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Autore: SnowDra1609    28/06/2015    0 recensioni
Il mondo è cambiato, così come le persone che lo abitano. Gli echi del passato cominciano a farsi sentire di nuovo e misteriose forze sono decise a fare in modo che nessuno possa udirli. Terroristi e soldati si contendono il segreto che potrebbe definitivamente cambiare il corso della Cosmic Era mentre un fuggitivo cerca i perché della sua vita. Seguito diretto di Scandinavian Conflict, forse è meglio leggersi il primo capitolo. A voi la lettura.
Genere: Azione, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scandinavian Tales'
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MEMORIA
 
Il mare non è mai stato amico dell'uomo. Tutt'al più è stato complice della sua irrequietezza
Joseph Conrad
 
Libero. Era la sensazione che più di tutte pervadeva lo spirito di Adrian nel momento esatto in cui si librò in volo insieme al Sinanju. Poteva sembrare strano, effettivamente. Essere in un mobile suit, in un campo di battaglia, costretto a seguire gli ordini. Ma Adrian sapeva che in quel singolo momento era veramente libero. Libero di scegliere ma più di tutto, libero di fare di nuovo la differenza. Ed era questo che, più di tutti, lo faceva sentire quasi felice. Lanciò i suoi DRAGOON, i suoi unici tre rimasti e si posizionò sopra la Minerva.
« Non credo ci sia bisogno di usare il vostro reattore … credo che quello nucleare del mio mezzo basti » disse a Gladys
« Lo avevo supposto in parte » rispose seccamente la coordinator « Ma la pregherei di avvertire se porta a bordo della mia nave un mezzo con un motore nucleare. Al primo incidente saremmo potuti esplodere »
« Lo escludo. Ho ottime misure di sicurezza » Adrian pilotò rapidamente i DRAGOON, cominciando ad aumentare le emissioni di particelle MC. Osservò i valori schizzare impazziti verso l’alto rapidamente e le particelle diffondersi. Secondo i calcoli del capitano, se la misteriosa nave di Phantom Pain fosse stata vicina eccessivamente vicina, le particelle MC avrebbero interferito con il normale funzionamento del Mirage Colloid e sarebbe stata visibile ad occhio e sensori. I DRAGOON non erano ancora nella posizione ottimale calcolata dalla plancia della Minerva che Bogey-1 sciolse il suo occultamento, attivando i cannoni laser e sparando una salva da una posizione comunque di vantaggio. La Minerva riuscì ad evadere la prima salva, lasciando che un paio di colpi impattassero a babordo, senza eccessivi danni. Adrian richiamò i suoi DRAGOON, osservando i mobile suits di Phantom Pain lanciarsi, l’Abyss calarsi nell’oceano e gli altri avvicinarsi rapidamente. Riconobbe quasi subito il Dagger-L responsabile dell’uccisione di Langstone, armato di Gunbarrel. Sorrise mesto, dando energia ai motori e lanciandosi in volo appena ritornati i suoi DRAGOON.
« De La Roux, non le ho dato l’ordine di allontanarsi » Gladys comparve nel casco di Adrian sotto forma di piccolo ologramma
« Se vuole aspetto che affondiate per attaccare »
« Il suo compito era solo eliminare l’occultamento di Bogey-1, rientri » Adrian rivolse un’occhiata quasi scioccata verso Gladys
« Capisco che non si fidi di me, capitano. Ma la sua è idiozia. Avete tre mezzi contro cinque, con Richer che sta rincorrendo il sottomarino nemico sott’acqua, cercando di evitare l’accerchiamento. Se fa tornare il Wolf, il sottomarino tornerà ad una superfice utile all’attacco e vi tempesterà di colpi con la nave nemica. L’unica sua speranza è che io vi assista nella battaglia, e non solo come scanner  mobile » Adrian frenò del tutto, avvicinando i DRAGOON a sé ed osservando i mezzi nemici avvicinarsi « Sono quanto lei desideroso di vivere. Faccia un atto di fede, capitano. Voglio aiutarvi, veramente » Gladys osservò lo schermo tattico. I puntini rossi ed il rombo raffigurante Bogey-1 si avvicinavano, la seconda che continuava a scaricare regolarmente i laser contro la Minerva, sempre più costretta ad evadere e sempre con maggior difficoltà. La linea indicante l’area operativa di Gibilterra, pur con i suoi ridotti mezzi, era vicina, ma non abbastanza. Gladys si guardò rapidamente intorno, come cercando una soluzione che già conosceva, per quanto poco le piacesse.
« Attacchi pure » concesse infine, socchiudendo appena gli occhi quando lo schermo di Adrian si fu chiuso ed il Sinanju fu tornato a correre.
 
Adrian puntò quasi subito al Dagger-L, desideroso di toglierlo di mezzo, sia per una ragione meramente tattica, che per puro spirito di vendetta. A modo suo, aveva apprezzato e voluto bene Langstone. Se gli era possibile, lo avrebbe vendicato. Lanciò i DRAGOON contro i Gunbarrel nemici alzando il fucile a raggi e sparando una prima serie di raffiche. I colpi si persero nel vuoto, rapidamente risposti dal mobile suit nemico. Adrian ruotò sul proprio asse, scansando e lasciando impattare un proiettile sullo scudo, replicando con i missili ed abbassandosi di colpo di quota, andando a sfiorare le creste delle onde spumeggianti e provando a prendere il Dagger-L dal basso, continuando a sparare. Il mezzo nemico si girò, provando a colpire, sullo sfondo il combattimento senza sosta dei droni. Due dei Gunbarrel erano già stati eliminati ed Adrian decise di approfittare della sua superiorità tecnologica. Attivò i vernier, schivando una raffica di CIWS e missili, alzando lo scudo e lanciando quattro micro-missili che esplosero in una cascata di raffiche di particelle, provocando un campo di disturbo che mandò in tilt il sistema di controllo dei droni nemici, costringendolo a chiamarli ed usarli a distanza ravvicinata. Adrian spinse i DRAGOON contro il nemico, cominciando a circondarlo e tempestandolo di colpi. Scaricò quasi tutti i suoi missili a corto raggio contro il Dagger, che fu costretto ad usare i Gunbarrel come scudo, perdendone altri due. Adrian deviò tutti e tre i cannoni mobili, lanciandoli contro l’ultima appendice nemica ed alzando il fucile, mirando ai propulsori del veicolo nemico. I colpi si persero di nuovo nel vuoto, abilmente evitati dal pilota nemico, un osso decisamente ostico, notò Adrian. Pur con tre anni di differenza, il Sinanju Stein era un prototipo all’avanguardia e conosceva pochi rivali, sicuramente non quel Dagger. Il pilota, però, era decisamente superiore al normale e questo Adrian lo aveva notato. Accelerò, abbandonando il fucile ed impugnando la spada mentre alla sua sinistra i DRAGOON sistemavano l’ultimo drone nemico, facendolo esplodere e tornando a concentrarsi sul mezzo nemico. Attivò la lama laser, caricando il Dagger. Usò lo scudo per coprire la sua carica, deviando tutta l’energia ai motori e sorprendendo l’avversario con uno scatto rapido, arrivando a colpirlo in pieno con lo scudo e riuscendo ad infilare la spada proprio nel braccio che reggeva il fucile, staccandolo di netto. Si allontanò, il tempo necessario per scaricare i CIWS sullo scudo, costringendo il nemico a rallentare ed a tenere alto lo stesso, provando a pararsi dietro di esso. Adrian caricò ancora, puntando la lama direttamente contro l’estrema difesa nemica, che si squagliò dinanzi la spada laser. Adrian spinse di lato l’elsa, spezzando lo scudo che cadde con un secco tonfo in mare. Rapidamente riposizionò il braccio, muovendo il collo meccanico per evitare i colpi dei 20mm dell’avversario e puntò al cockpit, mirando a tranciarlo di netto in orizzontale.
 
