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Autore: Acinorev    18/06/2015    2 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Buooonasera!
Anche questa volta, faccio una piccola precisazione che può esservi utile:
- ricordo che il chapati è un pane tipico, mentre "pole pole" è un'espressione che serve a consolare: io l'ho conosciuta in ospedale, le infermiere lo ripetevano ai bambini quando questi piangevano per qualcosa: significa "scusa", "andiamo, su". È un'espressione di conforto.
Buona lettura, a dopo!


 

 

Capitolo due
Scontri e incontri

 

Sei così bella e fai così male

  
«Idiota, quei vetri non si puliranno da soli!» esclama Tifah, rimproverando Joyce e la sua inettitudine in fatto di pulizie: al posto di strofinare con forza le finestre, si sta distraendo guardando i ragazzi del dormitorio maschile giocare dall’altra parte del terreno, prendendoli in giro di tanto in tanto e forse invidiandoli.
«Non rompere», replica lei, con una smorfia infastidita.
Tifah smette di scopare a terra con un robusto ramo di foglie fresche e le riserva uno schiaffo sul capo. «Le Mamme ci faranno il culo, se non finiamo tutto entro dieci minuti, quindi mettiti al lavoro», sibila. Agnes e Pamela sono le due donne che si occupano del cibo dei bambini e della loro condotta, aspre nei rimproveri ed incorruttibili nei loro ordini: simili per stazza e scarsa simpatia, non sono esattamente le Mamme che il loro soprannome suggerisce, quelle che chiunque vorrebbe.
«Te lo faccio io il culo, se non la smetti», le assicura Joyce, cercando di tirarle un calcio, ma fallendo. È più bassa e meno veloce di Tifah: può negarlo, ma la teme.
Tifah la ignora con un sospiro e riprende il suo lavoro, nonostante sia stanca. La routine di ogni giorno è sfiancante per uno spirito libero come il suo: il Kenyatta Centre non è di certo immenso, ma non è nemmeno di piccole dimensioni. A differenza dei ragazzi, che evidentemente non amano stare nel pulito e non devono vivere con le asfissianti Mamme, le ragazze sono organizzate in turni per le pulizie: di settimana in settimana, una parte di loro si occupa del dormitorio femminile, assicurandosi di non tralasciare nulla a meno che non si desideri una poco piacevole punizione, una parte – la più sfortunata - lava i bagni in comune, altre puliscono la Nursery, ovvero uno stanzone con ampie finestre che di mattina si trasforma in asilo per i bambini del vicinato, ed altre ancora si prendono cura del forno e dei piazzali all’esterno.
Questo è il sesto giorno per Tifah: può dire senza alcun problema di aver raggiunto una perfetta conoscenza di ogni millimetro dei dormitori. E di sapere con chi prendersela per lo sporcizia che lei deve pulire.
La porta si spalanca all’improvviso, provocando uno spostamento d’aria che per un solo istante risulta piacevole nell’afa pomeridiana: Ryma resta immobile, non entra nella stanza, né sposta lo sguardo da una Tifah piuttosto stupita. Ha un’espressione vuota, ma talmente inquieta da creare stridore.
«Cosa diavolo ti è successo?» domanda Tifah, avvicinandosi subito a lei e lasciando a terra il ramo spesso. Ha gli occhi sbarrati, fissi sulle guance umide dell’amica che si preoccupa di asciugare con le mani callose.
Ryma si irrigidisce al suo tocco, quasi volesse nascondersi, ma non fa altro che respirare regolarmente, con i pugni stretti lungo i fianchi magri.
«Ryma, parla», le ordina l’amica, scuotendola appena con le mani sulle sue spalle.
Ma quando lei si morde un labbro, soffocando un singhiozzo impaurito, Tifah semplicemente sa che deve soltanto portarla con sé: le afferra un polso ed esce frettolosamente dalla stanza, senza darle la possibilità di divincolarsi o di opporsi.
Joyce, ancora accanto ai vetri da pulire, riesce soltanto a gridare: «Dove stai andando? Con le Mamme come la mettiamo?!»
 
