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Autore: Piperilla    06/06/2015    1 recensioni
Antonia e Federica non hanno nulla fuori dall'ordinario - tranne forse il nome della prima - e vivono come qualsiasi altro ventiduenne: per la maggior parte dell'anno casa, università, uscite con gli amici e qualche lavoretto part time di tanto in tanto. Anche le vacanze sono sempre le stesse: nascoste in un paesino pressoché sconosciuto dell'Abruzzo con altri amici d'infanzia ad ammazzare il tempo con i falò notturni, i tornei di carte e qualche volta troppo alcool. Come si è detto: nulla fuori dall'ordinario.
Almeno fino a quando non si scontreranno con le inaspettate conseguenze di una scelta a prima vista solo un po' azzardata.
[Il rating potrebbe salire]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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Dopo quel primo, coraggioso attacco – terminato con lo sterminio quasi totale di quel contingente di Orchi – Antonia e Federica erano state inserite di diritto nella squadra d’assalto del palazzo: ormai da quattro mesi, ogni giorno uscivano dalle mura sicure del palazzo per respingere e decimare gli Orchi, impreparati ad affrontare nuovamente simili offensive.
   Il tempo passato al castello era altrettanto produttivo: seguendo gli insegnamenti di botanica di Mastro Devall, Antonia aveva scoperto che a rendere le piante dello Staudeheim resistenti ai terremoti era la linfa di un piccolo cespuglio dalle bacche giallo pallido che cresceva avvinghiato a ogni altro esemplare vegetale e che, se estratta e bollita, diventava una gomma facilmente modellabile. Appurato che era proprio quella linfa ad assorbire e annullare le vibrazioni, e seguendo l’intuito e conoscenze a cui non aveva mai dato grande peso, la ragazza aveva convinto gli artigiani dei vari villaggi a creare dei reticolati con questa gomma e impiantarli pochi centimetri sottoterra: questa trovata aveva fatto sì che la stragrande maggioranza dei sismi non arrivasse più in superficie. L’altra astuta mossa era stata quella di creare con la stessa gomma le suole delle scarpe, dimodoché, durante gli scontri con gli Orchi nei territori ancora non “bonificati”, i soldati non soffrirono più lo svantaggio della perdita d’equilibrio causata delle incessanti martellate dei nemici sul terreno.
   In breve, Antonia divenne indispensabile. Il suo parere era sempre richiesto, la sue idee subito messe in pratica; il principe la cercava spesso, per discutere del regno e non solo, e la ragazza si era scoperta avida del tempo passato con lui, desiderosa di ottenere i suoi sguardi, i suoi sorrisi, la sua approvazione.
   Il coraggio con cui lei e Federica si gettavano nella mischia era un ulteriore motivo di fiducia per chi combatteva al loro fianco. Persino Grant si era ricreduto: adesso discuteva spesso di strategia con le ragazze, e pianificava con loro ogni assalto.
   Entrambe avevano scoperto di possedere un innato talento nel tiro con l’arco: era diventata la loro arma preferita, e permetteva loro di abbattere gli Orchi anche da grandi distanze. Antonia aveva anche scoperto il piacere del cavalcare a dorso di lupo: trovata un’affinità inaspettata con un lupo non del tutto domato che nessuno osava cavalcare, e conquistata la fiducia dell’animale, aveva imparato cosa significasse sentirsi un tutt’uno con la propria cavalcatura. Nebbia – così l’aveva chiamato, a causa del mantello di un grigio chiarissimo e del passo leggero e felpato – era diventato il suo fidato compagno: insieme avevano attaccato alle spalle decine di Orchi, insieme e separatamente. I lupi giganti dello Staudeheim, infatti, essendo gli unici animali in grado di sbranare gli Orchi, erano i loro nemici naturali: dunque capitava spesso che, raggiunto il campo di battaglia, Antonia liberasse Nebbia dei finimenti, permettendogli così di sbranare i nemici mentre lei li bersagliava con le proprie frecce.
   In quattro mesi, Antonia era diventata una leggenda vivente.

