Videogiochi > The Elder Scroll Series
Segui la storia  |       
Autore: afep    27/05/2015    4 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
La Sala del Trono brulicava di gente.
Un confuso brusio si levava dalla folla di uomini e donne, nel quale spiccava di tanto in tanto un belato acuto o il latrato di un cane. Era giunto nuovamente il primo Sundas del mese, e le porte del Palazzo dei Re si erano aperte per accogliere i cittadini che desideravano discutere le loro contese.
Sedevo in cima alla pedana accanto al trono vuoto, sulla mia minuscola seggiolina di legno dall'alto schienale. In assenza di mio marito ero tenuta a presenziare a quei piccoli processi pubblici, ma non ero io a decretare i verdetti.
Dall'altro lato del trono rispetto a me, ritto in piedi appena un gradino più sotto, Jorleif ascoltava le dispute sventolando un calamo ornato da una penna d'aquila. Accanto a lui stazionava un giovane apprendista, dai lunghi capelli paglierini ed il naso cosparso di lentiggini, che reggeva tra le braccia magre un pesante libro mastro.
Facendo svolazzare la penna d'aquila, il Sovrintendente vi annotava con dovizia tutti i casi che gli si presentavano, i nomi di coloro che vi erano coinvolti e la decisione presa, così che il mio sposo potesse avere una precisa relazione di quanto era accaduto nel regno in sua assenza.
Fino ad allora era stata una mattinata estenuante.
Avevo ascoltato per quasi un'ora una donna Nord che lavorava al mercato lamentarsi dell'indisponenza del Dunmer che lavorava al banco accanto al suo; subito dopo era stato il turno di un'anziana che aveva denunciato la scomparsa della figlia, e che era stata trascinata via dalle guardie quando si era rifiutata di lasciare il proprio posto a chi attendeva dietro di lei.
I casi successivi erano stati una sequela di litigi e semplici lamentele, tanto che avevo dovuto lottare con tutta me stessa per mantenere viva l'attenzione e non assopirmi per la noia.
In quel momento stava parlando una contadina dai capelli fulvi, con una grassa chioccia sottobraccio, che accusava la vicina di rubarle sempre un uovo dalle covate della sua gallina. Non le prendeva tutte, ma una soltanto, e questo per lei equivaleva ad un furto imperdonabile.
Non aveva alcuna prova ad eccezione della propria convinzione, e sebbene l'accusata si professasse innocente quella continuava a chiedere giustizia a gran voce.
“Signore, silenzio.” Sospirò Jorleif per l'ennesima volta, stringendosi la radice del naso tra pollice ed indice e chiudendo gli occhi per un istante.
“Non resterò in silenzio mentre questa ladra bugiarda continua a mentire.”
“Non sono una ladra, sei tu che sei ammattita. Che bisogno avrei di rubare le tue uova, quando ho delle galline mie?”
“Lo sanno tutti che le mie uova sono più grandi delle tue.”
“Questo è ridicolo! Signore, voglio denunciare questa donna per calunnia.”
“Cosa? Come osi? Sono io che sto denunciando te!”
Con un sospiro voltai il capo, lasciando le due donne alla loro diatriba e spaziando con lo sguardo sulla folla.
Vi erano molti Dunmer, proprio come l'ultima volta che avevo assistito a quel genere di udienze, e sebbene indossassero quelli che erano chiaramente i loro abiti buoni, parevano comunque vestiti di stracci cenciosi e sbiaditi dal tempo.
Molti di loro di tanto in tanto occhieggiavano nella mia direzione, facendo baluginare i loro grandi occhi neri o vermigli alla luce delle torce; mi inquietavano, ma con ogni probabilità la vera causa dei loro sguardi era Galmar, armato ed abbigliato con la sua spaventosa corazza di metallo e cuoio, che sedeva ai miei piedi come un cane fedele.
Sin dal giorno della partenza di mio marito, quell'imponente guerriero aveva dimostrato di aver preso alla lettera il compito che gli era stato assegnato.
Ogni mattina lo trovavo ad aspettarmi subito fuori dalla mia porta, e da quel momento mi stava accanto per tutta la giornata fino a sera, quando mi accompagnava di nuovo nella mia stanza, e non si allontanava prima di avermi sentita serrare la porta con i chiavistelli.
Quella mattina, invece di stazionare in piedi ai due lati del trono insieme ad Yrsarald ed agli uomini della mia scorta personale così come faceva quando era presente mio marito, aveva deciso di prendere posto sui gradini della pedana su cui si ergevano lo scranno vuoto ed il mio piccolo sedile intagliato.
Sospirai, lisciando distrattamente il velluto blu che mi copriva le cosce con la punta delle dita. Quel giorno Ioreth aveva insistito perché indossassi uno degli abiti che mio marito mi aveva fatto confezionare, di squisita fattura e dalle linee diritte e tipicamente Nord, e con una gran testa d'orso ruggente ricamata in argento sulle gonne. A suo dire dovevo dimostrare al popolo che ora appartenevo a quelle terre, ma non ero certa che quello fosse il modo migliore.
Fortunatamente era un abito confezionato con un tessuto spesso e pesante, che insieme al braciere posto dietro di me mi impediva di sentire eccessivamente freddo, nonostante l'aria pungente che entrava dalle porte spalancate.
Stavo ancora osservando la folla, cercando di evitare gli sguardi astiosi dei Dunmer, quando scorsi uno strano uomo accanto ad un piccolo gruppo di Nord, tra i cittadini giunti solo per ascoltare le sentenze.
Indossava un vecchio mantello di lana con un ampio cappuccio abbassato sulla fronte, sebbene fosse chiaro che non lo portava per ripararsi dal freddo dal momento che aveva arrotolato le maniche della casacca, lasciando nudi i robusti avambracci coperti da una folta peluria bionda.
Il suo volto aveva un'aria vagamente familiare, ma coperto ed ombreggiato com'era dal cappuccio mi era difficile scorgerne con precisione i tratti; quello di cui ero certa, era che mi stava osservando.
Era voltato nella mia direzione, e persino quando le due litiganti davanti a Jorleif cominciarono a strepitare, rendendo necessario l'intervento di due guardie ed attirando l'attenzione di tutti i presenti, lui non voltò il capo. La sua fissità mi dava i brividi ed ero sul punto di richiamare l'attenzione di Galmar, quando anche il vecchio guerriero parve accorgersene.
“Maledetto bastardo.” Lo sentii imprecare, in un sussurro appena udibile. Con un grugnito spostò le natiche sul gradino di gelida pietra, come a ricercare una posizione più comoda, e la grossa testa d'orso che indossava sul capo dondolò sotto i miei occhi; mentre si muoveva venni raggiunta da una calda zaffata che ricordava l'odore dell'animale ancora in vita.
“Yrsarald.” Chiamò a bassa voce per non destare troppo l'attenzione, facendogli un cenno quasi impercettibile col capo.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro; il giovane Capitano si staccò silenzioso dal gruppo di guerrieri che stazionavano ai due lati del trono, e subito scomparve tra la folla.
Avevo appena visto la sua ampia schiena svanire dietro a due cacciatori, dalle barbe aggrovigliate e vestiti interamente delle pellicce degli animali uccisi, che colsi un movimento con la coda dell'occhio. Voltandomi riuscii a notare l'uomo con il mantello rivolgermi un candido ghigno da sotto il cappuccio prima di ritirasi in fretta, senza correre per non dare troppo nell'occhio.
Dalla mia posizione sulla pedana rialzata riuscivo a vedere Yrsarald affrettarsi dietro di lui, fendendo la folla. Non sapevo chi fosse, ma capivo che doveva essere un uomo poco gradito alle guardie. Ed ora era poco gradito anche me, dopo lo strano modo in cui mi aveva fissata.
Tornai a rivolgere la mia attenzione alle udienze, solo per vedere farsi avanti due uomini dall'aria contrariata. Portavano entrambi abiti consunti e semplici, e da sotto l'orlo dei loro mantelli sbucavano solo le gambe avvolte in pezze di panno scuro.
“Torsten. Belyn.” Li salutò Jorleif con aria esausta, chiamandoli per nome. “Qual è il problema, questa volta?”
