano udire e ammirare sull’intera metà della struttura.
« m-ma stanno facendo il tifo per noi? » si sorprese Gavin, dalla panchina delle maglie verdi.
« e per chi sennò? » ridacchiò Randy orgoglioso. Si voltò verso la sua controparte avversaria e vide che anche Boris lo stava fissando, sorridendogli affabile.
I due non si erano mai conosciuti di persona ma, eccezion fatta per il preside della Saint Mary, Randy aveva sentito solo commenti positivi rivolti a quell’omaccione. Non era strano che, seppur tifasse per la Atlantic, Boris tradisse una certa soddisfazione nel vedere i suoi ex ragazzi comportarsi come un vero team.
« il pubblico sta finalmente vedendo quell’armonia di squadra che ci si aspetta in questo sport » spiegò Paula, accavallando le gambe « finora non c’era gusto a guardarvi giocare ragazzi, ma ora… siete uno spettacolo »
 
Neal deviò il colpo verso Reed che puntò al canestro avversario.
La sfera in mano sua era pericolosissima e andava immediatamente deviata. Il Dolce Amoris aveva già avuto prova della sua capacità di centrare il canestro sulla lunga distanza e non intendeva assistere nuovamente a quell’esibizione, per quanto essa potesse essere spettacolare.
Liam e Wes cercarono quindi di ostacolarlo, mentre Dajan correva verso il proprio tabellone. La sua intenzione era scacciare via la sfera non appena la guardia l’avesse puntata a canestro, puntando sulla propria elevazione e sulla precisione tempistica con cui intercettava i tiri.
Circondato dalle due maglie rosse, Isiah aveva quindi optato per un tiro altissimo verso il canestro ma, contrariamente a quanto aveva previsto il capitano avversario, centrare il cesto non era il suo obiettivo. La palla infatti cadde qualche metro prima, tanto che in un primo momento Dajan dubitò dell’infallibilità della sua mira. Tuttavia, appena realizzò la presenza di Lanier nella traiettoria di lancio, colse la finalità di quel tiro. Quest’ultimo, con un salto portentoso, volò verso il canestro, schiacciandone dentro la palla, con la veemenza per cui era famoso.
« NOOOOO!! » protestarono gli studenti e i tifosi del Dolce Amoris, mentre la folla avversaria esultava:
« VAI SAINT MARYYY!! »
A quel punto divenne evidente che le due tifoserie si stavano bilanciando: nell’ambiente regnava il caos più totale, persino i professori delle rispettive scuole erano incontenibili:
« FATEGLI UN CULO COSÌ RAGAZZIII! » urlava la Robinson, incurvando le mani all’altezza della bocca, per amplificare la sua voce.
« JANE! » la rimproverò scandalizzata la professoressa Fraun « insomma, va bene lasciarsi prendere dall’entusiasmo, ma siamo pur sempre degli educatori! »
« tanto da qua non mi sent- » replicò placida l’insegnante di arte la quale non fece nemmeno a tempo a finire la frase che si sovrapposte la voce cavernosa di Condor:
« TRAVIS! RECUPERA QUELLA CAZZO DI PALLA! »
La professoressa di storia scosse il capo, indignata, mentre i suoi colleghi, uno più infervorato dell’altro, sbraitavano attirando l’attenzione degli studenti seduti nei paraggi.
« ODDIODDIOODDDIO! » squittiva Rosalya, tremando dall’eccitazione.
« quasi quasi rivaluto lo sport » commentò Armin, guadagnandosi un’occhiata cinica dal resto degli amici.
Nel frattempo la Atlantic si era rimpossessata della palla, rimettendola in gioco grazie ad Erin.
Toccava a loro dare un assaggio della loro strategia offensiva: Dajan partì come un razzo verso il canestro avversario, passò la palla a Liam e da lì a Benjamin, che fino a quel momento non si era ancora distinto. Il ragazzo fu costretto a tirare in fretta, poiché sentiva Reed alle calcagna.
Il capitano maglia rossa si accorse però che lo scarso tempo di preparazione aveva penalizzato la precisione di lancio del compagno, così scattò verso canestro e, appena la sfera vibrò contro il ferro, la riaccompagnò al suo interno.
« un altro spettacolare alley-oop da parte di uno dei giocatori più talentuosi dell’intero torneo: Dajan Brooks »
Toccò così al Dolce Amoris esultare, mentre dalla scuola avversaria provenivano versi dispiaciuti.
« la Saint Mary parte al contrattacco! Ecco che vediamo Sharman volare verso il canestro avversario, cerca un passaggio in Green ma… lo trova in Lanier. Ecco il capitano in posizione per una tripla »
Dajan si posizionò davanti all’avversario, spiccando un salto nel momento esatto in cui avrebbe lasciato la palla. Il Lanier che aveva giocato i due quarti precedenti non avrebbe esitato un secondo a tirare quella sfera a canestro ma il nuovo giocatore che c’era sul campo, la pensava diversamente. L’avversario lo vide sorridere beffardo e lanciare senza mirare al canestro. Dietro il capitano della Atlantic, si levò la figura della migliore cloothing shooter del torneo che, con un’elegante alley-oop, concluse l’azione.
Gli occhi di Melanie brillavano, al punto che delle sconvenienti lacrime le inumidirono gli occhi. Non era il momento adatto per lasciarsi andare a sentimentalismi, anche se le emozioni che la stavano investendo erano incontenibili.
Era quello il basket che aveva sempre amato.
Era quello il basket a cui l’aveva iniziata sua sorella. In quel frangente non le interessava più vincere o perdere, andare o non andare a Berlino dalla lei. Voleva solo che quell’incanto non si spezzasse, che la sua squadra continuasse a lottare compatta:
« ehi biondina, non vorrai mica addormentarti in piedi? » la provocò Erin, che finse di non notare la gioia che le aveva illuminato lo sguardo.
« non hai ancora visto niente, Travis » la rimbeccò l’altra, divertita e, dopo essersi piegata leggermente in avanti, riuscì a scartarla, scattando lateralmente. Erin rimase spiazzata la fulmineità di quel movimento e si morse la lingua, autopunendosi:
« evita di provocarla la prossima volta, genio » rimproverò se stessa.
Benjamin tentò di passare la passa a Wes ma Melanie fu più rapida: si interpose nella traiettoria tra le due guardie e rubò la sfera, allontanandosi.
« Neal tua! » urlò, individuando il compagno. La guardia si mise in posizione accanto al canestro avversario e lanciò la palla, segnando altri punti alla squadra.
« STATE ATTENTI AI PASSAGGI! » urlava Boris.
« VAI COSI’ MELANIE! » urlavano alcuni dei suoi compagni, lasciando piacevolmente sorpresa la ragazza.
Dajan recuperò la sfera e la passò ad Erin che a sua volta la deviò verso Wes, fino a tornare nelle mani del capitano che, in pochissimo tempo, era già sotto canestro. Il ragazzo spiccò un salto altissimo, tenendo il braccio il più possibile verso l’alto: le dita arpionavano la palla, che andava schiacciata a canestro. Il ferro era lì davanti a lui, quando si trovò faccia a faccia con Lanier. Con una potenza incredibile, l’avversario, spinse via la sfera, che cadde verso Isiah.
« hai visto che stoppata? » domandò Clinton incredulo, dalla panchina.
« cazzo, quello è Hulk » farfugliò Gordon.
« beh, per essere verde è verde » scherzò Trevor.
« ti sembra il momento per fare battute idiote? » lo rimbeccò Kim, struggendosi dal desiderio di tornare a correre sul campo. L’orlo inferiore della sua divisa era sempre più sgualcito, nel tentativo della ragazza di stemperare la frenesia. Gesticolava con quella stoffa rossa come unico diversivo alla staticità a cui era costretta dalla panchina. Dajan stava lottando più di tutti per quella vittoria e lei avrebbe solo voluto essere al suo fianco per appoggiarlo.
« vediamo ora la palla finire nelle mani di Neal Heyman che torna al canestro della Atlantic HS. È un giocatore che ha un ottimo controllo della sfera, che si combina perfettamente con la precisione dei passaggi della sua compagna di squadra »
Neal effettuò un passaggio all’appena citata Melanie. La ragazza stava per accogliere il tiro quando una macchia rossa le si frappose: Erin le rubò la palla con destrezza, palleggiandola via.
Avrebbe voluto dirle di non abbassare la guardia ma aveva già imparato a sue spese che fare la spocchiosa era controproducente.
La partita era ancora lunga e gli avversari avevano già recuperato qualche punto prezioso in poco tempo.
Cercò Dajan e lo trovò esattamente dove serviva a lei, oltre il cerchio centrale. Appena il capitano ricevette la sfera, si trovò Isiah a sbarrargli la strada. Si voltò e c’era Julius ad attenderlo.
« quante attenzioni » ghignò « mi fate sentire una celebrità » e, sorridendo beffardo, portò la palla a raso terra. La afferrò tra le mani e se la passò tra le gambe divaricate, disegnando una sequenza perfetta di otto, finchè intuì la presenza di Erin alla sua destra:
« sembra che Brooks abbia delle calamite al posto della mani, la sfera non gli sfugge mai, nemmeno quando la palleggia ad un ritmo così elevato. Sfrutta la velocità per distrarre gli avversari e passare il tiro a Travis… che viene inseguita da Green e Heyman… ora trova in Scottdale un giocatore libero »
« Jules, ci stanno facendo mangiare la polvere, che ne diresti di darti una svegliata? » lo canzonò Reed divertito.
« e tu, guardiola da quattro soldi? Quando ti decidi a tirare? » sbottò l’altro.
« o suvvia, ho già segnato tre triple » si difese il ragazzo, osservando il punteggio sul tabellone. Ingenuamente sconvolto, si voltò verso i compagni: « ah, ma siamo noi quelli che stanno perdendo 40 a 57? »
Sul volto del cloothing shooter era dipinto lo sconcerto più totale, tale da lasciare spiazzata la seconda guardia, Neal, che non seppe se ridire o insultarlo per la sua infantile disattenzione. Diversamente da lui però, Lanier non aveva dubbi su quale dei due atteggiamenti fosse il più indicato in quella circostanza:
« MA QUANTO SEI IDIOTA REED?! TE NE ACCORGI SOLO ORA? »
« potevate dirlo prima, io sono ancora disorientato dal tuo cambio di personalità Jules… non è che soffri di bipolarismo? »
« ma che stanno combinando? » chiese Hector dalla panchina della Saint Mary.
« penso si stiano solo divertendo » fu la risposta di Paula, che osservava orgogliosa i due ragazzi. Cercò lo sguardo di Randy e lo vide sorridere felice, finalmente. Anche nella Atlantic si erano accorti che il clima sul campo era diverso, più disteso e per questo più piacevole:
« è una delle partite più belle che abbiamo mai disputato » esclamò Clinton.
« d’accordo gente, allora dobbiamo cominciare a fare sul serio » dichiarò Isiah, schioccando le dita.
Aveva radicalmente cambiato espressione, diventando più serio e competitivo; partì fulmineo verso Wes e, in appena mezza secondo, riuscì a sottrargli la palla. La convogliò verso Neal e il canestro arrivò inesorabile.
Le maglie rosse quasi non avevano fatto a tempo a realizzare quella repentina sequenza di eventi. Recuperarono la sfera, ancora increduli, ma rimase per pochi secondi nelle loro mani: Melanie l’aveva strappata a Dajan e deviata verso Lanier. Ferito nell’orgoglio, il capitano era partito alla ricorsa dell’avversario, superandolo in velocità e posizionandosi in difesa del proprio canestro. Lanier spiccò un salto, così come la maglia rossa che allungò le braccia a formare una barriera. Julius però inclinò il busto di lato, tenendo il più possibile la schiena lateralmente. Prima che Dajan potesse reagire, il ragazzo era riuscito a spostare il peso del corpo mentre era ancora in volo e centrare la palla a canestro:
« pazzesco… ha corretto la posizione del busto mentre era ancora in elevazione » mormorò Kim incredula.
Boris però non era altrettanto impressionato e, facendole l’occhiolino, dichiarò:
« non sorprenderti così tanto Kim. Questi trucchetti li conosce anche il nostro Dajan »
Benjamin recuperò la palla e si diresse verso il canestro avversario; non potevano permettere alla Saint Mary recuperare il vantaggio che si erano guadagnati nei precedenti quarti.
« Cip! »
Erin era già in posizione, tenendo d’occhio le mosse di Melanie, come una preda che avvista il predatore. Ben invece non si era accorto della playmaker che stava arrivando da destra ed effettuò un tiro che fu sin troppo semplice da intercettare: con la palla ritmicamente sbattuta contro il pitturato, la bionda si diresse con i compagni verso il loro obiettivo. La palla arrivò a Mitch Sharman che a sua volta la passò a Lanier.
Questo spiccò un salto, pronto a schiacciare la sfera a canestro ma per la seconda volta nell’arco di poco tempo, intervenne Dajan a opporsi a quell’attacco. Gli bruciava troppo il modo in cui il capitano l’aveva sopraffatto poco prima e impresse in quell’oggetto tutta la potenza dei suoi muscoli.
Quel match, seppur dominato da un meraviglioso gioco di squadra da parte delle due fazioni, era anche caratterizzato dall’esplosione della rivalità tra i due capitani.
Lanier rimase sorpreso da quell’inaspettata manifestazione di forza, dal momento che nessuno era mai riuscito a contrastare la sua: la presa dell’avversario sulla sfera era molto più tenace dell’azione precedente, impedendogli di schiacciare la palla attraverso la rete. Portò allora la seconda mano sulla sfera e, prendendola saldamente, la lanciò a Reed, quando i loro corpi erano ancora in volo:
« gracias » commentò la guardia e, con un tiro pulito e semplice, centrò il canestro.
Quando i due capitani ritoccarono il suo, il primo a parlare fu il numero cinque:
« finalmente vi siete decisi a farci vedere cosa sapete fare » commentò Dajan con un sorriso di sfida.
« e non hai ancora visto niente » replicò Lanier.
« nemmeno voi » gli giurò.
Fu Erin a rimettere la palla in gioco.  Studiò attentamente la posizione dei compagni e valutò che il miglior passaggio era quello indirizzato a Benjamin. Con il supporto di Liam, i tre partirono verso il canestro, riuscendo a costruire una rete di scambi senza che gli avversari la interrompessero.
« CONTINUATE COSI’! » li spronò Boris.
«ISIAH, NEAL PORTATEVI SULLE ALI!» li istruiva Randy.
Era Erin a possedere la palla, con la costante percezione della presenza di Melanie dietro di lei. Doveva sbrigarsi a trovare un passaggio, prima che playmaker la ostacolasse. La sfera volò così verso Dajan che ben presto venne fronteggiato a Lanier. Il ragazzo palleggiò velocissimo, spostandosi a destra e a sinistra ad una tale rapidità che seguirne i movimenti era quasi impossibile.
Tutti gli spettatori rimasero allibiti da quella maestria nel dominare la palla, che durò per alcuni secondi, tali da creare nell’ambiente una sorta di ammirato silenzio, che fu uno dei cronisti a interrompere:
« magnifico controllo palla da parte del capitano della Atlantic High School! Non c’è dubbio che Brooks sia uno dei migliori giocatori di tutto il torneo. Eccolo che cerca di confondere l’avversario che sembra non lasciargli respiro ma… ECCO… ODDIO, SPETTACOLARE AZIONE DEL CAPITANO CHE LANCIA LA PALLA FACENDOLA PASSARE DIETRO LA SCHIENA DEL NUMERO UNO E LA RECUPERA AL VOLO! »
La destrezza con cui Dajan aveva aggirato Lanier aveva mandato in visibilio i presenti. Sua madre era quasi commossa per l’orgoglio e la gioia di vederlo sul campo.
Quando il padre di Dajan l’aveva abbandonata, il bambino aveva appena tre anni. All’epoca, come ragazza madre, non poteva permettersi grosse spese così aveva dovuto ripiegare sull’aiuto economico di amici e parenti. Era per questo motivo che il giorno del quarto compleanno di Dajan, il bambino aveva scartato un oggetto di seconda mano.
Whitney riviveva ancora la frustrazione dei giorni che precedevano quella ricorrenza, per non essere riuscita a fare un regalo migliore alla personcina più importante della sua vita, ma il doppio lavoro la assorbiva interamente. Non fosse stato per il suo vicino di casa, quel giorno Dajan non avrebbe conosciuto il suo primo amore.
« a tutti i maschi piace il basket » l’aveva tranquillizzata Bear, ex allenatore di pallacanestro. Nonostante la perplessità della donna, che riteneva che una palla da basket fosse un regalo prematuro per un bambino di quattro anni, suo figlio se ne era innamorato. Le manine piccole di Dajan non potevano ancora reggere quell’enorme sfera, ma lui trovò il modo per giocarci, divertendosi a farla rotolare e rincorrerla per l’appartamento, come avrebbe fatto un gatto con un gomitolo.
Crescendo, quel pallone era diventato una presenza fissa nella stanza del ragazzino, tanto che in diverse occasioni, quando era di fretta, finiva per inciampare su di esso, spiaccicandosi al suolo.
Con gli anni il cuoio era diventato sempre più logoro e consumato, ma anche se Whitney gli aveva comprato dei nuovi palloni, Dajan si ostinava a tenere quell’oggetto, quasi inutilizzabile, in camera.
Una volta entrato alle medie, il nome del ragazzo era stato il primo a iscriversi al club di pallacanestro e, dopo la sua prima partita, Dajan Brooks fece una promessa a sé stesso, la promessa di realizzare un sogno: sarebbe diventato un cestista professionista.
Durante gli anni del liceo però, quell’ambizione venne accantonata, innescando nel ragazzo la convinzione amara ma realistica che il college fosse un’opzione più sicura per il suo futuro. Scommettere unicamente sul suo talento, sarebbe stato un azzardo che, a causa delle modiche entrate della famiglia, non opoteva permettersi. Per non dover rinunciare al suo sport, aveva individuato un’università che elargiva borse di studio per chi fosse entrato nella squadra di basket, la Kentuchy University, ma quel compromesso non si era realizzato: a distanza di settimane dalla spedizione della domanda di ammissione, non aveva ricevuto alcuna risposta. Che cosa ne sarebbe stato del destino di suo figlio, Whitney non ne aveva la minima idea: sognava grandi progetti per lui, ma purtroppo non corrispondevano alle opportunità che la vita gli concedeva.
Con un abile gioco di piedi, Dajan aveva dribblato anche Reed, puntando al canestro. Sharman e Heyman balzarono verso l’alto, proteggendo il canestro. Il ragazzo però non demorse: anche se con il suo salto si era spinto oltre il tabellone, mentre era ancora in aria, lanciò la palla alle sue spalle, senza neanche voltarsi verso il cesto: quell’azione sarebbe stata poi giudicata la più spettacolare dell’intero torneo; la palla infatti percorse una parabola all’indietro, passando dal retro del pannello e centrando perfettamente il canestro. Due secondi di basito silenzio, poi il boato: persino la tifoseria avversaria era esplosa in commenti ammirati.
« SEI UN FENOMENO FRATELLO! » gli aveva urlato Trevor, scattato in piedi insieme a tutto il resto della panchina.
« Dajan sei un mostro! » si era complimentata Erin, incredula, unendosi ai cori entusiasti e frastornanti. Whitney si commosse, mentre Blake saltellava sulla sedia. Kim invece, sopraffatta dall’orgoglio che provava per il ragazzo, cominciò a battere freneticamente i piedi contro il suo e tremare per la gioia. Uno dei lati che più amava di quel ragazzo era proprio il suo valore come cestista, la passione che metteva in quello sport, al pari della propria quando correva su una pista di atletica.    
« come ha fatto a segnare da una simile posizione? È impossibile! » esternò Paula
« eppure l’ha fatto » replicò Randy. Anche se i punti erano andati a favore degli avversari, un ex cestista come lui non riusciva a trattenere l’ammirazione per un’azione così incredibile.
Quei dieci ragazzi stavano regalando al pubblico una vera e propria dimostrazione di basket di alto livello.
« sei un tipo interessante Brooks » ghignò Lanier, recuperando la sfera. Prima che Dajan potesse rispondergli, s’intromise Reed:
« mi dispiace boss, ma non credo che tu sia il suo tipo »
« MA CHE CAZZO PARLI TU? Devi sempre rovinare i momenti carichi di pathos »
« ah era un pathos quello? » chiese ingenuamente Isiah, che non aveva la minima idea del significato della parola « pensavo fosse una dichiarazione d’amore »
Dajan si limitò scuotere la testa, gustandosi le reazioni entusiaste dei presenti. In fondo anche lui era sorpreso che la palla fosse realmente andata a segno, dal momento che l’aveva lanciata con una naturalezza non calcolata: per una volta aveva voluto credere alle parole di un suo ex compagno di squadra:
« ci sono momenti in cui devi tirare e basta, senza star lì a calcolare traiettorie o minchiate varie. Capita raramente, ma quando senti che è così, non puoi far altro che lasciarti guidare dall’istinto »
Era davvero un peccato che lo specialista in quel genere di tiri, nonché autore di quel consiglio, non fosse stato presente all’azione. In fondo però, Castiel poteva sempre rivedere quella partita dalle registrazioni da parte dell’emittente televisiva locale.
Il capitano inspirò orgoglioso: Boris aveva ragione, non aveva mai giocato meglio di così.
 
« insomma, vuole darsi una mossa? Arriverò in ritardo alla partita! »
« signorina, per favore, la smetta di brontolare! Non vede che siamo imbottigliati nel traffico? » replicò piccato il tassista grassoccio, voltandosi riprovevole verso la ragazza.
« cazzo, facevo prima ad andare a piedi! » sbuffò la cliente, incrociando le braccia al petto.
 