*

   Quella giornata si prospettava essere una delle peggiori in assoluto: arrivati al punto stabilito, i soldati di Baumann avevano scoperto che gli Orchi erano molto più numerosi di quanto credessero; ed essendo già stati visti dai nemici, non potevano ritirarsi e riorganizzarsi.
   Smontata di sella, Antonia aveva ridotto i finimenti a un semplice collare e lasciato Nebbia libero di saltare alla gola dell’Orco più vicino; affiancata Federica, aveva toccato le due fasce di stoffa che portava a tracolla, trasformandole in uno splendido arco d’argento e in una faretra dello stesso materiale colma di frecce scintillanti.
   «Pronta, Fede?» chiese, scoccando la prima freccia dritto nell’occhio di un Orco.
   «Sempre» rispose l’altra, piantando a sua volta una freccia nella fronte di un nemico. «E mai» grugnì, colpendone un secondo che si avvicinava minaccioso ad Alec.
   «Abbattiamone più che possiamo e ritiriamoci!» urlò Grant: erano in venti contro almeno cento Orchi, e non voleva perdere nessun uomo.
   «Pensi davvero che ce lo lasceranno fare, Jonas?» gridò Antonia in risposta.
   Grant non rispose, troppo occupato a infilzare ripetutamente un Orco allo stomaco. A Jonas il coraggio non mancava, ma era finito troppe volte in scontri impari e sapeva che, a meno di andarsene alla svelta, qualcuno di loro sarebbe caduto sul campo. Le due ragazze – che mai avevano assistito all’orrendo spettacolo del martello di un Orco che si abbatte su una persona – non riuscivano a percepire come tangibile un simile rischio: fino ad allora l’avevano sempre spuntata, ed erano certe che ce l’avrebbero fatta anche quella volta.
   Sterminato un buon terzo degli Orchi presenti Grant ordinò la ritirata solo per vedersi sbarrare la strada. I suoi peggiori timori si stavano avverando: rischiavano di essere sopraffatti.
   «Antonia, Federica, dobbiamo andarcene!» urlò Jonas.
   «Nebbia!» gridò Antonia, richiamando il lupo; anche gli altri richiamarono i propri, e li aizzarono contro gli Orchi mentre loro stessi continuavano a combattere. Ma i nemici non cedevano: nonostante i morsi, le frecce e i colpi di spada, a poco a poco stavano stringendo il cerchio intorno a Grant e i suoi compagni.
   Antonia si rese conto per la prima volta in quel momento di cosa fosse una vera battaglia contro i Signori del Terremoto: i martelli mulinavano da tutte le parti sibilando nell’aria, i boati dei continui sismi la stavano assordando e il sangue verdastro e vischioso degli Orchi schizzava dalle ferite che lei e i suoi compagni gli infliggevano, inzuppandola.
   «Avanti, Nebbia, sbranali tutti!» urlò la ragazza. Il lupo ululò la propria risposta e si scagliò con maggiore ferocia contro i nemici. Lei si voltò, e le si gelò il sangue nelle vene: un martello enorme stava calando proprio dove si trovava Grant, alle prese con un altro Orco.
   «Jonas!» gridò disperata; il martello si abbatté con tanta forza da creare una lunga, profonda fenditura nel terreno.
   E di Jonas Grant non c’era traccia.
   «JONAS!» urlò di nuovo Antonia; scoccò tre frecce con rapidità e precisione, uccidendo altrettanti Orchi, e corse lì dove il martello era rimasto al suolo. «JONAS!».
   Antonia era terrorizzata all’idea di avvicinarsi troppo; temeva di vedere il corpo di Grant mutilato e distrutto da quel colpo poderoso. Vide sbucare un piede, e per un istante si bloccò: non era certa di avere la forza di avanzare ancora, di scoprire che ormai di quello che era il suo migliore amico non restava più nulla.
   Ma Grant era salvo: al grido di Antonia aveva visto l’enorme martello calare su di sé e si era gettato di lato appena in tempo. Nell’impatto con il terreno aveva sbattuto la testa ed era rimasto stordito, momentaneamente incapace di rispondere ai richiami della ragazza.