Il modo in cui si era rivolto loro diceva che non erano del tutto nuovi a quel genere di dibattiti, per cui mi umettai le labbra e cercai di interessarmi maggiormente.
“Questo grosso idiota ha spostato di nuovo la pietra di confine.” Esclamò stizzosamente uno dei due uomini, un Dunmer dai tratti insolitamente affilati, indicando l'altro con una mano. Portava una cuffia di cuoio sul capo, e ciocche corvine gli sfuggivano sulla fronte; la sua voce era bassa e profonda e risuonava stranamente, in un modo che mi ricordava il fruscio delle foglie secche.
“L'ho fatto perché l'avevi spostata tu per primo.” Lo rimbeccò il suo compagno, un Nord alto e robusto dai folti baffi biondi, con un accento così marcato che ci misi qualche attimo per capire le sue parole.
“Solo per rimetterla nella sua posizione originaria dopo che tu l'avevi spinta nella mia proprietà.” Ribatté il Dunmer, e le sue parole provocarono un confuso mormorio da parte della folla.
“Ne avevamo già parlato il mese scorso.” Jorleif sollevò il suo calamo, agitandolo come se stesse rimbrottando due monelli. “La proprietà di Torsten va dal boschetto di larici alla pietra, e la tua, Belyn, dalla pietra sino al sentiero.”
“Ma lui la sposta, la dannatissima pietra.”
“La sposto solo perché lo fa lui.”
Se il loro battibecco non fosse stato su un argomento così serio come la proprietà dei terreni, sarebbe risultato quasi comico, con quel piccolo e scattante Dunmer tutto nervi che inveiva contro un robusto Nord, capace di mandarlo lungo disteso con un solo manrovescio.
Ma i due non sembravano decisi a venire alle mani. Al contrario, continuavano ad accusarsi a vicenda ed a sostenere le loro ragioni come se provassero gusto a farlo.
Ricordavo vagamente un battibecco simile l'ultima volta che avevo presenziato a quelle udienze in compagnia di mio marito. In quell'occasione lui era rimasto ad ascoltarli a lungo, tamburellando con le dita sul bracciolo di pietra del suo trono, ed alla fine aveva chiuso la bocca ad entrambi dando ragione ad una delle parti. Non rammentavo chi dei due si fosse aggiudicato il verdetto, ma da quello che si stavano urlando in quel momento ero quasi certa che si trattasse del Nord.
“Se tu non l'avessi spostata...”
“Ma ho dovuto! La mia proprietà misura trentacinque passi dal recinto delle capre...”
“Tu non hai capre.”
“Le avrei, se tu non continuassi a rubarmi terreno spostando la pietra di confine.”
Chi ha rubato? Ripetilo, se hai il coraggio.”
“Basta, basta!” Berciò Jorleif, cercando di sovrastare le invettive dei due litiganti ed il rumoreggiare della folla, che commentava a gran voce e parteggiava per l'una o l'altra parte come se si trattasse di un torneo. “Il confine rimarrà così come è adesso, e questo è quanto.”
“E se invece si potesse modificare?” Domandai, e con mia grande costernazione il rumore nella sala si affievolì.
Avevo parlato cercando di mantenere un tono basso, rivolgendomi solo a Jorleif, ma a quanto pareva dovevo essere stata udita anche dai cittadini più vicini alla pedana del trono.
Molti visi si voltarono nella mia direzione, e persino Galmar si mosse sul gradino e si girò a guardarmi perplesso, con un sopracciglio tanto inarcato da svanire sotto le fauci della sua testa d'orso.
Tutti gli occhi erano puntati su di me.
All'improvviso mi resi conto che molta di quella gente non aveva mai nemmeno sentito la mia voce, e la cosa mi atterrì ancora di più. Non avevo mai parlato davanti a tanta gente. Perché diamine avevo aperto bocca?
“Signora?” La voce di Jorleif richiamò gentilmente la mia attenzione, in una cortese richiesta a ripetermi.
Lo guardai spaesata, cercando  qualcosa a cui aggrapparmi per sviare l'attenzione da me.
Ma non c'era nulla che potesse salvarmi dal discorso imminente.
Il Sovrintendente mi osservava in paziente attesa, Torsten e Belyn si erano miracolosamente zittiti, ed io mi sentivo come se tutto il sangue mi fosse stato sostituito con le acque gelide dell'Eastmarch.
Mi passai furtivamente i palmi sulle gonne, tormentato nervosamente uno dei ricami argentati che ornavano il pesante velluto delle mie vesti.
“Ecco.” La voce mi uscì simile ad un pigolio, e dovetti fermarmi e schiarirmi la gola prima di continuare, seppur con un tono più esitante di quanto avrei voluto. “Mi chiedevo se non fosse possibile modificare i confini. Forse. Sempre che non sia un problema.”
Jorleif mi fissò con aria indecifrabile, ed io mi torsi le dita in grembo. Da quando la Sala si era fatta così silenziosa? Pareva quasi che ogni singolo cittadino presente avesse smesso di parlare, solo per sentire le mie parole.
“In che modo vorreste cambiare i confini, esattamente?” Mi domandò lentamente il Sovrintendente,  con lo stesso tono cauto con cui a volte i domestici tentavano di ammansire Talos, il terribile cane di mio marito.
Strinsi le labbra, mordendomi l'interno di una guancia per il nervosismo. Poco prima pareva tutto così chiaro e limpido, nella mia mente, ed ora sembrava che ogni pensiero coerente fosse svanito come fumo nel vento.
“Potremmo lasciare la pietra dov'è ora.” Dissi titubante. “Ed ampliare l'altra proprietà sul lato opposto, così ognuno avrebbe il terreno della grandezza che ritiene giusto e non ci sarebbe più bisogno di litigare.” Mi fermai per prendere respiro, accorgendomi solo in quel momento di aver parlato tutto d'un fiato. Mentre parlavo avevo abbassato lo sguardo, ma quando lo sollevai di nuovo su Jorleif vidi con sorpresa che non mi osservava contrariato come avevo temuto.
Piuttosto, aveva un'aria pensierosa come se stesse soppesando la mia proposta, arrotolando tra le dita la punta di uno dei suoi baffi. Mi lasciò sulle spine per un breve istante, ma alla fine chinò la testa e mi rivolse un leggero inchino.
“Se questo è il volere di Milady.” Disse solamente, accettando la mia soluzione alla sentenza.  Poi si voltò verso i due litiganti in attesa, che ancora mi lanciavano degli sguardi sottecchi. “Nel giorno di Tirdas verranno inviati dei messi, per regolare la questione dei confini come deciso da Lady Lirael. Vedete di farvi trovare nella seconda ora dopo l'alba, o decideremo senza di voi. E adesso andate. Il prossimo!”
I due uomini borbottarono qualcosa, ciascuno annuendo tra sé, e si ritirarono. Il Nord mi rivolse una riverenza sgraziata ed un po' goffa, come se non fosse abituato a compiere quel gesto tanto spesso; il Dunmer invece si tolse la cuffia di cuoio e si inchinò profondamente davanti a me, ritirandosi subito dopo dietro al suo compare di discussioni.
Il loro posto venne presto preso da un piccolo gruppo di questuanti, e vedendo che l'attenzione si spostava da me a loro tornai a rilassarmi sulla mia minuscola sedia.
Fu solo mentre mi rassettavo nervosamente le gonne che mi accorsi di Galmar, ancora voltato verso di me, con un sopracciglio inarcato ed un occhio socchiuso in un'espressione quasi comica nella sua intensità.
“Oh, a lui non piacerà affatto.” Commentò quasi tra sé, facendomi raggelare con quel vago accenno a mio marito; subito dopo mi rivolse un ampio sorriso divertito, come se si trattasse tutto di uno scherzo. “Voi giocate col fuoco, mia Signora.” Mi disse in un brontolio compiaciuto, prima di tornare a voltarsi verso la folla.
Rimasi lì seduta per il resto della mattinata, ascoltando distrattamente quello che accadeva intorno a me. L'esperienza della mia prima sentenza mi aveva lasciata come stordita, con una vaga ansietà mista ad un senso d'orgoglio.
Certo, forse non si era trattato dell'esordio migliore che potessi fare, ma era un inizio.
Mio marito poteva anche essere lo Jarl ma io ero la Signora di Windhelm, e durante quella sua assenza lo avrei dimostrato, a lui ed all'intero Eastmarch.
Ma, soprattutto, lo avrei mostrato a me stessa.
 