Il divario di punteggio tra le due squadre era stato notevolmente attutito: il terzo quarto era stato il momento della rimonta della Saint Mary che si era portata ad un dignitoso 68 a 75. Mancavano ancora due minuti prima di passare all’ultima parte della partita.
La fronte di ogni giocatore era imperlata di sudore ma nessuno si era lamentato della fatica, nemmeno i cestisti come Dajan e Lanier che erano sul campo sin dall’inizio dello scontro.
Nel frattempo Denzel Simpson aveva sostituito Mitch Sharman, approfittando di un momento in cui il gioco era stato sospeso.
« dobbiamo concludere con un pareggio! » aveva dichiarato Julius, ricevendo cenni convinti dai compagni.
Quando Erin e Melanie si trovarono ancora una volta l’una davanti all’altra, la seconda commentò:
« bella partita Erin »
« già e sai cosa la renderebbe perfetta? »
« cosa? »
« la vittoria della Atlantic » ed Erin volò via, con la palla tra le mani, beneficiando della distrazione della playmaker.
« ma vedi un po’ ‘sta stronzetta » ridacchiò divertita quest’ultima, inseguendola.
Le sbarrò la strada e cominciò a muoversi in modo speculare a quello della tweener. Erin provò ogni movimento, ma Melanie sembrava leggerle nel pensiero, anticipandone le intenzioni. Liam si portò alla sua sinistra e riuscì a scaricare a lui la sfera.
« Farrel cerca Brooks ma arriva Green e gli ruba la palla. Corre verso il canestro, dove trova Denzel Simpson. Gli passa la palla. Poi ancora a Green. Si avvicina Heyman. La Saint Mary ha il pieno controllo della palla, riesce a costruire degli schemi di gioco che nei due quarti precedenti non abbiamo potuto apprezzare. Per gli avversari diventa difficile seguire le traiettorie. Ora la sfera è nelle mani di Heyman che si prepara per il lancio: viene contrastato da Scottdale, che riveste il suo stesso ruolo nelle file della Atlantic. La palla cade ma la recupera subito Green. Cerca i suoi compagni e… la lancia lontano! Ma certo, dove ad aspettarla c’è Reed che non ha nessun avversario a disturbargli il lancio. Stiamo per assistere ad un altro spettacolare lancio a metà campo di quella che è considerato il migliore clutch shooter del torneo… e… la palla va a canestro! Magnifica tripla gente! Il punteggio si porta ora a 61 per la Saint Mary, contro i 65 della Atlantic»
Gli spalti erano ormai irriconoscibili: ovunque e per ogni azione, c’era chi esultava o protestava a seconda di quale fosse la squadra per cui tifava. L’impegno delle due scuole sul campo aveva coinvolto tutti i presenti, portandoli ad appassionarsi a quello scontro.
« FORZA RAGAZZI! » sbraitavano i compagni dalla panchina del Saint Mary « STIAMO RIMONTANDO! NON MOLLATE! »
Vedere i ragazzi così determinati, infuse nella triade divina un’energia sempre più incontenibile: non erano abituati a tutto quel supporto ma giurarono a se stessi che mai sarebbero tornati ad essere quelli di prima. Quel giorno la triade divina era stata annientata, risorgendo come componenti di una squadra divina: appena Lanier conquistava la palla, la convogliava a Neal oppure ad Isiah, in modo che puntassero sulle loro triple per aumentare il punteggio. Non lasciava spazio a nessuno per rubargli la palla, persino Erin che era una diventata una specialista del settore, cominciava ad avere serie difficoltà. Ogni volta che provava ad avvicinarsi al capitano, interveniva Melanie a marcarla.
Quando rialzò lo sguardo verso il tabellone, rimase basita: canestro dopo canestro, la Saint Mary aveva rimontato: 69 a 67.
Era successo tutto talmente in fretta che non era sicura che anche i suoi compagni se ne fossero accorti. L’inerzia della partita era cambiata ed era a favore della squadra maglia verde. Erano concentrati, non sbagliavano un passaggio e non lasciavano aperture agli avversari.
 
Per la prima volta da quando era iniziata la partita, Erin cominciò ad avvertire il terrore della sconfitta.
 
La sua determinazione vacillò e riconsiderò il peso opprimente del primo premio. C’era così tanto in palio e non era una questione di prestigio: era solo quel viaggio a Berlino che desiderava così disperatamente ad incendiare la sua determinazione. Se non l’avesse ottenuto, quanti mesi ancora avrebbe aspettato prima di riabbracciare Castiel? Troppi e, anche se conosceva la risposta, preferì non quantificarli.
Ci aveva creduto sin dalla prima partita, quando Melanie le aveva ricordato cosa c’era in palio in quel torneo. Non aveva mai permesso al timore della sconfitta di deconcentrarla ma in quel momento, di fronte ad avversari così agguerriti, sentì un terrore crescente paralizzarla.
Il cuore le si era stretto in una morsa, improvvisamente non ragionava più, come se il suo cervello non ricevesse abbastanza ossigeno e zuccheri:
« EHI ERIN CHE CAZZO TI PRENDE? HAI VISTO LA MADONNA? »
Sobbalzò spaventata, da quella voce, così simile alla sua, che era riuscita a distinguere tra i cori confusi dei tifosi. Incredula, alzò lo sguardo e, in appena due secondi, la individuò: con il viso arrossato da una corsa forsennata tra i corridoi dell’arena, sua sorella Sophia stava sbraitando aggrappata alla ringhiera degli spalti.
Per un attimo la rivide bambina, arrampicarsi sul metallo delle transenne ed incitarla a salire su una trave che la spaventava. Erano passati anni da quell’episodio e, con una certa tenerezza, si accorse che in fondo il loro rapporto non era cambiato.
« E-E TU CHE CI FAI QUI? » le chiese sorpresa.
« IDIOTA PENSA A GIOCARE! TI SEMBRA QUESTO IL MOMENTO PER LE DOMANDE? »
Dopo aver pronunciato quelle parole, Sophia le sorrise convinta cercando di trasmetterle tutta quella sicurezza che la gemella aveva smarrito:
« ce la puoi fare Erin » mormorò tra sé e sé.
Le tenebre svanirono all’istante, sua sorella l’aveva salvata in tempo dal baratro prima che il buio la dominasse completamente. La paura del fallimento non l’avrebbe paralizzata, non era più una bambina, doveva continuare a lottare e a crederci, fino all’ultimo.
Con un ghigno divertito e carico di determinazione, la mora replicò:
« VEDI DI STARTENE BUONA FIA, ALTRIMENTI ROTOLI GIU’ »
La gemella scrollò le spalle, sorridendo rincuorata nel constatare il repentino cambio di atteggiamento di Erin. Era per situazioni come quelle che la mora si sentiva l’elemento più fragile del binomio che le univa, ma di fatto, Sophia sapeva quanto la sorella sapesse essere forte: aveva solo bisogno di qualcuno che gliel ricordasse.
Tutti gli amici di Erin non avevano potuto fare a meno di notare che il gioco della ragazza di era interrotto e, dopo averla vista sollevare il volto, avevano cercato di ripercorrere il punto in cui si era posato il suo sguardo:
« ma quella è Sophia! » mormorò Ambra basita. Afferrò il cellulare e, con una gioia crescente, mosse le dita sullo schermo. Dopo aver fatto partire la chiamata, tutti videro da lontano che la gemella frugava nella borsa.
« ehi, prova a voltarti » le disse la bionda, non appena iniziò la conversazione. Quando Sophia, compiendo un mezzo giro si trovò a dare le spalle al pitturato, vide una figura sbracciarsi, attirando la sua attenzione:
« ha la stessa faccia di Erin » commentò Dake sorpreso.
« sono gemelle » puntualizzò Kentin, che non vedeva Sophia dai tempi delle medie.
« la famosa Sophia! » squittì Alexy.
« finalmente la conosciamo! » sospirò Iris contenta.
Tra i presenti, solo Ambra, Rosalya e Kentin avevano avuto l’onore di incontrare personalmente quella fantomatica sorella che per due mesi aveva rappresentato un grosso mistero per gli amici di Erin.
« Ambra! Anche tu qui? » esclamò entusiasta la rossa.
« dai raggiungimi » la esortò la bionda, con un sorriso eccitato.
Armin scrutò l’amica con la coda dell’occhio, piacevolmente stupito da quel lato così socievole che era appena emerso. Era particolarmente curioso di vedere le due insieme poiché aveva intuito che quella nuova ragazza riusciva a tirare fuori in Ambra un lato ancora inesplorato della sua personalità.
I ragazzi videro Sophia arrancare tra la folla, risalire le gradinate e presentarsi a loro:
« ragazzi, lei è Sophia, la sorella di Erin » la presentò l’amica, sorridendo radiosa.
La rossa, in piedi davanti a nove paia di occhi che la fissavano, alzò la mano, ricevendo dei sorrisi accoglienti. Sua sorella le aveva parlato così tanto di quegli amici che non aveva dubbi su chi fosse chi.
Individuò da subito la persona che più bramava di conoscere, quella che era riuscita a conquistare il cuore della sua amica: l’unico ragazzo del gruppo con i capelli neri e gli occhi di un meraviglioso colore azzurro che, non a caso, era seduto accanto ad Ambra. A quel punto individuare in Alexy, il gemello del nerd fu uno scherzo. C’era poi una ragazzina timida, con degli assurdi capelli viola che la guardava con una sorta di reverenziale timore, sicuramente si trattava di Violet, l’artista del gruppo. Dietro di lei un ragazzo dai lineamenti eleganti, vestito in modo eccentrico ma dall’aria estremamente matura. Quello doveva essere Lysandre, il poeta. Sua sorella le aveva anche parlato del ritorno di Kentin e, basandosi sulla descrizione che aveva ricevuto, Sophia rimase sconvolta nel constatare quanto l’occhialuto ex compagno di classe fosse cambiato. Il biondino poteva essere Dake, il ragazzo australiano che era interessato ad Iris, la rossa naturale che sedeva accanto a lei, la ragazza che aveva conosciuto appena una settimana prima:
« ciao Sophia » si staccò quella voce calda e femminile che non aspettava altro che concentrare l’attenzione su di sè.
« ciao Rosalya » mormorò impacciata Sophia.
Voleva aggiungere qualcos’altro ma ci pensò Armin a interromperla, salvandola da un imbarazzante silenzio:
« sei stata un fulmine a ciel sereno »
« beh, volevo fare una sorpresa ad Erin ma ho calcolato male i tempi e sono arrivata solo ora »
« avresti potuto almeno avvertirmi, ti sarei venuta a prendere all’aeroporto » si offrì Ambra.
« l’importante è che ora sono arrivata no? Allora, come ha giocato finora mia sorella? »
 
Erin riprese fiato.
Anche il terzo quarto si era concluso e il punteggio segnato sul tabellone era a favore della Saint Mary: 72 a 70. La ripresa di quella squadra era stata incredibile, mettendo a dura prova la stamina degli avversari. Liam era stremato: assieme a Dajan, erano gli unici della Atlantic ad aver giocato dall’inizio della partita. Il capitano però, nonostante il sudore che gli inondava il viso, non esterava segni di stanchezza. Si limitava ad asciugarsi con il panno che gli aveva allungato Kim e sorseggiare dell’acqua.
« bevi piano » si premurava la ragazza, mentre anche il resto dei giocatori provvedeva ad idratarsi.
« Liam, devi riposarti, rimetto in campo Trevor » gli comunicò Boris.
« e io? » chiese Kim ansiosa.
Il coach sospirò:
« con una giocatrice come Melanie sul campo, meglio se continuiamo a fare affidamento su Erin »
La mora annuì delusa. Era la semifinale, voleva che anche il suo contributo potesse essere più significativo ma non intendeva discutere della decisione di Boris: si fidava tanto di lui, quanto di Erin.
« vorrà dire che giocherai di più alla finale » le aveva sorriso Dajan per consolarla.
« mi sembra il minimo »
Erin nel frattempo cercò con lo sguardo la sorella, trovandola seduta tra i suoi amici.
La vide chiacchierare animatamente e sorrise, ancora incredula per quella sorpresa. Sapere che la gemella l’avrebbe vista giocare le fece ricordare quanto avrebbe voluto che anche Castiel fosse presente quel giorno. Anche se sicuramente avrebbe avuto da ridire sul suo modo di muoversi sul campo, avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di farlo almeno assistere a quella sfida. Voleva che vedesse i suoi progressi, magari strappandogli, tra un insulto e l’altro, un complimento.
Ora che finalmente poteva riposare la mente e il fisico per qualche minuto, la mora avvertì che il suo corpo era stremato. Finchè era presa dal gioco, non si era accorta di aver prosciugato fino in fondo le sue risorse. Con il ruolo che le era stato attribuito, aveva corso avanti e indietro per il campo per tutto il tempo ma non poteva certo contare sulla stamina e resistenza dei maschi. Ripetè a sé stessa che doveva resistere ancora dieci minuti ma, in quel frangente, ci pensò il suo coach a dimezzarne il tempo:
« ci ho ripensato » sentenziò Boris, fissando la ragazza con una lieve apprensione « Erin, giochi solo i primi cinque minuti, poi ti sostituisce Kim »
« perché? » protestò la cestista, tornando a fissare l’uomo. Sentì il battito accelerarle, sotto un impulso irrefrenabile:
« perché non sono sicuro che riuscirai a reggere ancora a lungo questo ritmo. Non ci sei abituata »
Le indicazioni di Boris non ammettevano repliche. Cercò lo sguardo di Faraize che si limitò ad annuirle, quasi ad incoraggiarla ad assecondare quell’ordine, senza protestare:
« d’accordo » mormorò sconfitta, mentre Kim si morse il labbro, trattenendo a stento l’eccitazione. Guardò Dajan e nessuno dei due ritenne necessario aggiungere alcun commento.
 