Maxwell decise di lasciare l’Abyss, che stava sicuramente nuotando verso la Minerva, a Shinn, preferendo concentrarsi sul contenere il Chaos ed il Gaia. Sapeva che il secondo era decisamente meno adatto al combattimento aereo, mentre il primo era più pericoloso, almeno relativamente parlando. Attivò i cannoni frontali, sparando una decina di raggi in direzione dei due prototipi, costringendoli a variare rapidamente la loro direzione. Estrasse una delle lame laser con la mano destra, attivando le mitragliatrici ad energia presenti nell’altra e tempestando il Gaia. Il pilota del mezzo nero provò a replicare, ma i colpi si infransero per lo più sullo scudo ad energia del Geymalk, costringendolo a cercare di retrocedere, provando a scansare le raffiche. Il Chaos si spostò rapidamente in soccorso del mezzo alleato, concentrando il fuoco sulle spalle del Geymalk scandinavo. Maxwell calò di quota, ruotando su se stesso e volgendo i primi colpi direttamente contro il doppio scudo del mezzo verde. Accelerò, caricandolo mentre il Gaia si rimetteva in posizione, provando a sparare un’altra scarica alle spalle del maggiore.
Carl riuscì a scansarli, mentre il Chaos sganciò i suoi due DRAGOON, cercando di accerchiare con il Gaia il nemico. Il combattimento cadde in una fase di stallo. Maxwell risparmiava energia per il colpo decisivo con il cannone particellare centrale, sufficientemente potente secondo i suoi calcoli da permettergli di sfondare anche le difese del Chaos. Ma aveva bisogno di energia e più tempo passava in aria combattendo contro i due avversari, più le sue speranze di riservarne a sufficienza per quell’unico colpo si facevano flebili. I due DRAGOON erano decisamente ostici per il grosso Geymalk. Anche se non erano letali, potevano incidere sulla sua resistenza globale. Deviò la rotta, evitando di incontrarsi con i cannoni frontali del Gaia, attivando i cannoni sulle gambe e centrando le spalle del mezzo nemico, che volò verso le onde marine. Parò un colpo del fucile del verde e provò a mirare ad uno dei due DRAGOON, attivando il cannone centrale e sparando una serie di tre colpi. Riuscì a sfiorare il volatile drone, ma non a centrarlo, eccessivamente veloce. Maxwell accelerò di nuovo, cercando di evitare le raffiche dei due prototipi. Il Chaos si era trasformato in mobile armor e stava diventando decisamente una sfida per lo scandinavo.
Si muoveva rapidamente, il verde, girando intorno Maxwell, tenuto quasi immobile dai continui colpi dei due DRAGOON e del Gaia, sparando raffiche rapide del 75mm martellando contro lo scudo del Geymalk. Maxwell azzardò un tentativo di carica contro il Gaia, estraendo la spada a raggi, ma fu in quel momento che il Chaos intervenne ancora con il cannone multi-fasico. Fu solo per un soffio che Maxwell riuscì a frenare ed a ritirarsi di lato, evitando il raggio che impattò contro la superfice del mare. Il maggiore sparò un rapido colpo contro il mobile armor, costringendolo a retrocedere prima di accelerare ancora verso il mobile suit nero. I DRAGOON si interposero, scaricando una salva di missili contro il gigante scandinavo. Maxwell scartò di lato, scaricando i CIWS sulle testate e distruggendone un paio con la spada, tornando contro il Gaia. Il mobile armor ritornò anch’esso alla carica, provando a centrare con un secondo colpo di multi-fasico il maggiore. I DRAGOON avevano affiancato lo scandinavo e stavano mirando i cannoni ad energia. Rapidamente il pilota del Geymalk puntò verso il mare, chiudendo la spada e tuffandosi in mare, lasciando che i colpi impattassero con un assordante boato contro la superfice. Si voltò, caricando le granate a concussione e lanciandole contro l’aria, lasciandole esplodere a mezz’aria intorno i due veicoli nemici. Emerse quasi subito alle spalle dei due nemici, attivando il cannone a mega-particelle e sparando un unico secco colpo contro il Gaia, centrandolo quasi in pieno. Un DRAGOON era stato spinto dal Chaos sulla linea di tiro, coprendo il cockpit del mezzo nero ed esplodendo, ma evitando che effettivamente il pilota venisse ucciso. Il cannone fu sufficientemente forte da spazzare via quasi tutti gli arti e le armi del Gaia, trasformandolo in un relitto inutilizzabile. Prima che ebbe toccato terra, il pilota evitò la morte sganciandosi ed andando a galleggiare nelle profonde e fredde acque dell’Atlantico. La loro nave madre se ne sarebbe occupata, Maxwell lo sapeva. Controllò il suo livello energetico, notando come fosse pericolosamente vicino al punto critico. Quel colpo gli aveva permesso di liberarsi di uno dei due nemici, ma erano una coppia e restava il Chaos, quello che voleva eliminare per primo, a prepararsi ad un altro giro di giostra. Maxwell strinse le mani intorno i comandi e decelerò, preparandosi al secondo round.
 
In due minuti possono accadere molte cose. Nel duello tra il Jegan Mk II superstite ed il Jesta ancora integro, due minuti erano stati quasi un’eternità. Si era fermati quasi a mezz’aria per qualche istante, prima che Lash decidesse di cominciare con un secco colpo del suo cannone principale, che era andato a sfiorare la gamba destra del mezzo nemico, senza riuscire a danneggiarla, ma spingendo il mezzo blu scuro a caricare, scaricando una prima salva di missili abilmente eliminata dal pilota dell’OMNI e poi provando ad avvicinarsi, capita la differenza di potenza di fuoco a distanza. Lash si vide costretto a mettere da parte il cannone, prendendo fucile e scudo e lanciandosi nel duello a distanza ravvicinata. I due mobile suit alleati si colpivano giravano uno intorno l’altro, sparando sporadici colpi ed ogni tanto avanzando di due passi verso l’altro, subito spingendo quest’ultimo a retrocedere ed a coprire quel passo con un colpo. Entrami tentarono di rompere lo stallo più di una volta, ora estraendo la spada, ora provando ad allontanarsi ed a sparare precise raffiche a maggior potenza.
Ma nessun tentativo, da ambo le parti, riuscì a portare a qualcosa. Per due minuti, un’eternità agli occhi di entrambi i piloti, tennero la mente concentrata sul proprio avversario, dimenticandosi del resto del mondo, delle navi madri. Per quei fatidici due minuti, entrambi i piloti sparirono. Non c’erano più menti e corpi, idee, ideali e valori, volontà o azione. C’erano due mezzi di metallo che si sfidavano nei cieli dell’Atlantico, in un micro-mondo composto da aria ed acqua ed energia, senza null’altro. Lash si sentiva estraniato da tutto ciò che non fosse quel singolo nemico. Mirava e sparava, accelerando, spingendo i vernier di lato per scansare, si alzava ed abbassava di quota, muovendo meccanicamente lo scudo per parare i colpi laser. Lui ed il suo nemico ripetevano i medesimi movimenti, come in un balletto. Ripetitivi si muovevano nelle stesse posizioni, sparando verso lo stesso obiettivo. Lash si sentiva intorpidito, anche se non sapeva perché. Si sentiva stanco, nonostante potesse sentire il cuore battere veloce nel cuore e l’adrenalina scorrere nelle sue vene senza sosta.
Rallentò, lasciando scorrere al suo fianco i colpi del Jesta, quasi incurante. Poi, in un attimo, la sfera di vetro in cui i due mobile suits erano chiusi si infranse. Lash spinse tutti i missili contro il nemico, accelerando al limite di rottura e lanciandosi in un’ultima, rapida, carica. Alzò il fucile e sparò, più e più volte, quasi senza mirare, prendendo con la mano che reggeva lo scudo l’elsa della spada e preparandosi ad attivarla. Riuscì ad evitare un paio di colpi del blu, lasciando impattare contro la spalla la gatling per darsi uno spazio di apertura nel duello. Il braccio destro perse di mobilità ma riuscì a superare la difesa nemica, avvicinandosi al mezzo nemico ed attivando rapidamente la spada.
Riuscì a tagliare la gatling e metà della testa, spingendo poi il braccio verso il basso, puntando al cockpit. Ma, riuscì a notare con la coda dell’occhio, il nemico aveva alzato lo scudo, mostrando l’elsa della propria spada. “Mi ha copiato il trucco”, si disse Lash mentre l’arma nemica si attivava.
 