 

******

 

L'aria di Solitude aveva un vago sentore salmastro.
Ulfric inspirò profondamente, accogliendo quell'odore di sale che conosceva sin troppo bene e che nel corso delle ultime settimane gli aveva invaso giornalmente le narici.
Gli ricordava vagamente Windhelm, la sua casa di ghiaccio e pietra stretta tra la sponda e la montagna, ma quella era a suo avviso l'unica cosa che le due città avessero in comune.
Solitude sorgeva su un promontorio a picco sul mare, mentre la sua corte si innalzava su un alto sperone dalla base corrosa dalle acque, al centro della baia; ad unire la città così divisa vi era un grande arco roccioso, che le leggende dicevano essere stato scavato dai Giganti in tempi immemorabili. Lassù, tra gli anfratti del ponte roccioso, nidificavano gli uccelli marini dalle voci stridenti, e la brezza che spirava spirava dolcemente risalendo la scogliera non era gelida quanto quella di Windhelm, ed il clima era meno rigido persino in inverno.
Sotto la cappa d'orso indurita dalla salsedine Ulfric sudava copiosamente, complici il sole che brillava sopra la sua testa e la lunga scarpinata che dal molo aveva condotto lui ed i suoi lungo il crinale fino alle porte della città.
Le guardie si erano mostrate sorprese nel vederlo comparire così, appiedato, con una scorta esigua e senza essere annunciato. L'aspetto selvaggio dei guerrieri di Windhelm, coperti di pelli di orso e di lupo grigio, con le asce appese alla cintola e le spade al fianco, era sufficiente per far sbarrare loro il passo. Ma erano guidati da uno Jarl che poteva esibire la convocazione del loro Signore Istlod, e dopo aver inviato un ragazzo al Palazzo Blu avevano ceduto loro il passo.
“Solitude è come una vecchia baldracca, sire.” Gli aveva detto Asbjorn in un sussurro, mentre sorpassavano il drappello all'ingresso. “Non cambia mai, e le sue porte sono sempre aperte.”
Ulfric aveva risposto con un commento altrettanto salace ed un ghigno, mentre sfilavano davanti alla locanda dello Skeever Ammiccante fingendo di ignorare gli sguardi dei cittadini.
La notizia del loro arrivo si era diffusa a macchia d'olio, sin da quando avevano messo piede in città. Passando accanto alle prime botteghe lo Jarl di Windhelm vide uomini e donne allungare il collo, sbirciando lui ed il suo seguito con allarmata sorpresa.
Tutti loro sapevano che ogni due anni Istlod, in qualità di Re dei Re, radunava nel suo palazzo i sovrani dei feudi di Skyrim per mantenere e rinnovare i buoni rapporti e discutere della politica delle regioni; il fatto che Ulfric si fosse presentato con più di dodici mesi di anticipo poteva far presagire il peggio, e la preoccupazione era ben visibile sui loro volti.    
Si aspettano qualche problema.” Si disse lo Jarl, mentre osservava una donna spingere le due giovani figlie in casa per sottrarle agli sguardi cupidi degli uomini di Windhelm.
“Credono che il nostro arrivo sia un cattivo presagio, sire.” Gli sussurrò in quello stesso momento Frèca, uno dei capitani che Asbjorn aveva scelto per far parte della scorta.
Ulfric inclinò il capo, quel tanto che gli bastava per inquadrare con la coda dell'occhio la barba fulva e la chioma rosseggiante del suo guerriero dalla cappa d'orso.
“Lascia che pensino quello che vogliono.” Sbottò di rimando, ma sollevò comunque una mano per stringere l'amuleto in ferro che portava sotto la casacca, e vide Frèca fare altrettanto.
La sera prima, mentre erano ancora in balia dei flutti nel ventre della Vigdis, Ulfric aveva radunato gli uomini intorno a sé ed aveva parlato del rischio della propria cattura.
Voleva che sapessero a cosa andavano incontro, e quando li aveva congedati perché andassero a riposarsi Asbjorn gli era rimasto accanto, accarezzato il fodero della spada che gli pendeva al fianco.
“Dovremo combattere.” Aveva affermato in tono sommesso, quasi come se lo desiderasse.
“Spero non si renda necessario. Ma se dovesse accadere, saremmo noi sette contro l'intera Solitude.”
“Soltanto?” Un ghigno da lupo si era aperto sul cupo volto del suo capo scorta, dandogli un aspetto vagamente sinistro. “Se ci attaccano, noi risponderemo. Ma se dovete indispettire il Re dei Re, sire, preferirei che lo faceste l'ultimo giorno di attracco. Non sarebbe consigliabile continuare a gironzolare per Solitude in attesa di salpare, con quei cani addosso.”
“Per questo ho portato te.” Aveva risposto Ulfric, lanciandogli un'occhiata inequivocabile. “Hai ancora il tuo tocco magico con le porte delle stalle?”
Per tutta risposta il suo capitano era scoppiato in una risata secca, simile ad un latrato, che aveva richiamato l'attenzione allarmata dei guerrieri di Windhelm sdraiati nei loro cantucci.
Asbjorn era stato un ladro di cavalli, a suo tempo.
Aveva saccheggiato le scuderie del regno per anni, prima che le guardie dell'Eastmarch riuscissero a catturarlo. La pena, per la recidività e la crudeltà con cui uccideva chi si opponeva alla sua fuga, era stata la morte; ma proprio mentre lo conducevano al patibolo era riuscito a liberarsi, e strappato un coltello dalla cintura del suo carceriere aveva seminato lo scompiglio tra i guerrieri di Windhelm. In un attimo, quel cupo ladro di cavalli dall'aria poco rassicurante si era trasformato in un lupo famelico.
Nella mischia di soldati aveva iniziato una danza di morte, che non aveva avuto gravi conseguenze solo grazie al pronto intervento di Galmar.
Quella stessa sera Ulfric lo aveva graziato, vincolandolo a sé con un giuramento di fedeltà; la sua feroce scaltrezza in combattimento sopperiva la tecnica rozza ed indisciplinata di cui aveva dato prova, ed al tempo lui era proprio alla ricerca di uomini con una simile foga.
Ed ora, a distanza di anni, Asbjorn era divenuto uno dei suoi uomini più fidati. Il cupo ladro condannato al ceppo si era trasformato nel pericoloso capitano della sua scorta armata, simile un lupo dominante alla testa di un branco affamato.
Portarlo con sé a Solitude era senza dubbio una delle decisioni migliori che avesse potuto prendere.
Soddisfatto della propria previdenza Ulfric sollevò lo sguardo sulle abitazioni di legno di Solitude, dalle robuste pareti di assi di pino e quercia che si ergevano su basamenti di pietrame; ogni cosa pareva immutata dalla sua ultima visita, dai tetti di cannicci sino alle insegne cigolanti delle botteghe.
Con il suo drappello passò sotto l'ombra di Castel Dour, la roccaforte di pietra che si ergeva sulla cima più alta del promontorio entro le mura, e che si opponeva all'antico Palazzo Blu dello Jarl assiso sul suo picco.
Le due dimore si guardavano dai due capi opposti del ponte di pietra; da un lato il borioso Impero nella sua roccaforte, dall'altro il caposaldo delle tradizioni Nord nella sua secolare dimora.
A quella considerazione, Ulfric grugnì con una certa soddisfazione.
Per quanto a volte potesse trovarsi in contrasto con l'attuale Re dei Re, non poteva negare che fosse un uomo degno del suo rispetto.
Pur trovandosi in posizione subordinata rispetto all'Impero lo Jarl locale sapeva bene come mantenere gli equilibri, e sulla cima di Castel Dour, l'imponente dimora di pietra che ospitava l'Imperatore durante i suoi soggiorni nelle lande di Skyrim, accanto alla bandiera Imperiale sventolava il rosso vessillo con la testa di lupo di Istlod.
Anni prima era giunta la richiesta di aumentare le truppe di Legionari a guardia del castello. il Re dei Re aveva ribattuto che gli uomini presenti erano sufficienti per fare la guardia ad un bastione vuoto nel cuore di una città amica; ma se l'Imperatore giudicava i guerrieri di Solitude incapaci di difenderlo, allora sarebbe stato ben lieto di dimostrare la loro bravura ai Legionari che intendeva inviare.
Mesi dopo una nave era giunta da Cyrodiil, ma invece che uomini in arme aveva portato casse di vino ardente e l'annuncio che l'Impero onorava i suoi valorosi difensori del nord. Per quanto Skyrim potesse a volte essere dimenticata, la sua popolazione ed i suoi Jarl rappresentavano un'alleanza che nessuno, oltre le cime dei monti Jerall, avrebbe voluto perdere.
“Avremmo dovuto giungere a cavallo.” Borbottò all'improvviso Frèca, che continuava a camminargli accanto. Ogni suo passo era sottolineato dal tintinnio dei rinforzi si maglia contro l'ascia che portava alla cintura, e dal tonfo degli alti stivali di pelliccia e cuoio che gli risalivano la gamba fin quasi al ginocchio.