L’ultimo quarto era arrivato.
Gli ultimi dieci minuti che avrebbero stabilito quale delle due squadre avrebbe staccato il biglietto per la finale.
Erin inspirò ed espirò, tentando di normalizzare il battito, ma era consapevole che esso non dipendeva dalla sua volontà.
Le due squadre si erano portate ad un livello comparabile, rendendo difficile stabilire quale delle due fosse realmente la più forte.
La squadra del Dolce Amoris, partita in sordina, sfida dopo sfida, aveva acquisito sempre più sicurezza, arrivando a minare la vittoria di quella scuola che era data per trionfante, la Saint Mary.
« è il momento della verità Erin » le disse Melanie, con un sorriso quasi triste.
Dieci minuti più tardi e una delle due fazioni avrebbe dovuto incassare una bruciante sconfitta. Per quanto Melanie volesse vincere, si rammaricò al fatto che la sua felicità avrebbe comportato la delusione di quella ragazza, anche se la conosceva a mala pena. Anche in Erin volteggiavano pensieri analoghi.
Una vittoria comporta sempre per antitesi una sconfitta. Nessuno poteva sottrarsi a quella logica spietata. Era una questione manichea, bianco o nero, non c’era spazio per pareggi o compromessi.
Una delle due ragazze quel giorno avrebbe pianto di gioia, l’altra di amarezza.
Erin non sapeva quali questioni personali soffiassero sulla voglia di vincere dell’avversaria, ma era convinta che non fossero altrettanto valide quanto le sue. Doveva di arrivare in finale, vincerla e raggiungere Berlino. Non poteva aspettare giugno per riabbracciare Castiel, le mancava troppo.
Aveva bisogno di rivedere il suo sorriso sghembo, ascoltare la sua voce greve e il tono burbero con cui la punzecchiava; avvertiva una nostalgia immensa nel saperlo seduto nel banco accanto a lei, intento a scrivere spartiti che poi avrebbe riprodotto in musica, grazie e a causa di quel talento che l’aveva allontanato da lei.
Voleva sentire ancora una volta il suo profumo solleticarle il naso, quando si chinava verso il suo banco per rubarle dall’astuccio una gomma o una penna. Voleva tornare a guardare quegli occhi grigi, così unici e belli, che riuscivano a incantarla con estrema naturalezza.
Da quando aveva realizzato i suoi veri sentimenti per l’amico, le capitava spesso di soffermarsi su tutti quei dettagli che più amava di lui, crucciandosi per non averli saputi apprezzare quando il ragazzo era ancora in America.
Il fischio dell’arbitro la fece sobbalzare:
« è iniziato l’ultimo quarto. Brooks detiene la palla, che vola verso Mc Connell, rientrato in gara al posto di Farrell. Un’ala grande per un’ala piccola »
Erin scattò verso Trevor e accolse la sfera. Melanie tentò di ostacolarla ma la numero dodici, passando la palla da una mano all’altra, riuscì a smarcarsi. Toccò a Benjamin impossessarsi della sfera e correre a canestro. Reed gli rubò la palla che finì sotto le cure di Neal. Le due guardie sfrecciarono verso il cesto avversario, mentre Dajan e Trevor si precipitavano al loro inseguimento.
« ci vorrebbe Steve in difesa del canestro » riflettè Dajan, guardando di sfuggita la panchina. Boris sembrò leggergli nel pensiero e indicò al giocatore di presentarsi al tavolo dei cambi.
Con i due alle calcagna, Neal sapeva di non poter tirare: l’elevazione di Dajan avrebbe disturbato la sua traiettoria di lancio. Cercò una soluzione e la trovò nel capitano:
« Julius! »
« la palla va a Lanier, che salta per intercettare il tiro. Si porta in posizione. Mc Connell e Brooks saltano sotto canestro, creando una barriera! »
Trevor cercò di toccare la sfera ma la presa dell’avversario era talmente salda che non riuscì a strappargli l’oggetto dalle mani. Sentì però che alla sua, si sovrapponeva la mano del compagno di squadra. Insieme, impressero una tale forza che la palla sfuggì a Lanier, cadendo sul pitturato. Prima che toccasse il pavimento, Erin la intercettò.
« Ben! » lo avvertì. Melanie però non permise alla guardia rossa di ricevere il passaggio: allungò un braccio, correndo via con la sfera tra le mani:
« merda! » grugnì Erin frustrata.
« stanno giocando ad un ritmo elevatissimo » commentò Lin spiazzata.
« in pochi secondi hanno fatto un sacco di azioni » confermò Kentin.
« e sarà così per i prossimi dieci minuti » ragionò Lysandre, guardando pensieroso Erin.
La ragazza aveva il fiato corto, continuava ad asciugarsi il sudore con il dorso della mano appena ne aveva l’occasione. Era una delle giocatrici più attive sul campo, correva da un lato all’altro per assicurarsi di essere di appoggio ai compagni ma era evidentemente stremata.
« Erin stramazzerà al suolo se continua così » si preoccupò Iris, rivolgendosi apprensiva verso Rosalya.
« lo so, ma ci crede troppo per mollare. È una tosta, vedrai che la spunterà » la tranquillizzò la stilista.
Era fermamente convinta delle capacità dell’amica, non ne avrebbe mai dubitato: Erin era fatta così, per le cose davvero importanti, si impegnava al massimo e quella sua caratteristica era una delle tante qualità che la rendevano una persona speciale agli occhi dei suoi amici.
Nel frattempo la palla era tornata alla Atlantic e Steve era entrato in campo al posto di Benjamin. Dajan si era portato sotto canestro e aveva spiccato un balzo, a cui fece seguito quello di Lanier e Reed.
In quell’azione accadde qualcosa che fu l’ulteriore riprova di una delle qualità di Dajan che più erano sbocciate durante il torneo: l’elevazione. Partita dopo partita, minuto dopo minuto, i salti del capitano sembravano acquisire dei millimetri in più, arrivando così a sovrastare persino due dei giocatori più forti in assoluto che videro la palla sorvolare le loro e centrare la rete.
Così arrivarono altri due punti che avvicinavano le due squadre l’una all’altra. I tifosi esultarono ma i giocatori non potevano godersi quelle acclamazioni, dovevano restare concentrati sul gioco.
La sfera era già giunta a metà campo e la Saint Mary non intendeva lasciare che gli avversari annullassro quel vantaggio che avevano conquistato con tanta fatica. Nonostante la distanza, Neal tentò una tripla ma, non avendo la stessa precisione di Reed, toccò il ferro. Ci pensò Denzel a recuperare il rimbalzo e rimetterla dentro.
76 a 72 a favore delle maglie verdi.
Trevor rimise la palla in gioco e la deviò verso Erin. Melanie le sbarrò la strada guardandola dritta negli occhi. Erano state poche le occasioni, durante l’intero scontro, in cui la bionda era riuscita a rubarle la sfera e non intendeva permetterle di aumentare la sua statistica di successi. Ormai conosceva i trucchi dell’avversaria, anche perché non erano altro che la bella copia, perfezionata e curata, dei propri. Tecnicamente Melanie era migliore di lei, ma Erin sapeva essere più istintiva e per questo, imprevedibile.
La vide alzare lo sguardo e dalla sua espressione capì che alle sue spalle doveva esserci un proprio compagno di squadra. Ne ebbe la conferma quando da dietro sentì Trevor esortarla:
« Cip, passa dietro! »
Senza pensarci due volte, la tweener eseguì il comando per poi scattare in avanti, a supporto dell’ala grande.
Prima che potesse penetrare nell’area dei tre punti e permettere al ragazzo di passarle la palla, vide materializzarsi Dajan: tra lui e l’amico ci fu un fugace scambio di sguardi, dopo il quale Trevor lasciò che la sfera volasse verso il tabellone.
« troppo facile » commentò tra sé e sé Lanier, saltando verso l’alto per stoppare il tiro.
Dajan però, pur spiccando un balzo un secondo dopo, riuscì a raggiungere prima il cuoio del pallone e con una delle azioni che ormai lo identificavano come giocatore, la schiacciò a canestro, regalando l’ennesimo, spettacolare alley-oop.
« è una sfida punto a punto » disse Faraize che non batteva ciglio. Erano passati tre minuti dall’inizio del quarto e il ritmo di gara era sempre più sostenuto.
« Kim preparati perché sarà tutt’un’altra storia rispetto a prima » la ammonì severamente il coach.
La mora annuì, deglutendo nervosamente. Passavano i secondi e, appena una squadra segnava, l’altra rispondeva. Non c’era tempo per gli errori, anche la più piccola indecisione avrebbe compromesso la gara.
Quando nello scontro tra Trevor e Reed la palla atterrò fuori dal perimetro di gioco, venne data l’autorizzazione per l’ingresso in campo di Kim.
I cinque minuti erano volati e per Erin era arrivato il momento di passare il testimone all’ex velocista.
La mora cercò Melanie con lo sguardo ed intercettò un sorriso che non riuscì a descrivere.
Era la gratitudine a trasparire dal volto felice della playmaker, anche se Erin non poteva giustificarne la causa.
« grazie » mormorò semplicemente la bionda, lasciandola confusa. Avrebbe voluto chiederle il senso di quel ringraziamento ma non c’era tempo; accorse verso Kim che fremeva dal desiderio di rimettersi in gioco.
Schiacciò il proprio pugno contro quello della compagna e le sussurrò:
« vedi di farci vincere Phoenix »
Ne uscì un ghigno carico di motivazione ed Erin abbandonò il campo, tornando a sedersi in panchina. Come era accaduto per le precedenti sostituzioni, anche la sua uscita di scena venne accompagnata da un fragoroso applauso.
Dajan accolse l’arrivo di Kim ammirandola con un’espressione affettuosa: per quanto fosse legato ad Erin, era l’altra ragazza quella che voleva al suo fianco.
« e ora, vediamo di vincere questa partita » promise a se stessa la velocista.
La compagna nel frattempo aveva trovato posto in panchina: Clinton le aveva allungato una borraccia ma, nonostante l’estremo bisogno di idratarsi, la cestista ne bevve distrattamente un piccolo sorso; non si perdeva mezzo secondo della partita, sentendosi quasi più tesa ora che non era più sul campo.
Avrebbe dovuto assistere agli ultimi minuti decisivi in quella situazione di passività e impotenza, senza poter più dare il suo contributo:
« hai fatto moltissimo per la squadra Erin, sono orgoglioso di te » le disse Boris, tenendo le braccia incrociate e lo sguardo inchiodato sul campo.
Lei rimase in silenzio, mentre il sudore le bruciava gli occhi. Raccolse un paio di lacrime ma, poiché si rivelarono più copiose dell’atteso, sospettò che non fossero scaturite solo da una questione fisica.
La tensione le stava logorando i nervi.
« ragazzi, vi prego » li supplicò mentalmente, senza esternare alcun fonema.
Kim aveva la palla e l’aveva deviata verso Dajan.
« il playmaker cerca il compagno Mc Connell ma la sfera viene intercettata da Reed… ecco che la guardia parte al contrattacco »
« KIM! OCCHIO A MELANIE! » urlò Boris, studiando le occhiate fugaci di Isiah. La giocatrice si frappose nella traiettoria che congiungeva Green e Reed, impedendo al primo di passare la palla alla seconda.
Dietro le spalle, Isiah avvertì la presenza di Neal e, con un passaggio da dietro, la palla finì alla seconda guardia.
« CAZZO! » imprecò Steve, appena la Saint Mary segnò con una tripla perfetta.
Erin cominciò a mordersi le unghie, vizio che non le era mai appartenuto.
Anche se era ferma immobile, il fiato le si accorciava sempre di più, come se quell’ambiente si impoverisse gradualmente di quel gas vitale che è l’ossigeno. I suoi polmoni e il suo cuore lavoravano compulsivamente, mentre un tremore incontrollabile la attraversava da parte a parte.
« Erin, ti senti bene? » si preoccupò Faraize, guardando il volto diafano della studentessa.
« s-sì » farfugliò flebile, senza degnarlo di una singola occhiata.
Era sull’orlo di un attacco di panico.
Miss Joplin aveva spiegato che quando si va in iperventilazione, è necessario respirare anidride carbonica dentro un sacchetto, per normalizzare l’eccessivo apporto di ossigeno. Non sapeva se era davvero quello la causa alla base della sua ansia crescente, ma nel dubbio e in mancanza di un qualsiasi contenitore conforme allo scopo, la cestista congiunse le mani davanti al naso, cercando di intrappolare l’aria che espirava, al suo interno.
Realizzò che fosse inutile, doveva trovare un modo per calmarsi ma ogni azione, amica o nemica, la faceva sussultare.
Era una situazione da cardiopalma.
Dajan aveva appena segnato un canestro.
Dopo meno di un mnuto, la Saint Mary aveva risposto con una schiacciata.
I secondi segnati sul tabellone passavo in fretta e lei non sapeva come rallentare quella fuga del tempo.
Kim correva da un lato all’altro del campo con Melanie che non le dava tregua.
Wes era appena scivolato sul pitturato, strofinando le ginocchia contro il suolo. Quando si era rialzato, la pelle era stata sfregata via, lasciando intravedere una strisciolina di sangue rosso scarlatto. Ignorando il bruciore, la guardia passò distrattamente la mano impregnata di sudore e sporcizia sulla ferita, acuendo il dolore.
I corpi dei cestisti erano grondanti ma nessuno aveva il tempo per tamponare il sudore, il cui sapore arrivava ad inumidire le labbra.
Il punteggio si era ribaltato e, per appena due punti, il Dolce Amoris era tornato in vantaggio: 84 a 86.
La panchina avversaria non esitava a spronare i compagni, così come quella della Atlantic.
La tensione aumentava con la diminuzione del tempo a loro disposizione.
« due minuti gente! » riepilogò uno dei due cronisti.
« due minuti… » ripetè nervosamente Faraize.
Erin inspirò: non riusciva a calmarsi, aveva la pelle d’oca e i muscoli tesi come se fossero sotto esercizio. Lo stress la stava uccidendo, le due squadre avevano raggiunto un livello troppo simile per riuscire a prevedere la conclusione di quell’avvincente sfida; appena la Saint Mary segnava un punto, l’Atlantic rispondeva a tono.
« calmati » ripeteva a sé stessa, ottenendo l’effetto contrario.
Un minuto.
84 a 83.
Un punto di vantaggio per la Saint Mary.
Sessanta secondi e avrebbe finalmente avuto una risposta alla sua preghiera.
Il destino non poteva essere così beffardo da averla dapprima illusa con quell’opportunità di volare nella città dove si trovava il ragazzo di cui era innamorata per poi sottrarle la felicità ad un passo dal suo raggiungimento.
Volle credere di meritare un riconoscimenti per l’impegno e il tempo che aveva investito per realizzare quell’obiettivo.
Anche se era convinta che non le fosse più rimasta una briciola di energia, scattò in piedi e cominciò ad incitare:
« DAI RAGAZZI! UN ULTIMO SFORZO! »
I suoi compagni accanto a lei, la imitarono e ben presto anche gli avversari fecero altrettanto.
Erano gli ultimi secondi di tifo, quelli in cui ogni cestista mise in gola quanta più energia gli scorresse in corpo, quasi a scaricare l’adrenalina.
Anche il resto del pubblico non si risparmiava e ormai le voci dei telecronisti erano inudibili.
Dieci secondi e il punteggio era rimasto invariato.
89 a 88 per la Saint Mary.
Dajan riuscì a strappare la palla a Lanier, sollevando un boato dalla folla:
« FORZAAA!! »
Lanciò la palla a Trevor e da lì a Steve.
Tre secondi ma il ragazzo era troppo lontano da canestro. Da quella distanza il pivot non poteva farcela.
« PASSAMELA! » gli ordinò Dajan.
Non avevano altra scelta.
Anche se era lontano dal canestro, doveva puntare tutto su quel tiro.
Dalla panchina, Erin rivisse quella che era stata la sua prima partita in quell’incredibile torneo quando lei, a pochi secondi dalla fine, aveva lanciato la palla che li aveva condotti alla vittoria.
Avevano bisogno di quella tripla, come ne avevano avuto bisogno per sconfiggere la Berrytown HS.
Due secondi e la palla lanciata dal capitano era ancora in orbita.
Gli spettatori avevano il fiato sospeso.
« entra » la supplicava Erin.
« ENTRA! » urlavano con veemenza i cestisti attorno a lei.
« fuori! » sbraitavano gli avversari che non sarebbero mai riusciti a raggiungerla in tempo.
« ti prego, entra » ripetè la ragazza, come una preghiera.
« ti prego, non entrare » sibilò Melanie, guardando la sfera con apprensione.
Il respiro di Dajan era frenetico, il suo petto si alzava e abbassava in modo quasi innaturale.
« entra, cazzo » implorò, tenendo lo sguardo fisso verso il canestro.
Migliaia di occhi in quel momento erano direzionati in quel punto.
La palla toccò la superficie del ferro circolare, cominciando a rotolare in equilibrio precario su di esso.
Dajan allora accelerò verso la rete, con la determinazione di darle la giusta spinta che l’avrebbe fatta scivolare attraverso la rete.
La palla compì un altro mezzo giro e, prima che il capitano della Atlantic potesse balzare in suo soccorso, ricadde a terra.
Senza attraversare la rete.
Suonò la sirena.
La partita si era conclusa.
La Saint Mary HS accedeva alla finale.
La Atlantic HS era fuori. Aveva mancato il bersaglio, come la palla lanciata dal suo capitano.
Le gambe di Erin la abbandonarono improvvisamente, mettendo la ragazza in ginocchio.
Ci aveva sperato.
Fino all’ultimo, ci aveva sperato.
« merda » sibilò Clinton, a denti stretti.
Liam affondò le unghie nei palmi delle mani, mentre Gordon, da sempre il più emotivo della squadra, avvertì delle lacrime di delusione a velargli lo sguardo.
Ci avevano creduto tutti, fino all’ultimo.
Boris, dopo un gesto di delusione in cui si era portato le mani tra i capelli, si era ricomposto e aveva guardato amareggiato i suoi ragazzi sul campo: Trevor si era seduto a terra, con la testa a penzoloni e gli avambracci appoggiati sulle ginocchia. Steve aveva il fiatone e fissava ancora incredulo il canestro mentre Wes si era accasciato al suolo, sbattendo un pugno contro il pitturato:
« e che cazzo! » l’aveva sentito imprecare frustrato.
Kim invece aveva un’espressione diversa da tutti: osservava con apprensione Dajan, rimasto immobile a metà campo, mentre gli avversari intorno a lui erano esplosi dalla gioai.
Il palazzetto era dominato dalle grida della tifoseria della Saint Mary che mai prima di allora si era tanto appassionata alla partita della sua squadra. Il preside dell’istituto applaudiva orgoglioso, sperando di incrociare, seppur da quella distanza, lo sguardo sconfitto di Boris.
Se il tifo e la gioia della Saint Mary erano incontrollabili, la delusione del Dolce Amoris era sin troppo tangibile:
« Dajan… » gli sussurrò Kim, appoggiando delicatamente una mano sulla spalla del ragazzo.  
Lui non rispose e si limitò ad allontanarsi da lei in silenzio.
Aveva sbagliato tiro. Sarebbe bastato attendere un altro secondo prima di lanciare, avvicinandosi di più al canestro e poi scattare sotto di esso, approfittando del tempo che la palla aveva indugiato in equilibrio sul ferro.
Quell’errore era costato il titolo alla sua squadra.
Melanie corse incontro ad Erin, cercando per rispetto dell’avversaria, di contenere la propria gioia.
Doveva ringraziarla e complimentarsi con lei per l’ottimo gioco ma appena fu a pochi metri di distanza, si paralizzò. La ragazza aveva il capo chino e, tra i ciuffi di capelli che le coprivano la fronte, la playmaker intuì un’espressione talmente tetra da farla rabbrividire.  
La squadra dell’Atlantic ritornò mestamente in panchina, in silenzio.
« vi siete fatti onore ragazzi » tentò di consolarli Faraize, con un sorriso incoraggiante e dando una pacca sulla spalla a Trevor. Il ragazzo si mise l’asciugamano in testa e, contrariamente alla sua natura, non spicciò mezza parola. Il capitano afferrò la propria felpa, intenzionato ad abbandonare la palestra, ma ci pensò il coach a trattenerlo
« Dajan aspetta, c’è il saluto finale » gli ricordò con amarezza.
Il ragazzo non si scompose e si limitò ad annuire mestamente; Kim si sentì stringere il cuore: era la prima volta che provava la sensazione di una sconfitta collettiva, lei che era abituata alle competizioni individuali. La disperazione e l’afflizione dei suoi compagni le facevano più male di quando era lei a fallire da sola.
« il prof ha ragione » aggiunse Boris, riferendosi alle parole dell’insegnate di ginnastica « avete fatto del vostro meglio. Vi siete misurati con giocatori che sono stati scritturati dall’NBA! Non abbattetevi, pensate invece a dove siete arrivati »
Per quanto i due adulti ci provassero, non c’era nulla che potessero dire per risollevare il morale dei cestisti. Clinton aiutò Wes a medicarsi la ferita che si era fatto un minuto prima, buttandoci sopra del disinfettante:
« brucia un sacco » mormorò la guardia, ma il dolore a cui si riferiva non era quello scaturito dalla lesione cutanea.
 
« peccato » sospirò Iris affranta.
« ci hanno tenuto con il fiato sospeso fino all’ultimo, non avrei mai pensato che il basket potesse essere così appassionante » replicò Alexy.
« già » aggiunse semplicemente Lysandre. Lin, seduta accanto a lui, fissava con apprensione la figura slanciata di Liam, a bordo campo. Prese il cellulare e digitò:
« sei stato mitico, è tutto ciò che conta »
Sperò che lo leggesse il prima possibile, che si sbrigasse a cambiarsi e uscire dallo spogliatoio. Voleva parlare con lui, tentare di risollevargli il morale perché vederlo così abbattuto le lacerava l’animo.
Gli amici di Erin aggiunsero tutti un qualche commento alla partita, l’unica però che era rimasta in silenzio era Rosalya. Teneva gli occhi felini puntati sulla mora, torturandosi le mani:
« Erin… » pensò tra sé e sé, mentre la gola le si seccava. In quel momento desiderò ardentemente che ci fosse stato un errore, che il primo premio fosse diverso dalla città che tanto la ragazza sognava di raggiungere, ma sapeva che era impossibile.
Promise allora a se stessa che, in un modo o nell’altro, l’avrebbe aiutata economicamente a racimolare i soldi per pagarsi il biglietto per l’Europa. A costo di stare sveglia tutta la notte a cucire. Erin era la stata la sua prima vera amica, le voleva bene come ad una sorella e non poteva accettare di vederla in quello stato.
 
Le due squadre si allinearono: Julius allungò la mano a Dajan, stringendogliela con veemenza:
« ehi Brooks, sta pur certo che questa non è l’ultima volta che ci affrontiamo »
Il capitano della Atlantic trovò lo spirito per sorridere appena, intriso di amarezza. Nonostante la convinzione dell’avversario, quello scontro aveva rappresentato la prima e unica volta in cui i due si erano affrontati da cestisti. Diversamente dal prodigio della Saint Mary infatti, Dajan non era stato scritturato da nessuna squadra professionista e il college presso cui aveva presentato domanda per una borsa di studio nel basket non gli aveva risposto. Di lì a pochi mesi, al termine del liceo, si sarebbe dovuto rassegnare a trovare impiego in qualche azienda e relegare il suo sport preferito, ad un passatempo per il weekend.
« sei stata grande Erin » le disse Melanie ma, analogamente al suo capitano, nemmeno la mora aveva voglia di discorrere.
Non aveva voglia di nulla.
Solo di essere lasciata sola.
Improvvisamente, prima che le due file venissero scomposte e i ragazzi abbandonassero il pitturato, partì un applauso solitario e, a ruota, uno scroscio fragoroso; tutti i giocatori sollevarono il capo verso l’alto e videro che l’intera folla del palazzetto si era alzata in piedi a ringraziare e onorare quella dozzina di giocatori che avevano combattuto una partita emozionante.
 
Si rivestì alla svelta, indossando i calzini mentre i piedi erano ancora umidi dopo aver sostato meno di tre minuti sotto la doccia. In quel momento Kim aveva semplicemente fretta di lasciare l’ambiente dello spogliatoio, reso angusto dall’atteggiamento apatico di Erin. Nonostante i tentativi della compagna di squadra di scambiare qualche parola, la cestista si era barricata in un impenetrabile silenzio che urlava al mondo il suo bisogno di essere lasciata sola.
Quella sua esigenza non poteva essere più conciliante con quella dell’ex velocista di abbandonare la stanza; era in ansia per Dajan e voleva solo raggiungerlo per tentare di confortarlo. La dolcezza non era nelle sue corde, ma non poteva permettergli di abbattersi, dopo la splendida partita che aveva giocato.
Kim non riusciva a sopportare la rassegnazione e, soprattutto, il senso di colpa che aveva letto nello sguardo del ragazzo dopo quel canestro mancato.
« Erin io vado, ti aspetto fuori dal palazzetto »
Dall’altra parte non arrivò nessuna risposta e Kim era comunque troppo impaziente per attenderla. Si chiuse frettolosamente la porta alle spalle, correndo lungo il corridoio e avvertendo l’aria fredda sui capelli ancora umidi.
Erin invece era immobile: in dieci minuti si era solo tolta le scarpe.
Voleva urlare, ma non aveva voce
Voleva crollare, ma il suo corpo la obbligava a stare in piedi.
Voleva piangere, ma non aveva più lacrime.
 
Kim raggiunse in fretta la porta dello spogliatoio maschile, appostandosi all’esterno.
Avrebbe voluto sentire il fracasso che popolava solitamente quell’ambiente, ma da esso proveniva solo uno spettrale silenzio.
Dopo parecchi minuti, ordinatamente e con lo stesso entusiasmo di soldati mandati al fronte, uscirono i cestisti; l’ultimo a chiudere la fila fu Trevor, che lanciò un’occhiata preoccupata verso l’interno della stanza. Aprì la bocca ma nell’arco di due secondi, desistette dalle sue intenzioni. La serrò, abbassando il capo mortificato e tirò la maniglia verso di sé, chiudendo la porta.
Kim allora si staccò dalla parete fredda e gli andò incontro:
« Dajan? » gli chiese con apprensione.
L’amico inclinò la testa di lato, in silenzio, indicando il locale dietro di lui. Non riteneva necessario aggiungere altro, la richiesta del capitano di essere lasciato solo era fin troppo comprensibile.
L’ala del liceo si allontanò ma Kim non lo imitò: rimase a fissare quella porta chiusa, tormentandosi sul dal farsi. Il cuore le martellava nel petto e un tremolio diffuso la pervase. Inspirò nel tentativo di calmarsi, ma peggiorò la situazione.
Portò una mano tremante sulla maniglia in plastica nera e la lasciò sospesa, in attesa di trovare il coraggio di abbassarla. Non poteva lasciarlo così, non dopo averlo visto così abbattuto.
Chiuse gli occhi e, dopo aver tirato un profondo respirato, mormorò:
« Dajan? »
Non giunse alcuna risposta, così tentò con:
« sono Kim… posso entrare? »
Ancora una volta non ebbe alcun segnale di vita così si decise a varcare l’ambiente.
La stanza era esattamente come quella in cui aveva appena lasciato Erin. La luce proveniva solo dalle finestre smerigliate poste in alto, rendendo nell’ambiente una penombra diffusa.
Trovò il ragazzo seduto su una panchina, con l’asciugamano calato sulla testa, a nascondergli il viso e il busto piegato in avanti. Era uscito da poco dalla doccia, vestendo solo la parte inferiore del corpo con i pantaloni neri della tuta. Kim arrossì in imbarazzo alla vista del torso nudo del cestista, ma per sua fortuna, lui non potè accorgersi di nulla. Del resto, da quando lei era entrata, non si era mosso di un millimetro.
La ragazza si accucciò davanti a lui, chinando il capo per intercettarne il viso.
« ehi » lo destò con dolcezza.
Quella voce quasi non le apparteneva, con il capitano riusciva a manifestare una tenerezza e femminilità che non pensava di avere. Le sue dita sottili risalirono lungo l’asciugamano e, afferrandone delicatamente un lembo, lo lasciò scivolare via dalla testa del ragazzo; neanche quell’azione aveva smosso il corpo di Dajan, che continuava a tenere il capo chino.
« abbiamo fatto del nostro meglio » esordì Kim.
Dopo un interminabile silenzio, dal torace del ragazzo uscì una voce roca:
« voi siete stati impeccabili. Sono io che ho fatto un errore che ci è costato la finale »
« non è vero! Non hai mi giocato meglio di così! Eri a livello di Lanier! »
C’era una nota di panico nel suo tono, scaturita dalla preoccupazione per l’atteggiamento colpevole e ferito del cestista. Il moro infatti non replicò subito ma si alzò in piedi, scostandosi dalla ragazza.
Si portò vicino alla parete, dandole le spalle e lei si limitò a seguirlo come un’ombra.
« non cercare di consolarmi Kim, mi fai solo sentire più patetico. Adesso esci, dì agli altri che se ne tornino in hotel, io vi raggiungo dopo »
La ragazza però non poteva accettare quell’ordine, così sbottò furente:
« non ti lascio solo! »
Gli occhi di Dajan diventarono allora due fessure e, prima che lei facesse in tempo ad accorgersi del cambio repentino di umore, aveva alzato la voce:
« AH NO? E ALLORA PERCHÉ TE NE VAI IN NORTH CAROLINA? » velenò con rabbia, costringendola ad indietreggiare leggermente. Si trovò con le spalle contro una rientranza della parete, mentre lui la inchiodava con il suo sguardo ferito.
In un attimo era esplosa una questione che avevano lasciato sopire, che nulla centrava con il motivo della delusione del ragazzo.
Dajan la guardava dritta negli occhi, lasciandole leggere quanto fosse ferito e rammaricato.
Non stava più parlando della sconfitta.
C’era qualcosa che gli rodeva, che lo tormentava e che lei era stata così cieca da non cogliere nella sua essenza. Quello che la inchiodava contro il muro non era lo sguardo di un amico deluso, era qualcosa di diverso, di più profondo e intenso.
Fu così allora che, finalmente, Kim riuscì a trovare una risposta che improvvisamente le apparve banale e scontata. Il problema era che non si era mai posta le domande giuste: perché Dajan le aveva fatto un regalo a Natale? Perché aveva l’impressione che i sorrisi che le riservava fosse più belli di quelli che regalava al resto del mondo? Perché a volte arrossiva e si trovava a disagio con lei?
Perché era così scema e ingenua da non accorgersi che quello che lei provava per lui, era ricambiato da molto tempo?  
« sei un idiota » mormorò sottovoce, abbassando il capo.
« cosa? » domandò Dajan, visibilmente spiazzato, corrugando la fronte.
« sei un idiota perché non mi hai dato il tempo di spiegare »
« spiegare che cosa? » ribattè spazientito.
« che non ho mai accettato la borsa di studio del North Carolina! » asserì lei, tornando a fissarlo in faccia, mentre le guance le si imporporavano.
Toccò a lui trovarsi in difficoltà, di fronte a quegli occhi accusatori che la tensione del momento rendevano più lucidi.
« l-l’hai rifiutata? » farfugliò sconvolto, mentre la rabbia veniva gradualmente rimpiazzata dalla più totale perplessità.
« l’ho rifiutata » confermò Kim, annuendo con decisione.
« rifiutata » boccheggiò sempre più confuso.
« ma ti sei rincoglionito? » sbottò nervosamente, roteando gli occhi verso l’alto « sì, ho detto a quelli del Tal Heels che non se ne fa niente, nein, nisba, nada, rien, baguette! » cominciò a elencare parole a caso la cestista, sempre più in imbarazzo.
« perché? » le chiese; lui non se ne accorse ma la rabbia e la delusione erano spariti e al loro posto era rimasto un sorriso che aumentava di secondo in secondo, una felicità incontenibile generata dalla notizia che aveva appena udito.
Kim cercò di calmarsi ma il suo cuore aveva ormai raggiunto un ritmo incompatibile con la vita. Le gote erano roventi e la bocca impastata dall’imbarazzo. Abbassò nuovamente lo sguardo, incapace di sostenere quello sincero di lui che, istintivamente aveva avvicinato il suo corpo, diminuendo la distanza tra di loro:
« non posso accettare di andare in un college dove … » deglutì a fatica. Non riuscì a completare la frase, il suo orgoglio le rendeva quella confessione particolarmente dura da espletare a voce alta; vedendola in difficoltà, Dajan completò soddisfatto:
« dove non ci sia una pista di atletica »
« no, scemo » lo smentì, tornando a fissarlo dritto in faccia « dove non ci sia tu »
Accadde tutto troppo velocemente perché Kim avesse il tempo di accorgersene: Dajan le afferrò il polso e, senza esitazione, incollò le sue labbra contro quelle di lei, schiacciandola contro la parete.
Era finito il tempo per le esitazioni e i dubbi.
Kim era il premio migliore che potesse vincere, tutto ciò che gli mancava per essere davvero felice.
L’aveva vista sfrecciare più volta su una pista, libera e sfrontata, ammirandone la fierezza. Era diversa da tutte le altre ragazze, con lei poteva parlare di sport per ore, senza rischiare di annoiarla; aveva inoltre uno spiccato senso dell’umorismo e un livello di competitività e determinazione che solo uno sportivo come lui poteva apprezzare. Come se quell’affinità non fosso sufficiente, Kim era ai suoi occhi indescrivibilmente bella, specie quando la sua corazza da dura veniva scalfita e si lasciava andare rari ma dolci sorrisi. Ne amava la celata tenerezza, ma adorava anche la sua energia e sicurezza in sé.
Si rese conto del tempo che aveva sprecato e, dall’impacciata passione con cui lei rispondeva al suo bacio, capì che probabilmente stava pensando la stessa cosa.
Non era necessario aggiungere altro, nel silenzio di quell’atto, si stavano già dicendo tutto, sopratutto quanto fossero intensi e soprattutto reciproci, quei sentimenti.
Mollò la presa sul polso dell’ex velocista, per portare la mano dietro la sua nuca e intrecciò le dita tra i capelli di lei, che profumavano ancora di shampoo, come ad assicurarsi che il suo viso non si staccasse dal proprio. Premura inutile, dal momento che Kim non aveva fretta di sciogliersi da lui; sentiva la pelle nuda del ragazzo aderire al suo corpo, provocandole uno strano e mai sperimentato prima, formicolio al ventre. Erano tutte sensazioni nuove per lei, per nulla paragonabili alle soddisfazioni sportive a cui era abituata.
Appoggiò, in modo un po’ impacciato e insicuro, una mano alla base della schiena di Dajan, avvertendo il contatto con la pelle calda del ragazzo.
Era il suo primo, indimenticabile bacio, destinato a imprimersi nella sua memoria, come uno dei momenti più romantici e felici della sua vita. Si staccò dal cestista che, fissandola con adorazione, balbettò imbarazzato:
« i-io non… avevo capito niente »
Kim si strinse nelle spalle. In quella circostanza era teneramente vulnerabile, lato di sé che solo Dajan riusciva a far emergere.
« sei un maschio, ovviochenoncapisciniente » masticò, mangiandosi le parole e distogliendo lo sguardo. Li si lasciò sfuggire un verso divertito:
« ehi » le sussurrò con dolcezza, passandole una mano sotto il mento, per costringerla a tornare a fissarlo in volto « questa è cattivella » scherzò, e approfittò di quell’occasione per tornare a cercare le sue labbra.
Ora che le aveva trovate, non le avrebbe più lasciate andare.
 
