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Autore: Manto    17/06/2015    4 recensioni
"Lui si chinò verso di me, e io indietreggiai.
Le sue mani erano ancora sporche del sangue di mio padre.
Con quelle mani, mi prese il volto, me lo alzò.
Lo fissai, il gigante che chiamavano Aiace, cercando di apparire coraggiosa.
Vidi i suoi occhi cangianti, ne rimasi rapita.
La mia sete di vendetta, i miei impulsi suicidi si sfaldarono, sotto la forza di qualcosa che ancora non potevo capire."
Frigia, al tempo della grande Guerra di Troia.
Da una parte la giovane Tecmessa, principessa di un regno ridotto in cenere, prigioniera di un terribile nemico venuto dal Grande Mare; dall'altra, Aiace Telamonio, campione dell'esercito greco con la sofferenza nel nome, dall'aspetto di un gigante e dal coraggio di un leone.
Un solo sguardo, e una forza più grande della guerra stessa giocherà con i loro destini, portandoli all'immortalità.
Ispirato alla bellissima tragedia "Aiace" di Sofocle, il personale omaggio a una delle coppie più belle, e purtroppo poco conosciute, della mitologia greca.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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IX – Sole Nero




Fissai il mio volto nello specchio, quel giorno. Quando Aiace lasciò la tenda offrendosi ad un altro giorno di sangue e sabbia, io lo trassi dal mantello e mi guardai a lungo.
Cinque anni erano passati da quando mi avevi recato con te la prima volta.
Quattro, da quando ogni sera prendevi tra le braccia Eurisace, il nostro adorato bambino, e lo cullavi a te fino a farlo addormentare.
Io non avevo più la bellezza di quando tu mi vedesti per la prima volta: il mio corpo si era ingrossato ed ero logorata, come tutti voi, dalla Guerra; ma mi sentivo bella nel tuo sorriso, nelle tue carezze sui miei capelli, nelle parole che nonostante il tuo sconforto, la tua pena, continuavi a riservarmi.
Avevi l'animo nobile, fiero ma gentile, e le rare volte che mi trattasti con durezza ti perdonai sempre. Io vedevo dentro il tuo cuore e cercavo di curare le tue ferite. Ma per alcune ho fallito.
Non sono riuscita a vedere in tempo le nubi che si addensavano su di noi; e quando seppi il nostro Destino, esse erano già Tempesta.