“Asbjorn ce li procurerà, se dovessimo averne bisogno.”
“Non è questo che intendevo, mio Jarl.” Il fulvo Capitano voltò il capo e sputò in terra, guadagnandosi le occhiate di ribrezzo di due Guardie Imperiali di ronda. “Qui ci guardano come se fossimo degli assassini, o peggio. Se fossimo giunti a cavallo, avrebbero avuto il giusto rispetto.”
Frèca non aveva tutti i torti. Giungere appiedato non era certo l'impressione migliore che Ulfric potesse fare alla gente di Solitude, che già non lo apprezzava. Il suo arrivo così poco sfarzoso poteva far pensare che fosse caduto in disgrazia presso Istlod, oppure che il suo regno versasse nella povertà.
L'unica consolazione era che il viaggio in nave gli aveva permesso di dimezzare i tempi, e che l'impressione che stava dando sarebbe stata presto cancellata, quando si sarebbe ripresentato l'anno successivo per il Consiglio degli Jarl con i suoi abiti più sfarzosi e la giovane moglie ingioiellata aggrappata al braccio.
“Non ci rispettano per colpa tua.” Si intromise Gunnar da dietro le loro spalle, dando un leggero colpo sulla schiena di Frèca. Ora che non era più preda del mal di mare, aveva ripreso il suo solito buon umore. “Sembri un selvaggio che abita nei boschi, e sei fin troppo brutto per passare inosservato.”
“Non abbastanza brutto per la sorella di tua moglie.”
“Mildrith doveva essere mezza cieca ed ottenebrata dall'idromele, quando ti ha condotto nella foresta durante la Notte dei Fuochi.”
“Sire, vi chiedo il permesso prendere a pugni questo sbruffone.”
“Vi prenderò a pugni entrambi.” Ringhiò Asbjorn aspramente mentre marciava in testa, lanciando loro un'occhiata dietro la spalla. “Se non la smetterete di blaterare come due ragazzine pettegole.”
Il richiamo del capo scorta fu sufficiente a far acquietare i due commilitoni, ed Ulfric schioccò la lingua soddisfatto. Non avrebbe davvero potuto scegliere un uomo migliore, per quel viaggio.
“Per quanto mi riguarda potete azzuffarvi tutti e tre.” Disse sbrigativamente lo Jarl. “Purché vi tratteniate fino a che non sarete alle caserme. Siamo quasi arrivati.”
Con un cenno della mano mostrò loro il Palazzo Blu, che si ergeva alla fine di una lunga strada lastricata sul punto più alto dello sperone roccioso. Era circondata da un'alta cinta muraria, ma l'arco che si apriva nella roccia non aveva porte. La reggia di Solitude era stata costruita in tempo di pace.
E se anche venisse attaccata.” Pensò Ulfric,  percorrendo la strada che piegava in una leggera salita verso il palazzo. “La sua posizione e le sue prime linee la renderebbero facile da difendere.”
Mentre si avvicinavano alle mura del palazzo i suoi uomini divennero sempre più silenziosi e cupi, e quando giunsero sotto l'arco di pietra non parevano diversi da Asbjorn, che con aria truce faceva strada tenendo una mano sull'impugnatura della spada.
Oltre la cinta muraria, la strada procedeva in mezzo ad un giardino non dissimile dal territorio dell'Haafingar; ovunque Ulfric volgesse lo sguardo poteva vedere sottili betulle e rigogliosi sempreverdi, cespugli di felci e minuscoli fiori di montagna.
“Fermi.” Ingiunse una voce, e lo Jarl di Windhelm fu costretto a fermarsi con il suo seguito davanti a quelle che erano le vere e proprie porte del palazzo.
Una guardia si fece avanti e discusse brevemente con Asbjorn, come era di consuetudine quando si presentava un visitatore non atteso, e dopo qualche attimo concesse loro di varcare la soglia del palazzo Blu.
Il primo atrio che si parò loro davanti parve insopportabilmente scuro dopo aver passato tanto tempo all'esterno, ma presto i loro occhi si abituarono ed allora poterono scorgere meglio i lustri pavimenti dagli eleganti intarsi di marmo, le colonne dai capitelli scolpiti a guisa di animali e gli arazzi dai colori vivaci appesi alle pareti di pietra.
Una guardia all'interno fece loro depositare le armi, come era dovuto nel palazzo di uno Jarl, ed un servitore si fece premurosamente avanti per precederli.
Abbandonato l'ingresso vennero introdotti in un androne dall'alto soffitto; sui due lati si aprivano ampie gallerie separate da eleganti colonnati, mentre di fronte a loro si ergevano due imponenti scalinate ricurve, che si congiungevano in una balconata semicircolare.
“Lord Ulfric!”
Lo Jarl sollevò il capo, giusto in tempo per vedere il bel volto sorridente di un giovane uomo accoglierlo dall'alto della terrazza. Le sue guance erano perfettamente rasate, come era d'uso tra gli Imperiali, ed i lunghi capelli bruni che un tempo gli ricadevano sulle spalle erano stati lisciati e pettinati all'indietro, legati sulla nuca da un laccio come era di moda nelle corti dell'Impero.
Non appena vide che era stato individuato, il giovanotto si staccò dal parapetto di pietra e cominciò a scendere baldanzoso una delle due scale ricurve, senza mai smettere di sorridere.
“Torygg.” Lo salutò Ulfric di rimando in tono burbero.
“Giungo in ambasceria per conto di mia moglie, che è terribilmente in collera con voi.” Declamò allegramente il principe di Solitude, accompagnando quelle parole con un ampio sorriso. Giunto al termine della scalinata saltò gli ultimi due gradini con un balzo, ed allargando le braccia in segno di accoglienza lo raggiunse con passo elastico. “Rivuole indietro la cameriera che le avete tolto, e minaccia di non mostrarsi e di togliervi il beneficio della sua presenza se non acconsentirete.”
“Non vedo la minaccia.” Ribatté lo Jarl di Windhelm, squadrandolo dall'alto in basso e stringendo la mano che gli porgeva. Torygg era un giovane dal bel portamento e di corporatura robusta, accentuata dal un elegante farsetto trapuntato con ricami in filo d'argento, e da calzoni di velluto così attillati sulle cosce che Ulfric si trattenne a stento dallo schioccare la lingua con disapprovazione. Pareva un damerino, più che il figlio di un uomo come Istlod.
Il giovane sbottò in una breve risata, stringendogli calorosamente la mano e battendogli quella libera sulla spalla. L'erede di Solitude aveva ormai ventisei anni, e mentre Ulfric alla stessa età già sedeva sul trono e si considerava un uomo fatto, reduce com'era da numerose battaglie, il ragazzo divagava ancora tra libri e duelli ingaggiati per divertimento.
“Sempre tutto d'un pezzo, vedo.” Disse allegramente Torygg, posandosi le mani sui fianchi e squadrandolo divertito. “Immagino dal vostro odore che non ci sia bisogno di far portare i vostri cavalli in stalla. Se avessimo saputo che sareste arrivati via mare, avremmo mandato una delegazione ai porti per accogliervi.”
“È stata una decisione improvvisa.” Brontolò Ulfric, muovendo qualche passo verso la scalinata più vicina e guardandosi intorno. “Sono qui per parlare con tuo padre. E mi aspetto di essere ricevuto, dal momento che è stato lui a convocarmi. Dove si trova?”
Torygg sospirò e sollevò lo sguardo verso l'alto, là dove si affacciava la piccola balconata semicircolare.
“Mio padre adesso è da qualche parte all'interno palazzo, ma ignoro dove. In realtà non lo vedo dal momento del pranzo, ed io stavo tenendo compagnia ad Elisif quando ho avuto notizia del vostro arrivo.” Con quelle parole si lanciò un'occhiata da sopra la spalla e squadrò per qualche attimo i sei guerrieri di Windhelm, che parevano decisi a non perdere di vista il loro Jarl. “Ma adesso non pensiamoci. Gli affari posso aspettare, Lord Ulfric. Seguitemi.” Aggiunse, prima di superarlo e cominciare a risalire con fare scattante una delle due scalinate. “Il viaggio non deve essere stato piacevole. Vi offrirò il nostro miglior idromele e la carne più succulenta mentre aspettiamo che vi vengano preparate delle stanze. Mio padre ci raggiungerà presto, non appena saprà che siete arrivato.”
Ulfric emise un grugnito soddisfatto, e prima di avviarsi dietro a Torygg fece un cenno ad Asbjorn, perché lo seguisse lungo la scala ricurva.
Il capitano della sua scorta non emise un suono, ma non appena lo Jarl posò un piede sul primo scalino i guerrieri di Windhelm si mossero come un sol uomo, accodandosi al loro sovrano in un confuso sferragliare di armature.
 