Si sono nascoste tra i cespugli secchi, al di là del campo di fronte alla Casa. Ryma è seduta su un sasso smussato, cocente a causa del sole che lo intorpidisce per dodici ore: tiene lo sguardo basso, le mani giunte sulle ginocchia piegate. La schiena dritta, testimone della sua dignità.
Tifah la osserva dall’alto, con i pugni sui fianchi e la fronte aggrottata. Non ha mai avuto molta pazienza, soprattutto se è Ryma ad avere un problema: le basta osservare le sue iridi del colore del caffè, per scovarvi un torto.
«Allora?» insiste.
L’altra si decide finalmente a guardarla. «Vorrei davvero parlartene», ammette a bassa voce, «ma so già come reagirai e non voglio. Non voglio litigare».
«Non essere stupida, Ryma», ribatte Tifah. «Non puoi restare in questo stato», continua: ovviamente non osa negare le sue predizioni, perché entrambe si conoscono alla perfezione ed alcune cose vanno oltre qualsiasi dubbio. Dopo qualche istante, domanda: «Perché dovremmo litigare?»
Non crede che abbia fatto qualcosa di sbagliato nei suoi confronti, non ne sarebbe capace e non sarebbe da lei: più che altro, teme che abbia fatto qualcosa che sa che non verrà approvata.
Ryma si schiarisce la voce senza fare troppo rumore, striscia i piedi a terra solo per rimandare il tutto di qualche secondo. «Oggi ho dato il mio primo bacio», mormora, con gli occhi di nuovo fissi sul terreno chiaro, arido.
Tifah sbatte le palpebre, aspetta, ma non ottiene nessun’altra spiegazione. «Ok?» risponde, esitante. Ha il cuore vagamente più leggero, si permette anche di sorridere appena. «Ti voglio bene e magari sono un po’ possessiva e protettiva, ma non litigherò con te perché a diciotto anni hai finalmente deciso di darti da fare», scherza. Non lo precisa, ma non crede che l’uomo meritevole di Ryma sia ancora nato: il Dio che è costretta a pregare ogni giorno non le sembra abbastanza bravo per un compito simile.
«Ti ricordi Benjamin?»
Tifah è stupita da una domanda simile: cerca di fare mente locale e di ignorare almeno momentaneamente l’espressione seria dell’amica, fingendo di non notare l’assoluta assenza di entusiasmo.
«Il soldato che ti ho presentato quando siamo andate in città, la scorsa settimana», aggiunge Ryma.
Lei alza un sopracciglio, mentre un vago viso bianco si ricompone nella sua mente. «Ah, quell’inglese», dice con una punta di disprezzo: gli angoli della bocca si curvano spontaneamente. «Cosa c’entra?»
Ryma non risponde, ma la guarda con una certa fermezza.
Sta aspettando che faccia i dovuti collegamenti.
E Tifah può solo sperare di sbagliarsi.
«Hai dato il tuo primo bacio a lui?!» chiede incredula, alzando la voce.
«Tifah», la riprende l’altra, senza scomporsi. È un velato rimprovero, un ammonimento che non può essere ignorato.
Tifah sospira sonoramente, cerca di controllarsi. «Sei impazzita?» continua. «Com’è successo? E quando? Un inglese! Hai scelto di fartela con un inglese
«Avevi detto che non avresti litigato con me, solo perché-»
«L’ho detto prima di sapere che hai scelto di baciare un inutile pezzo di chapati
Il silenzio di Ryma è peggiore di un rimprovero, perciò Tifah le dà le spalle e chiude gli occhi. Non vuole urlare, non vuole che l’odio che prova per quei dannati inglesi si riversi sulle spalle di chi non lo merita: deve restare oggettiva, concentrarsi sul reale punto dell-
«Cosa ti ha fatto?» sibila subito dopo, voltandosi di nuovo per fronteggiarla. Se fosse stato un semplice primo bacio – per quanto discutibile, ai suoi occhi – Ryma non avrebbe avuto quelle iridi ferite a scoprirla, non sarebbe rientrata in casa con le guance umide.
L’unico rumore che si frappone tra loro è quello del vento che si è appena levato, caldo, ma piacevole sulla pelle. Per una manciata di secondi, nessuna di loro si muove.
