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Autore: Blood Candy    01/06/2015    0 recensioni
Un avvenente ricco avvocato, giovanissimo, per una questione d'affari si trova a bere con un cliente in un bar. Qui rimane colpito dallo stile audace e speciale di un cameriere, e decide, per sfida personale, che riuscirà a conoscerlo e nel migliore dei casi stringere amicizia con lui...
Genere: Fluff, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brendon Urie, Ryan Ross
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9 – Northern Downpour sends its love

 
Infine la ritrovai la strada per casa, grazie alla spontanea gentilezza degli abitanti della zona.
Sembrerà insulso, ma rimasi estasiato ed intrigato dalla naturale amichevolezza che trovai in quei quattro bambini che mi accompagnarono sino al centro della città quasi, interrompendo per me i loro giochi e tardando a rincasare!
Ma un nuovo dì era iniziato, e dopo tempo quella mattina feci colazione nella mia vecchia, grande dimora.
Mi diressi perciò lento verso la cucina, e scompostamente mi accasciai su una sedia, indossando ancora il pigiama.
Avrei dovuto lavorare, probabilmente, ma quella primavera che avanzava mi aveva reso un incosciente immaturo, privo della benché minima voglia di impegnarsi, ed allora procrastinai per l’ennesima volta.
Non riuscii neppure a sentirmi in colpa per ciò che stavo facendo, tanto era piacevole quel dolce ozio a cui già da tempo mi ero liberato.
Mentre cominciavo a sorseggiare il mio tè e finché ascoltavo il pane friggere nella padella sul fuoco, ripensai alla giornata passata: ero stato davvero bene.
Quando poi mi chiesi per quale ragione non avessi la mattina precedente, mentre elencavo tutte le persone con cui avrei gradito passare la giornata, pensato a Ryan, e la risposta quasi mi divertì: “non avremmo avuto molto da dirci” ; come sbagliavo!
Il pomeriggio passato infatti avevamo, soprattutto durante il tragitto verso casa sua, discusso dei più svariati e strampalati argomenti!
Infatti, seppur non avessimo molto in comune quanto a interessi, io e Ryan riuscivamo a divertirci con poco, a ridere per nulla; quando scherzavo con lui non m’interessava di mantenere un’apparenza seriosa, anzi: quando ero con lui la mia mente dimenticava ciò che con gli anni aveva imparato e tornava ad essere quella di un bambino di sei o sette anni, privo di preoccupazioni, affanni o timori, e dalla risata sincera.
Sì, quando stavo con lui il mio animo s’alleggeriva più di quanto già non fosse (dal momento che la mia vita non stava andando male affatto, prima di incontrarlo): avevo trovato proprio un buon amico.
E adoravo quell’amicizia, quell’amicizia fatta di battute insensate e infantili, condita con gesti sconsiderati e dolore agli zigomi per i troppi sorrisi; la adoravo perché non necessitava di niente, e le differenze socioeconomiche tra noi erano annullate.
Quella mattinata passò lenta dal momento che, preso da un senso del dovere immotivato, decisi di lavorare con impegno e zelo.
E mi impegnai davvero!
In un manciata d’ore ero già giunto a metà di ciò che dovevo fare per il caso del signor Wentz, quando mi diressi in cucina per preparare un pranzo di fortuna. Non ero mai stato un grande cuoco.
Avrei fatto meglio ad arrivare in anticipo al bar, pensai, dal momento che solitamente ero ritardatario.
Così mangiai quello che trovai in dispensa: pane, affettati, carne in scatola e formaggio; non il più salutare dei pasti certo, ma dal momento che il mio stomaco era pieno andava più che bene.
 
Nel tragitto verso il bar pensai un po’ a dove si sarebbe potuto trovare il famigerato giradischi, poiché da quando avevo capito la nostra meta non era la casa di Ryan, ma non ebbi neppure il tempo di pensare a cinque possibilità che già ero arrivato, e vidi ferma ad aspettarmi poco distante la sagoma di Ryan. Ero forse, ancora una volta, in ritardo?