 

******

 
 
Non riuscivo a credere di esserci riuscita.
Avvolta nel mio mantello bordato di pelliccia di volpe, in piedi sulla cima della scalinata che dava su uno dei cortili interni, ero in attesa che i mozzi di stalla portassero il mio cavallo, sellato e pronto per la cavalcata.
Il cielo era simile ad una lastra di ghiaccio, ed il mondo sottostante pareva avvolto nella grigia luce soffusa che si dipanava dalle nubi, riflettendosi sulla neve ammucchiata in ogni canto.
L'aria era immobile e gelida, ma sapevo che una volta uscita dalle mura sarei stata accolta dal consueto alito di vento che spirava incessante dal Mare dei Fantasmi.
Levai il viso, cercando invano il disco pallido del sole. La prima ora dall'alba era passata, ma senza alcun riferimento mi era difficile capire da quanto.
Quella era la mattina designata da Jorleif per la rettifica del confine che separava la proprietà di Torsten Mare Crudele dalla terra di Belyn Hlaalu. Era stato detto loro di attendere i messi durante la seconda ora, ed io non intendevo tardare.
Al termine delle udienze, due giorni prima, il Sovrintendente mi aveva avvicinata chiedendomi come intendessi realmente gestire la questione tra il Nord ed il Dunmer.
Era chiaro che la mia decisione di prendere la parola, per non parlare della soluzione vera e propria, non gli fossero affatto piaciuti; davanti all'assemblea della popolazione non aveva però potuto ignorare le mie parole, perché ero pur sempre la moglie dello Jarl, ed in sua assenza ero io a farne le veci.
La quiete dello studio dove ci eravamo ritirati e la relativa confidenza nei suoi confronti mi avevano permesso di spiegarmi con maggiore eloquenza, senza il timore e la timidezza che mi avevano sopraffatta quando mi ero ritrovata a parlare inaspettatamente davanti alla popolazione.
Gli avevo illustrato la mia idea, che consideravo piuttosto buona. Sapendo quanto fosse importante l'estensione della proprietà, intendevo ampliare una delle due aree, in modo da raggiungere la superficie dovuta.
Secondo Jorleif sarebbe stato più saggio farsi mostrare dai due litiganti dove credevano fosse il limite della loro proprietà, e tracciare il nuovo confine tra i punti indicati. Mentre mi esponeva la sua idea non potei fare a meno di riconoscere, con un certo imbarazzo, che era senza dubbio la cosa migliore da fare; lui conosceva l'Eastmarch ed i suoi abitanti meglio di me, e mi sarei dovuta affidare al suo giudizio.
Eppure non avevo intenzione di cambiare le carte in tavola. Non volevo dare l'impressione di una donna in grado di mutare idea con la facilità con cui una foglia si fa sospingere dalla corrente di un fiume.
Quando il Sovrintendente aveva compreso che non intendevo cambiare opinione, assunse un'aria terribilmente cupa e preoccupata e se ne andò torcendosi le mani.
Non mi era difficile immaginare che fosse la reazione di mio marito ad angustiarlo, perché inquietava anche me; come aveva detto Galmar, la questione non gli sarebbe affatto piaciuta.
Ma ero convinta che qualunque cosa avessi detto o fatto lo avrebbe comunque irritato, per cui preferii andare avanti con lo scopo che mi ero prefissata.
Sorrisi dietro il bordo di pelliccia che orlava il mio mantello, guardando Jorleif che impartiva le ultime istruzioni ai due messi che quella mattina lo avrebbero sostituito nella nostra piccola spedizione. Uno di loro reggeva alcune vecchie custodie di cuoio in cui erano conservate delle pergamene, mentre l'altro stringeva sottobraccio un grosso abaco che aveva l'aria di essere piuttosto pesante.
“Siete davvero certa di voler andare?” Mi interrogò la voce di Ioreth, da dietro la mia spalla.
Mi poneva quella domanda da quando aveva appreso la mia decisione, e da allora non aveva smesso un solo istante di mostrarsene contrariata.
“È così che ho deciso.” Le risposi fermamente, come mi aveva detto di fare Mirala. Secondo la mia vecchia balia dovevo imparare a mostrarmi più decisa, e durante quell'assenza di mio marito mi stava incoraggiando a non lasciarmi intimorire dalla mia nuova, severissima cameriera.
Ioreth brontolò qualcosa sulla correttezza e sul decoro, e stringendo le labbra io finsi di interessarmi ai preparativi, per non doverle prestare attenzione.
Gli uomini che mi avrebbero fatto da scorta si erano già riuniti ai piedi della scalinata, e le teste brune dei miei guerrieri Bretoni guidati da Moran si mescolavano a quelle bionde e svettanti dei soldati Nord, che Galmar aveva insistito per portare.
Ma insistito non era forse un termine esatto. La verità era che il vecchio guerriero me li aveva imposti, e con la stessa fermezza che avrebbe usato mio marito, seppure in modo più gentile e rispettoso.
“Lord Ulfric esigerebbe la mia testa, se vi lasciassi andare senza una scorta adeguata.” Aveva detto con un sorriso di scusa.
“Ho già una scorta adeguata.” Avevo ribattuto, ma lui non si era scomposto e mi aveva rivolto un ampio sorriso.
“Vi troverò degli uomini adatti.” Era stata la sua risposta, e dal suo tono avevo capito che non avrebbe ammesso repliche.
Se prima di allora mi ero chiesta come potesse un uomo all'apparenza così gioviale andare d'accordo con mio marito, ora non avevo più dubbi. Per quanto Galmar si mostrasse alla mano, in realtà non era affatto diverso da lui.
“È tutto pronto, Signora.” Quasi lo avessi evocato con il mio pensiero, il vecchio guerriero emerse ciondolando dal gruppo di soldati e mi raggiunse sulla cima della scalinata, imprecando solo di tanto in tanto quando metteva il piede su una lastra di ghiaccio.
Nel cortile alcuni mozzi di stalla stavano conducendo i cavalli, e tra loro scorsi Yrsarald che conduceva la mia giumenta per le briglie.
Dal giorno delle udienze gli era comparso un grosso livido sotto l'occhio sinistro, che quella mattina aveva assunto una brutta sfumatura violacea. Chiunque fosse l'uomo che aveva inseguito fuori dalla Sala del Trono, il loro confronto non doveva essere stato affatto pacifico.
“Yrsarald!” Vociò Galmar dall'alto, mentre mi porgeva un braccio colossale per aiutarmi a scendere i gradini ghiacciati. “Sembri ogni giorno di più una brutta rapa, ragazzo mio.”
Il giovane Capitano gli rispose con un'occhiata sardonica, fermando il mio cavallo ai piedi della scalinata.
“Almeno io so ancora incassare.” Disse, guadagnandosi la risata del vecchio guerriero.
Sentendo il loro scambio di battute cercai Moran con lo sguardo. Sapevo che il mio comandante Bretone non approvava quella familiarità tra superiori e sottoposti, e difatti notai che passava in rassegna i suoi uomini con aria vagamente infastidita.
Nel vederlo nascosi un sorriso dietro il bordo del mantello, ed abbassai lo sguardo sui gradini gelati sotto i miei piedi per evitare di scivolare. Il braccio di Galmar era saldo come pietra sotto la mia mano, ed anche attraverso il bracciale di cuoio e pelliccia riuscivo a sentire i muscoli tendersi ed allentarsi mentre stringeva distrattamente il pugno.
“Ora devo chiedervi un saltello, Milady.” Mi disse cortesemente il vecchio guerriero quando giungemmo davanti all'ultimo scalino, coperto da uno spesso strato di ghiaccio.
Galmar lo scavalcò con le sue lunghe gambe senza alcuno sforzo, quindi si voltò e tese le braccia per aiutarmi. Mi sentivo come una bambina, ma gli affidai ugualmente le mie mani e scavalcai la lastra di pietra ghiacciata.
“Uno splendido salto, Signora.” Tenendo la mia giumenta per le briglie Yrsarald mi venne incontro, ed il suo sorriso era tanto caloroso che non potei fare a meno di ricambiarlo. Il livido sul volto poteva anche dargli un'aria più brutale, ma quando mi porse la mano aveva lo sguardo più gentile che gli avessi mai visto.
“Venite. Vi aiuto a montare in sella.” Si offrì, ma avevo appena posato le mie dita sulle sue che Galmar si fece avanti, dandogli una cameratesca pacca sul petto per allontanarlo.
“Ci penso io a Lady Lirael.” Decretò spiccio, frapponendosi tra lui e me e passando una larga mano sulla groppa della mia giumenta grigia. “Tu va' ad  aiutare Ioreth.”
Yrsarald schiuse le labbra screpolate per protestare, ma si limitò a lanciarmi una sola occhiata insondabile prima di affrettarsi verso la mia cameriera, che attendeva impettita sul penultimo scalino in attesa di qualcuno che la facesse scendere.
Con l'assistenza del vecchio guerriero montai in sella, e quando fui ben sistemata lo sentii assicurarsi che avessi il piede ben infilato nella staffa. Sentendo il mio peso, il cavallo sbuffò e scosse la bella criniera scura, ed io allungai una mano guantata per accarezzargli il collo. Portavo dei morbidi guanti di capretto bordati di pelliccia candida sui polsi, indispensabili perché non mi rovinassi le mani con le briglie, ma mi mancava la sensazione del pelo raso della mia giumenta sotto il palmo.