   «Antonia» borbottò.
   La giovane donna si gettò su di lui e lo strinse tanto forte da levargli il fiato. «Dèi, Grant, sei vivo!».
   «Ancora per poco, se non ci alziamo» replicò lui.
   Antonia si alzò, lo prese per le braccia e lo rimise in piedi. «Dobbiamo andarcene, di corsa» disse.
   Jonas sbuffò esasperato. «E dovevo quasi rimetterci la pelle perché tu lo capissi?»
   «Sta’ zitto o ti lascio qui!» minacciò lei.
   «Uomini, RITIRATA!» urlò Grant.
   Con agili balzi, tutti rimontarono a dorso di lupo: le intelligente bestie, ululando e facendo scattare le mascelle, si aprirono un varco tra gli Orchi. Antonia, Federica e quattro uomini coprirono la ritirata facendo cadere sui nemici che li braccavano una pioggia di frecce: il gruppo degli inseguitori si assottigliò fino a quando non si arresero, fermandosi fuori dalla portata degli arcieri, roteando i martelli in aria e urlando la loro rabbia sotto i rami spogli degli alberi.

*

Il rientro a palazzo era avvenuto nel totale silenzio. Nonostante fossero tutti vivi, parecchi erano feriti: alcuni dei soldati, pur non essendo stati schiacciati, erano comunque stati colpiti dai martelli, riportando varie fratture, e al loro arrivo si erano visti rinchiudere da Isdrid nell’ala del castello adibita a infermeria.
   Antonia, che aveva solo qualche graffio, si eclissò prima che Isdrid potesse decidere di trattenere anche lei. In verità la Magistra Sanationis non solo l’aveva vista, ma l’avrebbe anche trascinata in infermeria con gli altri feriti se Grant non fosse intervenuto.
   «Lasciala stare, mamma Isdrid» mormorò Jonas. Alla donna questo bastò per capire quanto fosse delicata la situazione: era raro che il capitano si rivolgesse a lei chiamandola “mamma”. «Ha avuto una brutta giornata».
   Lei lo fissò. «È quasi morta?».
   Grant scosse la testa. «Sono quasi morto io».
   Isdrid aggrottò le sopracciglia. «Per colpa sua?».
   «La sua unica colpa è di avermi avvertito un attimo prima che un martello mi schiacciasse».
   La donna sospirò. «Ho capito».
   Intanto Antonia, ignara della conversazione tra Isdrid e Jonas, aveva lasciato che i piedi la conducessero dove volevano, senza preoccuparsi di sapere dove stava andando. Si ritrovò senza quasi rendersene conto vicino alla Torre del Faggio: era intenta a osservare l’imponente costruzione quando qualcuno la chiamò.
   «Antonia?» disse Baumann, sorpreso. La ragazza alzò lo sguardo: la testa del principe faceva capolino da un intrico compatto di rami, a quattro metri da terra, e i suoi occhi la osservavano con perplessità e un pizzico di preoccupazione. «C’è una fessura tra gli alberi, proprio davanti a te. Sali».
   Andando dove l’uomo le aveva detto, Antonia si rese conto che quello che aveva scambiato per un singolo albero era in realtà un intrico di più alberi, cresciuti talmente vicini e avvinghiati da sembrare una cosa sola. All’interno c’era uno spazio vuoto e una scala rudimentale: la donna salì fino a sbucare in una sorta di casa sull’albero chiusa da ogni lato dai rami strettamente intrecciati e sormontata da una cupola di foglie. Soltanto il pavimento sembrava essere stato creato dalla mano umana con delle assi ben posizionate che sparivano sotto un mare di coperte e cuscini. Baumann era l’unico di cui desiderasse la compagnia, in quel momento: con il passare dei mesi tra di loro era nata una grande complicità, e trascorrevano molto tempo in compagnia l’uno dell’altra.
   «Baumann, che ci fai quassù?» chiese senza un vero interesse.