“Madre... madre, perché ti stai specchiando? Hai perso qualcosa in fondo agli occhi?”
Alzai lo sguardo, sorrisi. Eurisace, i grandi occhi neri di re Teleuta e i soffici riccioli di suo padre, mi salì in grembo e si accoccolò a me.
“Piccolo guerriero, sì, ho perso qualcosa. Ma se tu mi dai un bacio, lo ritroverò.”
Il mio bambino mi baciò entrambi gli occhi, e due lacrime ne uscirono. “Perle liquide”, sussurrò lui, prendendole.
Io lo strinsi al mio petto, lo cullai.
“Madre...”
“Ti ascolto.”
“Perché mio padre questa mattina è uscito senza armatura? Come farà a combattere?”
“Oggi non si combatte. Dobbiamo onorare i nostri amici morti.”
“E come si fa?”
“Li si mette su di una torre di legno, e dopo il fuoco li condurrà in un luogo dove potranno essere di nuovo felici.”
“E io quando ci andrò?”
Rabbrividii. “Non ti piace più giocare con Patroclo e Teucro?”
“Certo che mi piace! E voglio che anche nel luogo dove i morti sono felici io continui a giocare con loro.”
Sorrisi, lo baciai sui capelli.
“Mio padre ha promesso che mi farà vedere la sua isola. Quando ci andremo?”
“Quando tutto questo sarà finito.”
“E se non finisse mai?”
“Finirà.”
“Come fai a saperlo?”
Sorrisi di nuovo. “Io sono tua madre. Io so tutto.”
“Davvero? E sai anche cosa diventerò?”
“Un guerriero bellissimo, e fortissimo. Tutti tremeranno al tuo apparire, e il tuo urlo risuonerà per intere città.”
“Come quello di Diomede?”
“Più forte.”
“A me il suo urlo fa veramente paura. E anche lui. E Odisseo.”
“Imparerai a non temerli.”
“Tu hai paura?”
“No.”
“Come fai? Tutti hanno paura di loro!”
“Io e tuo padre no.”
“Perché?”
“Perché siamo i tuoi genitori.”
Eurisace sorrise, poi mi abbracciò. “Vorrei che tu mi portassi via di qui. Che mio padre smettesse di armarsi, che fosse sempre con me. A volte sogno che lui non torni, e io... io piango.”
Le parole mi si mozzarono in gola, non seppi cosa rispondere. Dopo qualche istante la tenda si aprì e Patroclo, il giovanissimo compagno di Achille che tutte le donne amavano per la sua dolcezza, entrò.
“Patroclo!”, urlò Eurisace, fiondandosi tra le sue braccia per poi correre fuori.
Sorrisi al figlio di Menezio. “Portalo alla cala. Non voglio che veda le pire”, sussurrai al giovane, e lui annuì. Mi guardò, e il suo sorriso si incrinò. “La tristezza non s'addice al tuo volto.”
Distolsi lo sguardo dai suoi capelli dorati. “Non s'addice a nessuno, Patroclo, eppure regna da tempo in questo campo. Mi chiedo come sarebbe la nostra vita, se esso non esistesse.”
Lui mi accarezzò una guancia. “Non conosceremmo la felicità.”
Sorrisi a mia volta, e Patroclo si congedò con un cenno, rispondendo agli allegri richiami di Eurisace.
Andai sulla soglia a vederli scendere verso la spiaggia, poi mi diressi alla tenda di Teucro, dove trovai Partenia intenta a prendere vesti e mantelli. Anche lei si accorse del mio umore. “Non ti ho mai visto così, Tecmessa. Che succede?”
Scossi la testa. Non lo sapevo neanche io. La verità, Tecmessa, è che già sapevi. Mentire non cambia le cose.
La accompagnai al lago, la aiutai a lavare le vesti. Quindi le mettemmo ad asciugare sulle rocce, e intanto ci sedemmo sulla riva.
Partenia annusò l'aria, scosse la testa. “Credo che oggi succederà qualcosa di... nuovo. Ho come una sensazione.”
“Come un sentore di pioggia”, risposi.
L'ira di un dio condiziona ogni cosa. Come ho fatto a dimenticarlo?
Mi voltai verso la ragazza. “Sento che stai per dirmi qualcosa. Qualcosa che ti disturba.”
La ragazza si torse le mani. Si alzò, cominciò a camminare in tondo. “Questa mattina ho accompagnato Teucro fuori dalla tenda, e ho visto quel vecchio uomo camminare solo sulla spiaggia. Piangeva, quel poveretto, e tutti si sono fermati a guardarlo.
Portava con sé le insegne sacerdotali, ricchi doni e un dolore così forte da mozzarmi il fiato.
Si è recato alla tenda di Agamennone, quindi tutti i capi si sono immediatamente diretti là. Poco dopo ho sentito le urla del re, e ho visto quel vecchio spinto fuori dalla tenda a forza. Le sue lacrime sono raddoppiate, e così la mia oppressione.
Lo rividi... lo rividi tornare indietro, camminare di nuovo sulla spiaggia, e all'improvviso alzare le mani al cielo e urlare di rabbia. Ci ha maledetti, Tecmessa... ci ha maledetti tutti.”
Spalancai gli occhi, mi presi la testa fra le mani. Fu allora che mi accorsi di quello che stava accadendo. Il Sole era diventato nero, e c'era silenzio. Tutto si preparava alla strage imminente.
Fissai il cielo, quindi presi le vesti e le diedi a Partenia. “Partenia, ritorniamo al campo. Ho... ho paura a rimanere qui.”
Ritornammo indietro, e dopo aver lasciato la ragazza alla tenda di Teucro scesi alla cala, per cercare Eurisace. Quando lo vidi giocare spensierato con Patroclo la mia inquietudine si placò un poco, e tornai indietro. E sulla soglia della tenda di Aiace, vidi quella ragazza.
Due guerrieri argivi la trascinavano per le braccia e lei li guardava, con occhi spaventati, stringendo le labbra per non piangere. I nostri occhi si incrociarono per qualche attimo e ne rimasi affascinata, dal tanto erano lucenti.
I guerrieri la gettarono al suolo e lei rotolò nella polvere, le mani sul capo per proteggersi. Le sue vesti erano belle, rosso cupo e ricche, segno che era di nobile famiglia, e mettevano in mostra le forme morbide e ampie della ragazza.