Quando Ryma allunga una mano verso di lei, Tifah si limita a studiarne il pugno chiuso, fermo. Si avvicina di un passo e tende il palmo aperto sotto di esso: l’amica lascia cadere ciò che fino a quel momento ha nascosto forse anche a se stessa e subito dopo distoglie lo sguardo.
Tifah osserva i cinquecento scellini nella propria mano, sforzandosi di dar loro un’interpretazione. «Cosa significano?»
«Non so, forse sono solo una stupida e ho finito per ingigantire tutto», borbotta Ryma, improvvisamente più a disagio. Sembra si vergogni. «Forse ha solo voluto essere gentile e farmi un regalo, dato che ho speso più del dovuto al mercato».
«Ti ha dato lui questi soldi?»
«Sì», risponde Ryma: gli occhi di nuovo nei suoi, la voce più esitante. «Me li ha dati promettendomi che sarebbe tornato, prima di andarsene».
«Dopo averti baciata», aggiunge Tifah: la sua non è una domanda, è una certezza.
Ha la nausea.
«Sì».
«Gentile, hm?» ripete Tifah, serrando la mascella ed il pugno, fino ad accartocciare la banconota. «Come diavolo fai ad essere così ingenua?!» sbotta, mentre la rabbia, il disgusto, le fanno tremare le gambe.
Ryma indietreggia impercettibilmente, ma non si innervosisce, o almeno non lo dà a vedere.
«Lui ti ha pagata!» riprende l’altra, gesticolando. «Ti ha pagata per uno stupido bacio e tu hai anche il coraggio di cercare un modo per giustificarlo?!»
«Non voglio giustificarlo, voglio essere obiettiva», ribatte Ryma. Non si è ancora mossa da quel sasso.
«Allora sii obiettiva riguardo il fatto che quegli inglesi sono ancora qui, nella nostra terra, e che ognuno di loro si è scopato quasi tutte le donne di questa città! Ci hanno trasformate in prostitute e pensano che sia l’unica cosa che meritiamo! Credi davvero che in quel momento lui abbia voluto farti un regalo? Non riesci a vedere che ti ha ricompensata?! Ti ha usata, e come ringraziamento ti ha dato cinquecento scellini: è questo quello che vali?!»
Ryma la osserva in silenzio, con il respiro più veloce, irrequieto. «Perché avrebbe dovuto pagarmi per un bacio che è riuscito a prendersi senza compromessi?» domanda: la voce tremante, rotta. «Io ho voluto baciarlo: non era tenuto a darmi nulla. Se il suo obiettivo era quello di divertirsi, avrebbe potuto farlo gratis ed io non me ne sarei accorta. O almeno non subito».
Tifah non riesce a capire come lei possa essere così cieca: è qualcosa che sfugge alla propria comprensione, che la fa arrabbiare così tanto da essere snervante. «Te lo spiego io», replica, ansante. «Prima o poi ci saresti arrivata: ti saresti accorta che stava solo giocando. E allora perché non darti subito un incentivo? Cinquecento scellini sono un quarto di quello che guadagni in un mese, nei periodi migliori: sai cos’ha pensato? Ha pensato che certamente saresti stata più propensa a giocare con lui, con la promessa di tanti soldi, e magari anche di più! Ecco perché te li ha dati: per comprarti, per farti stare buona!»
Ryma si alza in piedi di scatto, trattenendo il fiato: si volta di spalle e si stringe le braccia al petto. «Non è così», nega, in un fil di voce.
Tifah sospira nervosamente. «Non vuoi crederci, va bene, ma staremo a vedere», le promette, incamminandosi frettolosamente verso i dormitori.
«Dove stai andando?» le chiede Ryma, allarmata, senza ricevere una risposta.
Mentre attraversa il campo di fronte alla Casa, incontra Solomon: sta tagliando la legna a petto nudo, con il fisico asciutto e definito di chi cerca di mantenersi in forma e di chi è costretto ad esserlo. Lui la saluta con un cenno della mano, asciugandosi la fronte sudata con il braccio ed inumidendosi le labbra.
Tifah lo ignora, in un primo momento, ma poi ci ripensa: si dirige a passi decisi nella sua direzione. «Appena hai finito, vai da Ryma», dice subito, senza esitazioni. «Non lasciarla da sola».
Solomon le risponde con un’espressione confusa: gli occhi sottili e neri continuano a studiarla in silenzio. «Cos’è successo?»
«Non lasciarla sola», ripete lei, puntandogli l’indice sul petto ed allontanandosi subito dopo.
 