   L’espressione dell’uomo divenne furiosa. «Ero salito sulla Torre per controllare come ve la stavate cavando: quando ho visto che eravate in inferiorità ho cercato di raggiungervi, ma Illyrio mi ha bloccato in quest’ala del castello con i suoi stupidi incantesimi» spiegò tra i denti.
   «Ha fatto bene» disse a sorpresa Antonia. «Ci sono tanti soldati, ma un solo principe»
   «Che razza di principe sono, se non posso nemmeno scendere in battaglia con i miei uomini?» esplose Baumann.
   «Uno cauto, che sa che Staudeheim ha bisogno di un governante» replicò la ragazza. «Che farebbe il regno senza di te? Chi prenderebbe il tuo posto?».
   A sorpresa, Baumann scoppiò in una risata amara. «Mi sembra di risentire mia madre» disse. «Governò il regno per due anni, e non appena raggiunsi l’età giusta per regnare, si lasciò morire. La pregai di non farlo, e lei mi disse: “Non c’è più bisogno di me: sei pronto per il trono. Staudeheim ha il suo principe”».
   Antonia si strinse le ginocchia al petto, turbata da tanta amarezza. «Perché lo fece?» chiese piano.
   Lui gettò indietro la testa e chiuse gli occhi. «È una storia lunga: comincia con un sogno, prosegue con la mia stupidità, e si conclude con una morte». Riaprì gli occhi. «Vuoi ascoltarla?».
   La ragazza annuì.
   «Devi sapere che è stata mia madre a scegliere il nome che porto» esordì Baumann. «Nel nostro mondo crediamo in molte divinità, ma la principale, quella da cui prende il nome anche il regno – Staudeheim significa “casa degli arbusti” – è Baumann, l’Uomo-Albero. Quando era gravida, mia madre fece un sogno profetico: sognò che il bambino che stava per nascere sarebbe stato saldo come un albero nel terremoto. Due mesi più tardi, quando nacqui, mi impose il nome della nostra divinità più importante: un azzardo, e un immenso fardello.
   «Crescendo, mia madre mi narrò più volte di quel sogno. Intanto mio padre, il principe reggente, combatteva contro gli Orchi come dovrei fare io: in groppa a un lupo e con la spada in pugno, al fianco dei soldati. Compiuti sedici anni, decisi che anch’io volevo combattere: ero giovane, ero stupido, ed ero certo che quello fosse il mio destino, l’adempimento del sogno profetico di mia madre.
   «Mio padre si oppose a lungo: non ero pronto, diceva, e aveva ragione. Io però non volevo vedere le verità che mi metteva davanti agli occhi: insistetti ancora, e ancora, e ancora, fino a quando un giorno non mi portò con sé in battaglia».
   Baumann serrò gli occhi per un istante.
   «Quel giorno, gli Orchi erano più violenti e determinati del solito. Ci tesero un’imboscata: ci difendemmo come potemmo ma erano troppi, gli uomini intorno a me morivano e io riuscivo a stento a evitare le martellate. Vedendo combattenti molto più esperti di me perire sotto i colpi dei nemici, fui preso dal panico. Non vidi il martello che calava su di me, ma mio padre sì: mi spinse via, e…prese il mio posto». L’uomo deglutì. «Quando rialzai la testa, di mio padre non c’era più nulla: solo un ammasso irriconoscibile di carne sanguinolenta e ossa frantumante, non c’era più un braccio, una gamba, o…il suo volto…non c’era niente di intero su cui mia madre potesse piangere…».
   Baumann tacque e si voltò; Antonia ebbe l’impressione che volesse nascondere le lacrime. Strisciando sui cuscini gli si avvicinò e accarezzò la parte sinistra della sua testa. «Fu quel giorno che i tuoi capelli diventarono bianchi?» chiese.
   Lui annuì. «Mia madre ne fu…distrutta. Distrutta. Si fece forza perché il regno doveva essere governato, ma non fu mai più la stessa: era il senso del dovere a tenerla in vita. E quando ritenne che non ci fosse più bisogno di lei…si lasciò morire. Così, semplicemente, come un giardino abbandonato a se stesso viene invaso dalle erbacce».