« devo andare da Erin! » esclamò Rosalya, facendosi spazio tra gli spettatori che stavano abbandonando gli spalti.
« Rosa, aspetta! » la frenò Iris « ci andiamo insieme »
Sophia temporeggiò: conosceva la gemella e sapeva che in un momento come quello avrebbe desiderato solo essere lasciata in pace, rifugiarsi sotto una calda coperta, in attesa che il tempo lenisse il suo dolore:
« ragazze, fermatevi » le redarguì, costringendole a voltarsi, mentre il resto degli amici ascoltava in silenzio:
« in questo momento è meglio se la lasciamo sola »
Iris la fissò indecisa, mentre in Rosalya si materializzò un’espressione di rabbia:
« tua sorella si è stancata di restare sola »
Quella frase gelò l’atmosfera: quell’accusa indiretta era una chiara provocazione verso le mancanze di Sophia, di cui tutti i presenti erano ormai a conoscenza. Erin ne aveva sofferto, ma ciò non era bastato affinchè la rossa decidesse di porre fine al suo isolamento. Abbassò il capo mortificata, mentre la stilista cercò di ricomporsi, ma l’ansia e la sincera preoccupazione che nutriva per l’amica le impedivano di farsi riguardi per la gemella:
« io vado, voi fate come vi pare » liquidò gli amici, scomparendo tra la folla.
« Iris va’ con lei » le ordinò Ambra « noi vi aspettiamo fuori, vicino alle macchine »
La rossa annuì sbrigativa e si dileguò mentre Sophia non osava guardare una direzione diversa dalle sue All Star consumate:
« ehi, non fare caso a Rosa… è un po’ impulsiva quando parla, ma ti assicuro che non voleva ferirti » la tranquillizzò Armin, mettendole una mano sulla spalla. Quel semplice contatto le infuse quel conforto di cui aveva bisogno per recuperare un po’ della sua sicurezza; guardò dapprima il ragazzo, poi Ambra e trovò a rincuorarla ulteriormente, un sorriso rassicurante.
 
« comunque grazie per il coniglietto » ridacchiò Kim, staccandosi da Dajan e sedendosi sulla panchina di legno.
« coniglietto? Hai trovato il mio regalo di San Valentino? »
« veramente se l’è ritrovato in giardino mio nonno » precisò lei, gustandosi l’espressione inebetita del ragazzo. Poiché essa non accennava a spegnersi, Kim accavallò le gambe affusolate e spiegò:
« nella casa accanto alla mia abitano i miei nonni. Il giorno dopo la nostra litigata, si sono ritrovati in giardino un pacchetto viola »
Dajan indossò una t-shirt, privando così la ragazza della visione dei suoi addominali e dichiarò:
« ecco perché non era nel bidone dove l’avevo lanciato! »
La ragazza si morse la lingua, frenando in tempo una battuta altrimenti infelice sulla mira del capitano. A causa dell’esito della partita, non era opportuno scherzare su un simile argomento:
« quando hanno visto di che si trattava, me l’hanno portato e a quel punto ho sospettato che fosse da parte tua »
Con quella dichiarazione, Dajan rimase ancora più basito:
« e perché non me l’hai detto prima? Voglio dire… »
« perché avevamo litigato » lo interruppe lei « e poi mica avevo capito che non era un regalo in amicizia » borbottò Kim a disagio.
Il cestista boccheggiò, poi scosse il capo, dapprima incredulo infine divertito:
« un ragazzo ti fa un regalo il giorno di San Valentino e tu pensi che sia solo un pensierino in amicizia? Chi è adesso l’idiota? » la canzonò, avvicinandosi a lei.
« ehi! » lo pizzicò Kim, fingendosi offesa. Lui sorrise radioso, con quella smorfia disarmante che la incantava tutte le volte. Si piegò in avanti, per azzerare la differenza di altezza tra lui che era in piedi e lei che era seduta:
« adoro il tuo sorriso » gli sussurrò Kim con timidezza, mentre le palpebre si abbassavano, preparandola a gustarsi la magia di un bacio imminente.
« io invece adoro tutto di te » concluse Dajan e silenziò ogni eventuale replica, sigillando teneramente le sue labbra, contro quelle della sua nuova ragazza.
 
Ingiusto. Meschino. Beffardo. Inaccettabile.
Avrebbe potuto trovare mille altri aggettivi per classificare il destino che le era toccato.
Un punto.
Un maledettissimo punto rappresentava quell’ostacolo insormontabile che le impediva di essere felice in quel momento. Ricacciò dentro le lacrime che finalmente avevano cominciato a sciogliersi sul suo viso ma che non erano bastate a far scaturire tutta la sua delusione e amarezza.  
La promessa fatta a sé stessa mesi prima, di non piangere mai più per Castiel, era stata nuovamente infranta e con essa si era radicata la convinzione che, quando c’era lui di mezzo, ogni sua certezza si tramutava in imprevedibilità.
Si appoggiò al parapetto della terrazza del bar, mentre un vento gelido la investiva con tutta la sua brutalità. Aver trovato casualmente quel locale all’interno della struttura che li aveva ospitati era l’unica consolazione che la ragazza era riuscita a ritagliarsi, insieme a quell’angolo di solitudine da cui non voleva uscire. Assaggiò il sapore salato delle lacrime bagnarle le labbra rosee e cercò di allontanarlo passando il dorso della mano sugli zigomi.
Dopo l’operazione della sorella, Erin era convinta di essere diventata più forte, che niente avrebbe potuto far vacillare così tanto la sua stabilità emotiva ma si era ingenuamente sbagliata.
« smettila di piangere » si rimproverò mentalmente, sortendo l’effetto contrario. I singhiozzi cominciarono a susseguirsi sempre più freneticamente, diventando più rumorosi.
In quel momento, desiderò tornare ad essere la bambina fragile e insicura di un tempo, che affossava il viso sotto una coperta o tra le braccia di sua nonna, per nascondere al mondo tutta la sua tristezza. Si sentiva troppo piccola per contenere quell’esplosione di amarezza, come se il suo corpo fosse inadatto a sostenere tutto quel peso.
Dopo averle regalato tante occasioni per ridere insieme, come poteva Castiel essere così insensibile da lasciarla andare in pezzi, proprio lui che era l’unico in grado di riaggiustare i cocci del suo animo?
Si morse le labbra, finchè il dolore autoinflittosi riuscì per un attimo a farle dimenticare la sua disperazione.
Inspirò per l’ennesima volta, anche se nel tentativo, la bocca le tremò più di prima.
« finalmente ti ho trovata »
Erin non si voltò, non era necessario per riconoscere quella voce.
Non voleva vedere nessuno che non fosse lui, ma lui non c’era e lei doveva rassegnarsi a quell’assenza per ancora molto tempo.
« lasciami sola Lysandre. Ne ho bisogno » gracchiò, cercando di infondere autorevolezza nella voce.
L’amico però ignorò quella richiesta e accorciò la distanza tra di loro.
« se fossi Castiel, mi allontaneresti? » le sussurrò gravemente. Non indagò sul senso di quella domanda, quasi non l’aveva sentita.
Non giunse alcun suono che non fosse il sibilo di un vento triste e malinconico.
Erin sollevò il bavero di un giubbotto troppo sottile per proteggerla, mentre le sue spalle rabbrividirono per un istante. Le labbra si erano screpolate, a causa dell’aria secca e del liquido salato che era scaturito dai suoi occhi feriti.
Lysandre la ammirò, mentre teneva lo sguardo vitreo fisso davanti a sé, con le spalle leggermente incurvate e contemplare il profilo della città. Non aveva faticato a capire cosa avesse fatto scaturire i sentimenti di Castiel per Erin: lei era come un uccellino infreddolito e sperduto, che innescava un senso di protezione e tenerezza in chi si soffermasse a indagarne l’animo ferito. Teneva però ben nascosto quel lato così vulnerabile di sé e l’amico era una delle poche persone ad aver avuto l’onore di avvicinarlo. Ma Erin sapeva anche essere la ragazza che consolava gli altri, che, nei momenti di difficoltà era pronta ad ascoltare e sostenere chi ne avesse bisogno. Era riuscita a far breccia in persone invalicabili come il suo amico Castiel o sua sorella Rosalya e solo per questo Lysandre non poteva non considerarla una risorsa preziosa.
Lei era di un’imperfetta perfezione: non sempre diceva la cosa giusta, ma era quella che riusciva a strappare un sorriso dove prima c’erano musi lunghi e ostilità.
Era quella bambina che non escludeva mai nessuno dai giochi, quella che si preoccupava per tutti.
Erin siincurvò ancora di più in avanti, convinta che Lysandre avesse assecondato la sua richiesta di solitudine. Il freddo cominciò a penetrarle nelle ossa ma non voleva staccarsi da quel parapetto.
Dopo qualche secondo, avvertì il contatto caldo di una sorta di manto caldo che gravava sulle sue spalle. Girò lo sguardo, incrociando gli occhi dolci dell’amico, che le sussurrò teneramente:
« non voglio che tu prenda freddo »
Il tepore emanato da quel tessuto riuscì a confortarla, attutendo la freddezza del suo animo.
« avrai freddo » mormorò Erin a disagio, declinando quella premurosa offerta.
Lui però ignorò la sua osservazione e sovrappose la sua mano a quella di lei, fermandola dall’intento di levarsi il giubbotto che le aveva offerto. La ragazza arrossì, confusa e perplessa, mentre Lysandre, con voce bassa e seria, dichiarò:
« finchè lui non torna, mi preoccuperò io di te, Erin »
La ragazza boccheggiò incapace di replicare.
Lysandre era sempre stato un ragazzo un po’ teatrale nel modo di esprimersi e atteggiarsi, ma il tono con cui aveva pronunciato quella frase lo faceva apparire stranamente credibile. C’era una profonda convinzione nelle sue parole.
Probabilmente riusciva a leggere nell’animo e nella tristezza di Erin, quali fossero i reali sentimenti che la legavano al chitarrista, ma per rispetto nei suoi confronti, non la forzava ad aprirsi. Si era limitato ad portarsi accanto a lei, ad assistere alla sua disperata lotta interiore tra il bisogno di crollare e la dignità di restare in piedi; fu a causa di quella premura e delicatezza che Erin si lasciò vincere dalla necessità di far uscire tutta la sua amarezza.
« io… ci credevo davvero Lys » cominciò a farfugliare, in preda a singhiozzi incontrollabili « volevo… vincere per giocarmi la… finale per… Berlino »
Le sue spalle sussultavano ad ogni parola, rendendo ancora più penoso il suo modo di esprimersi, così fragile e infantile.
« lo so » le disse lui dolcemente, accarezzandole la schiena.
« invece… non… »
Lysandre non le lasciò aggiungere altro, abbracciandola in silenzio e tenendola stretta a sé. Erin sgranò gli occhi, mentre le lacrime bagnavano il tessuto della maglione dell’amico.
Inspirò il suo profumo, caldo e avvolgente, come il calore che emanava il suo corpo. Era strano essere accolta tra le braccia di Lysandre, a parte suo padre, non ricordava di essere mai stata così abbracciata da un uomo in vita sua, nemmeno durante la sua breve relazione con Nathaniel.
C’era qualcosa di intenso e profondo in quella stretta, quasi di soffocante piacere.
« le persone che se ne vanno dovrebbero avere almeno il buon senso di portarsi via i ricordi » mormorò gravemente il ragazzo, mentre il respiro di Erin si normalizzava.
Se l’avesse guardato in faccia, avrebbe potuto vedere la rabbia con cui il poeta aveva rivolto quelle parole alla persona che considerava un caro amico.
 
Rosalya e Iris avevano assistito a quella scena da lontano, in silenzio. Erano giunte in quel bar proprio nel momento esatto in cui il ragazzo aveva trascinato a sé l’amica, avvolgendola tra le braccia.
« lasciamoli soli » sussurrò Iris a disagio, prendendo delicatamente il braccio dell’amica « tuo fratello se la cava da solo »
La stilista però teneva lo sguardo felino puntato sul fratello, come un predatore che ha individuato un nemico sulla sua preda. La rossa non riuscì a decifrare il senso di quell’espressione che pure durò pochi secondi, dopo i quali, Rosalya dichiarò:
« Iris, me lo fai un favore? » sibilò, allontanandosi dal terrazzo.
« di che si tratta? »
« quando torna Castiel, mi ricordi che prima devo lasciare ad Erin il tempo di abbracciarlo? »
« prima di cosa? » domandò dubbiosa l’amica, inseguendola nei corridoi.
« prima di pestarlo a sangue » dichiarò infine Rosalya, schioccando le nocche.
 
« come sarebbe a dire che era lampante? » protestò Dajan divertito « eri avvicinabile quanto un pitbull da combattimento! »
« ma che bel complimento da dire alla tua ragazza, tu sì che ci sai fare con le donne » lo rimbeccò Kim, fingendosi offesa.
Il ragazzo ridacchiò, mentre percorrevano i corridoi del palazzetto, in attesa di ricongiungersi con il resto della squadra.
L’idea di annunciare ai compagni della loro relazione li rendeva piuttosto nervosi, specie Dajan che immaginava i commenti goliardici a cui avrebbe dovuto far fronte.
« ehi Brooks, ce l’hai un minuto? »
Il capitano della Atlantic High School fu costretto a staccare lo sguardo dalla sua nuova ragazza e si trovò di fronte Julius Lanier. Fronteggiare nuovamente l’avversario, seppur fuori dal pitturato, riaffermò in lui la consapevolezza del perché fino a poco prima era particolarmente avvilito.
« sì » commentò perplesso, guardando Kim.
La ragazza sollevò leggermente le spalle, chiedendosi se non fosse il caso di lasciare soli i due capitani ma la precipitosità con cui Lanier presentò il suo accompagnatore, le fece dedurre che la sua presenza non fosse sgradita.
« lui è Rudolph Naismith, l’uomo che mi ha procurato un posto l’anno prossimo nei Boston Celtics » esordì Julius, indicando l’uomo accanto a lui. Era più basso di Kim, con un taglio di capelli molto spartano e una barba poco curata. Vestiva in modo casual e all’apparenza non si sarebbe mai pensato a lui come un talent scout. Dajan tuttavia assunse un’espressione professionale, stringendo la mano di quello sconosciuto e chiedendosi con quale intenzione Julius glielo stesse presentando.
In cuor suo era consapevole di quale potesse essere la spiegazione più logica, ma non osò sperarci finché l’uomo non parlò:
« mi occupo di scovare giovani talenti da indirizzare verso squadre professionistiche. E’ dall’inizio del torneo che ti tengo d’occhio Dajan e dopo la partita di oggi mi sono convinto a suggerire il tuo nome alla direzione dei Cavs »
« chi? » s’intromise Kim che, per quanto valida come cestista, non poteva definirsi un’appassionata di pallacanestro.
« i-i C-Cleveland Cavaliers? » tradusse Dajan, sgranando gli occhi verso Naismith.
La terra gli era mancata sotto i piedi.
Nell’arco di venti minuti, aveva perso una semifinale, conquistato la ragazza dei suoi sogni e ora il nome di una delle squadre di basket più forti del paese era arrivato alle sue orecchie.
Troppe emozioni in troppo poco tempo.
Quello dei Cavs era un nome talmente prestigioso che il cestista faticò quasi a seguire il resto della conversazione. In realtà quell’uomo gli aveva solo detto di averlo segnalato alla squadra, non aveva menzionato ad alcuna possibilità che essa fosse interessata a lui, ma la frase che seguì cancellò ogni dubbio:
« non solo. Una settimana fa ho contattato anche i Miami Heat, che vogliono rivitalizzare la squadra e ho proposto il tuo nome. Allo stato attuale delle cose, entrambe le squadre sono molto interessate a te quindi non mi è rimasto che contattarti direttamente. Tanto per iniziare, hai mai pensato di giocare da professionista? »
Dajan non aveva più saliva.
Cercò di deglutire, ma la gola era secca.
Provò a calmarsi, cercando di ragionare, ma il cervello non era collaborativo. Era a dir poco frastornato. Si sentiva come sulle montagne russe, nel momento in cui la giostra subisce una brusca accelerata.
In meno di cinque secondi era passato dalla prospettiva di diventare un impiegato statale a realizzare il più grande sogno della sua vita, quello che coltivava sin da bambino.
Non aveva avuto abbastanza tempo per metabolizzare il tutto, non era neanche sicuro di aver capito giusto, ma dal sorriso euforico di Kim, capì di non aver frainteso nulla.
« ehi Brooks, ti sei mangiato la lingua? » lo schernì Julius, che in realtà lo capiva meglio di chiunque altro, essendosi trovato nella stessa situazione alcuni mesi prima. Era una soddisfazione indescrivibile, la realizzazione di ogni sforzo e impegno che venivano riconosciuti con la ricompensa di massimo grado.
« saresti il benvenuto nell’NBA, il basket ha bisogno di nuovi giocatori giovani, da affiancare alle leggende viventi che ora come ora dominano sul pitturato, ma che non sono eterne. Tu hai dalla tua un’incredibile capacità di elevazione che fa tanto comodo ai Cavs quanto ai Miami Heat. Capisco che tu non possa darmi una risposta così su due piedi, quindi io intanto te l’ho detto. Ti lascio un po’ di tempo per pensarci, questo è il mio contatto » e gli allungò un biglietto da visita « ora scusami, ma ho un appuntamento… speriamo di sentirci presto campione! » e con una violenta pacca sulla spalla, Naismith si allontanò, lasciando Dajan sempre basito, al punto che toccò a Kim salutare l’uomo al posto del suo ragazzo.
Era apparso all’improvviso e si era smaterializzato con altrettanta velocità.
« dimmi che non è un sogno » boccheggiò Dajan, che dovette ricorrere a tutte le sue riserve di testosterone per non esplodere in un pianto di gioia. In tutta risposta la ragazza gli pizzicò la pelle così forte da strappargli un verso di dolore:
« ahia! »
« così sai che è reale » replicò Kim placidamente, senza smettere di sorridere.
« beh io vado » farfugliò Lanier, cogliendo l’impressione di essere di troppo. Naismith l’aveva contattato, chiedendogli di presentarlo a Dajan dopo la partita ed ora che il suo compito era stato assolto, non aveva motivo per trattenersi ancora. Si ficcò le grandi mani nelle tasche della tuta, distanziandosi dai due innamorati.
« ehi Lanier » lo fermò Dajan.
Il cestista si voltò, per sentirsi dire, da uno dei sorrisi più radiosi e sinceri che avesse mai visto:
« grazie »
Neanche ricordava l’ultima volta che una persona l’avesse ringraziato di cuore. Lui non era tipo da fare favori alle persone, e del resto era convinto che nemmeno in quel caso si meritasse la gratitudine dell’avversario. Semmai il contrario.
Sfidando la squadra di Dajan, aveva aperto gli occhi su cosa fosse realmente il gioco di squadra, facendogli scoprire una nuova visione del basket, più autentica di quella che aveva conosciuto.
« non è me che devi ringraziare Brooks. Hai talento, punto. Ti anticipo che anche i Celtics, la squadra per cui giocherò io, ti hanno adocchiato… non mi sorprenderebbe se al prossimo incontro con Naismith ti parlasse anche di loro »
Una puntina di invidia c’era. Inevitabile visto che un anonimo liceale, messo alla guida di una squadra di basket amatoriale, era diventato il giocatore con il record di ingaggi professionistici. Lanier poteva vantarne due, Reed e Melanie uno.
« hai fatto tombola Dajan » esultò Kim, dando un’energica pacca orgogliosa sulla spalla al ragazzo.
« ma i Celtics non hanno già preso te? » domandò il ragazzo, che cominciò a dubitare che Lanier volesse prenderlo in giro.
« già, quindi te lo metterò nero su bianco: preferisco affrontarti da avversario che averti in squadra. Sarebbe molto più stimolante, non trovi? » commentò con un sorriso sprezzante.
In quel semplice ghigno, Julius riuscì a trasmettergli tutta la stima e il rispetto che Dajan, in quaranta minuti di gioco, era riuscito a guadagnare.
Sentimenti che erano reciproci tra i due capitani.
Kim vide un ghigno eccitato dipingersi sul viso del suo ragazzo che, tenendo lo sguardo fisso sull’avversario, dichiarò:
« preparati allora, perché la prossima volta non riuscirai a battermi»
 