« Io posso tenere a bada il Chaos per un po’, tu vai a salvare l’altro » Adrian si trasformò in mobile armor, usando la spinta extra dei DRAGOON per piombare sul mezzo nemico verde, sparando due colpi in rapida successione e ritornando in modalità suit appena messosi in mezzo tra il Chaos e Maxwell
« Ce la farai? »
« Ho un DRAGOON in più e spero più energia di lui … non è nucleare, vero? » Adrian si guardò rapidamente intorno, controllando sulla mappa la distanza della Minerva dalla linea di confine di Gibilterra. Shinn stava tenendo testa all’Abyss e tutto ciò di cui avevano bisogno era qualche altro minuto
« Spero di no per te » Maxwell chiuse e si lanciò contro Lash, bloccato insieme al suo nemico ad un centimetro dalla punta della spada. Il Sinanju eiettò i tre DRAGOON che lentamente cominciarono a muoversi in tondo intorno il veicolo bianco. Adrian cominciò l’accelerata, puntando contro il cockpit del nemico, direttamente. L’altro si trasformò, sparando un primo secco raggio multi-fasico e cercando e lanciando l’ultimo DRAGOON contro i tre del Sinanju. Apparentemente lo scontro era impari, per il mezzo rubato.  Adrian si lanciò in un’altra carica, schivando l’ennesimo raggio ed estraendo la sua lama. Provò con un fendente, scansandosi in tempo per evitare un colpo di cannone e provando ad attaccare dall’alto le braccia del mezzo nemico. Il pilota del Chaos fu sufficientemente rapido da schivare ed estrarre le proprie lame, parando il secondo colpo e replicando. Adrian scaricò i CIWS sul nemico, allontanando la minaccia e facendo qualche metro all’indietro, prima di lanciarsi ancora una volta. Le lame si incrociarono a mezz’aria, scontrandosi ed esplodendo in mille scintille.
Il giovane pilota ritirò il braccio, menando un altro veloce colpo. Quando tutte e due le lame del Chaos si furono posizionate a scudo, Adrian sfruttò il braccio libero per spingere con lo scudo direttamente contro il mezzo verde, cominciando a fare pressione sul cockpit. Tentò lentamente di voltare la mano meccanica insieme alla punta della lama verso la spada quando un colpo di cannone lo costrinse ad allontanarsi. Era stato un colpo non di grosso calibro ma aveva per qualche secondo rischiato veramente molto. La Girty Lue si stava avvicinando ed i suoi cannoni erano tutti puntati contro il Sinanju. “Un tiro pericoloso”, pensò usando lo scudo per parare un’altra scarica ed allontanandosi rapidamente provando a centrare il Chaos con un colpo di fucile, mancando il bersaglio di qualche metro. Evidentemente, si ritrovò a pensare Adrian, giudicavano il recupero di Gert decisamente più importante rispetto ai prototipi. Richiamò i DRAGOON, oramai sazi del drone del Chaos, in fondo all’oceano. Il mezzo nemico era sicuramente senza molta energia ed avrebbe potuto provare un rapido attacco alla nave nemica, sistemandola una volta per tutte.
Osservò per qualche istante lo scanner, controllando la posizione della Minerva. Mancava poco alla zona di sicurezza. L’Abyss sembrava star mettendo in seria difficoltà Asuka e Maxwell era ancora bloccato con Lash, che sembrava danneggiato. La tentazione di caricare la Girty Lue era veramente tanta, Adrian sentiva l’adrenalina spingere per una carica gloriosa contro la nave di Phantom Pain. Serrò le dita intoro le leve di comando, girando il mezzo e dirigendosi verso l’Abyss appena riuscì a notare che, come leggendolo nella mente, il pilota del Chaos aveva visto la sua situazione come troppo critica per continuare ed aveva optato per una tattica ritirata.
Adrian non perse tempo, voltando le spalle alla Girty Lue appena trasformato in mobile armor e lanciandosi contro la Minerva. Sparò un paio di colpi a vuoto, per far sentire all’Abyss la sua presenza e distrarlo dall’Impulse. Con mano rapida, Adrian scorrette la lista dei suoi equipaggiamenti, cercando qualcosa di appropriato per il combattimento sottomarino. Escluse tutte le armi ad energia, aveva poco che sparasse proiettili solidi. Delle granate e qualche missile potevano veramente poco contro l’Abyss. “Ho anche i coltelli”, pensò quasi ironico. Spostò la mano sul quadro comunicazioni
« Ehi Asuka, mi ricevi? » il casco del pilota rosso gli comparve dinanzi, annuendo appena « Bene. Io lo terrò impegnato ma non ho sufficiente potenza di fuoco per sistemarlo per sempre. Starà a te farlo » Adrian sospirò appena. Stentava a volersi fidare di quel pilota che non conosceva appena, ma vista la situazione si rese conto di avere ben poco da fare. Shinn avrebbe dovuto sparare da sopra l’acqua, con Sinanju ed Abyss entrambi sotto il livello delle onde, provando a non distruggere lui, aggiunse sommesso. Adrian caricò a pelo d’acqua, sparando un paio di colpi sulla superfice e spingendo l’Abyss ad immergersi di nuovo. Alzò lo scudo, lanciando un paio di granate che esplosero come mine subacquee, senza riuscire a capire se avesse o meno effettivamente centrato il bersaglio. Diede una rapida occhiata alla mappa dell’area. La linea di confine di Gibilterra era a meno di due minuti di distanza. Soffiò appena nel casco, sospirando ed accelerando, parando con lo scudo un colpo dell’Abyss comparso quasi dal nulla e gettandosi in mare. Lasciò i DRAGOON in superfice, a coprire la Minerva nella sua ritirata ed alleggerendosi di peso. Doveva essere il più mobile possibile, lo sapeva, correre e non fermarsi, nei limiti della sostenibilità del colosso bianco argento. Accelerò sott’acqua, lanciando lo scudo contro l’Abyss e provando ad allontanarlo. Sapeva che l’Impulse era collegato con i suoi sensori e sapeva che in quel preciso istante Shinn stava mirando. Doveva creargli le condizioni giuste di tiro e tutto sarebbe passato rapidamente. Scaricò tutti i missili sul mobile suit blu, costringendolo a ritirarsi ancora un poco più lontano. Un primo colpo di bazooka superò la superfice e si schiantò poco sotto l’Abyss. Lo avrebbe spaventato a sufficienza questo, ragionò Adrian. Si scansò, lasciando dietro di sé una scia di bollicine e di flutti, evitando i colpi secchi dei cannoni del mezzo di ZAFT. Decelerò, lasciando che un altro colpo di bazooka si frapponesse tra lui e l’Abyss. La Girty Lue si stava avvicinando, anche se questo Adrian non poteva saperlo. Non poteva sapere che sia Maxwell che Lash erano rientrati negli hangar e che Richer era ancora troppo lontana per riuscire ad assistere la nave. Mancavano ancora un minuto e trenta secondi perché la Minerva fosse, apparentemente, al sicuro. Adrian strinse i denti, accelerando e decelerando di continuo, in modo casuale, in modo da evitare di schematizzare i propri movimenti. L’Impulse aveva sparato un paio di colpi contro l’Abyss, al contempo modificando l’arma principale e mirando poi contro la nave nemica, per allontanarla o scoraggiarne un repentino avvicinamento. Ciò aveva scoperto la posizione di Adrian, con sommo smacco del pilota del Sinanju Stein. Accelerò, cercando di avvicinarsi e colpire con una secca spallata il mezzo nemico, evitando una prima scarica, venendo centrato in pieno dalla seconda. Un paio di luci gialle si accesero nel cockpit ma Adrian glissò le stesse, estraendo due piccoli coltelli e sparando con i CIWS sugli scudi dell’Abyss. Si abbassò di profondità, cercando di lanciare un primo coltello verso le gambe del veicolo nemico, mancando il bersaglio e rimanendo con una sola lama. La passò alla mano destra, la sua mano preferita, rialzandosi rapidamente e scansando un fendente della falce, provando ad avvicinarsi senza incappare di nuovo nei cannoni dell’avversario.
Mancavano trenta secondi alla linea di confine, sopra il livello del mare i primi colpi di Bogey-1 si schiantavano sulla poppa della Minerva. Dopo una prima scossa, ne seguì una seconda. Uno dei motori cominciò a fumare e la nave perse quota. Shinn era oramai preso dal mirare e sparare contro la Girty Lue mentre Adrian cominciava seriamente a sentire il peso della differenza strutturale tra il suo mobile suit e quello nemico, considerato l’ambiente. Riuscì ad infilare il coltello nei servomeccanismi del braccio destro, bloccandolo ma venendo subito costretto a retrocedere. Non aveva più armi fisiche e non poteva permettersi di lasciare agire l’Abyss. Doveva semplicemente fargli da mirino, per quanto poco la cosa gli piacesse. Un’altra cannonata si schiantò contro lo scudo e la mitragliatrice dell’Abyss lo costrinse a tenerlo su, il braccio che cominciava sempre di più a non reggere il peso dell’acqua e dei colpi. Fu solo quando, finalmente, la Minerva superò il confine che Adrian, richiamato dalle urla di Meyrin Hawke, diede massima potenza ai vernier, allontanandosi dal nemico a massima potenza ed uscendo in un sol balzo dall’acqua, coperto dal fumo nero dei motori della Minerva. Quando i segnali dei mobile suits di Gibilterra cominciarono a fare capolino sugli scanner della nave di ZAFT e, probabilmente, di quella di Phantom Pain, quest’ultima fece dietrofront, richiamando il suo ultimo veicolo ed allontanandosi. Adrian tirò un sospiro di sollievo, chiudendo un altro paio di fastidiose luci di avvertenza e chiedendo il vettore di avvicinamento alla Minerva.
 