   Antonia chinò la testa. «Non riesco a immaginare come ti sia sentito…e come devi sentirti tuttora. Oggi, per un attimo, ho creduto che Grant fosse stato schiacciato da uno di quei maledetti martelli, ed è stato…orribile».
   Il principe rialzò lo sguardo. «Quindi è per questo che te ne andavi in giro con quell’aria persa».
   La ragazza annuì bruscamente, e Baumann le strofinò una mano sulla schiena.
   «State facendo un ottimo lavoro: tra non molto, potrete recarvi al Varco e tornare nel vostro mondo» disse, cercando di rincuorarla.
   «Non sono certa che sia quello che voglio» mormorò lei, sorprendendolo.
   «No? Ma…perché?» domandò Baumann. «Credevo volessi tornare dai tuoi genitori, dai tuoi amici…a una vita in cui non bisogna lottare ogni giorno per la propria vita e quella degli altri…».
   Antonia si strinse nelle spalle. «Ho nostalgia dei miei genitori, certo; vorrei tanto poter comunicare con loro, rivederli e dirgli che sto bene, ma la verità è che…», la ragazza esitò, «che non voglio andare via: ormai sento che è questa la mia casa».
   Baumann tacque, poi intrecciò le proprie dita a quelle di lei. «Posso sperare di essere uno dei motivi che ti spinge a restare?».
   La ragazza abbassò lo sguardo. «Tu sei ciò che mi tiene incatenata qui».
   Baumann non poteva credere alle proprie orecchie. Ormai da settimane si era reso conto che l’ammirazione per Antonia non poteva spiegare il suo costante desiderio di vederla, di averla sempre accanto, di sentirla ridere e saperla al sicuro. Si era scoperto innamorato di quella straniera coraggiosa e intelligente, ma non aveva osato fare nulla per essere ricambiato: sapere che veniva da un altro mondo, un mondo in cui c’erano una famiglia e una vita intera ad aspettarla, lo aveva frenato, convincendolo che non aveva il diritto di sottrarla a chi l’amava da ben prima di lui.
   Antonia, da parte sua, era stata attratta dal principe sin dal primo momento in cui l’aveva visto. Quel pizzico di tristezza che si portava sempre dietro, nelle rughe intorno agli occhi, l’aveva incuriosita; la sua gentilezza l’aveva portata a fidarsi di lui; il carisma e la decisione con cui governava e si preoccupava dei propri sudditi l’avevano conquistata. Senza rendersene conto aveva iniziato a gravitargli intorno, a voler sconfiggere i Signori del Terremoto non per poter tornare a casa, ma per veder sparire la preoccupazione che riempiva costantemente gli occhi di Baumann: e quando aveva capito di essersene innamorata aveva compreso anche di non poter avere pretese su di lui, che era nato per governare e riportare la pace in quel regno.
   «Voglio restare» disse Antonia con maggiore sicurezza. Si sporse verso l’uomo e gli sfiorò le labbra con le proprie. «Con te, se lo vorrai».
   Baumann la strinse tra le braccia e la baciò. La spinse sui cuscini, infilando le mani sotto la tunica di foggia maschile sporca e lacera che la ragazza aveva indossato durante la battaglia e ignorando il terriccio e il sudore impastati sulla sua pelle ancora calda per l’adrenalina e la lotta.
   Antonia, che non sperava più che quel momento arrivasse, strattonò la tunica rossa che l’uomo indossava, quasi strappandola per la fretta di toglierla di mezzo; Baumann rise e se la sfilò per poi adagiarsi su di lei.
   «Sei sicura di volere questo?» le domandò in un sussurro.
   La ragazza gli rivolse lo stesso sguardo determinato che aveva quando andava in battaglia. «Sì» rispose semplicemente.
   E Baumann non fece più domande, lasciando che fossero i gesti a parlare per lui.
   
 
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