 
 
È sicura che lo troverà al bar accanto al supermercato – l’unico, nel giro di centinaia di chilometri – insieme ai suoi degni compagni. È ancora troppo presto, il loro amato e squallido locale notturno aprirà solo tra qualche ora e nel loro giorno libero non hanno molti altri posti in cui andare.
Entra all’interno del Nayuri’s Place sbuffando un certo disgusto, che parte dal nome del bar e sfocia nei suoi clienti abituali: subito nota diversi gruppi di bianchi in borghese, alcuni già clamorosamente ubriachi, altri tranquillamente seduti ai loro tavoli. Cerca di non soffermarsi sulle ragazze keniote che sfacciatamente si mettono in mostra, aspettando di attirare l’attenzione di qualcuno. Non riuscirebbe a trattenere lo stimolo del vomito.
Negli ultimi anni, la situazione è molto peggiorata: anziché risollevarsi economicamente, la città è rimasta bloccata in una crisi senza fondo, che ha accentuato qualsiasi risvolto negativo dell’occupazione inglese. Per Tifah il perdono non è mai stato semplice e sicuramente non lo è in queste circostanze.
Quando sta per perdere le speranze, scorge in fondo al locale il viso pallido di Benjamin: sta ridendo sguaiatamente nel mezzo di un gruppo di uomini, sorseggiando ad intervalli regolari la birra raccolta in un capiente boccale. Non è in grado di intimorirla, nulla potrebbe fermarla. Gli si avvicina velocemente, calcando i passi e lasciando che le sue infradito rovinate provochino un fastidioso rumore a contatto con le piastrelle lucide: il suo abbigliamento povero e rattoppato stona in quell’ambiente di benestare.
«Ben, amico, credo che questa ragazza ce l’abbia con te», esclama uno degli uomini, non appena Tifah li raggiunge, aggrappandosi alla maglia di Benjamin e tirandolo verso di sé in un muto invito a seguirla.
Lui sembra spiazzato, forse è leggermente brillo. «Ma io ti conosco», dice, senza ribellarsi alla sua decisione e seguendola goffamente all’interno del bar, mentre i suoi amici si lasciano andare a battute poco simpatiche che dovrebbero indovinare le loro intenzioni. «Sei l’amica di Ryma», aggiunge.
Tifah si trattiene dal colpirlo con un pugno, ma gli risponde non appena escono all’aperto. «Esatto, idiota di un inglese, sono l’amica di Ryma», conferma, lasciando andare la sua maglia ed appoggiando le mani sui fianchi. «Tu invece sei quello schifoso che oggi l’ha pagata per un bacio».
Benjamin perde la giocosa spensieratezza di poco prima: la sua espressione si fa più seria, ma non si potrebbe dire se per le offese appena incassate o il segreto rivelato. «Piano con le parole», le intima, levandole ogni dubbio.
«È di questo che ti preoccupi? Di come ti chiamo?» domanda Tifah, inorridita ed incredula. «Dovresti preoccuparti di più di come ti sei comportato!»
«Si può sapere cosa ti prende? Non mi sembra che siano affari tuoi», le risponde Benjamin, corrugando la fronte in un’espressione contrariata. Tre o quattro dei suoi compagni sono usciti per fare da testimoni.
«Certo che sono affari miei, perché al posto di Ryma avrebbe potuto esserci chiunque altro: in fondo è così che fate, no? Credete che con i soldi possiate comprarvi qualsiasi bella ragazza keniota e sbattervela in un vicolo».
«Non me la sono sbattuta, di che diavolo parli?»
«E pagarla cinquecento scellini per un bacio, invece, pensi che sia meglio?!»
Benjamin è evidentemente confuso ed infastidito: attorno a loro ci sono diverse persone, forse è anche imbarazzato. Tifah ne approfitta, gli si avvicina con il rancore ad animarla: «Ryma non è una prostituta», gli ricorda, con il tono di una minaccia. Il fatto che lui non abbia smentito nessun’accusa è una conferma inequivocabile. «Non avvicinarti di nuovo a lei: tieniti quegli sporchi soldi e piuttosto fatti una sega dove nessuno può vedere l’uomo senza palle che sei».