*-*-*
 
Il pianoforte continuava a suonare senza fermarsi, seguendo le abili mani di Marc e delle note che esistevano, in quel momento, solo nella sua mente. Tasto dopo tasto le dita scorrevano la tastiera bianca e nera componendo nell’oscurità del salotto perso nel Pacifico una musica che mai Marc Drago ricordava di aver sentito. In quel momento sapeva di essere vivo, incredibilmente, sensazionalmente, vivo. Riusciva a sentire tutte le fibre del suo corpo sintonizzarsi con le note che abilmente lasciava libere di uscire dalla silenziosa ed immobile cassa di legno. Non stava pensando, si accorse Marc. Poteva lasciar scorrere i suoi pensieri su ben altro, lasciando che fossero le mani, automaticamente, a creare il giusto sottofondo. Gli ci volle poco, a perdersi. In pochi istanti si ritrovò sulla costa del Mediterraneo della Catalogna. Faceva caldo ed era stranamente solo. Non c’era nessuno, anche se gli ombrelloni erano aperti e c’erano effetti personali dappertutto. Ma dov’era la gente? Mentre la musica continuava, la domanda si ripeteva all’infinito. Dov’erano tutti? Poi ricordò i lampi. Ricordò lo stretto riempirsi di navi e cannoni ed i colpi. Tanti, tanti colpi. E ricordò ancora che ce n’erano stati prima di quel singolo istante. Attimo dopo attimo, riuscì a comporre il puzzle. Beethoven lasciò spazio a Chopin e il mare si trasformò in una città in fiamme. Bruciava, casa dopo casa, auto dopo auto. Dove prima erano le piazze, ora c’erano solo crateri ancora fumanti, freschi di cenere e sangue umano. Il bar della prima birra e del primo bacio, il cortile delle corse con il cane, la casa sull’albero, il palazzo del nonno. Bruciava tutto, intorno a lui. Sentiva ancora il calore sulla pelle, le gocce di sudore scendere dai lunghi capelli allora castani e gli occhi socchiusi, per le fiamme, la cenere ed il dolore nel tenerli aperti. Come si era salvato? La musica sembrava non riuscire a fargli scoprire quel piccolo frammento. Sembrava aver aperto tutta una serie di porte. Inconsciamente, mettendo mano per la prima volta dopo tre anni ad un pianoforte, improvvisamente sentiva che qualcosa dentro di sé si era sbloccato. Quelle che prima erano vaghe sensazioni, che lo perseguitavano da quando aveva tradito Intraworld, ora erano veri ricordi.
Continuò a suonare e si ritrovò, ancora una volta, a Barcellona. Era lì, a fissare l’ennesimo cratere. Ora sentiva le sirene e le urla lontane. C’erano persone vive. Perché non le aveva raggiunte? Perché era rimasto solo, tra le macerie, tremante di freddo, nonostante il caldo. Erano mobile suits quelli che si levavano dalla polvere, abbattendo aerei e palazzi? Provò a focalizzarsi su di essi? Sembravano essere GINN, ma nell’ombra scura non riusciva a rendersene conto. Sentiva il fuoco di cannoni ed il movimento di cingolati, lenti e goffi, tra le strette vie della città. Sentiva la cattedrale cadere sotto i lampi delle armi, i militari alla ricerca degli ultimi guerriglieri, sparsi in quella città oramai morente. Attimo dopo attimo scoprì il suo cammino fino a Barceloneta, tra i relitti ed i cadaveri. Non c’erano turisti, non c’erano spiaggianti. Non c’era nulla, non c’era nessuno di vivo che gli potesse parlare. C’era una radio che trasmetteva avvisi di emergenza in spagnolo stretto ed affrettato, concitato. Lo speaker quasi gridava ma, nel sottofondo, si sentivano le stesse bombe che un Marc più giovane di quasi tre anni e mezzo poteva chiaramente udire. Come echi, esplosioni su esplosioni riecheggiavano ora nella realtà, ora nello speaker. Sentiva il dolore nel suo braccio destro e del sangue scorrere verso terra. Si vide in ginocchio, ancora, su quella spiaggia. Solo che ora non era per raccogliere il suo zainetto caduto o per aiutare la sua prima fidanzata a distendere il telo. Sapeva di essere senza forze. Chopin si faceva sempre meno rumoroso, sempre più sottile. Cosa successe dopo? Marc cercò di sforzarsi. Ridiede vigore al concerto, premendo i tasti con irrazionale foga. Sentì i tasti tremare sotto la forza dei suoi muscoli. Si sentì sempre di più disperato, incapace di superare quell’ultimo, singolo, ostacolo. Cosa successe dopo? Cosa era accaduto su quella spiaggia, mentre Barcellona veniva avvolta dalle fiamme. Dopo l’ennesima cannonata, cosa lo colpì? Come si era salvato? Perché non ricordava? Marc strinse i denti, accelerando il ritmo del concerto freneticamente, stravolgendo la sinfonia ed entrando in un gioco di note che non aveva mai, realmente, sentito prima, perché mai prima d’ora era stato eseguito.
Perso nei meandri della sua memoria, il sole sorse alle spalle di Marc. L’ex terrorista rallentò il ritmo, adesso cominciando a suonare di nuovo dolcemente, pigiando piano la tastiera ed avvicinandosi al termine di quella sonata. Scosse appena il capo quando riuscì a far uscire, quasi con fatica, l’ultima nota. Si sentiva stranamente stanco, dopo quel viaggio notturno. Si sentiva più leggero, ma pesava ancora la sensazione che c’era qualcosa che mancava. Un puzzle a cui mancavano delle tessere che lui non sapeva dove pescare, visto che la sua memoria non gli era affatto d’aiuto. Sospirò, spostando lo sgabello da piano e sistemando giusto sotto la tastiera, ricoprendola con calma con il panno che aveva trovato prima.
Respirando piano, come se dopo quel folle strimpellamento si fosse accorto della presenza di esseri umani dormienti negli altri piani, ritornò sulla veranda. Venne accolto sul già caldo legno dai raggi del sole, che inondarono il viso del giovane. Bombe e fiamme erano lontane, nel tempo e nello spazio. Aprì gli occhi sulla sterminata distesa del Pacifico e comprese, pienamente, perché Adrian era rimasto lì, al riparo, così a lungo. Se erano vere anche solo metà delle storie su di lui, allora forse nessun luogo, come quello, era adatto ad ospitarlo. Lontano da tutto, da caos, amici, nemici, violenza. Un luogo solitario dove ritrovare, per qualche istante, una pace che troppo spesso si perdeva. Marc, si appoggiò ad una colonna, sporgendosi sulla piana verde, che diventava sabbia prima di diventare oceano e da lì si perdeva nell’orizzonte infinito e così come l’enorme distesa d’acqua, anche il ragazzo si perse, in un altro mare, in un altro orizzonte. Fu solo una voce umana, ore più tardi, quando oramai le lancette dell’orologio a pendolo avevano sfiorato l’otto elegantemente inciso sul legno, a risvegliarlo da quel sogno ad occhi aperti.
 