Sophia premette l’indice contro il campanello in ottone, attendendo impaziente il momento in cui sua madre si sarebbe materializzata alla porta. Lanciò uno sguardo fugace alla sorella, in piedi accanto a lei, che però non condivideva lo stesso entusiasmo.
Le due gemelle erano state riaccompagnate ad Allentown dai gemelli e da Ambra ma per tutto il viaggio Erin non aveva spiccicato più di mezza parola.
Era stata Sophia a prendere quella decisione per entrambe: la sorella era troppo demoralizzata e trascorrere un paio di giorni in famiglia, prima della partita per il terzo posto, l’avrebbe aiutata a riprendersi. Tornò a premere sul campanello, infastidita dall’attesa ma non fu Amanda la figura che si apprestò ad accoglierle: Sophia ed Erin furono così costrette ad abbassare il capo verso una figura minuta e ingobbita, dalla pelle increspata.
La vecchina aveva degli occhi porcini, ridotti a due fessure nel tentativo di mettere a fuoco la figura che la sovrastava di pochi centimetri. La pelle, abbronzata dalle continue gite al mare, era increspata da profonde rughe, particolarmente evidenti sulla bocca e sulla fronte.
« Fifì! » squittì, facendo sussultare la ragazza davanti a lei.
« no mamma, semmai deve essere Erin…. Sophia è in California » precisò la voce di Peter, proveniente da un punto indistinto della casa.
« mica è così rincoglionita la nonna! » lo corresse la voce divertita della rossa « riesce ancora a distinguermi perfettamente da mia sorella »
A quelle parole, Peter si presentò alle spalle dell’anziana madre, strabuzzando gli occhi:
« t-tesoro! Ma… che ci fai qui? »
« vuoi che me ne vado? » scherzò Sophia, facendo segno di allontanarsi. In tutta risposta la nonna le afferrò una guancia e cominciò a strattonarla:
« la solita burlona Fifì! Ma quanto ti sei fatta grande eh? »
« ahio… » mugolò la nipote e mentre cercava di sottrarsi a quell’affettuosa tortura, la nonna cominciò ad annusarla circospetta « e… puzzi di fumo! »
« ti sbagli! » scattò sulla difensiva la più ribelle delle due ragazze. Anche Peter si avvicinò sospettoso alla ragazza e, con uno sguardo severo, tuonò:
« hai fumato? »
« a-assolutamente no! » mentì Sophia « chiedetelo ad Erin! »
Solo in quel momento i due adulti si accorsero che, nascosta dalla loro visuale, alla destra di Sophia, c’era anche la gemella:
« oh Ninì, fatti abbracciare. Che bella sorpresa! Non ci avete detto che sareste venute! » la accolse la nonna ma la mora rispose con un sorriso stanco a quell’abbraccio:
« qualcosa non va’? E’ per la partita? » indagò la vecchina e, senza attendere una risposta, aggiunse « non ti demoralizzare tesoro, sono sicura che la prossima la vincerete, verrò anche io! » le promise, battendosi la mano sul seno floscio ma assumendo un atteggiamento battagliero.
« no! » sbottò Erin, parlando per la prima volta dopo due ore di viaggio.
« non vuoi che venga la tua cara nonnina? » piagnucolò nonna Sophia, mettendo il broncio.
La nipote si trovò spiazzata, mentre la sorella rideva sotto i baffi. Finalmente la medicina che aveva pensato per sua sorella, cominciava a fare effetto.
Quando Erin era piccola, solo quella vecchietta riusciva a farle tornare il sorriso. Ogni volta che qualcuno le faceva un dispetto o trovava un pretesto per piangere, correva a rifugiarsi da lei, versando lacrime e muco sulla spalla morbida della donna che, nonostante quella disgustosa inondazione, non si era mai lamentata.
« nonna » sospirò Erin « è meglio che rimani a casa. Sei troppo… »
« energica » suggerì Peter.
« invadente » precisò Sophia.
« imbarazzante » chiarì Erin.
« viva » concluse la donna, arricciando il naso indispettita e rientrando in casa.
Sophia scosse il capo e varcò la soglia, seguita dalla sorella.
Si guardò attorno felice e inspirò.
Era a casa.
Finalmente.
 
Dopo pochi minuti, direttamente dal giardino e con le mani sporche di terriccio, soggiunse Amanda, che investì le figlie con le sue domande e preoccupazioni:
« oh tesoro, vedrai che la prossima partita la vincete » si premurò, rivolgendosi alla cestista. La ragazza rimase inespressiva e, richiedendo espressamente di essere lasciata in pace, si rifugiò in camera.
La psicologa attuò allora il suo interrogatorio sulla seconda figlia, dalla quale però non ottenne informazioni aggiuntive rispetto a quelle che aveva ricevuto al telefono dalla cognata, appena un’ora prima.
La famiglia si era sì ricomposta, ma quel giorno non tutti i suoi membri erano pronti a riunirsi felici come un tempo.
 
Il soffitto non le era mai sembrato così interessante come in quel momento. A forza di fissarlo, riusciva quasi ad immaginare che fosse diventato il pavimenti di una stanza assurda dove il lampadario era in realtà una sorta di bicchere capovolto.
Erin era distesa sul letto, con lo sguardo perso sulla superficie piatta e uniforme che la sovrastava, incapace di concentrare la sua attenzione su un punto preciso. Chiuse gli occhi e svuotò la mente.
Ora era il buio a dominarla, mentre attorno a lei la raggiungevano incerti dei rumori ovattati. Parole confuse, discussioni di cui non riusciva ad afferrare nitidamente il senso. Le voci dei suoi familiari erano troppo lontane perché riuscisse a decifrarle.
Poi un volto.
I tratti erano mascolini, la mascella squadrata ma ben proporzionata. Si intravedeva un sorriso bianco e spregiudicato, dietro quelle labbra un po’ sottili, posizionate sotto due occhi grigio fumo.
Era un volto unico, impossibile da confondere con altri, lo stesso che avrebbe voluto vedere in carne e ossa e non come una proiezione irreale della sua mente.
Nell’immaginario di Erin, Castiel era rimasto lo stesso ragazzo dai capelli rossi che aveva visto per l’ultima volta dal vivo sul palco del liceo, prima di Natale. Eppure sapeva che la sua chioma fiammante era un lontano ricordo, a causa del cambio look a cui l’avevano costretto i suoi esuberanti nuovi amici. Era curiosa di vedere se e quanto fosse diverso, con i capelli più corti e neri, dal momento che dalla videochat di Skype non aveva potuto apprezzare quella vista.
Allungò un braccio a tentoni, finchè afferrò il cuscino morbido che sua madre aveva sistemato con cura e lo strinse al petto, immaginando che quel corpo amorfo fosse in realtà quello del ragazzo.
Un brivido la percorse da parte a parte, ricordando l’abbraccio che qualche ora prima le aveva regalato Lysandre, mentre lei non aveva potuto fare a meno di desiderare che fosse Castiel l’artefice di quella stretta.
« mi manchi così tanto, scemo » sussurrò al cuscino. Ormai le lacrime erano prosciugate, lasciando il posto per una nostalgia incolmabile. Affondò il viso nell’imbottitura del guanciale quando sentì il materasso vibrare sotto di lei.
Quel giorno il suo ottimismo era stato talmente annichilito che non pensò che potesse essere Castiel a chiamarla e, nel leggere un numero sconosciuto, ne ebbe la conferma:
« pronto? Erin sei tu? »
La mora non riuscì a riconoscere quella voce femminile, anche se le risultò indiscutibilmente familiare.
« sì… chi parla? »
« sono Melanie… Melanie Green »
La ragazza staccò la schiena dal letto, mettendosi seduta.
« Melanie? »
« già. Sorpresa? »
« beh sì. Non mi aspettavo che mi chiamassi » borbottò perplessa. Era strano per entrambe trovarsi al telefono, dopo essersi affrontate sul campo poche ore prima e proprio per questo, Erin non sapeva bene come comportarsi.
« in realtà avrei voluto parlarti oggi pomeriggio, ma dopo la partita non sono riuscita a beccarti in giro »
Giustificazione più che plausibile dal momento che la cestista, dopo aver trovato consolazione tra le braccia di Lysandre, si era fiondata in macchina, sottraendosi all’attenzione generale.
« mi sono fatta dare il numero dalla tua amica Kim… spero non ti dispiaccia » proseguì Melanie.
« no, no, che dici » farfugliò disorientata.
Dall’altra parte sentì che la ragazza inspirava, come se dovesse prepararsi ad annunciare una notizia importante:
« comunque sia, ti chiederai perché ti ho chiamata… beh vedi, è stata tutta un’idea di Isiah, hai presente il mio compagno di squadra? Isiah Reed? »
« sì, sì » confermò Erin frettolosamente, sempre più ansiosa di sapere la verità.
« beh ecco, so che è prematuro dirtelo ma vedendoti così demoralizzata oggi, ho pensato che forse sarebbe stato meglio dirtelo subito »
Il peluche a forma di orsacchiotto che giaceva sul letto di Erin divenne oggetto di tremende torture da parte della sua proprietaria che, incapace di trattenersi, sbottò:
« Melanie, ti prego, potresti andare al dunque? »
Era irrazionale l’eccitazione che sentiva crescerle dentro: Melanie non le aveva ancora dichiarato le sue reali intenzioni, eppure in un minuscolo angolo della sua mente, l’istinto aveva cominciato ad urlarle qualcosa che la faceva tremare di speranza:
« sì, scusa, è che non sono molto pratica con queste cose » farfugliò la cestista in difficoltà « ecco, l’idea è questa: se vinciamo il viaggio a Berlino, ti va di venirci con noi? »
Prima il silenzio.
Poi una gioia commossa.
Ed infine, le urla:
« ODDIOODDIODDDIO! PARLI SERIAMENTE?! » sbraitò Erin euforica, saltando giù dal letto. Melanie allontanò il ricevitore dall’orecchio, stordita da quell’acuto inatteso.
« sì, per le date che sono state scelte, non tutti i giocatori della mia squadra possono venire, ci sono tre posti liberi e i ragazzi mi hanno detto che potevo… sìinsommaportareunamica » borbottò, farneticando sulle ultime parole.
Il cellulare della mora le era scivolato dalle mani ma fortunatamente la morbida trapunta ne aveva frenato la caduta.
« Erin? Ci sei? » la richiamò la bionda.
Quanto poteva ancora essere beffardo il destino? Al punto da illuderla per l’ultima volta? No, Erin ne era sicura, la Saint Mary avrebbe vinto la finale e lei si sarebbe ritrovata sul volo per Berlino.
Ancora un paio di settimane e finalmente, Castiel non sarebbe più stato un’immagine sbiadita dei suoi pensieri.
« Erin? » ritentò Melanie.
« i-io non » boccheggiò la mora, riacciuffando il cellulare.
« non puoi venire? » completò l’altra evidentemente delusa.
« ASSOLUTAMENTE NO! È IL CONTRARIO! CI VENGO DI CORSA! DOVETE VINCERE ASSOLUTAMENTE MELANIE, TI PREGO! » esclamò commossa la mora, camminando avanti e indietro per la stanza.
Doveva in qualche modo sfogare quella febbrile eccitazione che l’aveva pervasa. Dall’altra parte della cornetta sentì la playmaker ridacchiare:
« è per il ragazzo della foto? »
In un primo momento Erin rimase disorientata, poi una scena le attraversò la mente: lei che teneva in mano il cellulare, intenta ad ammirare la foto di Castiel e Melanie che giungeva alle spalle, beccandola in flagrante durante la prima partita del torneo. La cestista le aveva appena fatto uno dei regali più belli e desiderati della sua vita, pertanto la sua coscienza le impedì di mentirle:
« già » ammise in imbarazzo, grattandosi la guancia.
« allora vorrà dire che una volta a Berlino me lo presenterai »
« senz’altro » convenne la mora « sono contenta di sentirti così sicura della vittoria » ridacchiò.
« il fatto è che la squadra che è arrivata in finale non è al vostro livello Erin… quelli non saranno una minaccia, almeno questo è quello che sostiene Randy »
« il vostro allenatore? »
« yes »
« voi però non abbassate la guardia. Non ti perdonerei mai Mel se dopo avermi illuso con la storia di Berlino, vi qualificaste secondi » tuonò minacciosa.
Sapeva di non avere alcun diritto a imporsi in quel modo, ma si trattava di una causa che le stava troppo a cuore. Melanie sembrò capirlo e, per nulla infastidita, scherzò:
« il secondo premio è Toronto giusto? Non mi dispiacerebbe sai andare in Canada »
« non provarci nemmeno Green! »
« ahah, stavo scherzando. Voglio andare in Germania quanto te, Travis »
La mora espirò felice, mentre il suo animo si faceva più leggero, finchè non ci pensò la voce cavernosa di sua padre a farla sobbalzare:
« Erin! Sophia! La cena! »
« arrivo! » gli urlò la prima, coprendo con una mano il microfono del cellulare.
Le dispiaceva essere costretta a liquidare Melanie su due piedi, specie considerando l’enorme regalo che le aveva fatto, ma se non si fosse sbrigata, l’avvertimento di suo padre sarebbe diventato più insistente « scusami Mel, devo andare » si giustificò.
« ah figurati, tanto quello che dovevo dirti te l’ho detto… ci sentiamo dopo la finale di venerdì »
« mi raccomando… conto su di te »
« comincia a preparare i bagagli »
Erin sorrise, sentendo finalmente che ogni cosa tornava al suo posto. Voleva chiederle il senso di quel “grazie” che la ragazza le aveva rivolto a cinque minuti dalla fine della partita ma il poco tempo che ancora aveva doveva usarlo per un’ultima frase:
« Melanie… grazie »
Ci mise un tale sentimento in quel sospirato ringraziamento che la playmaker arrossì, ma cercò di smorzare la solennità dell’atmosfera:
« ringraziami quando saremo sull’aereo » commentò l’altra, schioccando la lingua.
« RAGAZZEEE! » ripetè Peter spazientito.
« vado… ci sentiamo presto e grazie, grazie, grazieeee! »
Erin chiuse la telefonata e cominciò a rotolarsi sul letto, ridendo da sola. Sgambettò felice, come le era successo la prima e ultima volta che si era fermata a dormire sul letto di Castiel. Era troppo su di giri, troppo euforica e aveva bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia.
Si precipitò così fuori dalla sua stanza, irrompendo in quella della sorella:
« ANDRO’ A BERLINO FIA! »
La gemella sussultò, guardandola per un attimo come sconvolta.
Si spostò nervosamente, allontanandosi dalla finestra e si avvicinò alla sorella. Erin ebbe l’impressione che cercasse di sfruttare il suo corpo per occultarle la visione, per mascherare qualcosa alle sue spalle.
Spostò allora il busto di lato ma, oltre alla scrivania non vide altro. Abbassò lo sguardo, mentre quello della gemella tradiva un certo nervosismo. Appoggiato contro la sedia, c’era un quadro, lo stesso che settimane prima aveva attirato l’attenzione della sua amica Violet durante il tour nella stanza della gemella.
« andrai a Berlino? » indagò Sophia sorpresa, sviando l’attenzione dal dipinto.
Rievocando il motivo della sua felicità, Erin accantonò l’oggetto e squittì eccitata:
« sììì!!! Melanie Green, la ragazza che gioca nella Saint Mary mi ha offerto uno dei posti liberi, nel caso in cui vincano la finale della prossima settimana »
« maddai? Oddio è pazzesco! » sbraitò la sorella, sgranando gli occhi.
« guarda, ancora non ci credo. Sto ancora tremando! » ed Erin allungò le mani in avanti, l’una accanto all’altra, per dimostrarle il leggero tremore che le percorreva.  
Sophia aprì la bocca ma, prima che riuscisse ad aggiungere altro, Peter si presentò sulla soglia della stanza:
« INSOMMA! Quante volte vi devo chiamare? Non avete più dieci anni! Scendete subito, che la cena di fredda! »
 
« e così potresti andare in Europa! » si entusiasmò Amanda, assaporando un calice di vino rosso.
« sì! Sono sicura che la Saint Mary vincerà mamma, sono incredibili! »
« quindi rinunceresti al viaggio in palio per il terzo posto se vincerete la partita di lunedì? » riepilogò Peter « alle Bahamas se non ricordo male »
La figlia scrollò le spalle, disinteressata. Il viaggio a Berlino e quello alle Bahamas sarebbero venuti a coincidere nello stesso giorno, ma non le importava affatto rinunciare ad una calda spiaggia tropicale per raggiungere il chitarrista sperduto in Germania:
« con la fortuna che hai Erin, c’è l’eventualità che mentre tu sei sull’aereo per Berlino, il tuo amico decida di tornarsene in America… ahaha, sai che ridere » scherzò Sophia, guadagnandosi un’occhiata glaciale.
A quelle parole, la nonna, che aveva seguito con vivo interesse la conversazione, si illuminò:
« un amico? Chi è? Ninì, dì tutto a nonna tua! »
La nipote sollevò gli occhi al cielo, posandoli poi sulla vecchietta:
« sta’ buona nonna. Non cominciare a farti i filmini mentali come al tuo solito »
Determinata a carpire nuove informazioni, nonna Sophia puntò sulla nuora:
« Amanda, chi è questo giovanotto? Tu lo conosci? »
« sì ma credo che dovremo rispettare la privacy di Erin » le sorrise la donna, ricevendo un’occhiata di gratitudine dalla figlia.
« perché c’è poco da dire » farfugliò la gelosia paterna di Peter, allungandosi per prendere l’olio « è solo un suo amico »
« esatto » convenne Erin, arrossendo in difficoltà e nascondendo l’imbarazzo dietro un bicchiere di Coca-Cola. Quella reazione non sfuggì alla nonnina che sbottò:
« ah voi nuove generazioni! Con le vostre insicurezze e indecisioni! Ai miei tempi, se volevi davvero una cosa andavi a prendertela! Alla vostra età » chiarì, puntando l’indice ossuto verso le due nipoti « mi davo già da fare con vostro nonno, altro che amico e amico! Bisogna buttarsi ragazze »
« MAMMA! » la rimproverò Peter « che discorsi sono! Dovresti dire loro l’esatto opposto »
La madre allora lo guardò schifata e borbottò:
« se non ti avessi partorito io, giuro che non crederei che sei mio figlio » e, ignorando l’occhiata riprovevole dell’uomo, Sophia senior proseguì « ah, se potessi tornare indietro di sessant’anni, quando io e Phil ci rotolavamo nel pagliaio » cominciò a raccontare con espressione trasognante mentre le tre donne, sotto l’espressione paonazza di Peter, ridacchiavano.
« oh tesoro non essere così pudico. Se io e tuo padre non ci fossimo dati da fare, più della metà delle persone presenti a questo tavolo non ci sarebbero » dichiarò soddisfatta.
« mamma, dacci un taglio! »
Mentre il padre era impegnato in una battaglia persa in partenza, Erin e Sophia sorridevano, ammirando quella nonna così eccentrica e fuori dagli schemi. Non era mai stato un mistero che la più esuberante delle due gemelle avesse ereditato parte della sua personalità proprio dalla linea paterna, in particolare da quella vecchina tutta pepe.
 