Eppure m’ero ben accertato di partire con un buon anticipo! Com’era possibile?
Mi scrutai attorno alla ricerca di un orologio, ma non ne trovai, così mi diressi verso lui.
«Oh Capo! È già qui?» a quanto pare non ero in ritardo, ma anzi in anticipo.
Non avrei potuto porre la medesima domanda io? Meglio tacere.
«Buongiorno! Sai, temevo di arrivare tardi come al mio solito quindi ho preferito partire presto»
Distolsi poi il mio sguardo dal suo e lo lasciai scivolare sul la busta di carta che stringeva in mano: uno di quei sacchetti che usano le panetterie per il pane, tutto stropicciato e logoro, e da un bordo vidi sporgere il cartone viola del disco.
«Andiamo?» chiesi poi, tornando a guardare Ryan in faccia.
Il suo sguardo era basso quando feci la domanda, e guardava distrattamente un punto qualunque del terreno: stava pensando.
Si riscosse, e raddrizzandosi mi guardò «Certo Capo»
Ci dirigemmo quindi verso la sconosciuta meta, che si rivelò essere non così distante.
Il tragitto fu silenzioso, tantoché mi sentii tentato di parlare per cacciare l’imbarazzo che sentivo crescere in me, ma non ebbi ragioni per attaccar discorso così rimasi zitto.
Rimasi rinchiuso in quel silenzio infatti fino a che non arrivammo accanto ad una torre d’orologio, piccola come una formica a confronto del maestoso big ben che contava le ore alle nostre spalle, e a quel punto sentii la necessità di chiedere perché fossimo lì.
«Beh Capo, le do il benvenuto nel mio personale rifugio! È capace ad arrampicarsi, vero?» guardai velocemente la torre e subito scorsi una serie di mattoni decorativi sporgenti, e seguendo questi poco più in alto vidi una finestra spalancata, e non ebbi bisogno di domandarmi altro.
«Da bambino ero piuttosto bravo, penso di riuscirci ancora, ad ogni modo»
Lo interruppi prima che mi rispondesse, e tentando uno sguardo complice dissi sottovoce «Ho capito cosa c’è da fare, tranquillo»
Di rimando lui mi sorrise e con un piccolo «Okay» assicurando alla giacca il disco, dopo aver ispezionato il luogo attorno a lui, iniziò a scalare.
S’arrampicava come un gatto su un albero: con una grazia innata, ed una volta in cima, agile come una gazzella saltò oltre la finestra, da cui agitando un braccio mi fece cenno di raggiungerlo.
Non indossavo abiti adatti per arrampicarmi, ma non era colpa mia: quando una persona ti domanda di uscire per aspettare musica non t’aspetti di certo di dover scalare una torre!
Poi realizzai che la soluzione migliore era nascondere tutto da qualche parte lì vicino, e riprenderlo una volta disceso.
Guardandomi intorno trovai un cespuglio poco distante, e decisi di lasciare lì il tutto, quindi finalmente salii.
Mi fu semplice, a dire il vero: con i miei piedi piccoli non avevo difficoltà ad appoggiarmi stabilmente sulle mattonelle, ed in un batter d’occhio ero su.
Ryan mi aiutò ad entrare, dopo aver osservato tutto l’avvenuto – che comprendeva solamente il nascondere giacca e cappello e l’arrampicata, in fin dei conti – dalla finestra.
Le sue grandi mani fredde rinchiusero le mie in una morsa, e mi trascinarono dentro una stanza impolverata e vuota.
Il pavimento di legno era ricoperto da un piccolo strato di polvere chiara, ed il pulviscolo s’intravedeva non solo attraverso i pochi raggi di sole che entravano ma ovunque, mentre un vecchio grammofono solitario era il solo abitante di quel luogo.
Era così affascinante!