Lacus Clyne sembrava non essere mai andata a dormire. Incredibilmente, il suo viso, appena sveglia, sembrava fresco, i capelli erano ordinati ed il viso apparentemente in perfetto ordine. Marc ricordava perfettamente quante volte aveva preferito distogliere lo sguardo dallo specchio, appena svegliatosi. Che fosse dopo una notte di lavoro o una notte brava, era qualcosa assimilabile più ad un Picasso che ad un Michelangelo. Rispose al saluto chiaro della ragazza dai capelli rosa, concedendosi un tono quanto meno poco formale e decisamente più dolce del suo standard. Sapeva di essere in debito di ospitalità con lei, Yamato ed il Reverendo. La cosa, in parte, gli dava fastidio. Una delle sue regole era non essere mai in debito. Provando quanto meno a non lasciarla sola nelle faccende, si infilò dalla veranda alla cucina, avvicinandosi all’elegante piano di fornelli e vari strumenti, tra cui un set di pentole in acciaio e manici di legno. Si avvicinò con calma, con uno sguardo quasi perso, come se si trovasse in un mondo alieno.
« Non c’è bisogno che mi aiuti, me la cavo da sola, tranquillo » gli disse Lacus, quasi ridendo dinanzi l’espressione del tutto spaurita del pericoloso assassino.
« Non mi va di stare con le mani in mano » le rispose. Lei stava preparando delle uova col bacon, apparentemente, e c’era dell’acqua sul fuoco. Dalla presenza di pane vicino quello che doveva essere un tostapane automatico e della marmellata, suppose che stava anche preparando del tè. Con calma il giovane cercò le foglie aromatiche, iniziando a sistemare su un vassoio le tazze. C’era un’aria fresca, grazie alle finestre spalancate e dal piano di sopra cominciarono a provenire passi sommessi, leggeri.
« I bambini devono essersi svegliati … meglio che me ne occupi » Lacus guardò la cucina e si voltò verso il giovane spagnolo « Occupati di preparare tutto, allora » sparì dietro le porte di legno che davano sulla sala da pranzo sorridendo, lasciando solo Marc insieme alle sue nemesi per eccellenza: stoviglie e fornelli. In un modo quasi magico riuscì ad evitare incendi ed esplosioni, sistemando in una teiera principale l’acqua e le foglie ed accatastando in pochi minuti una montagna di uova, toast e pancetta. C’era un carretto, destinato a non far affaticare la cantante coordinator e Marc optò per usarlo a sua volta. Stava uscendo dalla cucina quando Helena fece la sua comparsa. Indossava dei pantaloni lunghi, di taglio militari, chiaramente di Marc ed una maglietta bianca scollata, che deviò quasi subito gli occhi di Marc, prima che si concentrasse di nuovo sul suo carico.
« Direi che passare da membro di Intraworld a … cuoco è un passo in avanti interessante, per uno come te » Marc sorrise sentendo nella voce di Helena una seppur leggera vena di ironia, così da lei.
« Direi proprio di sì. Ma ammetto di far schifo, come cuoco. Meglio come carpentiere » le assicurò, spostando il carrello in stanza da pranzo e cominciando ad aprire una ad una tutte le mensole ed i mobili, alla ricerca dei piatti. Helena si godette lo spettacolo pietoso prima di aprire un mobile a cui si era appoggiata e che Marc aveva abilmente saltato, estraendo il necessario. Lo spagnolo si concesse una smorfia prima di cominciare ad apparecchiare. I passi si facevano sempre più frequenti, ai piani superiori.
« Ti ho sentito suonare. Alle sei del mattino » Helena fissò la schiena dell’ex terrorista per qualche istante, incrociando le braccia sotto i seni
« Ti avrò svegliata … scusa »
« Già, ma è stata una bella sveglia, lo ammetto » sorrise appena, leggermente. Sulle braccia erano ancora visibili alcuni lividi, ma stavano sparendo, molto rapidamente. Evidentemente le cure di Lacus funzionavano « Non sapevo sapessi suonare »
« Non lo sapevo neanche io, fino a qualche ora fa » abbassò lo sguardo e poi lo rialzò, quasi carico dii una nuova volontà « Ed ammetto che ho scoperto che mi piace, anche » sorrise ad Helena, finendo di apparecchiare « Chissà … forse alla fine di tutto questo … » si interruppe, quando vide una carica di bambini appena svegli ed affamati praticamente sfondare i cancelli della sala da pranzo.
 
