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Autore: Acinorev    29/06/2015    3 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Hola!
Scusate il piccolo ritardo, ma sono stata impegnata e poi in vacanza :) Piccole precisazione e poi vi lascio al nuovo capitolo:
- il nome Bahati significa "fortunato/benedetto";
- il chai è una bevanda composta da thè e latte, molto diffusa e amata: spesso le giornate si interrompono proprio per dedicare del tempo a berne un po'. Può capitare di andare in banca o persino in ospedale e di dover aspettare che si finisca di bere il chai :)

 

 

Capitolo tre
Una famiglia

 

Quante cose nascondi, quante cose hai da perdere
 

Solomon è ancora sveglio: ha superato a stento le ore più critiche, i momenti nei quali è stato tentato di cedere ed arrendersi. È sdraiato a terra, sull’erba rinfrescata dalla notta nera: si regge sui gomiti, guarda lontano e sembra che stia aspettando di essere illuminato da un sole tiepido che sta per sorgere. Puppy sta dormendo con il mezzo busto dorato sulle sue gambe tese, russa come un uomo e, sempre come un uomo, è piuttosto irascibile quando viene svegliato: per questo Solomon non osa sottrarsi a quell’incastro, nonostante non senta più un piede.
Il Kenyatta Centre sta ancora sognando ed è stranamente silenzioso: presto si alzeranno tutti, si solleverà un gran frastuono di voci ed oggetti spostati, di litigi per chi deve lavarsi per primo e sgridate rivolte a chi non vuole farlo. I più piccoli porteranno i propri materassi sottili e rovinati fuori ad asciugare: li stenderanno a terra, confidando nel calore del sole per nascondere le tracce di urina, le tracce di un vizio del quale non riescono a sbarazzarsi. Le ragazze usciranno per andare a scuola, altre andranno a svolgere qualche lavoretto per mantenersi in attesa di una maggiore autonomia. Egbert, il proprietario, preparerà il caffè nella Casa, dove nessun altro può entrare, e leggerà l’ennesimo libro fumando una sigaretta maltrattata.
Nel frattempo, Solomon si gode la tranquillità del presente, che sfugge ad una routine travolgente: chiude gli occhi ed inspira a fondo, riempendosi i polmoni di aria leggera e fresca, pulita.
All’improvviso, Puppy inizia ad abbaiare forte, alzandosi di tutta fretta e puntando qualcuno con gli occhi ancora assonnati: scodinzola quando riconosce l’intruso, Solomon è già in piedi. «Dove sei stato?» chiede soltanto, senza nemmeno alzare la voce.
Il sole alle spalle di Kelvin si sta sollevando pigramente, stendendo un velo luminoso su qualsiasi cosa riesca a toccare: la temperatura si alzerà velocemente, è questione di poco tempo. Non guarda suo fratello, si limita a camminare con le mani nelle tasche dei pantaloni un po’ larghi e a sputare a terra.
«Kelvin, sono le sei e mezza del mattino», ricomincia Solomon, stancamente: è esausto, sì, ma non si è arreso. Crede ancora che quel quattordicenne sordo ai suoi richiami possa essere salvato da un destino che si sta creando da solo. Lo segue verso il dormitorio, lo osserva alle spalle: indossa un paio di scarpe da tennis nuove, forse le prime che si sia mai potuto permettere. Non vuole chiedergli dove abbia preso i soldi, perché può già immaginare la risposta.
Nello stanzone che condividono con altri sei ragazzi, Solomon abbassa la voce in un sussurro per non svegliare nessuno. «Dove sei stato?» ripete, appoggiando un avambraccio al letto a castello.
Kelvin non si è nemmeno spogliato, si è semplicemente sdraiato sul materasso annerito fingendo di avere anche delle lenzuola: gli occhi piccoli, neri come il cielo che suo fratello ha scrutato per tutta la notte, sono un muro troppo alto e resistente. La bocca larga è serrata, il collo magro è sudato. «Lasciami dormire», risponde, voltandosi in modo da dargli le spalle.
Solomon resta immobile ancora per qualche istante, ha sonno. Esce dal dormitorio per sfuggire allo sgradevole odore scaturente da un posto troppo piccolo per troppe persone. È sollevato: Kelvin è convinto che lui sia un dannato impiccione e che non rispondere alle sue domande sia una forma di ribellione, un modo per mantenere le distanze da un controllo che rifiuta, ma non sa che Solomon non lo aspetta per estorcergli delle informazioni o delle confessioni. Solomon passa le notti insonni solo per accertarsi che suo fratello almeno ritorni.
 