Gli amici di Benjamin scoppiano in una risata fragorosa, incitando lui e Tifah in modo alternato: è evidente che si stiano divertendo ad assistere al loro battibecco.
«Vaffanculo», sbotta lui, arrivato al limite di sopportazione. «Chi ti credi di essere?!»
Tifah è già pronta a rispondergli o persino a colpirlo, ma un agente keniota della polizia si avvicina con aria inquisitoria. «Cosa succede?» domanda, osservando entrambi con sguardo duro ed impugnando con forza il suo fucile.
Lei torna cosciente della situazione, delle numerose guardie che giorno e notte pattugliano costantemente la città, e per un istante trattiene il fiato: si riscuote quando una mano preme sulla sua schiena per invitarla ad allontanarsi. «Niente, non succede niente», risponde una voce. «Ce ne occupiamo noi».
Tifah si volta per guardare un’ultima volta Benjamin, che si sta sistemando la maglietta e che sta imprecando tra sé e sé, mentre i suoi compagni gli danno pacche amichevoli sulle spalle. Poi si accerta che l’agente di polizia si sia convinto a lasciar perdere ed infine, più tranquilla, si preoccupa di conoscere chiunque abbia deciso di intervenire.
«Non devo dirtelo io, che quelli non ci pensano due volte a metterti in galera, vero?» ricomincia il ragazzo, guidandola sul marciapiede ed interrompendo il contatto. Non è molto alto, ma ha un portamento ritto e fermo: ha una corporatura esile, una carnagione ancora più pallida di quella di Benjamin. Dal taglio di capelli è facile intuire che è anche lui un militare. «E se ti mettono in galera, la tua amica dovrà guadagnare ben più di cinquecento scellini, per tirarti fuori».
Tifah smette di camminare, obbligandolo a fare lo stesso. È agguerrita, accecata dalla rabbia. «Potrà sembrarti strano, ma non tutte le donne di questa città sono delle prostitute: Ryma non si guadagna da vivere in questo modo», specifica, incrociando le braccia al petto. «E di certo non ho bisogno delle tue spiegazioni sulla corruzione della nostra giustizia». Ormai la polizia si macchia di più crimini dell’intera popolazione: sfrutta qualsiasi occasione per arrestare qualcuno senza un reale motivo, in modo da costringere parenti ed amici a pagare un’illegale cauzione che funge esclusivamente da guadagno personale della guardia responsabile. Questo regime colpisce soprattutto i più giovani, che devono fare attenzione anche solo ad aggirarsi intorno a negozi chiusi oltre un certo orario, rischiando di essere arrestati con l’accusa di tentata rapina.
«Hey, rilassati», sorride il ragazzo, alzando le mani in segno di resa: ha un sorriso passabile, è il massimo a cui Tifah può pensare. «Non stavo dicendo che la tua amica è una prostituta. E poi, da come ti sei comportata, forse avevi davvero bisogno di un ripasso di come funzionano le cose nella tua città: fatto da me o da chiunque altro».
«Credo siate voi inglesi ad aver bisogno di un ripasso di come le cose funzionano da queste parti», ribatte Tifah, non disposta a cedere nemmeno un centimetro di terreno.
«Touché», replica lui, questa volta accennando una risata: non riesce a decifrarlo, non riesce a capire se la stia prendendo in giro – né il significato di quella parola.
Resta per qualche istante ad osservarlo, ma si attarda oltre il consentito, perché gli concede il tempo di parlare ancora. «Mi dispiace per Benjamin», esclama seriamente, passandosi una mano dietro la nuca rasata. «Da quanto ho capito ha fatto un errore di giudizio».
«Un errore di giudizio?» boccheggia Tifah, alzando un sopracciglio.
«Sono sicuro che non era sua intenzione offendere la tua amica: lui… Be’, a volte si dimentica di ragionare. Mi scuso da parte sua».
Tifah non risponde, troppo intenta a pesare le sue parole: non si fiderebbe nemmeno sotto pagamento, è contro la sua natura.
«Comunque io sono Ryan, piacere», riprende il ragazzo, porgendole cordialmente una mano.
Lei scuote il capo e si volta per andarsene, ignorandolo.
 