Il Reverendo si era ritirato nel suo studio mentre Lacus era andata a portare a passeggiare i ragazzini insieme all’Haro verde. Marc, dal canto suo, era ritornato nella veranda, l’appena eletto suo luogo preferito. Helena lo fissava da qualche metro di distanza, ancora con le mani incrociate sotto i seni ed il viso quasi sereno, anche se gli occhi, fissi sulla schiena ricurva del giovane pilota, sembravano ardire ad una domanda ed essere molto vicini, infine, ad esporla. Il vento soffiava lentamente e portava con sé, da lontano, umidità e nuvole grigie che annunciavano pioggia scrosciante. Marc pensò che, per ora di pranzo, sarebbe giunta e sarebbe sicuramente stato uno spettacolo niente male. Appoggiò i gomiti sulla ringhiera di legno, leggermente scricchiolante sotto il peso delle braccia dello spagnolo.
« Quindi, che si fa? » la voce di Helena si perse nell’aria fresca dell’isola. Marc non l’ascoltava o apparentemente diede segno di non starlo facendo in quel preciso istante. Gli occhi azzurri erano fissi sulle onde che lentamente sbattevano contro i piccoli scogli che frastagliavano la costa. Lei sbuffò appena, notando come era stata decisamente ignorata ma Drago non l’aveva realmente ignorata, stava semplicemente pensando ad una risposta che non fosse un mugugno poco amichevole. Non aveva la minima idea di cosa fare e, cosa più importante, non era sicuro di voler includere anche lei in quella storia. Lo sguardo della spia sembrava calmo, ma Marc aveva imparato a leggere al di là del primo strato, quasi sempre una falsa pista per gli scrutatori poco attenti. La tortura, per quanto leggera, per quanto relativamente poco fosse durata, era pur sempre tortura. E lasciava dei segni. Segni che poteva essere nel corpo ma che il più delle volte erano nello spirito. E lei li aveva, quei segni, come chiunque.
« Andrò alla ricerca di Terminal » rispose secco, voltando le spalle al mare e fissandola « Tu lavori per lui, un tuo aiuto mi sarebbe molto utile ma … » fece una pausa, lasciando calare di nuovo il silenzio. Intercettò lo sguardo acceso e curioso di Kira, appena uscito dal salone principale « … non ho il diritto di chiederti di venire. E tu non hai il dovere di farlo » fece spallucce, mettendo le mani in tasca e fissando con la coda dell’occhio un paio di nuvole in lontananza. Helena non rispose, stringendosi leggermente di più tra le braccia e volgendo lo sguardo verso il pilota del Freedom. Marc notò quello scambio di sguardi e qualcosa, in quel momento, si accese. Non era la prima volta che si vedevano, lo capì. Ma com’era possibile? Si erano incontrati durante la guerra? Prima? Dopo in qualche isola sperduta nel Pacifico? C’era qualcosa in quella storia che gli era decisamente poco chiaro, giusto per cambiare, si disse. E quello strano sguardo che i due si erano lanciato era un altro indizio.
« Come vorresti comportarti? » chiese lei spezzando quel silenzio freddo che era calato sulla veranda
« Proverei con le maniere gentili. Dopotutto, si tratta per una volta di ridare al giusto proprietario »
« E se rispondesse di no? » gli occhi di Helena si erano fatti di nuovo duri, velati da un leggero grigiore che spegneva la naturale luce che solitamente possedevano. Anche le spalle ed il collo si erano irrigiditi, dandole una formalità che raramente Drago aveva visto in lei. Lui evitò la domanda con uno sbuffo sottile, senza aprire bocca.
« Torneresti in tutto quello … per aiutare il tuo amico? » fu Kira a parlare, facendo sentire la sua voce solitamente bassa « Saresti disposto a questo, per aiutarlo? » Drago lo guardò per qualche istante, per poi volgere gli occhi al pianoforte senza suonatore, al salone ed alla pace di quell’isola perduta.
« Non è mio amico » sancì lui, secco « Ma mi ha aiutato e gli darò una mano a mia volta. Tutto qui. Mi sembra equo »
« E ti fidi di lui? »
« Tu lo faresti? » chiese Drago, volgendo gli occhi azzurri contro quelli violacei del coordinator supremo. Lui sorrise appena, scrollando il capo. Marc annuì in risposta, ma non disse altro. Non lo avrebbe certo detto a voce. Le parole sono spesso giuramenti, per quanto volatili possano essere. E Drago non avrebbe mai ammesso che, per la prima volta da quando aveva memoria, il che era poco, ad essere sinceri, aveva sentito un moto naturale di fiducia nei confronti dell’ex principe di Scandinavia. Kira, dal canto suo, sapeva perfettamente di cosa era stato capace, sia nelle cose buone che in quelle decisamente malvage, Adrian De La Roux. La redenzione era un cammino difficile, glielo diceva spesso il Reverendo. Era un cammino irto di spine, perché non sempre le persone saranno pronte o vorranno darti una seconda occasione. Ed ancora peggio è quando il redento non è pronto a perdonare se stesso. Adrian sembrava propenso sia al perdonare se stesso sia al tentare di fare la cosa giusta, quella volta. Gli occhi di Marc suggerivano che anche il giovane catalano, dal canto suo, voleva fare la cosa giusta, quella volta.
« So io dove potresti trovare Terminal. Forse non sarà così difficile. Ma ne parleremo dopo » sancì Yamato « È ancora una bella giornata. Forse è meglio che vi facciate due passi mentre io faccio il casalingo » sorrise ai due, rientrando nel salone e lasciandoli nuovamente soli. Le due nuvole si erano moltiplicate, divenendo quattro e Marc scrutò con attenzione le collinette che si snodavano dai fianchi della casa fino al retro, continuando fino all’altra costa. Trovò da lontano un percorso e decise che, se proprio doveva fare due passi, un percorso caratteristico sarebbe stato ideale. Guardò per qualche istante Helena, che aveva sciolto le braccia e si era avvicinata alle scalette che dalla veranda portavano sulla sabbia della costa. Marc la seguì a passo svelto.
 
Marc non si rese conto di quanto effettivamente avesse camminato fino al momento in cui mise piede sulla cima più alta dell’isola. Il che non era molto, a dire il vero. Forse duecento, forse anche meno, metri sul livello del mare si stagliava la collina che sovrastava verdeggiante, coperta da palme medie e bassi arbusti, tutta l’isola. Riusciva a scrutarla per intero e non era molto grande, anche se era decisamente carina. Vicino la casa riuscì a notare un paio di strutture di magazzini, dei relitti in lontananza ed una chiesetta. Sembrava un posto bello, dove con la giusta compagnia si sarebbe potuti persino invecchiare, isolati dal mondo. Mosse automaticamente gli occhi su Helena, seduta su una larga e bassa pietra grigio scuro, appena coperta sulla base da muschio dall’odore forte, aromatico. Marc si gettò sull’erba, silenzioso, distendendosi sul bordo della collina, fissando il cielo percosso da vento e nuvolette piccole e tonde, quasi dolci. Socchiuse gli occhi, usando le braccia a mo’ di cuscino, com’era suo solito fare e lasciando che il vento gli passasse lento tra i capelli tenuti corti e gli sfiorasse la pelle. Era una sensazione di pace maledettamente bella, pensava. Riusciva, in quell’istante, a dimenticare tutto. Non c’erano Terminal, Adrian, Siders ed Intraworld. Non bisognava dare la caccia ad un computer, ad un chip o ad un file. Nessuna battaglia, nessun mobile suits. Solo la pace di una collina silenziosa, scossa da un placido vento lento e caldo che sembrava suggerirgli, all’orecchio, sottovoce, di addormentarsi e non pensarci affatto a quel mondo maledetto.
Riusciva a sentire un eco nel vento, l’eco di una voce melodiosa che gli stava suggerendo chiaramente di socchiudere gli occhi e dormire, per un po’. Lo fece, senza preoccuparsi di nulla. Ed Helena probabilmente, per tutto il tempo, si limitò a sua volta a restare seduta a gambe incrociate su quella pietra sufficientemente grande da contenerla tutta quanta. Entrambi, la spia ed il soldato, avevano bisogno di pace. Una pace che speravano non fosse momentanea, no, ma che fosse duratura, per quanto incredibile potesse apparire quel sogno così vago e così lontano. Entrambi, in fondo, sapevano che non erano destinati a restare lì a lungo, anzi.  Entrambi, per quanto poco lo volessero ammettere, sapevano di non saper vivere la pace, non quando c’era così tanto da fare e così tanto per cui lottare.
Marc, immerso in un mondo ancora più lontano dall’idilliaca pace, aveva un compito da svolgere. E quei sogni glielo ricordarono, molto bene. Quando schiuse gli occhi e fissò le spalle scoperte di Helena, lei era ancora sulla pietra, i capelli che si muovevano lentamente ed il viso fisso verso Ovest. Il cielo si era fatto più grigio che azzurro oramai. Gettò una rapida occhiata all’orologio da polso, guardando per qualche istante la lancetta quasi sistemarsi sul dodici argentato. Riportò il braccio dietro la nuca, per nulla intenzionato ad allontanarsi da quell’idillio, neanche con la minaccia della pioggia. Helena dal canto suo sembrava condividere quella volontà con il giovane catalano. Anche se intorpidita dalla posizione assunta, il prezzo sembrava equo. Un paesaggio spettacolare, l’oceano con sopra nuvole di ogni tonalità di grigio che si scontravano per il dominio del cielo, gli si presentava dinanzi gli occhi e voleva godere ogni istante possibile di quella vista. Ma più i minuti passarono più, scossi dal vento, ad entrambi parve di sollevarsi dal torpore. Come se avessero vissuto fino a quel momento in un sogno, man mano che il cielo si faceva più grigio e da lontano rimbombavano secchi i tuoni, Helena e Marc smisero di sognare. Per quel fatale attimo in cui la sfera in cui si erano chiusi si era aperta, entrambi tornarono ad aprire gli occhi. E scesero dalla collina, silenziosi, dirigendosi verso la tavola da pranzo già imbandita.
 