Alle mie carezze l'animale voltò il capo e mi fissò di sbieco con un grande, dolce occhio marrone, ed io gli rivolsi un sorriso e gli mormorai un complimento, come ero solita fare sin da quando avevo cominciato a cavalcarlo, nelle lontane terre di High Rock.
“Avete le labbra livide.” Decretò all'improvviso l'aspra voce di Ioreth, mentre la vecchia faceva capolino al mio fianco. L'avevano sistemata sulla groppa di un vecchio mulo mansueto, che in quel momento stava ruminando rumorosamente una mela, perdendo pezzetti di frutta misti a saliva dalla bocca.
“Sto bene.” La contraddissi, nonostante sentissi già i primi brividi di freddo. Levai il mento, cercando di assumere l'aria più sicura di cui ero capace, e strinsi le redini tra le dita guantate.
La vecchia puntò su di me i suoi vividi occhi pieni di riprovazione, ma non fece in tempo a farmi alcuna rimostranza perché in quel momento Galmar dette la voce, e finalmente partimmo.
Ioreth procedeva al mio fianco su un vecchio mulo malandato, Yrsarald cavalcava avanti a me, ed il secondo di mio marito incedeva invece alle mie spalle su una bestia colossale, probabilmente l'unica cavalcatura in grado di sopportare la sua stazza.
I soldati Nord procedevano a piedi davanti a noi, aprendoci la strada già sgombra, e quando uscimmo dal cortile potei ammirare per la prima volta la città che si svegliava.
Regnava una strana calma sospesa, piena dell'attesa del giorno appena iniziato, e mentre attraversavamo le strade lastricate di pietra e ghiaccio vidi i mercanti che aprivano le botteghe, le donne che uscivano di casa con il cesto al braccio e le guardie di ritorno dalla ronda notturna.
Al nostro passaggio i cittadini che incrociavamo si fermavano per rivolgermi un cenno rispettoso e, più spesso, per scambiare un allegro saluto con i biondi soldati della mia scorta.
Quando giungemmo sulla piazza principale scorsi Jora, la sacerdotessa di Talos che aveva guidato la processione solo il mese prima, una coppia di monelli vestiti di stracci che corsero via al nostro passaggio ed un piccolo gruppo di uomini radunati davanti all'ingresso sul retro della locanda.
Riconobbi a prima vista l'oste, che avevo già incontrato alcune volte quando accompagnavo mio marito al Tempio di Talos. In piedi sull'uscio, con le braccia incrociate al petto, era intento a discutere con un Dunmer ed un Nord appoggiati ad un carretto e rivolti verso di lui, così sollevai una mano e gli feci un cenno di saluto.
Il proprietario della locanda rispose al mio sorriso con un leggero inchino, che spinse i suo due interlocutori a voltarsi per osservare l'arrivo del mio drappello.
Il Dunmer lanciò un'occhiataccia ostile al mio seguito e mi fece solo un brusco cenno col capo, ma il suo compagno sbottò qualcosa di ingiurioso e sputò in terra quando vide Yrsarald cavalcare tra i guerrieri appiedati.
“Sei fortunato che non abbia tempo per te.” Gli sibilò il Capitano di mio marito. L'uomo sollevò il viso e gli rivolse un'occhiata sprezzante, e quando potei vederlo meglio in viso sobbalzai sulla sella.
Era giovane, notai, con forse solo qualche anno più di me, ed i tratti del suo volto erano tanto simili a quelli del mio sposo che in un primo momento non mi accorsi del grosso livido violaceo che gli contornava l'occhio gonfio.
“Sei un cane che ulula fingendosi lupo.” Ribatté lo sconosciuto con voce dura. “E ti batti peggio di una femmina.” Continuò indicandosi l'occhio nero.
Yrsarald spronò all'improvviso il cavallo, e non appena lo raggiunse sfilò un piede dalla staffa e cercò di sferrargli un calcio. Nonostante la stazza robusta però l'uomo era svelto, e si scostò rapidamente usando il carretto come barriera.
“Figlio di una cagna ingrata.” Ringhiò il Capitano dell'Eastmarch, tornando tra i ranghi.
A quella scena abbassai il capo, turbata, e spostai lo sguardo sul collo della mia giumenta. Mi ero abituata a vivere attorniata dai soldati di mio marito, e spesso scordavo che dietro alle loro maniere gentili si nascondevano uomini avvezzi alla violenza.
La scorta aveva rallentato per vedere quel battibecco, ed al mio fianco Ioreth mormorò qualcosa sul decoro scuotendo la testa candida. La sentii rivolgersi a Galmar, e subito il vecchio guerriero si intromise, sfilandomi davanti.
“Avanti con la marcia.” Ordinò, fermandosi poi davanti allo sconosciuto e guardandolo dall'alto della sua cavalcatura. “Torna alle tue occupazioni, ragazzo. Se vuoi batterti con Yrsarald sai dove trovarlo, ma non è questo il tempo né il luogo.”
“Che l'Oblivion ti porti, vecchio bastardo.” Borbottò lo sconosciuto tra i denti, voltando il capo per sfuggire al suo sguardo come un ragazzino che viene colto in fallo.
Mentre si girava rivolse la sua attenzione su di me, e vidi un muscolo sotto il suo occhio sano contrarsi vistosamente.
“Salute, Signora.” Mi disse con fare velenoso. “Quando vedete lo Jarl, ricordategli che sto ancora aspettando che liberi la mia donna.”
Disturbata dal suo tono raddrizzai le spalle, cercando disperatamente un modo per ribattere, ma Galmar mi salvò dall'impiccio imponendogli di tacere e vociando perché il mio drappello allungasse il passo.
Yrsarald si mise al mio fianco, sul lato opposto a quello occupato da Ioreth, e mi tolse gentilmente le redini dalle mani senza dire una parola. Lo lasciai fare, tenendomi al pomolo della sella al quale ero già aggrappata con la gamba ripiegata, nella posa tipica imposta dalle selle femminili.
Per tutto il tempo, mentre ci allontanavamo, sentii lo sguardo astioso dello sconosciuto fisso sulla mia schiena, e fu solo quando raggiungemmo le porte della città che mi arrischiai a domandare chi fosse.
“Nessuno di cui dobbiate preoccuparvi.” Mi rispose il giovane Capitano di mio marito, con la fronte aggrottata per l'irritazione dell'incontro.
Mi voltai a guardarlo, osservando il livido scuro sul suo zigomo. Sotto la pallida luce che filtrava tra le nubi i suoi tratti parevano ancora più marcati, facendo risaltare curiosamente alcune piccole cicatrici pallide di cui non mi ero mai resa conto.
“Chi è la donna di cui parlava?” Gli chiesi ancora, ma Yrsarald non rispose e fece solo una smorfia disgustata prima di voltarsi verso di me, trafiggendomi con i suoi occhi del colore dell'acciaio temprato.
“Non vale la pena parlarne.” Si intromise Ioreth severamente. “Entrambi hanno arrecato un'offesa imperdonabile allo Jarl, e ne pagheranno le conseguenze. Non meritano la vostra attenzione.”
Mi morsi un labbro, posando lo sguardo sul ponte lastricato che si stendeva davanti a me e che rappresentava l'unico ingresso di Windhelm. Desideravo saperne di più, ma non era facile insistere davanti al mutismo di Yrsarald ed ai duri giudizi della mia cameriera.
Stavo per riprovare a porre le mie timide domande, quando la risata tonante di Galmar catturò la mia attenzione e quella dei miei interlocutori.
“Un'aquila!” Esclamò, allungando un braccio verso l'alto. “Vedete lassù, Milady? Le aquile portano bene, qui a Windhelm.”
Sollevai svogliatamente lo sguardo, osservando il cielo fino a che non individuai un punto distante che ondeggiava contro lo sfondo diafano delle nubi.
“Erano il simbolo della città, fino a che regnò la prole di Ysgramor. Poi adottammo l'orso. Conoscete la storia di Ysgramor, mia Signora?”
“Un po'.” Ammisi con voce atona. “L'ho imparata sulle pergamene che mio marito portò per me a Daggerfall.”
“Allora lasciate che ve la canti come la conosciamo nell'Eastmarch.” Sorrise Galmar, e sotto la gelida lastra del cielo cominciò a declamare un vecchio poema a gran voce.
Inizialmente provai ad approfittare delle sue pause per rivolgermi a Ioreth o Yrsarald, ma il vecchio guerriero berciava senza mai interrompersi, e presto mi fu chiaro che non mi avrebbe concesso di riprendere la parola.
Irritata e dispiaciuta recuperai le mie redini e mi dedicai a condurre il cavallo, ormai incapace di godermi la cavalcata.
Come potevo essere la Dama di Windhelm, quando chi avevo intorno continuava a tenermi all'oscuro di quanto accadeva nel mio regno?
Ma non sono del tutto all'oscuro.” Mi dissi, stringendo le redini tra le dita e sollevando il mento. “Conosco quello che ho origliato alle porte della mia stanza.”
C'era una donna, rinchiusa nelle prigioni del palazzo. Una donna che, stando a quanto detto da mio marito, aveva cercato di avvelenarmi.
Ed io avevo intenzione di trovarla e parlarle, prima che il mio sposo tornasse ed imponesse il silenzio anche a lei.
 