Il mattino successivo, quando Sophia scese a fare colazione trovò la famiglia riunita, intenta a discutere animatamente:
« e non ti ha proprio anticipato nulla, Amanda? » stava chiedendo la nonna, soffiando sul caffè di orzo.
« no, però quando le ho chiesto se fosse incinta, è stata categorica: ha detto di no »
« beh, allora si saranno fidanzati ufficialmente » soggiunse la voce di Erin.
« state parlando della zia? » sbadigliò Sophia, trascinando le calde ciabatte sul parquet.
Era una mattinata di febbraio, in cui un sole luminoso l’aveva accolta al suo risveglio, infondendole la voglia di iniziare la giornata al meglio.
« sì, ha chiamato un’ora fa per annunciarci che sabato prossimo siamo tutti invitati a cena: lei e Jason hanno una cosa importante da dirci »
« secondo me è incinta ma ha negato per farci una sorpresa» sentenziò Sophia, versandosi del latte nella sua scodella preferita.
« no, non credo proprio » ribadì Amanda « e poi è presto, sta con Jason da appena due mesi »
« e cosa aspetta ancora?! » sbottò la nonna « Pampam ha già trent’anni, alla sua età ero già diventata mamma due volte »
« erano tempi diversi nonna » convenne Erin « e poi, per quanto Jason sia un bravo ragazzo, dovresti essere contenta che la zia stia facendo le cose con calma, visto il fallimento di tutte le sue relazioni precedenti. Sono convinta che ci annuncerà il suo fidanzamento ufficiale »
« anche per quello è troppo presto Erin, non trovi? » osservò Amanda, mentre la suocera sollevava gli occhi al cielo.
« per voi  è sempre troppo presto. Ma cosa vi credere? Che la vita aspetti i vostri ritmi? A volte bisogna buttarsi, fare un primo passo e vedere come va, specie finché siete giovani e avete le energie per rimediare ai vostri errori »
« quando sono coinvolti i sentimenti di altre persone nonna, non si può ragionare con questa leggerezza » sentenziò gravemente una voce.
Le tre donne si voltarono verso Sophia, che nascose il viso dietro la tazza, sorseggiando lentamente la calda bevanda.
« ma non eri tu quella che diceva che bisogna sempre buttarsi? » indagò la sorella, sorpresa da quell’affermazione.
« cambiato idea » commentò laconica l’altra, scrollando le spalle. Si era seduta scomposta, appoggiando un piede sulla sedia e tenendo la tibia destra appoggiata contro il tavolo.
Si passò la lingua sulle labbra, assaporando il gusto del caffè e la sua mente la condusse a quel ragazzo che aveva lasciato in California. Dopo l’incontro sulla spiaggia, i due non si erano più visti né sentiti, eppure non passava giorno che non pensasse a Nathaniel.
Più imponeva a se stessa di dimenticarlo, e più le venivano in mente i suoi sorrisi gentili, i suoi capelli biondo grano che negli ultimi mesi si erano un po’ allungati, rendendolo ai suoi occhi ancora più carismatico e affascinante. Anche il sole californiano, seppur debole a causa del periodo invernale, aveva giocato a vantaggio del biondo, dorandogli leggermente una pelle altrimenti bianca.
Quei pensieri erano distruttivi, in quanto alimentavano in lei la consapevolezza di avere incontrato un ragazzo speciale che mai le sarebbe appartenuto. Anche attuando quello che i matematici definivano un ragionamento per assurdo e ipotizzando quindi che Nathaniel ricambiasse i suoi sentimenti, Sophia non poteva ignorare l’esistenza di Rosalya nelle loro vite, e con “loro”, includeva anche Erin.
« vado di sopra » annunciò, dopo aver consumato una frugale colazione.
Erin la fissò in silenzio, poi la imitò, lasciando la madre e la nonna a discutere della misteriosa telefonata di Pam.
Raggiunse la gemella quando questa era a metà della rampa di scale e la chiamò:
« Sophia aspetta »
La vide voltarsi incuriosita e attendere di scoprire cosa volesse dirle.
 
Quel giorno Erin non avrebbe mai immaginato che una domanda, a suo avviso semplice e banale, era la chiave per scoperchiare quel vaso di Pandora che, analogamente all’oggetto mitologico, avrebbe sprigionato una nube di sofferenze e rancori.
 
« che ha di speciale quel quadro? » le domandò retorica.
Voleva solo scoprire chi l’avesse realizzato, dal momento che era chiaro che non fosse opera della gemella. La risposta però non solo non le arrivò immediata, ma a lasciarla interdetta fu la reazione sul viso di Sophia: vide i suoi occhi dilatarsi, la pelle sbiancare e la bocca socchiudersi leggermente.
Teneva lo sguardo fisso su di lei, come se un terrore improvviso ne avesse paralizzato ogni movimento.
Erin era rimasta senza parole, nell’ammirare quel cambiamento così drastico, e confusa perché non riusciva a spiegarsene la causa.
« c-che quadro? » balbettò la rossa, distogliendo lo sguardo e puntandolo di lato.
Sophia aveva cominciato a grattare l’unghia dell’indice contro il legno del corrimano, cercando di stemperare un irrazionale e ingiustificabile nervosismo.
« l’unico quadro che hai in camera. Quando ieri sono entrata, lo stavi fissando » farfugliò Erin, ancora perplessa.
Non era così stupida da ignorare tutti quei segnali del corpo che le venivano lanciati, ma era troppo disorientata per riuscire ad analizzarli.
Sua sorella si era irrigidita appena aveva sentito quella domanda, ma il fatto di non riuscire a spiegarsi il perché di quel comportamento, coglieva totalmente impreparata la ragazza.
« è un bel dipinto, non posso guardare i quadri? » borbottò Sophia.
Era scattata sulla difensiva, infondendo in Erin il sospetto che, dietro quella storia, ci fosse un mistero da svelare. Accantonò allora la propria confusione, spinta dall’urgenza di conoscere la verità:
« da dove salta fuori? » insistette allora.
Per qualche ragione, sentiva che quella faccenda andava approfondita, che non poteva limitarsi a scrollare le spalle e rispettare gli spazi della gemella: doveva invaderli, perché per troppo tempo il silenzio dell’altra l’aveva fatta soffrire.
La sfumatura bianca del viso di Sophia nel frattempo, cominciò a intensificarsi, virando verso il rosso:
« ma che te ne frega Erin? Perché devi sempre ficcare il naso negli affari miei? »
Il tono, dapprima schivo e prudente, era ora più alto e aggressivo. Il battito aveva cominciato ad accelerare e la tensione a manifestarsi sul suo volto diventato paonazzo.
« ti ho solo chiesto dove l’hai preso » commentò la mora con gravità « non vedo perché devi fare così la difficile… non l’avrai mica rubato? »
« per chi mi hai preso? » sbottò l’altra offesa.
Più proseguiva quella conversazione, e più la situazione si complicava. Le gambe di Erin l’avevano portata ad avanzare di qualche scalino, avvicinandosi alla sorella che continuava comunque a sovrastarla dall’alto della sua posizione.
« allora smettila di stare sulla difensiva » aveva ruggito, sfidandone quasi la tenacia « non capisco perché la fai tanto lunga, la mia è una domanda semplice semplice »
No, non lo era.
Sophia si morse il labbro, ma realizzò di non essere abbastanza insensibile da faticare a sostenere quello sguardo accusatorio.
Con il passare delle settimane, aveva l’impressione che più Erin diventava una persona forte e sicura, più lei si impoverisse di quelle due qualità che l’avevano sempre distinta.
La supplicò mentalmente di lasciar cadere quella conversazione ma era fin troppo evidente che, arrivate a quel punto, la gemella volesse solo sapere la verità.
« perché ti sei fissata con questa storia? » la accusò d’un tratto. La voce si era ridotta ad un sussurro, riuscendo a sovvertire i ruoli e mettere Erin dalla parte del torto.
Era sempre stata una specialità della sorella quella di riuscire a ribaltare la situazione a suo favore ma per sua disgrazia, la gemella non era più così ingenua da lasciarsi abbindolare.
« perché ho l’impressione che c’entri qualcosa con la tua assenza, Fia »
Sophia deglutì a fatica, incapace di replicare. Anziché portarsi a suo vantaggio, aveva solo peggiorato la situazione.
Avrebbe dovuto nascondere quel dipinto, riporlo in un angolo della casa lontano da occhi indiscreti e non nella sua stanza, attirando l’attenzione dei familiari.
Non poteva coinvolgere Erin in quella faccenda, non poteva e basta.
Se con le buone, non voleva capirlo, allora le rimaneva solo una carta da giocare.
Dentro di sé cercò di raccogliere tutta la durezza e l’autorevolezza di cui era capace e, dopo averle rivolto uno sguardo glaciale, asserì:
« te lo dirò una volta sola Erin, quindi ficcatelo bene in testa: non sono affari tuoi! Intromettiti in questa faccenda, e sappi che non avrai più una sorella »
Velenò quella dichiarazione con una tale cattiveria che per un attimo, la mora non seppe come replicare.
Con quella minaccia Sophia si era spinta oltre, mettendo sul piatto la posta più alta che avesse mai menzionato: il suo affetto.
Erin non aveva mai sopportato i ricatti, li aveva sempre trovati un’ingiustizia perché obbligava una delle parti a rinunciare a qualcosa di importante.
Sentì quindi una rabbia irrefrenabile montarle in corpo, sobillata dallo sguardo severo e presuntuoso con cui la sorella la troneggiava, convinta di averla piegata al suo volere.
Fu a causa di quella frustrante situazione che le uscirono le parole più dure che le avesse mai rivolto:
« allora non ho molto da perdere. Per quel che mi riguarda, ti ho persa quando te ne sei andata l’estate scorsa »
Aveva pronunciato quella frase con una lucida freddezza che l’aveva resa irriconoscibile agli occhi della persona che la conosceva da diciotto anni. Gli occhi di Erin erano spietati, decisi, non lasciavano trapelare emozioni che non fossero la più totale determinazione frammista a rabbia.
Si arrotolò sbrigativamente la manica della felpa, mostrando sul polso magro, un braccialetto che Sophia conosceva fin troppo bene. Se lo levò con naturalezza e lo appoggiò su un ripiano, senza aggiungere altro.
Sophia vide la gemella lanciarle un’ultima, fugace, occhiata delusa e allontanarsi in silenzio, lasciandola sola, proprio come aveva fatto lei negli ultimi mesi.
Non riusciva a muoversi di un millimetro, rimanendo impietrita su quelle scale a fissare il simbolo del legame con sua sorella che era appena stato reciso.
 
Nei due giorni successivi, in casa Travis, regnava un clima pesante: le due gemelle non si rivolgevano la parola e i tentativi da parte dei familiari di trovare una giustificazione a quell’inspiegabile silenzio finivano solo per accrescere l’irritazione da ambo le parti.
Erin fu la prima a lasciare Allentown per tornare ad allenarsi con il resto della squadra.
Mancavano solo due giorni all’ultima partita del torneo e non poteva dilungare la sua pausa. Fu quindi un sollievo, terminato il weekend, rimettere piede a Morristown, lasciandosi alle spalle il mistero legato alla sorella.
Conoscendo le sue manie di protagonismo, la ragazza non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che Sophia trovasse un gusto puerile nell’attirare la sua attenzione, ostentare un bisogno di riservatezza che in realtà non aveva ragion d’esistere.
D’altro canto la rossa non cedeva di un punto e rimaneva stabile nella sua posizione.
 
Una volta rientrata al Dolce Amoris tuttavia, era stato inevitabile per Erin accantonare le sue vicissitudini familiari: quel lunedì mattina infatti, era terribilmente in ritardo. In quanto cestista, non si sarebbe dovuta presentare a lezione, ma in palestra e con l’imminenza dell’ultima partita, Boris non le avrebbe perdonato facilmente i minuti preziosi che aveva perso sotto la calda trapunta.
Si affannò per raggiungere il prima possibile la scuola quando da lontano vide che in cortile tutta la squadra era riunita. Il resto degli studenti non c’era, impegnato con le lezioni mattutine e in quel frangente Erin sperò che l’allenamento fosse stato annullato.
Per quanto fosse remota quell’eventualità, ci sperò finché non raggiunse i ragazzi:
« come mai siete tutti qua fuori? Non andiamo in palestra oggi? »
Trevor le rivolse un sorriso malizioso e spiegò:
« stiamo aspettando Kim e Dajan… ah eccoli »
Stupita da quella risposta, la ragazza si voltò e la scena che le si presentò davanti la lasciò di stucco:  la figura più alta delle due in avvicinamento era sicuramente Dajan, la cui mano era intrecciata in quella di Kim. Quest’ultima gesticolava con la mano rimasta libera, articolando un discorso che fece ridere il capitano. Erano lontani ancora parecchi metri e, dopo l’ennesima battuta di Kim, Erin vide che il ragazzo si chinava su di lei, stampandole un bacio in bocca.
« m-ma » balbettò incredula, mentre alle sue spalle, si levò la risata goliardica di Trevor:
« ECCO CHE ARRIVA LA COPPIETTAAA! »
Senza staccare le labbra di Kim, Dajan si limitò ad alzargli il dito medio, fregandosene altamente degli sguardi e dei commenti burloni che, seppure da una certa distanza, si erano concentrati su lui e la sua nuova ragazza.
Ora che stavano insieme, non aveva più nulla di cui imbarazzarsi, anche se la loro relazione era appena agli inizi ed entrambi faticavano a credere in quella piega insperata che aveva preso il loro rapporto.
Whitney si era accorta subito che nel figlio, dopo il torneo, c’era un’inspiegabile felicità: dapprima l’aveva attribuita agli ingaggi da parte di ben tre squadre professionistiche, ma il suo occhio attento, unito ad una mente sveglia, era riuscita a strappare a Dajan la confessione che si fosse trovato una ragazza, la ragazza che gli era sempre piaciuta. Lois invece, a causa della riservatezza della figlia, non poteva ancora gioire per una notizia che l’avrebbe mandata su di giri per una settimana.
« invece di farvi i cazzi nostri, perché siete ancora qui? Non dovreste essere già in palestra? » brontolò Dajan, staccando la mano da Kim e avvicinandosi alla squadra.
« ma come boss, arrivi in ritardo e poi fai pure il saccente? » lo schernì Wes.
« e comunque siamo una squadra, vedi che bravi che siamo stati ad aspettarvi? » incalzò Steve.
« fate meno i coglioni, lo so benissimo perché siete tutti appostati qui fuori » borbottò il capitano, mentre Kim, che non era altrettanto capace di trattenere l’imbarazzo per quelle occhiate divertite, fissava con finto interesse l’insegna del liceo.
« ora che avete finito di lanciare il riso agli sposini, potete care damigelle entrare in palestra? » tuonò Boris, materializzandosi dietro ai suoi ragazzi.
L’orologio del liceo ricordava loro che le otto erano passate da un pezzo e che il loro ritardo diventava sempre più imperdonabile.
Erin sorrise divertita, affiancandosi a Kim e seguendo il resto della squadra.
Fu un sollievo notare che, tanto lei quanto gli altri erano riusciti ad accantonare la delusione per la sconfitta che aveva ricevuto il venerdì precedente e l’aveva rimpiazzata con l’allegria per la quale amava così tanto quel gruppo di chiassosi cestisti.
 
« mi scusi, c’è la preside della New Day High School »
La vocina gracchiante della vecchia segretaria fece il suo ingresso nell’ufficio della preside, dopo essersi fatta annunciare con un delicato colpo alla porta:
« dille che non sono a scuola » la liquidò la donna, senza staccare gli occhi da un voluminoso plico di carte. Solo sentire nominare quell’istituto, il suo umore era peggiorato all’istante.
« gliel’ho già detto sette volte la settimana scorsa » obiettò l’assistente, aggiungendo una punta di velata recriminazione, per la scomoda posizione che era costretta ad assumere.
« che se sommi a questa fanno otto, Carol » la liquidò la preside, innervosendosi. La povera segretaria, balbettò insicura una giustificazione che però non risultò minimamente comprensibile.
Vedendola in difficoltà, la dirigente sospirò sconfitta e premette il pulsante per spostare la chiamata al suo ufficio:
« vai pure » la congedò, prima di attaccare l’orecchio al telefono. Si massaggiò le tempie, preparandosi ad una conversazione spiacevole. Mentre Carol abbandonava la stanza, la vecchia preside esordì:
« pronto? »
« oh, finalmente! Riuscire a trovarti nel tuo ufficio è stata un’impresa Petunia! Se il ministero sapesse delle tue assenze continue sarebbe un bel problema non trovi cara? »
Quella voce irritante e stridula riusciva a trapanare il cervello e la pazienza della preside come nessun’altra persona in vita sua.
« che piacere sentirti Bernice » commentò con un fin troppo evidente sarcasmo.
« il piacere è tutto mio Petty » squittì l’altra mentre il sopracciglio della dirigente del Dolce Amoris si sollevava verso l’alto « Kiki come sta? »
« non si lamenta, anche se starebbe molto meglio senza quella morsicatura all’orecchio da parte del tuo cagnaccio »
« oh, non ce l’avrai con me per quella storia? Il mio Bon Bon è sempre un amore, quello è stato solo uno sfortunato incidente »
« sì certo, come il fatto che ci hai messo tre minuti buoni per richiamarlo a te » aggiunse piccata Petunia, togliendosi gli occhiali dal naso.
« mi stai accusando di qualcosa? » indagò con gravità Bernice.
« non mi permetterei mai, Berny… comunque ho molto da fare qui, se fossi così gentile da andare dritta al punto… mi è parso di capire che avessi una certa urgenza di parlarmi sin dalla scorsa settimana »
« oh sì » sospirò, mentre Petunia si chiese perché mai quella donna sentisse sempre l’esigenza di iniziare metà delle sue frasi con un “oh” « vedi, quando ho saputo che la tua Atlantic si sarebbe scontrata con la Saint Mary allora ho capito subito che sareste stati voi i nostri avversari per il terzo posto »
« eri convinta della nostra sconfitta? »
« suvvia Petunia, non prendertela, non puoi mica darmi torto! Stiamo parlando della Saint Mary » ridacchiò bonaria la donna dall’altro capo del telefono.
« a cui la mia squadra ha saputo tenere testa fino all’ultimo » precisò la preside « giocando lealmente » specificò.
Dall’altra parte non provenne alcun suono, mentre Petunia si gustava quei pacifici secondi di silenzio, in attesa dell’esplosione della bomba.
« che stai insinuando? »
« io? Niente »
Bernice si alzò dalla sua comoda poltrona, dirigendosi con il cordless in mano verso uno scaffale ricolmo di trofei vinti dall’istituto:
« sai, qui sulla mensola dei premi vinti dalla New Day, ci starebbe proprio bene una coppa sportiva »
« lo credo bene, ne avete vinte così poche »
Bernice divenne paonazza, mentre la preside cercò di non tradire il divertimento che le era scaturito da quella frecciatina. Le due non si era no mai potute soffrire e nonostante l’eleganza con cui riuscivano a offendersi e punzecchiarsi a vicenda, continuavano a mantenere un rapporto di comunicazione, che più che altro era la preside della New Day a non voler interrompere:
« ascoltami bene Petunia: io ti avevo chiamato per augurarti un in bocca al lupo in vista della partita di domani » e a quelle parole, la dirigente sollevò gli occhi al cielo « ma a quanto vedo tu non hai abbastanza spirito sportivo e classe per accettare il mio sincero augurio »
Petunia aveva cominciato a gesticolare con le mani, segno che quella sviolinata era del tutto fuori luogo e pertanto ridicola, anche se in quel momento nessuno poteva apprezzare il suo senso dell’umorismo.
« d’accordo Bernice. Allora direi che la conversazione si può concludere qui, non ti pare? Ci si vede sugli spalti » la liquidò con noncuranza.
« io sarò quella con i pon pon »
« come scusa? »
« ma sì mia cara. I miei ragazzi devono vedere che la loro preside li appoggia in tutto e per tutto. È una questione di solidarietà: ci tengo molto più di te alla loro vittoria, visto che almeno io mi sono degnata di andare alle loro partite » commentò trionfante.
« anche io ero intenzionata a sostenerli, cosa credi? »
« con i pon pon? »
« con i pon pon » confermò istintivamente Petunia.
« non ne avresti il fegato » la sfidò.
« lo vedrai » e buttò giù la cornetta.
Bernice Snakes era stata una persecuzione per la povera Petunia che ne aveva dovuto subire la presenza non solo negli anni della sua giovinezza di studentessa liceale ma se l’era ritrovata pure come collega, in quanto preside di un istituto che apparteneva allo stesso distretto del Dolce Amoris. La rivalità tra le due donne era storica, sia sul piano professionale che sentimentale, dal momento che il defunto marito della dirigente del Dolce Amoris era l’ex fidanzato di Bernice.
Si pentì di aver promesso di presentarsi con dei ridicoli pon-pon, ma ormai il danno era fatto. Per quei ragazzi si sarebbe anche vestita da mascotte, doveva pur far qualcosa per far loro capire di essere molto presa da quel torneo.
Quando aveva saputo della sconfitta a Trenton, Petunia si era colpevolizzata per aver anteposto i suoi impegni professionali a quella squadra che si stava impegnando così tanto.
Era tardi per i rimpianti. Rimaneva una sola partita, quella contro la scuola della persona che più odiava al mondo.
 