«Ecco Capo: le do il benvenuto nel mio misero rifugio» agitando le braccia attorno a sé sposto il pulviscolo che volava nell’aria, e ad ogni passo spostava un grande strato di polvere da terra.
Camminò in cerchio nella piccola stanza, ed una volta tornato al punto da cui era partito, continuò.
«So che non è niente, cioè, uhm…è piccolo e vuoto qua e pure, ehm..polveroso, ma non c’è mai nessuno quindi…sì ecco, mi piace» si diresse verso il grammofono a grandi passi.
«È carino qua, così isolato. Molto pittoresco poi il giradischi. Mi piace» contemplai io, guardandomi attorno e spostandomi lentamente in giro.
«Oh, sono contento che le piaccia allora»
Mi rivolse un rapido sorriso, e poi una delle sue grandi mani delicate alzò la puntina, che pareva sparire accanto alla maestosità del suo palmo.
Il vinile nero ed immacolato del disco nuovo intanto rifletteva i timidi raggi di luce, tenuto dalla grande mano sinistra con visibile prudenza, mentre tutt’attorno la polvere era padrona.
Sul viso di Ryan era costante un sorriso emozionato, che mi ricordò quello di un bambino a Natale, ed in quel momento il disco si adagiava sul piatto.
I piedi di Ryan si allontanavano dal giradischi, e nel contempo la puntina lentamente cadeva e rimbalzava lievemente sul vinile nero.
Gli occhi di Ryan poi si chiudevano, ed un scricchiolio proveniva dal grammofono.
E finalmente la musica partì.
Il ragazzo rimase fermo, e sotto la camicia un po’ troppo larga percepii i muscoli che si rilassavano.
Le braccia lunghe e pesanti caddero lungo i fianchi, ed il suono di una chitarra si diffuse nell’aria.
Una chitarra solitaria, che ripeteva i medesimi due accordi, eppure mi pareva così bella, in quel momento.
Poi attaccò il pianoforte, ed allora Ryan si voltò, riaprì gli occhi e mi guardò.
Io però ero concentrato ad osservare quelle braccia lunghe, quelle gambe troppo magre, quelle mani venose eppure tanto graziose; ero troppo concentrato ad osservare tutto ciò per accorgermi che sul suo volto stava comparendo un sorriso sbilenco, o per rendermi conto che si stava passo dopo passo avvicinando a me: ormai il mio sguardo non guardava più tutto ciò, ora osservava il nulla, un punto sfocato tra le assi di legno del pavimento.
Poi arrestò la camminata, stando distante un manciata di centimetri da me; eppure ancora non mi ero svegliato da quel torpore di pensieri che mi avvolgeva.
«Capo?» chiamò «Capo è ancora qui?» il sorriso si trasformo in una piccola muta risata, mentre avvicinava una mano al mio volto.
Intrecciò due delle lunghe dita, ed io già mi stavo riscotendo.
Poi fece uno schiocco; «Déjà-Vu» disse.
Rialzai il mio sguardo mentre tentavo di mettere a fuoco il mondo attorno a me, e mi scappò una risatina.
Ci guardammo qualche istante negli occhi, entrambi alla ricerca di qualcosa da dire, perché nonostante la musica colmasse tutta la stanza, era presente la terribile sensazione di imbarazzante silenzio che avviene ogni qual volta la conversazione muore. Quella volta, a dire il vero, non era mai iniziata la conversazione.
«Sì?» domandai allora, in risposta al precedente richiamo.
Ryan esitò, come se fosse stato perso in pensieri, o come se avesse scordato tutto ciò che era accaduto pochi secondi prima, ed il suo volto fu per un attimo perso, ma una volta ripresa coscienza di cosa stesse succedendo il sorriso sbilenco ricomparve.
«Mi chiedevo… - disse, roteando lo sguardo in giro, mentre gesticolava in modo disordinato, - Sì ecco, mi chiedevo se…»
Fece poi una profonda riverenza, tentando d’imitare una di quelle dame di corte dell’ 800, con i riccioli bianchi raccolti alti sopra la nuca, e osservando la mia anima attraverso i miei occhi chiese «Mi concede questo ballo? »
Rise.                                                                                                
Non una risata esagerata, però; era una contenuta risata, strozzata alla fine, come se avesse tentato di celarla.