Uno dei guerrieri corse alla tenda di Agamennone, mentre l'altro faceva rialzare la ragazza e le ripuliva la veste, indugiando lascivamente sul seno. La ragazza per risposta gli diede uno schiaffo, facendomi sorgere un sorriso, e iniziò a urlare.
Il guerriero le serrò la bocca con una mano e la strinse per la vita, mentre l'altro arrivava in corsa con il suo re. Diomede.
“Spero che il motivo per il quale mi avete costre...”, iniziò a sbraitare il biondo sovrano, poi il guerriero spinse avanti la ragazza, e lui si bloccò.
Io mi ritrassi un po' dentro la tenda, osservando Diomede avanzare di qualche passo e sovrastare con tutta la sua altezza la giovane, che abbassò il capo.
“L'abbiamo trovata sulle rive dello Scamandro, mio wanax”, esordì il guerriero che la teneva stretta.
Il re non disse nulla, ma fece allontanare i guerrieri e le si avvicinò di più. “Dimmi il tuo nome”, le chiese, e la ragazza alzò il capo per guardarlo. “A chi potrebbe importare del mio nome?”, rispose, e io feci un altro sorriso. Bel carattere.
“Ti ho fatto una domanda, e tu devi rispondere.”
“Anche io ho fatto una domanda.”
Diomede strinse i pugni. Osservò i riccioli scuri che le lambivano il collo, quindi passò un dito sulla pelle candida delle spalle, facendola rabbrividire.
Il re ridacchiò, socchiudendo gli occhi. “Non sei troiana. La tua pelle è troppo bianca per essere una di loro.” [1]
Tacque e si chinò verso la ragazza, che tentò inutilmente di indietreggiare. “Invidio chi ha il privilegio di averti nel suo talamo, ma a me concedi almeno quello di sapere il tuo nome.”
“Athanassa”, rispose lei, “Immortale.”
Diomede sorrise, le accarezzò i capelli con un gesto pieno di malizia.
“Non è un premio di guerra, figlio di Tideo.”
Il re si rialzò con uno scatto rabbioso e si girò verso Nestore, che avanzava lentamente e guardava la fanciulla.
“È una nobile misia, promessa ad un figlio di Antenore.”
A quel nome Diomede impallidì, e un fugace sorriso solcò il volto del wanax di Pilo.
“Agamennone deve essere informato”, mormorò il vecchio, quindi Diomede lo seguì, lo sguardo a terra.
Li seguii nascondendomi tra le tende, non riuscendo a reprimere la curiosità con il pensiero di ciò che mi avrebbero fatto se mi avessero scoperto.
“Grande Agamennone, ti chiedo il permesso di parlare. Miei compagni, miei amici”, sentii esordire Nestore, “i guerrieri del prode Diomede hanno trovato una fanciulla sulle rive dello Scamandro e l'hanno portata come prigioniera al campo.”
“E interrompi il nostro consiglio per una scaldaletto?”, lo interruppe la dura voce di Agamennone.
“È una figlia della Misia... e promessa sposa ad uno dei figli di Antenore.”
“In questo caso, dobbiamo riportarla. Antenore ci è amico, non possiamo fare altrimenti”, udii in risposta, e riconobbi la voce profonda del signore di Creta, Idomeneo.
“Senza un riscatto?”, si intromise Menelao.
“Questo non sarebbe rispettoso, Menelao. La fanciulla è legata ad un nostro ospite.”
“Antenore è un troiano, quindi un nemico.”
“Potremmo perdere la sua amicizia”, intervenne infine Odisseo, “e questo ci potrebbe costare molto.”
“Costare cosa? Altro dolore? Altri lutti? Come se già non ci fossimo abituati alle sofferenze.”
“Compagni, re, ascoltatemi: propongo di tenere la ragazza presso di noi.
È molto legata ad Antenore, e per questo è ancora più preziosa al nostro scopo; con lei nelle nostre mani, il vecchio non potrà che onorare il patto”, mi avvicinai di più, non riuscendo più a sentire la voce dell'astuto itacese, “... se ci tiene veramente.” [2]
“E sia, wanax Odisseo. Sarai tu, saggio Nestore, a custodirla.
E ora basta; abbiamo già perso troppo tempo a parlare di donne”, fu l'ultima risposta di Agamennone.
I capi uscirono dalla tenda, e anche io corsi via, fermandomi presso quella di Diomede. Dopo qualche attimo vidi il giovanissimo figlio di Nestore, Antiloco, entrare e prelevare la ragazza misia, e Diomede sopraggiungere dopo pochi istanti.
Mi vide e con poche falcate mi raggiunse, afferrandomi per un braccio senza che io avessi il tempo di allontanarmi. “Hai ancora il sorriso dipinto sul volto”, ringhiò.
“La volevi per te, vero? Ma non l'avrai”, gli sibilai in risposta.
Il re sorrise. “Non ci sarà mai uomo che riuscirà a insegnarti il rispetto e il decoro, vedo. E sappi che non mi metto a litigare con le donne; non c'è alcun onore.”
La parola con cui mi chiamò subito dopo era così umiliante, che per la prima volta in sua presenza le parole mi mancarono.
Il re si allontanò, perdendo alcun interesse per me, mentre io mi diressi verso la tenda di Aiace, cercando di non piangere.
“Pensavo di trovarti qui”, disse il mio eroe, disteso sulle pelli di lupo che costituivano il nostro giaciglio.
“Ero al lago”, mentii, sdraiandomi sul suo ampio petto. Lui mi accarezzò i capelli, me li baciò.
Non so quanto tempo trascorse, prima di udire quel grido lacerante. L'urlo di un bambino.
“Eurisace!”
Balzammo in piedi, corremmo fuori dalla tenda; dovetti appoggiarmi al braccio di Aiace, per non cadere.
I guerrieri scivolavano nella polvere, dissanguati, senza un lamento. Non si vedeva l'arma che li aveva colpiti.
Ben presto, l'intero accampamento era pieno di moribondi.