« Kim, capisco che adesso hai altri pensieri per la testa, ma potresti guardare un po’ meno Dajan e un po’ di più la palla? » la redarguì Boris, scatenando una risata generale e ricevendo un’occhiata glaciale dalla cestista.
« eddai Bors, sii un po’ più elastico. È innamorata » scherzò Erin.
« tu Cip non pensare che ora che hai il posto prenotato per Berlino puoi permetterti di abbassare la guardia »
« assolutamente no! Ci tengo che andiate alle Bahamas »
Ogni volta che pensava a Berlino, Erin doveva trattenersi dallo scoppiare a ridere. Era una notizia troppo bella che aveva deciso di non comunicarla a Castiel; sarebbe atterrata in Germania e solo allora gli avrebbe annunciato di essere a pochi passi da lui.
Cercava di immaginarsi l’espressione dell’amico: sarebbe stato felice? Sorpreso? Oppure Infastidito?
« a proposito, se vinciamo » cominciò a dire Wes, ma Clinton lo zittì:
« idiota, non dire così che porti sfiga! » ma la guardia proseguì imperterrita:
« non possiamo portare qualche ragazza? Visto che con ogni probabilità Erin non verrà, potrebbe venire la sua amica Rosalya »
« ma come Wes? Pensavo che preferissi la nipote di Boris » lo schernì Trevor, facendo scoppiare a ridere i cestisti.
Dopo il torneo, lo sventurato cloothing shooter aveva subito una seconda batosta, per certi versi più umiliante della prima: un ragazzo alto e biondo si era avvicinato all’allenatore che l’aveva presentato come suo nipote. La famosa Dakota, sulla quale Wes aveva speso notti e giornate intere a fantasticare, era in realtà un Dakota, mandando in frantumi i sogni del ragazzo.
« vogliamo pensare a giocare? » si spazientì Dajan.
« ehi, non fare tanto il serio amico » gli sussurrò Trevor « scommetto che non vedi l’ora di vedere Kim in costume. Sai, l’ho vista in piscina e fa proprio una bella figura »
Sentendo parlare così della sua ragazza, il capitano gli lanciò la palla, mirando però al viso e centrandolo in pieno. L’ala stava per protestare quando una voce si diffuse improvvisamente nella palestra, provenendo dall’alto:
« BUONGIORNO RAGAZZI, SONO LA VOSTRA PRESIDE »
« ma va’? » commentò Trevor, massaggiandosi il naso dolorante « pensavo fosse la Madonna »
« voglio congratularmi pubblicamente con la nostra squadra di basket per l’ottimo piazzamento raggiunto durante il torneo. L’unico rammarico è non essere stata presente finora alle partite, ma vi assicuro che domani sarò su quegli spalti. Devo ringraziare anche voi studenti e i professori per il grande sostegno che avete dato ai ragazzi, motivo per il quale, vi invito a fare lo stesso domani: le lezioni saranno sospese e ci vedremo tutti alle 10 al palazzetto. Buona giornata e buona lezione a tutti »
I cestisti si guardarono perplessi:
« ma che le è preso? » commentò basito Liam.
Quell’annuncio era stato un fulmine a ciel sereno. Faraize ridacchiò, attirando l’attenzione dei ragazzi. Appena si accorse di aver calamitato il loro interesse, balbettò:
« b-beh vedete, i vostri prossimi avversari sono i giocatori della New Day High School e tra la nostra preside e la dirigente di quell’istituto esiste un’antica rivalità »
« quindi se perdiamo anche questa quella ci boccia tutti » ragionò Trevor con ironia.
« d-dici? » sbiancò Clinton.
« ahahah sai che ridere? Bocceranno anche Castiel visto che fa ancora parte della squadra » aggiunse l’ala.
« poveretto, l’hanno già segato una volta. Ci rimette anche quando non fa niente! » s’intromise Steve.
« dovrà ringraziare Erin allora, visto che aveva insistito tanto per tenerlo in squadra »
« fossi in voi non riderei tanto. Una bocciatura di certo no, ma state pur certi che la preside non accetterà tanto facilmente una sconfitta » li zittì Boris « dal terzo posto voi ci guadagnate sì un viaggio, ma la scuola un bel po’ di soldi. Non è solo una puerile questione di rivalità tra due scuole »
I ragazzi ammutolirono istantaneamente.
Con quella dichiarazione, era fin troppo lampante il peso che gravava sulle loro spalle.
 
Peter parcheggiò l’auto, benedicendo la vista acuta della moglie che era riuscita a trovare uno spazio libero tra una fila interminabile di macchine:
« ma quanta gente viene a queste partite? » commentò sorpreso.
« vorrà dire che ci sarà da divertirsi » squittì una voce alle sue spalle.
L’uomo ruotò il busto, voltandosi verso i sedili posteriori; puntò lo sguardo severo verso la vecchina che lo fissava con un’espressione eccitata. Non era riuscito ad impedire a sua madre di ficcarsi sul capo un ridicolo capellino da baseball e una t-shirt sportiva con rappresentato un giocatore di basket. Solo con la complicità di Amanda, era riuscito a lasciare a casa un enorme dito in gommapiuma con cui nonna Sophia intendeva incendiare la folla.
« chiariamo subito le cose mamma: non dare spettacolo »
Si accorse che, con un movimento furtivo, la vecchietta aveva nascosto qualcosa dietro la schiena e, guardandola circospetto, mormorò:
« che stai nascondendo là dietro? »
« nulla »
« mamma » ripetè nervosamente.
La donna sbuffò e fece emergere un paio di bandierine rosse. Amanda ridacchiò, leggendo la scritta “happy birthday
« signora » s’intromise, rivolgendosi con una referenza che irritava la suocera « quelle sono adatte per i compleanni »
Scandì quelle parole con una calma pazienza, come se parlasse ad un bambino.
« mica sono rimbambita, lo so, che diavolo! Però sono rosse e da lontano Ninì non leggerà mai la scritta »
« ti rendi ridicola mamma, lasciale qui »
« e come faccio a tifare per la mia nipotina scusa? »
« non tifi, te ne stai seduta buona buona a guardare la partita. Agitarti non fa bene alle tue coronarie, lo sai » la ammonì il figlio, sganciandosi la cintura di sicurezza. La vecchietta sbuffò e incrociò le braccia al petto:
« e smettila di fare i capricci. Invecchiando diventi sempre più infantile »
« e tu sempre più rompi coglioni! »
 
Quando la preside del Dolce Amoris fece il suo ingresso sugli spalti, attirò una moltitudine di occhiate divertite: portava sulla fronte una fascetta fucsia con la scritta “Atlantic HS” che aveva appositamente cucito a mano e aveva rinunciato al suo tailleur rosa confetto per una tuta da ginnastica troppo larga persino per le sue forme generose. Ma, nonostante l’effetto eccentrico che poteva avere su di lei quella mise, il dettaglio più spiazzante erano i vistosi pon-pon che teneva in mano.
« p-preside? » esclamò confusa Miss Joplin, mentre la donna prendeva posto accanto al resto del corpo docente. Petunia squadrò i professori e commentò placidamente:
« questa partita la dobbiamo vinc-» non finì la frase perché venne interrotta da una risata agghiacciante.
« oh non ci credo… Petty, ma allora parlavi seriamente? »
Si voltò, trovandosi di fronte una Bernice vestita in modo estremamente professionale e soprattutto, sprovvista di pon pon. Doveva aspettarselo da una come lei, invece era caduta ingenuamente nel suo scherzo di pessimo gusto.
Per non lasciar trasparire la sua umiliazione e disagio, l’avversaria alzò fiera il mento e dichiarò:
« certo cara »
« ma come? Non trovi in quanto istitutori, dovremo mantenere sempre un certo decoro di fronte ai ragazzi? »
« assolutamente no » sentenziò, anche se cercò di sprofondare nelle poltrone per attirare il meno possibile l’attenzione su di sé.
Miss Joplin assistette a quello scambio di battute in silenzio, finchè non fu Bernice a coinvolgerla:
« e lei cara, non pensa che un simile abbigliamento sia inappropriato per una preside? »
« proprio no » la rimbeccò « siamo in una palestra, sicuramente Miss Swanson è la persona più in tema con l’ambiente generale… non trova? »
Bernice irrigidì il busto, mentre la preside ridacchiava vittoriosa.
Il fascino che esercitava la professoressa di scienze era risaputo non solo tra i suoi studenti, ma anche tra i colleghi che ne stimavano particolarmente l’arguzia e il senso dell’ironia. Se la preside della New Day sperava di trovare un qualche alleato con cui punzecchiarla, di certo non poteva ripiegare sugli insegnanti del Dolce Amoris, meno che tutti una persona corretta come Miss Joplin.
 
« peccato che Sophia non sia venuta questa volta » commentò Armin, sgranocchiando pop corn.
« già, ma lei è fatta così: non puoi supplicarla di fare nulla » gli spiegò Ambra, rubandogli qualche chicco di mai scoppiato. Nel gesto anche il moro aveva allungato la mano, toccando la pelle liscia della ragazza che la ritrasse istintivamente:
« ah scusa » borbottò imbarazzata.
« no, prendi pure » farfugliò lui.
Mentre i due erano impegnati a non andare a fuoco per una simile inezia, Iris soggiunse:
« qualcuno di voi ha notizie sugli avversari? »
« Trevor mi ha detto che non sono male, ma non hanno informazioni precise » spiegò Kentin.
« tutto qui? » incalzò Rosalya delusa.
L’ex cadetto scrollò le spalle impotente e tornò a fissare il pitturato.
 
Erin e Kim si cambiarono alla svelta e si unirono al resto della squadra.
Il clima tra i cestisti era completamente diverso rispetto alla settimana precedente. Tra i ragazzi infatti, nonostante le pressioni da parte della preside, serpeggiava un’allegria contagiosa.
« ma guardate il capitano come è di buon umore » lo sfottè Wes « si vede che Kim sa far bene il suo ruolo di fidanzata » lo punzecchiò con malizia.
Dajan si limitò ad uno scappellotto sul collo, per zittirlo, mentre un leggero rossore gli imporporava le guance. Lui e la sua ragazza stavano insieme da appena tre giorni, nell’arco dei quali si erano incontrati senza informare le rispettive famiglie. Entrambi non erano abituati a quel genere di situazioni e, anche se Dajan aveva avuto qualche esperienza superficiale in passato, si sentiva come un ragazzo alle prime armi. Ritagliarsi un momento di intimità con Kim non era semplice, oltre che prematuro, vista la totale inesperienza di lei. Nonostante le insinuazioni di Wes, che era abituato a ben altri generi di ragazze, il capitano sapeva che con Kim avrebbe dovuto fare le cose con calma, rispettando i suoi tempi.
« sono proprio curioso di vederli giocare » commentò Benjamin.
« certo che Boris poteva raccogliere del materiale video su di loro » si lagnò Clinton.
« ce l’ha ripetuto mille volte: non pensava che sarebbero arrivati così avanti » spiegò Steve.
« allora batterli sarà uno scherzo! » dichiarò Wes.
« ehi, non sottovalutiamoli! »
Era toccato al capitano frenare l’entusiasmo generale.
Anche se il loro allenatore non si capacitava del come una squadra a suo avviso mediocre fosse riuscita a sfiorare il podio, la realtà dei fatti parlava chiaro: la New Day HS doveva avere un qualche asso nella manica che aver raggiunto un piazzamento così elevato.
Quale che fosse, l’avrebbero sicuramente scoperto di lì a pochi minuti.
 
Appena la Atlantic fece il suo ingresso nel pitturato, venne accolta dagli schiamazzi dei tifosi.
Miss Swanson, appoggiata dal resto dei docenti, era schizzata in piedi, agitando i pon-pon portati per l’occasione. Arrivata a quel punto, non avrebbe mai lasciato che il suo aspetto poco consono ad una dirigente scolastica, rappresentasse un freno alla sua esuberanza.
« VAI NINIIIII’ » urlava nonna Sophia, staccando la sua voce da quelle delle persone che la circondavano. Una ventina di teste allora si voltarono a scrutare divertite quella vecchietta esagitata.
« mamma, almeno evita di chiamarla così! » la rimproverò prontamente Peter, costringendola a sedersi.
Rosalya, a pochi metri dalla famiglia, osservò quella scena con curiosità:
« non mi dire che quella è la nonna di Erin? » esclamò sorpresa.
Anche i suoi amici individuarono nella figura minuta e con una maglietta color arancione acceso, quella di una nonnetta simpatica.
« beh, quelli sono i suoi genitori » convenne Iris.
« allora andiamo a presentarci! » tagliò corto la stilista, afferrando per il polso l’amica.
« ehi Rosa! Calma! Che - »
Facendosi strada tra le gambe degli spettatori, le due ragazze raggiunsero i Travis che, appena le riconobbero, sorrisero felici:
« ragazze! Come state? » le accolse Amanda, mentre Sophia senior le guardava con curiosità.
« bene, ci tenevamo a salutarvi » esordì Rosalya, mentre Iris cercava di trovare qualcosa da dire.  
« sono delle amiche di Ninì? » domandò la nonna.
Le due cercarono di non scoppiare a ridere per quel soprannome e promisero a sé stesse di usarlo alla prossima occasione.
« sì, io sono Rosalya e lei è Iris »
« ma che belle ragazze » si complimentò la vecchietta, facendo sorridere la stilista e imbarazzare la presidentessa del club di giardinaggio.
In quel momento anche Jason e Pam, seguendo le indicazioni fornite loro da Peter, si aggiunsero al trio familiare.
« ciao » salutò Pam e rivolgendosi alle due ragazze, chiese « avete già conosciuto mia madre quindi? »
« certo Pampam, sai che io sono una persona amichevole »
La secondogenita sorrise e, mettendo una mano sulla spalla di Rosalya, la presentò:
« vedi mamma, questa ragazza è l’artefice del successo della boutique: la giovane stilista che sta realizzando abiti strepitosi »
« ma davvero? » emise un fischio ammirato Sophia, mentre Rosalya ghignava imbarazzata.
Jason nel frattempo aveva trovato posto accanto a Peter, allungandogli una delle due lattine di birra che aveva con sé. Ormai l’uomo l’aveva totalmente accettato in famiglia e tra i due, complici anche dei weekend trascorsi in famiglia ad Allentown, si era creato un bel rapporto.
« uno di questi giorni devo assolutamente passare in negozio. È assurdo che non ci sia ancora stata! » protestò nonna Sophia.
« a proposito, io e Jason abbiamo spostato la cena di sabato alle otto e mezzo, spero non sia un problema » le spiegò la figlia.
« ma ti pare? A me basta mangiare bene » la tranquillizzò la madre, mentre le due amiche ghignavano.
« che ne direste ora di mettervi sedute e guardare la partita? » brontolò Peter interrompendo la conversazione « comincerà da un momento all’altro »
Sophia sbuffò e allungò l’occhio verso le due ragazze.
« il padre di Erin è un tale rompi scatole che non potrò neanche godermi la gara come si deve »
« se vuole venire a sedersi con noi è la benvenuta » la accolse prontamente Rosalya, lasciando perplessa la rossa.
Sophia era già balzata in piedi, con un’agilità quasi comica per una vecchietta di settant’anni.
« mamma, non fare stupidaggini » fu l’ultimo ammonimento ma Sophia potè dare la colpa ai suoi fittizi problemi di udito per ignorare anche quell’ultima raccomandazione.
 
« oh cazzo » sbiancò Erin, scorgendo tre figure in piedi in mezzo al pubblico seduto.
Dietro ad Iris, seguivano in fila e scambiandosi battute, un duo che se combinato insieme poteva essere esplosivo, come il mentos e la Coca-Cola. Sua nonna stava dicendo qualcosa a Rosalya, sventolando un paio di bandierine e l’amica era scoppiata a ridere.
« che c’è? » le domandò Steve.
« c’è Rosalya… con mia nonna »
« strana coppia » commentò l’ala mentre Erin sentiva il cuore accelerarle.
« ti prego, fa’ che non mi mettano in imbarazzo » pensò tra sé e sé. Stava ancora fissando gli spalti, quando una voce sconosciuta la avvicinò:
« ehi bella, ti sei incantata? »
Distolse lo sguardo per posarlo su un ragazzo con la divisa blu e gialla. Era un giocatore della New Day. Come tutti i cestisti era alto e aveva un fisico atletico. Quando si era voltata verso di lui, le aveva rivolto un sorriso bianchissimo, enfatizzato da occhi che sembravano quasi blu.  I capelli erano color mogano, tirati all’indietro da una fascetta nera, per evitare che i ciuffi più lunghi gli fossero di impiccio durante la partita. Lo vide avvicinarsi a lei, lasciando che meno di un metro li separasse:
« sono Dylan »
« Erin » farfugliò, spiazzata da quell’approccio.
« Erin… » ripetè lui « bel nome »
« grazie »
Non fece in tempo a dire altro che venne trascinata via da un braccio, trovandosi faccia a faccia con Kim:
« che fai? Fraternizzi con il nemico? » la rimproverò, portandosi le mani sui fianchi.
« ma che dici scema, e poi è stato lui ad avvicinarmi »
« dobbiamo vincere Cip, non farti distrarre dai ragazzi! »
Erin storse il labbro contrariata: aveva solo scambiato due parole, non era intenzionata a giocare quella partita con superficialità solo perché il suo premio l’aveva ottenuto.
« e vinceremo » dichiarò risoluta.
 
I giocatori della New Day si allinearono sul campo, fronteggiati da quelli della Atlantic.
Trevor allungò la mano verso il capitano avversario che, nello stringergliela, lo schernì:
« Atlantic eh? Ma voi non siete quella scuola con quel nome del cazzo? Dolce Amoris? »
Quella provocazione in un primo momento lo spiazzò, poi controbattè:
« almeno il nostro liceo è conosciuto mentre il vostro… scusami, com’è che vi chiamate? »
« Trevor, lascialo perdere » lo zittì Dajan.
Durante il riscaldamento, aveva avuto qualche scontro con quel Jeremy Warrant e non si poteva dire deliziato da quella conoscenza. Il ragazzo infatti si era sin da subito presentato come una persona estremamente arrogante ma, soprattutto, provocatore.
Aveva lanciato al capitano avversario qualche frecciatina, cercando di innervosirlo, ma Dajan era riuscito a tenere i nervi saldi.
« quel tizio cerca di farti deconcentrare » sussurrò alla sua ala, nonché migliore amico, prima di mettersi in posizione.
« scusate il nostro capitano » sorrise Dylan, rivolgendosi ad Erin, che arrossì leggermente per la dolcezza di quella smorfia « si diverte a stuzzicare gli avversari »
Non seppe come replicare e si allontanò, posizionandosi dietro Dajan. In attesa del fischio di inizio, scrutò uno ad uno i giocatori presenti sul campo.
Dylan era stato presentato come guardia, assieme a Mason Burns, che esteticamente era la controparte in negativo del compagno: aveva un fisico tozzo e massiccio, tanto che nella tweener venne spontaneo associarlo ad un giocatore di footbal più che di basket. Se il viso di Dylan era particolarmente affascinante, quello di Mason risultava quasi ripugnante, complice il ghigno schifato che non abbandonava i suoi lineamenti espressivi.
Dietro di loro c’era Meredith Sanderson, ala piccola che si era portata una ciocca di capelli dorati dietro l’orecchio, traforato da un piercing nero. Infine l’ala grande Cody Cohen, un ragazzo dall’aria tranquilla, che non spiccava per alcuna caratteristica fisica particolare, che non fossero i capelli che gli coprivano gli occhi.
 
La palla venne lanciata in aria e, con estrema facilità, Dajan se ne impossessò: anche se nell’arco di un paio di giorni, era girata la notizia che il ragazzo avesse accettato l’ingaggio dei Cavs, ci pensarono i cronisti a diffondere ulteriormente la novità al resto della platea presente.
L’idea di ammirare un giocatore che l’anno successivo sarebbe entrato nelle file del professionismo, mandava in fibrillazione i presenti, che non potevano fare a meno di osservare con particolare interesse quella stella del basket che era sbocciata durante il torneo.
Il capitano palleggiò verso Clinton, convogliando verso di lui la sfera.
Boris aveva deciso di schierare il suo cestista più inesperto perché era arrivato anche per lui il momento di dimostrare di che pasta era fatto. Anche se il suo ruolo era indubbiamente difeso da Liam in modo migliore, Clinton cercava di essere scattante e preciso. Passò la palla ad Erin che individuò Trevor. Dall’ala grande la palla tornò al capitano che, con una tripla perfetta, mandò la palla a canestro.
« ecco i primi tre punti della partita! Che dire, un gioco pulito, senza sbavature, come ci si aspettava da una squadra che sfiorato il posto per finale!»
La preside era scattata in piedi, agitandosi forsennatamente, mentre i voluminosi seni ondeggiavano in modo imbarazzante. Anche i docenti attorno a lei avevano esultato gioiosi, applaudendo a quella magnifica azione. Bernice invece non aveva battuto ciglio, rimanendo impassibile.
La partita era appena iniziata ed era troppo presto per ricorrere al loro asso nella manica.
 
La New Day aveva recuperato la palla che era in mano al capitano Warrant. Tuttavia, nell’arco di pochi secondi, Dajan riuscì a rubargliela, passandola ad Erin.
Famosa per i suoi passaggi, la ragazza trovò subito in Steve il compagno più indicato a cui scaricare la sfera e per il ragazzo, sgombero da qualsiasi ostacolo, segnare con una schiacciata fu sin troppo facile.
Seguirono cori entusiasti da parte degli studenti: la loro squadra era in piena forma.
« che squadretta del cazzo » sputò Kentin « sono proprio brocchi »
« aspetta a parlare » lo redarguì Lysandre, studiando con attenzione i giocatori.
Non poteva negare che, rispetto alla Saint Mary, la New Day sembrasse un gruppo di dilettanti alle prima armi, ma la sua mente non poteva dimenticare che quella stessa squadra era arrivata a batterne di più forti, alcune delle quali date per favorite nella salita al podio.
Passarono cinque minuti, durante i quali la Atlantic mise a segno ben 27 punti, contro i 10 della New Day.
« è strano… » commentò la vocina flebile di Violet, mentre Rosalya e l’anziana Sophia scattavano in piedi per esultare all’ennesima tripla a favore del Dolce Amoris.
« che cosa è strano? » domandò Armin.
« stanno perdendo eppure sembrano molto tranquilli » spiegò la pittrice.
Anche Ambra e Lysandre stavano pensando la stessa cosa: nonostante il crescente divario di punteggio tra le due squadre, nessuno dei giocatori presenti sul campo sembrava frustrato o viceversa motivato a reagire.
« hanno in mente qualcosa » concluse la bionda.
 