 
 
Ryma è stesa a letto, raggomitolata con il viso che fronteggia il muro in cemento rovinato. Tifah la osserva per un minuto buono, in silenzio, sfruttando il fatto che non si sia ancora accorta della sua presenza.
Sospirando piano, le si avvicina senza preoccuparsi di far rumore: si toglie le infradito e si sdraia accanto a lei, abbracciandola e facendo aderire il proprio addome alla sua schiena ricurva. «Dov’è Solomon?» le chiede a bassa voce, respirandole sul collo. Gli aveva ordinato di non lasciarla sola.
«Non ho bisogno di una balia», risponde Ryma gentilmente. Nella sua voce dolce, c’è un ringraziamento nascosto.
Tifah è in parte d’accordo con lei, ma non lo ammette. Sa perfettamente che forse la sua amica ha una forza diversa dalla propria e che può solamente invidiare, ma sa anche che il senso di protezione che prova nei suoi confronti è troppo grande per essere messo a tacere. Semplicemente non può permettersi di lasciare che qualcuno sia in grado di avvicinarsi abbastanza per danneggiarla.
«Ho sentito ogni schiaffo che le Mamme ti hanno dato non appena sei rientrata», ammette Ryma dopo pochi istanti. «Mi dispiace».
«Stai zitta», sbuffa Tifah, stringendola un po’ di più.
«Avresti dovuto finire di pulire, invece di preoccuparti di me», insiste lei.
«Zitta, ho detto».
Ryma la ascolta, ma solo per poco. «Dove sei stata?»
«Da Benjamin», confessa Tifah, ripercorrendo mentalmente ciò che è accaduto.
L’amica si agita tra le sue braccia, forse vorrebbe voltarsi per guardarla in viso, ma non le viene concesso. «Oh, Tifah…» sospira, arresa di fronte ad un’evenienza che aveva già immaginato.
Tifah le bacia una spalla, come per consolarla prima ancora di ferirla. «Avrei voluto avere torto», le dice soltanto.
Subito dopo, Ryma si sente libera di piangere apertamente, al sicuro nella sua stretta salda. Al ritmo dei suoi «Pole, pole» rassicuranti, che le camminano sulla pelle.