 

******

 
 
A dispetto delle parole del giovane Torygg, Jarl Istlod non si mostrò né presenziò alla cena.
Attorno alla tavola imbandita Ulfric si era seduto in compagnia dei thanes e del Principe di Solitude, ma lo scranno del sovrano era rimasto desolatamente vuoto per tutto il pasto.
Si era ritirato poco dopo il termine della cena, in parte perché non sopportava i discorsi dei suoi commensali, ed in parte perché voleva assicurarsi che i suoi uomini fossero stati sistemati adeguatamente.
Con l'aiuto di un domestico aveva percorso le belle gallerie del palazzo fino ad un'ala predisposta per le sale della servitù, e lì aveva trovato i suoi guerrieri stipati in un unico stanzone, intenti a bere vino e giocare ai dadi.
“Sire!” Lo accolse allegramente Frèca, sollevando un corno nella sua direzione quando lo vide entrare. “Venite, bevete con noi.”
Lo Jarl lanciò un'occhiata al suo robusto soldato, e notò che sotto la barba le sue gote erano rosse quasi più dei suoi capelli.
“Non credi di aver già bevuto fin troppo?” Lo redarguì in tono burbero, cercando con lo sguardo il suo Capitano.
Asbjorn sedeva sul letto che aveva reclamato per sé, nell'angolo più buio della stanza, con la schiena contro la parete e le lunghe gambe stese sulle coperte di lana. Tra le mani reggeva un corno di vacca, bordato da una lamella di rame cesellato, ed osservava i suoi sottoposti bere e scherzare con solo un luccichio nello sguardo che animava il suo volto cupo.
“Dovresti dargli un freno.” Gli disse severamente Ulfric, raggiungendolo e sedendosi sul bordo di legno del letto. “Li voglio vigili.”
“Domattina lo saranno.” Ribatté Asbjorn, tendendogli il corno che reggeva tra le mani. Dall'interno cavo giunse lo sciaguattio di un liquido, e quando lo Jarl lo portò vicino al viso avvertì, misto al tipico odore muschiato di corno bovino, un pungente aroma di vino.
“Vino Ardente.” Gli spiegò il suo cupo Capitano. “Frèca e Torkild hanno affascinato due domestiche, per procurarselo.”
“Non sarà stato un grande sacrificio per loro. Lo avete tolto ad Istlod?” Indagò Ulfric con sospetto, inspirando l'aroma che esalava dall'imboccatura cerchiata di rame.
“Nessuno si accorgerà di un paio di bottiglie, Sire.” Asbjorn dondolò uno stivale di cuoio con fare indifferente, grattandosi distrattamente un fianco attraverso la casacca di tela. Ora che potevano rilassarsi, gli uomini di Windhelm avevano smesso le armature e le solenni pellicce d'orso per godere della libertà di calzoni e camicie ruvide.
Scrollando le spalle, Ulfric si portò il corno alle labbra e prese un solo sorso di vino, gustandone il sapore dolce e speziato solo vagamente alterato dall'aroma del corno. Asciugandosi i baffi sul dorso della mano lo restituì ad Asbjorn, facendogli un cenno per mostrargli di averlo gradito.
Trascorse tra i suoi uomini ancora qualche minuto, ascoltando le loro chiacchiere ed osservandoli scommettere ai dadi denaro che non possedevano, e prima che fosse passata la terza ora dal tramonto lì lasciò, dirigendosi verso la stanza che gli era stata riservata.
La pesante porta di legno e ferro era munita di chiavistelli, proprio come la sua camera nel Palazzo dei Re,  ed Ulfric li fece scivolare nelle loro sedi non appena si chiuse il battente alle spalle.
Un ampio letto dalle forme squadrate troneggiava al centro, l'alta testata di pino intagliato appoggiata contro la parete di pietra, ed un grosso braciere dalle gambe in ferro battuto era  stato posizionato proprio di fronte. Non c'era un camino, e qualcuno doveva aver pensato di dargli un minimo di conforto e scaldargli la stanza.
Con una mano si slacciò le fibule metalliche che gli fissavano la cappa d'orso sulle spalle, poggiandole sul ripiano lucidato di un piccolo mobile d'aspetto elegante.
Davanti a lui si apriva un ampio arco diviso da una sottile colonna di pietra, ed attraverso i vetri piombati era possibile scorgere il riflesso di una delle due lune.
Per un breve istante considerò l'idea di mandare a chiamare Eanfled, la fanciulla da cui si faceva tenere compagnia durante i suoi soggiorni a Solitude, ma presto accantonò quel pensiero. L'anno successivo avrebbe dovuto presentarsi in quella stessa corte con la sua giovanissima moglie al braccio; lui non si curava delle malelingue, ma riconosceva che era sempre meglio non alimentarle.
Con un sospiro appoggiò la cappa d'orso su una cassa ai piedi del letto, e con lo sguardo fisso sul tenue bagliore della luna che penetrava attraverso i vetri cominciò a slacciarsi la cintura.
Si era già sfilato la casacca e gli stivali, quando fu interrotto da un leggero bussare alla porta. La raggiunse a grandi passi, sperando che fosse qualche cameriera che gli annunciava che Istlod era pronto a riceverlo, nonostante l'ora tarda, ma quando la schiuse si ritrovò a fissare il volto grazioso di una giovane donna, vestita solo dei suoi capelli infuocati e con un mantello di lana drappeggiato sulle spalle.
“Vi siete scordato di farmi chiamare, Signore.” Gli disse Eanfled con un sorrisetto provocante, scivolando nello spiraglio della porta aperta. “Vergognatevi, dovrei davvero sentirmi offesa. Ma sono disposta a perdonarvi, per questa volta.” E con un gesto aprì un lembo del mantello, mostrando la candida pelle delle sue membra. Nell'incavo del seno brillava una grossa gemma montata su una catena di poco conto, che stonava con la semplicità del manto di lana: il pagamento di un sovrano per i favori concessi.
Ulfric sospirò lentamente e cosse la testa, sentendo crescere l'irritazione.
“Copriti.” Le ingiunse, volgendo il capo e recuperando la scarsella che aveva appoggiato sulla cassa, accanto alla cintura.“Non ho tempo per te, questa notte.”
“Non ditemi che avete chiamato qualcun'altra.” La ragazza assunse un'espressione di finta indignazione e scrollò i capelli ricciuti. “Ecco, ora sono offesa, e pure gelosa.” 
“Finiscila di comportarti come un'idiota.” La rimproverò Ulfric, frugando nella sua piccola borsa di cuoio. “Non ho tempo per te. Ma se scendi la scalinata troverai i miei uomini in una delle stanze della servitù. Il loro capo si chiama Asbjorn. Lui avrà tempo da dedicarti.”
Eanfled aggrottò le sopracciglia sottili, stringendo per un istante gli occhi verdi come la gemma che portava al collo.
“Spero che quest'uomo sia in grado di ringraziarmi per i miei servigi, Signore.” Replicò in tono pragmatico, senza più traccia dell'aria stucchevole di poco prima. La giovane era una delle donne che vendevano le loro grazie allo Skeever Ammiccante, e per raggiungerlo aveva rinunciato ad una intera notte di guadagni.
“Vai.” Le ingiunse lo Jarl, mettendole nel minuscolo palmo una grossa moneta d'oro. “E la prossima volta che sarò a Solitude dovrai cercare lui, e non me.”
La ragazza storse la bocca, fissandolo con aria pensierosa per un breve attimo, poi richiuse il mantello e si inchinò profondamente; la bella chioma fiammeggiante le scivolò davanti al volto, ma Ulfric riuscì comunque a vederla mordere la moneta per accertarsi della qualità dell'oro.
“Come desiderate.” Esclamò raddrizzandosi, nuovamente allegra, e con uno scatto del capo si gettò la massa di capelli dietro una spalla. “È sempre un piacere avere a che fare con voi, mio Signore.” Con un sorriso soddisfatto la ragazza si voltò ed uscì dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sé.
Non appena se ne fu andata Ulfric fece scorrere di nuovo i chiavistelli e tornò accanto al letto vuoto,  osservando sovrappensiero le coltri di ruvida lana.
Si chiese oziosamente se non avesse forse sbagliato ad allontanare Eanfled; il viaggio in nave era stato lungo e stancante, quasi quanto la marcia che aveva affrontato al ritorno da Winterhold, ed era passato molto tempo da quando si era unito alla sua sposa.
Ma forse, si disse mentre si sfilava i calzoni e si stendeva sotto le coperte, non era stata una cattiva idea. Mandando la ragazza da Asbjorn si era dimostrato generoso con i suoi sottoposti, e si era liberato dal peso di nuove maldicenze.
Ora non gli restava altro che far volgere il colloquio con Istlod a proprio favore, e presto sarebbe potuto tornare nelle sue terre.
E da sua moglie.
Al solo pensiero fece una smorfia al soffitto di pietra, grugnendo di irritazione; ma poi gli tornò in mente la sua giovane sposa così come era l'ultima volta che l'aveva vista, quando aveva lasciato la loro stanza all'alba per imbarcarsi sulla Vigdis: i capelli arruffati e sciolti, gli occhi lucidi ed ancora gonfi di sonno e la bella vestaglia sottile leggermente aperta sul petto, in un modo che lasciava indovinare la curva del suo seno minuto e che lo aveva quasi spinto a tornare sui propri passi.
Al ricordo Ulfric si lasciò sfuggire uno sbuffo soddisfatto.
Il periodo di riposo che le aveva imposto la guaritrice era quasi terminato, ed al proprio ritorno nulla avrebbe potuto trattenerlo dal cercare il ristoro che gli era dovuto all'interno del talamo nuziale.
Una cosa alla volta.” Si impose, scacciando dalla mente le immagini allettanti del corpo nudo di sua moglie. “prima il dovere, e poi...”
Lo Jarl di Windhelm aggrottò la fronte nell'oscurità, girandosi sul fianco.
Prima il dovere.
E poi tutto il resto.