Era una bella risata.
Atteggiandomi allo stesso modo gli risposi, mentre lasciavo che la mia mano cadesse nella morsa della sua «Sarebbe un onore!»
Iniziammo a roteare, simulando un maldestro valzer, mentre lui mi stringeva debolmente a sé.
Il suo respiro vagamente affannato mi accarezzava i capelli, e in quel momento mi sentii piccolo, e sicuro.
Con l’alto soffitto che si estendeva sopra di noi, l’aria colma di quella chitarra, di quel dolce pianoforte, e le mie mani che sembravano minuscole rinchiuse nelle sue: mi sentii come un piccolo pesce, un’alice nell’immenso oceano, ma stavo bene.
Roteavamo in ampie piroette, calpestando ogni centimetro del pavimento, ogni asse di legno rozzo che lo componeva che di tanto in tanto scricchiolava, e le nostre risate quasi coprivano la musica.
Andammo avanti per un minuto intero, e più la musica incalzava, riempiendosi di percussioni ed altri strumenti a me ignoti, più io sentivo crescere in me qualcosa.
Ho sempre avuto reazioni teatrali, e in quel momento, con quella musica, in quel luogo, mi sentii sommergere da un’emozione confusa o forse semplicemente sconosciuta a me.
Al mio interno all’altezza dello stomaco sentii una morsa, come quella che si prova quando si è coscienti che una lunga attesa sta finendo e che finalmente sarà possibile vedere ciò che s’era aspettato, e un grande calore mi si disperdeva nel corpo.
Le sue mani erano fredde, a confronto delle mie, e mi impedivano di sudare.
Il mio cranio invece si faceva pesante, e trovò appoggio nel petto di lui, mentre lentamente rallentavamo.
Sentii Ryan allontanare il suo petto da me (lasciando per un istante la mia testa penzolare), mollare la presa sulle mie mani e fermarsi.
L’aria calda del suo respiro vagamente affannato non mi soffiava più sul collo, e sentii la musica di nuovo; perché, mi resi conto, non avevo ascoltato pressoché nulla.
Prese fiato, e poi parlò: «Lo sa – trasse un respiro e continuò –Lo sa Capo che ho scritto un…uhm sì, un testo, per questa musica?»
Caricò le parole di un grande entusiasmo e terminò «Vuole sentire?»
I nostri sguardi si incrociarono e noi rimanemmo immobili là, al centro di quel rifugio polveroso.
«Certo!» esclamai dopo pochi secondi, per saziare i suoi occhi desiderosi di una risposta.
Ryan quindi tese le orecchie, ed io mi chiesi se anche lui non avesse ascoltato la musica come me, se anche lui provasse quella piacevole confusione.
Una volta poi identificata la parte del brano che suonava, traendo un bel respiro, cominciò a cantare con enorme concentrazione.
«…Hey, moon please forget to fall down; Hey moon, don’t you go down…»
Un gran sorriso gli comparve in volto, e appena riaprì gli occhi il suo sguardo cercò segno d’approvazione nel mio, e così sorrisi.
«Sugarcane in the easy mornin'
Weathervanes my one and lonely
» continuò lui.
La sua voce era bassa, calda, rilassante.
Quel tipo di voce che la sera in inverno, mentre tu sei intrappolato nel calore della coperta, ti canta una lenta ninna nanna tramandata di generazione in generazione, sopravvissuta alle peggiori carestie, e stai pur certo che la dormita che seguirà riserverà un sogno dolce come il glicine.
Quel tipo di voce distante e nostalgica, quasi annoiata.
Un tipo di voce che avrei potuto ascoltare per intere ore.
Lo osservavo con un sorriso inebetito in volto e lui guardava altrove, oltre ciò che è visibile. Lui guardava il nulla, tanto era concentrato.