Clinton aggirò Mason, piazzando la palla a Dajan. Il playmaker venne marcato da due giocatori avversari, ma riuscì a liberarsi dopo pochi secondi.
Imponeva a sé stesso di non sottovalutare gli avversari, ma la debole difesa e, ancora di più, l’inesistente schema offensivo dei giocatori, lo portava a convincersi che fossero realmente delle nullità.
Quelle considerazioni stridevano enormemente con il piazzamento che avevano conquistato: se davvero fossero stati così scarsi come volevano far credere, sarebbero stati eliminati prima dalla gara.
Trevor commise un errore grossolano, lasciando che la palla finisse fuori dal campo e la sua leggerezza indispettì il capitano:
« ehi Trev, è già la terza volta che la butti fuori, sta’ un po’ più attento! »
« ma sta’ calmo, non vedi che stiamo vincendo? » brontolò l’ala, indicando il punteggio di 33 a 16.
Il playmaker sospirò nervosamente. Non dovevano abbassare la guardia, la partita era ancora lunga e lui non riusciva a levarsi di dosso la sensazione che qualcosa non tornasse.
Che non avessero ancora visto la vera forza della New Day.
Il primo quarto venne concluso con un punteggio di 35 a 19, sotto gli applausi entusiasti dei tifosi della Atlantic.
Orgogliosi come non mai, i giocatori rientrarono in panchina, accolti dai sorrisi dei compagni.
L’unico a non lasciarsi contagiare da quell’allegria era il loro allenatore:
« ragazzi, non sottovalutiamoli »
« ma Bors, sono delle pippe! » protestò Kim, porgendo un asciugamano a Dajan, che le sorrise grato.
« non sarebbero arrivati fin qui se fosse vero » lo appoggiò quest’ultimo, mentre il coach annuiva gravemente.
« già, mi pento di non aver raccolto materiale su di loro, ma ormai è tardi. Dobbiamo capire cos’hanno in mente, nel frattempo continuate ad aumentare il divario di punteggio, chiaro? »
« mi deludi Berny » si stava pavoneggiando Miss Swanson « possibile che non sappiate fare meglio di così? »
La collega non si scompose e profetizzò:
« con il secondo quarto, la musica cambia »
 
Il capitano della New Day, dopo aver lanciato un ultimo sguardo d’intesa al suo allenatore, ghignò sprezzante. Non avevano mai dovuto ricorrere alla loro strategia così presto, normalmente aspettavano il terzo quarto, ma il livello della Atlantic era troppo alto e se avessero permesso agli avversari di accrescere ulteriormente il divario di punteggio, sarebbe stato impossibile rimontare.
Mentre si dirigevano verso il pitturato, Dylan si rivolse al capitano, lanciandogli un sogghigno malizioso:
« vedi di non toccare la mia principessa, Jeremy »
« non te lo posso promettere »
« lo sai che le donne non si toccano nemmeno con un fiore? »
« se fosse così allora un pervertito come te Sprout morirebbe di depressione »
Dylan ridacchiò, mettendosi in posizione:
« mi piace spassarmela, che c’è di male? »
 
La New Day mise in campo la sfera, ma questa ci mise poco a volare verso Trevor, disposto sull’ala destra mentre il capitano si dirigeva verso canestro, seguito dal resto dei giocatori. Inaugurare anche il secondo quarto con una bella tripla era il suo obiettivo.
Il ragazzo lanciò la palla verso di lui ma Warrant gli si parò davanti. Per Dajan non avrebbe presentato un problema, l’avrebbe aggirato facilmente ma proprio quando stava per spiccare il salto, sentì un peso concentrarsi sul suo piede destro. Abbassò lo sguardo, e trovò il piede dell’avversario sul proprio, impedendogli di muoversi.
Warrant balzò verso l’alto e recuperò la palla, salvandola dal canestro, lasciando Dajan senza parole.
« ehi boss? Perché te ne sei rimasto impalato? » lo rimproverò Steve.
Il capitano scosse il capo, si era trattato solo di un caso che si era rivelato favorevole all’avversario, non si era neanche accorto di avergli fatto fallo.
Ripartì in contro piede, per bloccare la corsa degli avversari.
Warrant passò la palla a Sprout e la guardia si trovò di fronte Erin:
« vedo che proprio non riesci a fare a meno di starmi alle costole eh? Sono così irresistibile? »
Avvampando per quella frase, la ragazza si distrasse, permettendo all’avversario di superare la sua difesa senza difficoltà.
« MA CHE CAZZO ERIN! » si arrabbiò Kim. Non poteva aver udito la frase sussurrata da Dylan, anche perché in tal caso, si sarebbe infervorata maggiormente. A mandarla in bestia era la reazione della compagna ogni volta che fronteggiare quell’affascinante avversario: lui mormorava qualcosa e lei perdeva la concetrazione.
Il gioco si spostò su Burns, che aveva appena ricevuto la sfera. Cercò Meredith ma nel passarle la palla, sfiorò con il gomito il naso di Trevor, che era intervenuto nel tentativo di rubargliela:
« per un pelo non gli ha rotto il naso » commentò Wes, tirando un sospiro di sollievo.
« già, poi pittima come è lui, avremo dovuto ricoverarlo in ospedale » aggiunse Liam divertito.
Per dei giocatori onesti e un po’ ingenui come quelli che giocavano nella Atlantic, era ancora troppo presto per capire ciò che stava realmente accadendo su quel pitturato.
Purtroppo per loro, la New Day aveva appena messo in atto, il suo asso nella manica, anche se non aveva nulla a che vedere con il talento sportivo.
 
« che giocatori di merda, anzi, gente che si comporta così sul campo non è nemmeno degna di essere definita cestista »
« ah Jules, come sei sempre categorico. Chi ti dice che lo stiano facendo apposta? »
« e tu sei un sempliciotto Reed. Manco venissi dalla montagna del sapone! »
« sono d’accordo con Julius, quelli lì stanno giocando sporco »
Lo scambio di battute proveniva da un trio solitario, che si era appollaiato lungo la ringhiera degli spalti più alti, mentre tutto il resto dei tifosi era comodamente seduto sugli spalti.
« e poi Reed, smettila di chiamarmi in quel modo idiota » ruggì Lanier.
« allora ti chiamerò Jujù » lo rimbeccò Isiah, appoggiando i gomiti contro il metallo del parapetto « comunque sia, Charlie che fine ha fatto? E’ in bagno da cinque minuti » indagò, lanciando un’occhiata beffarda al capitano.
« e che cazzo ne so io? » arrossì leggermente il ragazzo, incrociando le braccia al petto « pensa a guardare la partita piuttosto, siamo venuti qui per questo »
« e allora perché te ne stai andando? » obiettò Melanie, guardandolo allontanarsi.
« mi avete chiesto dove si è cacciata Charlotte e sto andando a cercarla, tanto ci vuole? »
I due cestisti sghignazzarono mentre un Lanier impegnato a brontolare in difficoltà, si allontanava dagli spalti.
 
Nel frattempo Burns aveva il possesso palla e si guardava attorno cercando un’apertura: trovandosi davanti Steve, piegò il busto verso il basso e, sfruttando la scarsa agilità del pivot, gli passò dietro. In quell’azione però, stando attento a non attirare occhiate, specie quelle dell’arbitro, gli assestò una gomitata all’altezza della gamba, facendogli cedere il ginocchio:
« EHI ARBITRO! QUELLO E’ FALLO! » strillò Rosalya, scattando in piedi. Molti altri spettatori avevano assistito a quella mossa ma sfortunatamente per la Atlantic, non il direttore di gara.
« QUI CI VUOLE LA MOVIOLA! » protestò nonna Sophia, infuriandosi accanto alla sua compagna di tifo. In quel momento, più che la nonna di Erin, sembrava la proiezione della stilista a settant’anni.
Anche dalla panchina del Dolce Amoris si sollevarono cori indignati:
« CHE TESTA DI CAZZO! BORIS FA’ QUALCOSA! » si inalberò Kim.
« non posso fare nulla » digrignò a denti stretti il coach mentre Erin accorreva dall’amico:
« ehi Steve, ti fa male? »
Prima che il centro potesse risponderle, le passò accanto Dylan che, con voce melliflua, la provocò:
« ma come principessa, rivolgi le tue attenzioni a qualcun altro? Devo esserne geloso? »
E fu allora che Erin capì: viscido. Fu quella la prima parola che comparve nella mente della cestista quando si scontrò con il sorriso ipocrita del pivot avversario. Altro che affascinante e gentile.
Steve zoppicò, sentendo una fitta provenire da dietro il ginocchio.
« merda » sibilò tra sé e sé.
Il gioco era proseguito e, nell’arco di pochi secondi, sfruttando il disorientamento degli avversari, la New Day aveva segnato ben due triple; la preside dell’istituto era scattata in piedi e, voltandosi verso Miss Swanson, sibilò:
« questo è solo l’inizio »
Mentre la dirigente scolastica cercava di trattenersi, una voce dal corpo docente si staccò su tutte:
« MA HA VISTO QUELLO CHE HA FATTO IL SUO STUDENTE? COME OSA APPOGGIARE UNA SIMILE MESCHINITÀ? » strillò la Fraun indignata.
« non so di cosa stia parlando. Io mi riferivo alla splendida tripla » sogghignò Bernice, sedendosi compostamente.
« Ursula, calmati » la sedò Miss Joplin « sono sicura che non è stato un fallo voluto, altrimenti dovrei cominciare a sospettare che i nostri avversari siano degli incompetenti se per vincere devono abbassarsi a simili vigliaccate »
Per la seconda volta, Bernice fulminò con lo sguardo la compostezza di quella giovane insegnante che, nonostante l’aria ingenua, continuava ad assestarle un colpo dietro l’altro.
 
Con Steve in difficoltà, la New Day riuscì a rimontare parecchi punti, costringendo Boris a sostituirlo con Wes.Il pivot fu così costretto a tornare in panchina demoralizzato e si scusò con la squadra:
« ma che dici Gint, mica è colpa tua! » lo tranquillizzò Liam, battendogli una mano sulla spalla « sono quei bastardi che… »
« ragazzi » li richiamò Boris « dobbiamo restare concentrati, se perdiamo la calma faremo il loro gioco »
Fissò il punteggio: 42 a  36 a loro favore. Il vantaggio che avevano guadagnato nel quarto precedente andava assottigliandosi sempre più.
 
« allora? come sono messi? »
Melanie e Isiah si voltarono verso Julius, seguito da Charlie, la loro compagna di squadra.
« avevi ragione Jujù: quelli sono dei fottuti bastardi »
Sorvolando sull’irritazione scaturita da quel soprannome, Lanier proseguì:
« lo so, me l’ha appena detto Charlie »
Gli altri due cestisti si voltarono sorpresi verso la loro compagna di squadra e fu Melanie la prima a chiedere:
« si può sapere che fine avevi fatto? »
« ero al telefono con un mio amico » spiegò, mentre Lanier storceva il labbro contrariato « anche lui ha partecipato al torneo e la sua squadra ha affrontato la New Day dieci giorni fa »
« e che ti ha detto? »
« che solo nella sua squadra, dopo la partita, ci sono stati quattro giocatori feriti: una contusione e tre slogature »
Dopo un paio di secondi di silenzio, Isiah ringhiò:
« brutti figli di puttana, lo fanno apposta! »
Quell’esclamazione aveva quasi spaventato Melanie, che non era abituata a vedere la guardia così furente. Per lui il basket era uno sport sacro e, in quanto tale, il regolamento andava rispettato, così come gli avversari. Una squadra del livello della Atlantic non meritava di affrontare quella che a suo avviso era solo feccia.
 
Quando Trevor provò a spiccare un salto per recuperare la palla, si trovò nella stessa situazione che aveva riscontrato Dajan poco prima: il piede di Warrant gli impediva di staccarsi dal suolo:
« ehi, brutta merda, togliti dalle palle! » abbaiò perdendo il controllo.
L’arbitro udì quella minaccia e si accigliò verso il giocatore:
« Trevor, sta’ calmo » gli sussurrò Erin ma l’ala sentì il sangue andargli al cervello.
Quando Burns, nel tentativo di porsi davanti a lui per recuperare la palla gli sferrò una gomitata in pieno petto, il ragazzo scattò:
« EHI ARBITRO! DOVE CAZZO CE LI HAI GLI OCCHI? »
Boris si portò una mano in viso, mentre dagli spalti Bernice sorrideva: tutto procedeva secondo i piani.
La sua era una scuola modesta, che non poteva contare su grossi finanziamenti come quelli di cui godeva la Atlantic. Petunia aveva uno stipendio migliore del suo, un istituto più bello e all’avanguardia, mentre lei doveva ripiegare su una struttura statale mediocre: avevano bisogno di quei soldi e li avrebbero ottenuti a qualsiasi mezzo, onesto o meno che fosse.
« Trevor! » lo richiamò Dajan affrettandosi a scusarsi con l’arbitro.
La partita stava degenerando: Trevor era talmente furioso che non riusciva a restare concentrato, Clinton si guardava attorno come spaurito, nel timore di ricevere qualche colpo avversario mentre Wes era impegnato a discutere animatamente con Cody Cohen, l’unico in quella squadra che sembrava mantenere un briciolo di correttezza.
« Dajan, questi ci stanno frantumando » osservò Erin.
« lo so Cip, ma purtroppo non possiamo farci nulla. Non vedi come fanno? Sfruttano i punti ciechi dell’arbitro per commetterci fallo »
« e quindi? »
« teniamo gli occhi aperti » si raccomandò il ragazzo, asciugandosi un rivolo di saliva.
Il gioco riprese e Dajan si trovò circondato da Sprout e Warrant. I due ghignarono e allungarono i gomiti verso l’esterno, urtando l’addome del ragazzo. Il capitano fu costretto ad allargare le braccia a sua volta per farsi strada ma quell’azione venne interpretata come un fallo e seguì subitaneo un fischio di ammonimento:
« non ci credo » borbottò Liam dalla panchina e al suo stupore, si sommò quello degli altri cestisti.
Conosceva Dajan sin dalle scuole medie, erano entrati insieme nel club di basket e in tutti quegli, mai una volta, al ragazzo era stato fischiato un fallo. Proprio per quel motivo, Dajan era visibilmente sconvolto:
« primo fallo della partita per Dajan Brooks, della Atlantic »
« siamo onesti Ryan, questo non è esattamente il primo fallo della partita »
« che c’è Brooks? Non ti farai mica impressionare per così poco? Ne hai ancora altri quattro prima di essere espulso » lo derise Warrant.
« io adesso vado lì e gli spacco la faccia! » si alzò Kim, mentre Steve e Liam cercavano di trattenerla. Notando il movimento in panchina, il capitano avversario commentò:
« e quella chi è? La tua ragazza? Carina… non mi dispiacerebbe farci un giro »
Quelle parole lo fece scattare, facendo sì che Dajan lo afferrasse per la maglia, minaccioso:
« ma a giocare a basket non ne sei proprio capace? »
« non tutti nascono destinati a diventare la stella dei Cavs » malignò Warrant, staccandosi da quella stretta. Sputò quelle parole con rabbia e invidia, ma prima che Dajan potesse aggiungere altro, intervenne una voce femminile:
« allora non prendertela con gli altri per la tua mediocrità, perdente »
Warrant abbassò il capo e, fissando sprezzante quel metro e sessantasette di determinazione, mormorò:
« Sprout aveva ragione: sei proprio un bocconcino interessante tu »
Erin non replicò, ma sostenne quello sguardo beffardo imprimendo su di esso tutta la sua rabbia.
 
Il gioco continuava ma l’indignazione di Rosalya era incontenibile:
« quei grandissimi pezzi di merda! »
« Rosalya! » la riprese il fratello « infervorarsi così non servirà a niente »
« in qualche modo devo pur sfogarmi Lys! È un’ingiustizia! Da quando Dajan è stato ammonito per quel fallo, non gioca più bene come prima, e tutto perché sono dei figli di »
« Rosalya! » ripetè il fratello.
 
Miss Swanson spostò lo sguardo sul tabellone: a un minuto dalla fine del quarto, la New Day si era portata in vantaggio di 48 a 56.
Boris aveva dovuto sostituire anche Trevor, per contenere l’irruenza del giocatore e rimpiazzarlo con Gordon, ma la sostituzione non aveva sortito l’effetto sperato.
« come puoi vedere ora cara, l’inerzia della gara è dalla mia parte » aveva dichiarato Bernice, accavallando le gambe ossute.
« mancano ancora due quarti » sibilò la collega, fissando con apprensione il pitturato.
« oh certo, durante i quali vi faremo mangiare la nostra polvere »
La situazione era tragica.
Prima che riuscissero a realizzare quanto stava accadendo, la New Day aveva sovvertito le sorti dell’incontro, mettendo fuori gioco alcuni dei giocatori migliori della Atlantic come Trevor e Steve e impedendo alla loro stella Dajan di brillare.
Per quanto i tifosi e i cestisti del Dolce Amoris protestassero, l’arbitro non aveva fischiato nessuna irregolarità contro gli avversari, addirittura questi erano riusciti a fare commettere un secondo fallo a Dajan e uno a Clinton.
« i ragazzi sono troppo nervosi. Stanno giocando malissimo » farfugliò Faraize.
 
« questa non è la Atlantic che abbiamo affrontato noi » commentò Lanier.
 
« il problema è che da questo punto in poi la situazione può solo peggiorare » considerò Ambra.
 
Da ogni angolo del palazzetto, gli spettatori assistevano impotenti a quella disfatta: sotto i loro occhi si stendeva uno scenario colmo di ingiustizia ma nessuno poteva ostacolarlo.
I giocatori della Atlantic erano lividi di rabbia e amarezza ma ogni tentativo di contrastare i nemici gli si ritorceva contro. Viceversa, Burns e Warrant erano specialisti nell’infliggere loro colpi ben assestati, risparmiando solo Erin, salvaguardandola se non altro in quanto esponente dell’altro sesso.
La tweener guardò i compagni: Wes si massaggiava il braccio dolorante, vittima della terza gomitata di Burns, Clinton aveva l’espressione smarrita di un cucciolo di labrador abbandonato sul ciglio della strada, Gordon era rimasto a corto di fiato, nel tentativo di correre da un lato all’altro del campo per coprire l’inattività della guardia ed infine Dajan che, a causa dei due falli che pesavano sulla sua fedina sportiva, si tratteneva dal compiere le azioni spettacolari per cui era famoso.
La preside del Dolce Amoris affondò le unghie nei palmi delle mani al punto da sentire un dolore intenso, non appena la New Day segnò l’ennesima tripla.
48 a 62.
Un punteggio che le bruciava all’inverosimile:
« preside… » sibilò una voce gentile ma titubante:
« che c’è? » abbaiò, facendo sussultare Melody.
« dovrebbe venire un attimo con me »
« ora? Ma non vedi che sono impegnata? Ti sembra questo il momento? »
« lo so, ma proprio per questo dovrebbe venire » insistette la segretaria, cercando di risultare un po’ più autorevole.
« suvvia Petty, vai pure, poi ti racconterò io di come la New Day ha umiliato i tuoi ragazzi » malignò Bernice che a quel punto aveva abbandonato ogni ipocrita carineria.
Il successo l’aveva messa di ottimo umore e voleva godersi a pieno la disfatta della sua storica nemica.
Quella partita non era solo un’occasione per racimolare fondi preziosi: era la battaglia in cui avrebbe decretato la sua vittoria su una donna che era sempre stata un passo davanti a lei.
« Melody, si può sapere che cosa c’è? » sbottò Miss Swanson, trattenendo a stento la voglia di urlare contro l’innocente studentessa.
La ragazza abbassò il capo e guardò indecisa la donna seduta accanto alla dirigente scolastica. Tentennò qualche secondo, poi si piegò verso la preside, per bisbigliarle qualcosa all’orecchio.
Bernice vide gli occhi della collega spalancarsi per lo stupore: Petunia scattò in piedi e, fissando la studentessa strillò:
« E PERCHÉ DIAVOLO NON ME L’HAI DETTO PRIMA?! »
I docenti sobbalzarono sorpresi mentre Melody s’incurvò nelle spalle, facendosi piccina.
« ma io… »
La preside però non intendeva perdere ulteriormente tempo.
Abbassò lo sguardo verso Bernice, sfidandola dall’alto verso il basso e, ghignando vittoriosa, annunciò:
« ora vedrai di che pasta è fatta la Atlantic »
 
Erin ansimò, cercando di riprendere fiato.
Aveva corso da un lato all’altro del campo ma per quanto impegno ci avesse messo, i suoi compagni non riuscivano a mantenere le palle che lei conquistava con tanta fatica.
Dajan era teso, Gordon spento, Wes e Clinton demotivati.
In appena dieci minuti, la New Day era riuscita a ribaltare l’esito della partita, portandosi non solo in vantaggio, ma annientando anche il loro spirito.
Era l’unica a crederci, anche se era quella che meno aveva da guadagnarci.
Non le interessava il premio in palio, era solo una questione di giustizia.
Quei ragazzi meritavano il terzo posto, erano una delle squadre più forti del torneo, avevano raggiunto quel traguardo facendo affidamento sul loro talento e sul loro impegno.
Se la New Day aveva vinto le partite precedenti ricorrendo a quella spregevole strategia, non meritava di salire sul gradino del podio. Il suo senso di giustizia le impediva di assistere ad una simile scena.
Inspirò più forte, mentre il cuore le martellava il petto.
Sul tabellone anche l’ultimo secondo era sparito, lasciando un doppio zero al posto del conto alla rovescia.
Il secondo quarto se n’era andato, come la loro determinazione a portare a casa la vittoria.
 
Quando le note, figure astratte tracciate su carta acquisivano un suono, avvertiva una strana reazione, un misto di eccitazione e mistero.
Sì, d’accordo, la musica era la sua vera passione, era connaturata nella sua natura… ma, forse era proprio per la sua spiccata sensibilità ai suoni che il rumore della palla sbattuta contro il pitturato, il cigolio delle suole che strisciavano sul parquet e i clamori della folla, lo mandavano in fibrillazione.
Era un’altra sensazione. Diversa da quella di richiudersi in una stanza a comporre musica.
Era una sensazione che gli era mancata e che era arrivato il momento di riprovare.
Un sogghigno, seguito da un verso soffocato, quasi animalesco.
I muscoli si stavano svegliando dal letargo, come se avessero riconosciuto che fosse finalmente arrivato il momento di destarsi dal sonno.
Erano settimane che immaginava quel momento ma questo non gli era bastato a prepararsi psicologicamente: quel torneo era molto più eccitante di quanto avesse immaginato.
Continuò ad avanzare finchè la penombra si dileguò e venne investito dalla luce che illuminava la stanza.
L’arbitro aveva appena fischiato e il gioco si era arrestato.
Non poteva beccare momento migliore per il suo ingresso in scena: in fondo lui, Castiel, un po’ esibizionista, lo era sempre stato.
 
 
 
 


NOTE DELL’AUTRICE:
 
MUAHAHAHHA
  
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