 ******

 
 
Nel corridoio di pietra gravava un pesante silenzio.
Con il cuore in gola appoggiai una mano contro la fredda parte grigia e cercai di regolarizzare il respiro. Intorno a me non si udiva altro che il lontano russare delle guardie addormentate ed il lieve crepitio delle torce.
Mossi cautamente un passo avanti, ed un refolo d'aria gelida si insinuò sotto la mia vestaglia e mi risalì lungo le gambe, facendomi rabbrividire.
Non avrei mai dovuto trovarmi lì, nell'ala delle prigioni, e men che meno a notte inoltrata.
Con una mano sollevai l'orlo della mia veste da camera e cercai di avanzare silenziosamente lungo il corridoio. Temevo che qualcuno potesse scoprirmi, e nonostante continuassi a ripetermi che avevo tutti i diritti di camminare per il mio palazzo, sapevo che la realtà era ben diversa.
Da qualche parte nell'oscurità giunse un fruscio ed io mi bloccai all'istante, pronta a tornare sui miei passi; subito dopo però udii un grugnito assonnato, e compresi che doveva essere stata una delle guardie che riposavano nel dormitorio che si apriva poco più avanti.
Ancora una volta maledissi la mia decisione avventata.
Dopo la spedizione per la rettifica dei confini, avevo rimuginato a lungo sulla mia decisione, cercando il modo migliore per parlare con la prigioniera prima che tornasse mio marito.
Sapevo che dovevo innanzi tutto scoprire dove fosse rinchiusa, e che solo successivamente avrei potuto dedicarmi ad escogitare un modo per sfuggire ai controlli serrati di Galmar e Ioreth.
Pur avendo vissuto a Daggerfall ed assistito ad alcuni intrighi di corte , avevo pochissima esperienza con tutto quello che comportava segretezza ed astuzia.
Ed a tal proposito, Mirala si era rivelata una risorsa preziosa ed indispensabile.
A Galmar poteva essere stato ordinato di tenermi sempre d'occhio, ma nemmeno lui aveva il permesso di osservarmi quando mi ritiravo per la notte.
Nella riservatezza della mia stanza avevo parlato alla mia vecchia balia, spiegandole in che modo intendevo aggirare i divieti di mio marito
All'inizio Mirala si era rifiutata di prendere parte alla mia follia; secondo lei quelle bravate erano una cosa da fanciulli, ed una donna sposata non avrebbe mai dovuto nemmeno pensare a simili sciocchezze.
“Come posso adempiere al mio ruolo, quando vengo tenuta all'oscuro di quello che accade nella mia città?” Le dicevo ogni volta che mi capitava di parlarle da sola, ed alla fine la mia vecchia balia aveva acconsentito, seppur controvoglia.
Era stata lei a procurarmi dell'olio Cyrodiilico per non far cigolare i cardini ed i chiavistelli della mia porta, e sempre lei aveva scoperto per me il braccio dove era rinchiusa la donna che aveva cercato di avvelenarmi.
In qualche modo che si era rifiutata di rivelare, era riuscita a corrompere l'uomo che montava la guardia notturna alle celle, e mi aveva istruita a lungo sul percorso che avrei dovuto seguire per raggiungerle.
E così, dopo molti attimi di indecisione e tentennamenti, avevo approfittato dell'unico istante in cui mi ero sentita un po' più coraggiosa ed avevo lasciato la mia stanza alla quarta ora dopo il tramonto.
Avevo abbandonato l'ala degli appartamenti reali temendo di poter sentire improvvisamente il passo pesante do Galmar alle mie spalle, ed avevo attraversato il Palazzo dei Re evitando quei corridoi che passavano davanti alle stanze dove dormivano i servitori, o dove pensavo avrei potuto trovare qualcuno ancora sveglio.
Ad ogni passo, ogni angolo ed ogni svolta sentivo aumentare l'inquietudine ed il timore di venire scoperta. Non mi ero mai avventurata in quella parte del palazzo ad eccezione di un'unica volta, poco dopo il mio arrivo a Windhelm, quando mio marito mi aveva scortata laggiù perché porgessi i miei saluti alle guardie delle prigioni.
Ma allora ero vestita, e non in camicia da notte.
Sgattaiolai silenziosamente davanti alla porta socchiusa delle camerate, trattenendo il respiro mentre il cuore mi martellava nel petto, con tanta forza da farmi temere che qualcuno potesse udirlo e scoprirmi.
Cautamente mi avvicinai alla scalinata che portava alle prigioni, chiedendomi distrattamente se Mirala non avesse pagato anche i servitori per tenerli distanti, dal momento che non avevo incontrato nessuno sul mio cammino.
Con una mano sollevai l'orlo delle gonne e scesi i gradini di pietra, bene attenta a non emettere suono, ed al primo passo una delle mie caviglie emise un piccolo schiocco che mi raggelò sul posto
Mi immobilizzai per un istante, stringendo spasmodicamente lo scialle con una mano e tendendo le orecchie, ma dietro di me non giunse alcun rumore, e così decisi di continuare.
Oramai ero vicina, e non potevo certo tirarmi indietro, sebbene la parte più prudente di me non faceva che suggerirmelo sin dal momento in cui avevo messo piede fuori dalla stanza.
E se proprio dovevo compiere una simile sciocchezza, perché diamine non avevo pensato a vestirmi, per gli Dei?
Scrollai il capo per allontanare le mie titubanze, e quando raggiunsi il fondo della scalinata mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, posando una mano sulla porta di ferro e legno che mi si parava davanti.
Le vecchie strisce di metallo erano leggermente arrugginite sui bordi, ed alla luce incerta delle torce le grosse teste tondeggianti dei chiodi che le fissavano al legno massello parevano piccoli occhi bulbosi, che mi osservavano con riprovazione.
Feci scorrere le dita sul battente, fino a che non trovai un grosso anello di ferro che fungeva da maniglia. Il metallo era gelido, ma io lo afferrai comunque e tirai con tutte le mie forze; Mirala mi aveva detto di essersi accordata perché la porta restasse aperta. Non mi aveva avvisata, però, che la porta sarebbe stata tanto pesante.
Con un certo sforzo riuscii ad aprire uno spiraglio, e non appena lo giudicai abbastanza largo scivolai all'interno.
La prima cosa di cui mi accorsi fu la ventata di freddo umido che mi accolse, una carezza che sapeva di luoghi chiusi e muffa, come se respirassi all'interno di una grotta sotterranea, con una nota dolciastra e sgradevole che non riuscii ad identificare.
Subito dopo venne una luce tremante ed un'ombra imponente, ed un uomo con la divisa delle guardie emerse da un angolo buio.
Colta di sorpresa sobbalzai e mi strinsi lo scialle addosso, ma il soldato non fece una piega e levò meglio la torcia che reggeva in mano, per scrutarmi in viso.
“Toh. L'Altmer aveva ragione, allora.” Borbottò, ed io sentii una calda ondata di sollievo pervadermi il corpo. Doveva essere l'uomo di cui mi aveva parlato Mirala. “Siete qui per la figlia di Soren?”
“Sono qui per vedere una prigioniera. Credevo che la mia cameriera...”
“Mi ha detto tutto.” Mi interruppe sgarbatamente la guardia, facendomi un cenno verso l'arco di pietra che si apriva alle sue spalle. “Volevo solo esserne certo. Da questa parte.”
Senza curarsi di vedere se lo seguivo o meno, il soldato mi voltò le spalle e cominciò a marciare lungo i cunicoli delle prigioni.
Il pavimento di pietra era irregolare, come se fosse stato appena ricavato dalla roccia e nessuno avesse avuto intenzione di appianarlo. Ogni cinquanta passi si trovava un corno di bue riempito di grasso, infilato in un sostegno di metallo fissato al muro, che spandeva una debole luce e produceva un filo di fumo nero, che macchiava a chiazze il soffitto.
Quei deboli lumi mi permettevano di scorgere le celle che si aprivano sui due lati del nostro passaggio, simili a bocche mostruose irte di denti di metallo. Alcune erano occupate, ma molte di quelle che vidi erano vuote o ingombre di mucchi di paglia, secchi maleodoranti e nugoli di piccole bestie dagli occhi luminosi che si contorcevano nel buio.
“Sono solo topi, Signora.” Mi disse l'uomo, quando uno di quegli animali mi passò squittendo su un piede, facendomi sobbalzare. “Infestano tutte le prigioni. Nei livelli inferiori abbiamo anche degli Skeever, ma non salgono mai quassù.”
Rabbrividendo di disgusto mi feci più vicina alla guardia, sollevando leggermente l'orlo della vestaglia per evitare che strusciasse in terra. Intorno a noi si sentiva solo lo squittio dei topi ed il russare dei prigionieri; da qualche parte in lontananza c'era dell'acqua che stillava, una goccia dopo l'altra, in un modo che alla lunga non poteva che risultare snervante.
“Ho spostato la Sorensdottir in una cella lontana dalle altre, così che possiate fare quello che desiderate.” Mi disse all'improvviso la guardia, in un mormorio ruvido che superava di poco i rumori della prigione. Si era fermato davanti ad un arco di pietra, e mi tendeva la torcia che fiammeggiava nella sua mano.“È più avanti, lungo questo corridoio. Io mi fermo qui, ma se doveste avere bisogno non dovete fare altro che chiamarmi.”
Presi la fiaccola dalle sue mani, e dopo avergli assicurato che lo avrei chiamato nelle peggiori evenienze mi avventurai nel passaggio scavato nella viva roccia.
Era un cunicolo diverso dagli altri, perché procedeva per un buon tratto senza avere celle sui due lati, ma solo pareti irregolari e ganci metallici da cui pendevano catene e corregge di cuoio. Sul fondo, subito dopo un grosso corno dalla fiammella danzante, si aprivano due sole cavità, l'una di fronte all'altra, chiuse da delle grate.
Una era vuota, e la porta era spalancata, ma l'altra era serrata ed occupata da qualcuno che sedeva raggomitolato su un mucchio di paglia.
Dovetti battere leggermente sulle sbarre ed alzare un poco la voce, ma dopo qualche attimo il prigioniero sollevò il capo, ed alla luce delle torce vidi che era una donna dai lunghi capelli aggrovigliati.
Mi fissò per qualche istante, come se fosse confusa dalla mia presenza, ma alla fine mi rivolse un sorriso di scherno e si mise a sedere in mezzo alla paglia.
“Milady. Quale onore.” Disse in tono tagliente, ghignando in modo orribile. “Siete venuta qui per gongolare davanti ad una prigioniera?”
Strinsi le labbra, levando un poco la torcia che reggevo in una mano. La donna aveva un aspetto lurido ed un'espressione sfacciata, e pareva più giovane di quanto avessi immaginato; non dimostrava che una manciata di anni più di me.
“Non sono qui per gongolare.” Ribattei, cercando di assumere il tono più duro di cui ero capace. “Dicono che mi hai avvelenata. È vero?”
La donna inclinò il capo e mi rivolse un sorriso di superiorità, grattandosi impudicamente un seno sotto gli stracci che indossava.
“Non vi ho avvelenata. Vi ho solo dato una pozione abortiva. Nulla che una donna con un po' di sale in zucca non sappia preparare.” La vidi fare una smorfia ed agitare improvvisamente una mano, e qualcosa nell'angolo della sua cella fuggì squittendo.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena, insieme ad un preoccupante pizzicore agli occhi.
Una pozione abortiva. Dunque non era stato il mio corpo ad esser troppo debole per la gravidanza.
“Perché?” Le domandai, incapace d aggiungere altro, e nell'oscurità la donna si levò con un grugnito.
“Siete davvero così stupida?” Mi sibilò con astio, raggiungendo le sbarre ed appoggiandovisi di peso. “O forse siete solo ignorante?”
“Non osare...”
“Cosa, parlarvi così?” La donna sbottò un una amara risata, che le scosse le spalle magre. “Io sono già condannata. Credete che un insulto in più o in meno possa cambiare la mia situazione? Lo Jarl mi ucciderà comunque.”
Strinsi le labbra, non sapendo cosa dire. Ero indignata, infuriata con lei per quello che mi aveva detto e per il tono che aveva usato. In quel momento pensai che, se mio marito l'avesse davvero uccisa, non mi sarei sentita per nulla afflitta dalla sua morte.
“Perché lo hai fatto?” Le domandai ancora, stringendo lo scialle nel pugno.
“Allora siete davvero idiota.” Sbottò la donna, rivolgendomi un ghigno sprezzante. “L'ho fatto per il mio uomo. Per Halfdan.”
Sentii una vaga inquietudine al suo di quel nome, e dopo qualche attimo mi ricordai dove lo avevo già sentito. Era così che si chiamava il carrettiere che riceveva regali dalle scorte del Palazzo dei Re, e di cui nessuno voleva parlare.
“Chi è Halfdan?” Chiesi, sentendo con irritazione un tremore nella mia voce. Non potevo davvero permettermi di cedere in quel momento.
“Mi state dicendo che lo Jarl non vi ha parlato di lui?” La donna sbottò in un'altra risata, scuotendo il capo e facendo frullare le luride ciocche che le pendevano sulle spalle. “E scommetto allora che non vi ha detto nulla nemmeno degli altri. Ah, davvero un grand'uomo, il nostro Signore!”
“Chi è Halfdan?” Ripetei con maggior enfasi, agitando la fiaccola e facendo fuggire le ombre davanti a me. “E cosa ha a che fare con mio marito?”
“Provo quasi pena per voi, sapete?” La donna sospirò e mi guardò con finto dispiacere. “Mia povera cara. Cosa ha a che fare il mio uomo con vostro marito? Provate ad usare la vostra bella testina.” Si batté l'indice sulla sommità della testa, sorridendo con aria di scherno, ed io sentii montare l'irritazione.
“Chi...” Ripresi, ma la donna mi precedette, gelandomi sul posto.
“È suo figlio.” Esclamò con una smorfia, fissandomi con determinazione attraverso le sbarre. “Il suo primo figlio maschio. Ed ora lasciatemi dormire. Sono stanca delle vostre domande.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 


Finalmente sono riuscita  a finire il capitolo!
Non è stato facile, perché Lirael sta crescendo lentamente, e mentre Ulfric ha già dei modi ben definiti, il suo carattere si deve ancora formare.
Mi sarebbe piaciuto dilungarmi sulla sua piccola spedizione fuori dalla città, ma mi sono resa conto che sarebbe stato un inutile dilungarsi, che non avrebbe aggiunto molto alla storia, così magari ne parlerò brevemente nel prossimo capitolo.
La sua visita alle prigioni sa un po' di bravata adolescenziale, ma Lirael è una ragazzina, ed a diciotto anni si ha quel coraggio un po' idiota che porta a fare delle sciocchezze.
Ho voluto andarci piano con i personaggi di Solitude, perché so che gettare tanta carne al fuoco li avrebbe fatti scordare tutti nel giro di poco tempo. Così, per adesso avete incontrato solo Torygg; ho volutamente cercato di renderlo sin dall'inizio più “Imperiale”, meno tradizionalista di Ulfric e sicuramente più giovane, in accordo con quei dialoghi del videogioco in cui i personaggi si riferiscono a lui come a “il ragazzo”. Più avanti farò comparire anche la bella Elisif e l'attuale Re dei Re, ma un poco per volta.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > The Elder Scroll Series / Vai alla pagina dell'autore: afep