Poi i suoi occhi ricalibrarono, rimisero a fuoco e mi squadrarono, lì immobile a guardare in silenzio, e ricaddero a mirare alle assi di legno mentre un sorriso imbarazzato gl’incurvava le labbra.
Smise di cantare, ed iniziò ad ondeggiare lievemente a tempo.
«Oh, sta arrivando il finale – di già? Il tempo pareva essere volato – potrebbe cantare questo pezzo…cioè, il pezzo che…il pezzo che ho appena cantato io. Lo potrebbe cantare? Perché sa, le voci si sovrappongono e - » s’interruppe.
«E…?»
«È il momento! Sugarcane…»
Mi attaccai a lui ed iniziai a cantare.
Dicevano fossi bravo a cantare.
Ryan immobile mi fissava, e con uno sguardo stupito lasciò trapelare dalle sue labbra un piccolo, timido “wow”.
Lo interrogai con gli occhi. “Allora?” domandavano “Non dovevi cantare?”.
E subito lui si riscosse, e cantò.
Io dicevo “Sugarcane” e lui s’infilava con un “Hey moon”.
Poi dicevo “In” e lui “Hey moon”.
Poi dicevo “Whenevers” e lui di nuovo “Hey moon”.
“My” e “Hey moon”.
La seconda volta poi, al mio “Sugarcane” lui disse “Hey moon please forget to fall down”.
“Whetevers” e “Hey moon don’t you go down”
E le nostre voci s’intrecciavano perfettamente, come se fossimo nati per quello: per cantare, in quel luogo, in quel momento, quelle parole; era perfetto. Eravamo perfetti.
Riprendemmo a ballare, stretti come mai, e sentivo le sue costole premere sul mio torace, il suo gomito ossuto schiantarsi contro il mio, e subito l’emozione sconosciuta tornava.
Poi tutto svanì nella chitarra solitaria, e tacemmo.
Il disco gracchiò un paio di volte, e infine ci fu silenzio.
L'unico rumore era il nostro fiato, ed i pensieri.
Attaccati uno all'altro tenevamo gli sguardi bassi, nell'ombra, lontani dalla flebile luce filtrata dalla finestra.
Troppo imbarazzati per muoverci, o aprire bocca.
Poi mi accorsi del suo cuore che pulsava veloce nel mio orecchio, che si amplificava nelle mie ossa, ed il mio battito si sincronizzava con il suo in una musica nuova.
Per quasi un minuto rimanemmo lì, a contemplare i piccoli suoni silenziosi, ed infine trovammo coraggio.
Simultaneamente alzammo lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono.
Era tutto come prima.
La musica del nostro cuore, e la danza dei nostri sguardi. Tutto uguale a prima, ma il grammofono era spento ed i nostri corpi immobili.
Le labbra di Ryan si mossero lievemente, e si richiusero subito dopo.
Eravamo bloccati in quel momento di stallo.
Spostare lo sguardo sarebbe stato maleducato, mantenerlo semplicemente imbarazzante. Cosa fare?
L'attrazione tra noi era reale, ed era inutile nasconderlo. Ma io non sapevo. Era giusto? No, di certo no! Non andava bene. E poi a me piacevano le donne, prova ne erano le mie precedenti relazioni.
Non che fossi irrispettoso nei confronti delle persone così, sia chiaro, solo che gli uomini non facevano a caso mio, credo.
Tanta era la confusione che provavo che ogni possibilità poteva essere certezza.
La schiena di Ryan lentamente si curvò, ed il suo viso si avvicinò al mio.
Le nostre labbra, distanti sempre meno.
I nostri occhi intrappolati in quello sguardo.
E noi, bloccati in un mondo parallelo, lontani da ogni suono, spazio e tempo.
"Al diavolo" pensai "Vivo solo una vita". E chiusi gli occhi.
«OH CIELO!»
No. No. No.
Per favore, no.
   
 
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