 


Rieccoci!
Spero di continuare ad aggiornare così regolarmente, sono quasi fiera di me ahahah E spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto :)
Passo subito ai vari commenti!
- Il ruolo delle Mamme comparirà ancora: ripeto che sono figure di """riferimento""" all'interno del centro, che si occupano di regole e compiti e che, come ho già suggerito, si dedicano più alle ragazze che ai ragazzi. Organizzazione delle pulizie e relative punizioni sono reali. A prescindere dal loro soprannome, sono viste solo come figure autoritarie: non c'è quasi nessun legame affettivo. Riguardo l'organizzazione del centro, la approfondirò più avanti: per ora non posso che introdurre le cose un po' per volta, altrimenti verrebbe fuori uno spiegone infinito ahaha
- Il Nayuri's Place è un nome di fantasia, ma si ispira ad un bar reale, molto frequentato dagli inglesi e dalle ragazze/donne che vogliono le loro attenzioni.
- La polizia è davvero corrotta fino a tal punto: per gli abitanti della città è un vero dramma, ne sono impauriti e non c'è alcun tipo di fiducia. Ciò che ho scritto riguardo la possibilità di essere arrestati con un finto pretesto è vero, succede spesso: così come è vero il dover pagare per uscire di prigione, il tutto ovviamente al di fuori della legalità. Ma se ne riparlerà sicuramente.
- Tifah. Il capitolo è nuovamente dal suo punto di vista e dà decisamente un aiuto nel comprendere il suo carattere ed il rapporto tra lei e la dolce Ryma: impiega davvero poco a comprenderla, anche se hanno due visioni diverse delle cose e due modi diversi di affrontarle. Tifah odia particolarmente gli inglesi, prova molto rancore nei loro confronti, e di questo si parlerà ancora più avanti: di conseguenza, si può capire come tutto sia ingigantito di mille volte ai suoi occhi. Questo, sommato alla sua impulsività e all'affetto nei confronti di Ryma, dà come risultato la sfuriata a Benjamin davanti a tutti. Premetto che la vera Tifah è davvero così, non scherzo: se qualcosa non va, non la fermi nemmeno con un carro armato. In più, la sua "volgarità" (me ne scuso, ma come avevo già detto ho intenzione di non abbellire nulla e di restare fedele alla realtà) e la sua sicurezza derivano dalla convivenza con i ragazzi del centro di recupero (ricordo che anche nel prologo non si era fatta problemi ad attaccare fisicamente Kelvin), dalla mancanza di genitori ed una certa disciplina. (PS: quando dice a Ryma di aver baciato un pezzo di chapati, si riferisce al colore chiaro del pane e quindi al colore della pelle di Benjamin :))
- Benjamin. Spero che sia chiaro cosa in realtà sia successo: partendo dal presupposto che ormai il rapporto tra i soldati e le donne è chiaro ai più, Tifah e la sua scarsa fiducia negli inglesi ci hanno visto giusto, nonostante Ryma abbia cercato un'alternativa per scongiuare il tutto. Benjamin non ha negato nessuna accusa, ma questo non vuole dire che sia una persona cattiva e doppiogiochista: paradossalmente, si è comportato ingenuamente basandosi su comportamenti considerati normali dalla maggior parte dei soldati. Ma anche di questo si parlerà ancora. Se qualcosa non fosse chiaro, ditemelo pure :)
- Ryma. Grande differenza tra lei e la sua amica, quasi in tutto ahahah Ma spero vi piacciano, hanno un legame molto forte! (Nella realtà non so esattamente quanto loro due siano legate, sono io ad averci romanzato su :))
- Ci tengo a ricordare che questa storia è ambientata in un ipotetico futuro, quindi alcune circostanze sono esasperate per via del racconto (come la diffusione della prostituzione e altre cose, che incontreremo più avanti), nonostante tutte reali.
Mi sono dilungata troppo, meglio smettere hahah Fatemi sapere cosa ne pensate, per favore, e magari ditemi cosa vi aspettate: ho già deciso di chi sarà il punto di vista del prossimo capitolo, ma vi chiedo lo stesso se avete qualche preferenza! Ah, e cosa pensate di Ryan? :)
Spero di non avervi deluse con questo capitolo e vi ringrazio per aver letto fin qui e per le recensioni :)

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Veronica.

 
 
  
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