Nessuno parlò. L’aria fredda che aveva portato la pioggia aveva cinto la casa e gocce quasi silenziose d’acqua cadevano senza sosta, leggere ed appena udibili. Il suono era una melodia da cui difficilmente si staccava l’orecchio, notò l’ex Intraworld e forse per questo nessuno parlò. Ma quando i bambini furono andati a riposare e solo gli adulti furono rimasti nel salotto, Lacus e Kira fissarono i loro due ospiti con apprensione e, notò Marc, con una certa quasi soddisfazione.
« Tu vuoi cercare Terminal, Drago » cominciò lei, unendo le mani sul grembo, appoggiata con fierezza alla poltrona di pelle vicino il camino rosso « Ma Terminal ha trovato te nel momento in cui hai messo piede qui. Sono io Terminal » Marc fissò per qualche istante la rosa. Spostò lo sguardo tra Helena, Kira ed il Reverendo, che dava le spalle a tutti, il viso diretto verso le porte aperte che davano sulla veranda sempre più bagnata.
« Stai scherzando … » mormorò appena
« No, per nulla » Lacus trasse un gran respiro, fissando con i due grandi occhi color azzurro ceruleo Marc, continuando poco dopo « Sono sempre stata io, insieme agli altri membri dell’Archangel, della Kusanagi e della Eternal » sintetizzò in pochi minuti quanto avevano fatto in quegli ultimi anni ed Marc quella nuova verità apparve decisamente fin troppo incredibile.
« Come avete fatto a muovervi … la rete di spie. È un’opera colossale per un gruppo così ristretto »
« Proprio perché siamo pochi, almeno all’apparenza, riusciamo a muoverci così bene. E contiamo anche su certi aiuti non ufficiali. Conosci Simon Baldwin? » Marc annuì appena, con una smorfia
« Mi ha aiutato, a suo tempo »
« Si, lo so » lei piegò appena lo sguardo, seguendo il corso degli occhi di Marc « Era un ex membro dei Siders, come lo era Adrian De La Roux, in un tempo in cui Intraworld non era nulla, nemmeno una teoria. Vigilava sul Principe, fino a che egli non prese una via diversa e Simon lo seguì nell’ombra. Quando anche Adrian fallì, crollando nel suo stesso incubo, Simon, i suoi uomini ed altri erano persi, senza guida. Si sono uniti nel sogno di creare la pace e da allora mi aiutano attivamente »
« Ma Simon non sapeva di Adrian, perché? » Marc respirò appieno, calmando i nervi improvvisamente tesi. Doveva concentrarsi se voleva capire, meglio, quella folle situazione
« Gli ho mentito, perché pensavo che sapere la verità su Adrian troppo presto sarebbe stato un colpo eccessivo, anche per lui. Per troppi »
« Sarà un colpo quando, vivo e vegeto, farà la sua comparsa in Scandinavia a bordo di una nave di ZAFT pilotando un mobile suit senza designazioni ufficiali » rispose lui, ironicamente. Ma lo sguardo di Lacus era del tutto serio e il breve sorrisetto che si era disegnato sul viso di Marc sparì
« Adrian dovrà smettere di vivere nell’ombra. Forse c’è di nuovo bisogno di lui come leader »
« Non sembra propenso a riprendere il ruolo »
« Dovrà » il Reverendo, ancora voltato verso l’oceano, aveva assunto un tono quasi malinconico « Le cose stanno peggiorando ed il mondo avrà bisogno di persone come lui, come Alex Ground ed anche di persone come te. Avete vissuto nell’ombra, combattuto nella notte per quello in cui credevate, giusto o sbagliato che fosse » il tono aveva assunto ora una nota tragica « Il mondo non è per nulla quello che sembra, Marc Drago. Ci sono persone che sembrano santi e sono diavoli e diavoli all’apparenza santi. Non sempre la gente riesce a distinguerli e finisce per seguire folli sogni di gloria, piuttosto che di pace. La guerra di tre anni fa ne è stata la dimostrazione. Azrael, Zala, Adrian, hanno guidato le persone che li adoravano fino alla morte, compresa la loro. Dobbiamo evitare che succeda ancora » Marc si abbandonò allo schienale in vimini, volgendo gli occhi verso la pioggia. Continuava, senza interruzione, quel lento malinconico canto del cielo. L’oceano era appena scosso da quella scorrere apparentemente infinito, che rimbombava sulle assi di legno del soffitto, sulla terra oramai fango, sulle piante appena scosse.
« Se tu sei Terminal … suppongo Adrian non lo sappia no? » lei fece un cenno di diniego « Se tu sei Terminal allora … hai anche il file che serve ad Adrian »
« Si, ce l’ho io. Ho quello che serve ad Adrian ma non lo avrà, fino a che non confermerò le sue intenzioni » gli occhi dello spagnolo si posarono, brevemente, su tutti i presenti
« E cosa dovrei fare io, nel frattempo? Mi ha chiesto di recuperare il file, nient’altro » Lacus sorrise, accogliendo sulle gambe l’Haro verde e sorridendo
« Potrai rilassarti ma non solo. Uno come te può fare tante cose e non per forza con un veicolo. Ma Helena deve riposare ancora un po’ e senza di lei, tu non ti muovi » Lacus sorrise, alzandosi mentre sprazzi di luce superavano lo scudo grigio formato dalle nubi, illuminando a tratti l’oceano « È tornato il sole, i bambini vorranno andare a passeggiare. Marc, perché non li accompagni tu con Kira? »  Marc non riuscì a capire se quelle ultime parole fossero state degli ordini o solo dei consigli. Ma decise di interpretarli come i primi.
 
*-*-*
 
Gibilterra era baciata da sole. Il caldo che la nave di ZAFT aveva trovato in Nigeria sembrava averli seguiti sulla scia di un vento del sud, che batteva lento contro le alte rocce delle colonne d’Ercole, scalfendole appena. Il porto di Gibilterra sembrava quasi del tutto vuoto. Dopo la guerra ben poche forze coordinator erano rimaste lì sulla Terra ed in quel momento vi erano pochi soldati a difesa dell’installazione ancora in mano alle forze di PLANT. La nave ormeggiò lentamente coperta da una sottile coltre di nebbia poco fitta che a banchi si spargeva lungo tutte le cose dello stretto. Adrian si era seduto su uno dei ponti superiori, la schiena attaccata alla paratia di metallo. Un soldato, fucile a tracolla ed occhi socchiusi dalla stanchezza, gli faceva da guardia. Adrian non sentiva tutto questo bisogno di sicurezza, ma, a parere del capitano, nonostante tutto c’era ancora ben poco da fidarsi.
Case bianche e piccoli palazzi facevano lentamente la loro comparsa sulle rive rocciose di Gibilterra, quasi sovrastando la base che ancora, tranquilla, sonnecchiava, nonostante l’appena cessato allarme. Un paio di monoelica sorvolavano la nave tranquilli insieme a due vascelli decisamente infimi in quanto a grandezza rispetto all’ultimo prototipo delle forze di ZAFT. Su tutta la scena era calato il silenzio, una volta che la Girty Lue ed il suo misterioso sottomarino avevano optato per una provvidenziale ritirata tattica. Adrian osservava con sguardo quasi curioso la scena che gli si presentava dinanzi. Era la prima volta che entrava in Europa da quel punto e la vista lo soddisfaceva appieno. Il Sole trafiggeva i banchi di nebbia quasi dolcemente, spezzandoli ed illuminando con dei vistosi raggi giallastri la via della Minerva. Quando finalmente la nave ormeggiò, Adrian trasse un gran respiro. Si alzò da terra, sistemando con un movimento automatico la giacca della sua divisa da freelance ed avvicinandosi al parapetto in metallo, appoggiando le mani e quasi sporgendosi per osservare. La guardia aveva avuto un sobbalzo vedendolo muoversi e si era avvicinata, quasi di soppiatto, alle sue spalle. Pronta a balzarmi addosso, pensò il giovane. Gli occhi del decaduto principe erano però presi da alcuni veicoli posizionati sui moli. C’era un piccolo gruppo di persone che si era sistemato nel miglior modo possibile per ammirare l’ingresso della nave. La cosa che però, al volo, attirò la vista del biondo fu il fatto che quasi nessuno di essi era effettivamente in divisa. Scrutò da lontano, per quel poco che gli fu possibile, le persone sistemate vicino i veicoli e nessuno, se non poche guardie di ZAFT verdastre ed un ufficiale di bianco vestito, avevano l’uniforme.
 