Fissai il cielo: era sempre più nero. “Aiace, entriamo nella tenda”, sussurrai trascinandolo dentro.
Eurisace piangeva disperato tra le sue braccia, vedendo i guerrieri contorcersi e gettare sangue.
Aiace si sedette al suolo con lui tra le braccia, e mi guardò. “È tutta colpa nostra.”
Mi inginocchiai davanti a lui, gli presi la testa tra le mani e lo costrinsi a guardarmi. Lui strinse ancora di più Eurisace e il suo sguardo si riempì di angoscia. “Che cosa abbiamo fatto... che cosa abbiamo fatto.”

La peste infuriò per nove giorni, senza darci tregua.
Le tende si chiazzavano di sangue, la sabbia era umida dagli umori che lasciavano il corpo.
E tutto iniziò quel giorno, il giorno in cui Agamennone rifiutò al sacerdote di Apollo, Crise, la restituzione della sua bella figlia.
Ai nove giorni in cui passammo il tempo abbracciati, terrorizzati che le frecce invisibili potessero raggiungersi e ucciderci, seguì quello in cui scoppiò l'ira di Achille, quando la sua prediletta Briseide gli venne sottratta perché andasse ad Agamennone, che in cambio restituì a Crise la figlia.
Tutto iniziò quel giorno: il primo degli ultimi giorni della città di Troia... e della nostra storia.



NOTE


[1] Ho ripreso la descrizione di Athanassa da quella di Briseide: essa (di origine misia) nell'Ars Amandi di Ovidio viene descritta come pallida di carnagione, di capelli scuri e vestita di porpora.

[2] Quando Menelao e Odisseo vennero sotto le mura di Priamo per la prima volta e chiesero, con un'ambasciata, la restituzione di Elena, i due furono ospitati dal nobile Antenore. Questi rimase sempre in buoni rapporti con il nemico anche durante la guerra e, secondo una versione del mito, aiutò gli Achei a prendere Troia consegnando loro il Palladio, la statua di Atena che proteggeva a rendeva inespugnabile la città, in cambio della sua salvezza.
Per questo, nel Medioevo divenne il simbolo del tradimento (tanto che Dante chiama Antenora la zona dell'Inferno dove giacciono i traditori della patria).
   
 
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