Quando i portelloni di attracco della Minerva si aprirono, in barba ad ogni regolamento, il capitano Honnenberg si era già fiondata superando tutte le porte e le guardie. C’era uno strano silenzio nel corridoio in cui il capitano si era infilato. Il primo ufficiale della nave era riuscito solo di sfuggita ad osservare la sinuosa figura del capitano scandinavo destreggiarsi rapidamente tra due civili e due guardie e come di impulso muoversi direttamente verso la plancia, dove il capitano Gladys aveva riunito piloti ed ufficiali. Arthur Trine dovette accelerare il passo per rimettersi silenzioso al fianco della scandinava, il viso corrucciato e gli occhi velati da un minimo segno di stanchezza. Non dormiva da quasi un giorno, costretta a rincorrere ufficiali e politici, cercando di sondare insieme agli altri membri del consiglio di Ground il terreno scandinavo, un terreno che era divenuto improvvisamente fragile e fangoso. Si infilarono in un ascensore, comparendo dopo una manciata di secondi nella plancia immobile negli attenti ordinati da Gladys.
« Capitano Gladys, sono felice di sapere che ce l’avete fatta ad arrivare qui sani e salvi » disse Honnenberg, rispondendo all’attenti con il saluto militare scandinavo, osservando brevemente i piloti sopravvissuti. Quando gli occhi si fissarono sull’unico OMNI rimasto e sui piloti scandinavi una vela malinconica prese il posto della stanchezza, rapidamente sostituita da leggera rabbia quando incrociò gli azzurrissimi occhi di Adrian De La Roux.
« È stato complicato ma ce l’abbiamo fatta » rispose il capitano della Minerva, rapidamente intercettando la traiettoria degli occhi di Honnenberg e facendosi di lato, come a lasciare spazio tra i due.
« Ho saputo che avete guadagnato due “ospiti” » sottolineò la scandinava, tenendo gli occhi fissi sul biondo.
« Si, così pare. Presumo saremo presto in grado di portare Gert in Scandinavia per l’interrogatorio congiunto » Honnenberg annuì quasi distratta. Si mordicchiò appena il labbro inferiore, come se stesse valutando delle frasi da dire, per convenzione o forse per ordine « Mentre il secondo ospite è a vostra disposizione, come da lui stesso affermato » il capitano tirò un sospiro di sollievo. Per qualche istante aveva pensato che il vecchio sovrano avrebbe potuto, o voluto, offrire una qualche resistenza.
« Sono a vostra disposizione, capitano Honnenberg » disse Adrian estraendo un padd dalla tasca posteriore e porgendoglielo « I dati del Sinanju Stein ed i comandi basilari remoti, così da poterlo portare con noi a Stoccolma » il capitano afferrò il padd con un gesto secco, gelando con gli occhi il giovane principe che si ritirò di un paio di passi dinanzi la freddezza dell’ufficiale. Se l’aspettava, ma non era del tutto pronto. Lo sapevano entrambi.
« Bene. Ci sono persone che aspettano con ansia il suo ritorno a casa, Altezza » il termine fu quasi sputato con veleno da Honnenberg che si voltò poi verso i piloti scandinavi « Voi avete l’ordine di continuare l’operazione a bordo della nave. Scorterete il vascello fino a Stoccolma, dove poi si vedrà cosa fare » disse addolcendo quasi il tono « Siamo fieri di voi » concluse.
Furono poi minuti di convivialità, di frasi formali scambiate a mezza voce e di riparazioni che dovevano cominciare. Adrian recuperò la sua roba, dirigendosi in abiti civili verso l’uscita, scortato da Maxwell.
« Penso ci rivedremo alla capitale, Adrian » disse il maggiore, camminando al fianco del suo vecchio superiore con le mani in tasca
« Si spera … si spera? » domandò infine, sistemando con un lento gesto il suo borsone sulla spalla destra e superando infine i portelloni d’attracco. Gettò di sfuggita un’occhiata al Sinanju che veniva, lentamente, trascinato fuori dalla Minerva da una gru e caricato disteso su un camion, pronto ad essere portato ai trasporti scandinavi.
« Dipende da molte cose, direi »
« Troppe cose » Adrian si concesse una smorfia, osservando gli agenti dei Servizi Segreti, riconoscibili dalla posa plastica e dal viso sempre corrucciato, che lo attendevano vicino le jeep scoperte. Honnenberg non era ancora arrivata. Aveva qualche minuto, si disse.
« Cosa farà? »
« Come le ho detto, maggiore, chiuderò i conti. E poi ho un po’ di soldi da parte, presumo che, se così vorrà la volontà di Alex » sorrise al nome « Potrò ritirarmi da qualche parte in solitudine. Ammetto che come prospettiva non è del tutto malvagia »
« Sembrerebbe quasi troppo facile così » Maxwell tolse le mani dalle tasche. Gli agenti avevano quasi circondato l’area, quasi con nonchalance, come se si aspettassero un tentativo di fuga. Sullo sfondo dei tecnici di ZAFT finivano di attaccare con i cavi d’acciaio la gigantesca figura bianca nota come Sinanju.
« Forse non sempre è difficile. Ci vorrà pure qualche volta in cui è facile, no? » Adrian si avvicinò ad una delle jeep, sistemando sui sedili posteriori la borsa e saltando sopra il veicolo. Honnenberg era comparsa al portellone della Minerva mentre ancora parlava con Gladys. Adrian sospirò appena, chiudendo lo sportello della jeep mentre gli agenti cominciavano a risalire « Mi ha fatto piacere scendere in battaglia con lei, Maxwell »
« Anche lei se la cava ancora bene … non ha perso il tocco »  Adrian sorrise. Gli occhi intercettarono il capitano che girò intorno l’auto su cui era a bordo, andandosi a sedere al suo fianco. Il principe rabbrividì per qualche istante prima di fare il saluto alla guardia reale.
« Ci vediamo a casa, maggiore » Maxwell fece il saluto a sua volta, allontanandosi quando i motori delle jeep cominciarono a rombare ed il convoglio partì. Rimase solo, sulla banchina. Faceva caldo, un caldo a cui Maxwell non era abituato, come al solito. Si slacciò il colletto, osservando il sole quasi oramai pronto a tramontare sull’Atlantico, vasto ed enorme. Sospirò, rimettendo le mani in tasca, mentre una piccola flotta di mezzi e tecnici si concentravano sulla Minerva. Lanciò un calcio alla polvere, voltandosi verso il boccaporto dove la figura di Gladys lo stava osservando e dirigendosi verso di essa. 

Mi secca aver pubblicato così in ritardo la storia. Ma per una volta è stato solo il tempo ad essermi nemico. L'ispirazione c'era, mancavano le ore per scrivere.
Spero anche questo vi sia piaciuto. Incredibilmente pare che i lettori crescano. Cercherò di approfittare del momento favorevole per scrivere più in fretta. Alla prossima, che si spera sia presto :D 

 
  
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