 
 
Un gruppo di circa quindici ragazzi è disposto in cerchio attorno ad un piccolo blocco di cemento scalfito, occupato da un ancora più piccolo essere umano. Non gli lasciano nemmeno abbastanza spazio per respirare, gli stanno addosso scrutandolo con occhi curiosi e confusi.
«Secondo me è muto», sentenzia uno di loro, corrugando la fronte e grattandosi l’addome.
«Secondo me si è semplicemente spaventato per quanto sei brutto», ribatte un amico, scappando subito dopo per evitare un calcio sferrato con forza divertita.
«Questo non dura nemmeno due giorni, ve lo dico io», sospira Aimon: è immune alla confusione che gli sta intorno, agli spintoni insistenti per riuscire a vedere meglio. Nessuno osa disturbarlo troppo, perché il suo fisico spesso e solido intimorisce quasi tutti: con le gambe leggermente divaricate, il petto in fuori e le braccia incrociate, tiene il capo piegato di lato, impegnato in un’attenta analisi.
«Abbiamo visto di peggio, dai», commenta qualcun altro, più ottimista.
Il gruppo resta in silenzio per qualche istante, forse riflettendo su possibilità e scommesse, poi, senza un ordine esplicito, tutti si dissolvono: l’interesse è già sfumato, la novità è già meno accattivante e, per quanto l’arrivo di un novellino al Kenyatta Centre sia comunque un vero e proprio evento, è un evento che si ripete troppo spesso per essere pienamente apprezzato.
Solomon è l’unico a restare immobile, in piedi di fronte a quel bambino spaesato: è seduto compostamente, con le mani piccole e tozze strette fra le cosce. Indossa vestiti migliori di tutti gli altri ed in parte è fortunato, perché nessuno glieli ruberà – sono troppo piccoli. Tiene il viso basso, non ha mai alzato lo sguardo da quando si è ritrovato accerchiato. Ha i capelli bruni, corti, quasi della stessa sfumatura della sua pelle.
«Come ti chiami?» domanda Solomon, cercando di rompere il ghiaccio: lui non è di certo la persona più indicata per un compito simile, ma a quanto pare non può sottrarsi alla sfida. Quel bambino sembra troppo spaventato, sarebbe un gesto piuttosto insensibile lasciarlo solo in un posto completamente nuovo e diverso, peggiore.
«Vuoi vedere che è davvero muto…» mormora tra sé e sé, piegandosi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza. Gli posa due dita sotto il mento, gli alza il viso e lo osserva: si sta mordendo il labbro roseo ed ha gli occhi lucidi, grandi e puri. Forse è in grado di parlare, in fondo ha già cinque anni, ma qualcos’altro glielo impedisce. «Se non parli, sarò costretto a chiamare i rinforzi», lo minaccia scherzosamente, abbozzando un sorriso che dovrebbe mettere entrambi a proprio agio.
Nessuna reazione positiva, anzi, il bambino si ritrae ancora più spaventato.
Solomon sbuffa, si guarda intorno: la piazzola nella quale si trovano è quasi deserta, ci sono solo un paio di ragazzi che giocano tra loro fingendo che una bottiglia di plastica sia una palla di cuoio. «Maina!» urla, fischiando subito dopo per attirare la sua attenzione. Un giovane adolescente si volta, lo ascolta. «Chiamami Ryma, per favore», gli chiede, certo di non doverlo ripetere due volte.
Ryma non dovrebbe avere problemi a raggiungerlo, dato che si tratta della piazzola in comune: se fosse stato dall’altra parte, davanti ai dormitori maschili ed alla Casa, sicuramente le Mamme le avrebbero proibito di avvicinarsi, troppo impaurite dalla possibilità di una rigida moralità infranta.
«Dovrai pur avercelo, un nome», esclama, nuovamente rivolto al bambino: gli aggiusta la maglietta bianca, già sporca di terra per tutte le persone che l’hanno toccato non appena arrivato al centro. Lui non risponde, cosa che non lo stupisce.
«Solomon». Una voce calma, interrogativa.
Lui si volta e Ryma è alle sue spalle: lo osserva stupita, poi guarda il nuovo arrivato e sorride a labbra chiuse. «Habari».
Il bambino china subito il capo, come scottato.
«Be’, almeno l’hai fatto muovere», sospira Solomon, rimettendosi in piedi.
«Qual è il problema?» domanda lei: un pezzo di stoffa rossa le copre i capelli corti, impedendo al sole di essere troppo cattivo. Indossa una tunica arancione di pessimo gusto, che cade dritta sul suo corpo magro: è in tenuta da lavoro.
«Non riesco a farlo parlare».
«Da dove viene?»
«Non so, qualche orfanotrofio da queste parti», spiega Solomon, stringendosi nelle spalle. «Non avevano più posto e hanno pensato di mandare via i bambini più grandi».
Ryma alza un sopracciglio, posa le mani delicate sui fianchi. «E noi avremmo posto?» chiede incredula.
«Ha fatto tutto Egbert, parla con lui», sospira.
«Magari deve solo ambientarsi», tenta Ryma dopo qualche istante, avvicinandosi di un passo al bambino. «Sarà spaesato: questo non è di certo un orfanotrofio. Ha fatto un bel salto di qualità», continua, con una certa amarezza negli occhi.
Solomon ne è consapevole, sa perfettamente che il Kenyatta Centre non è un luogo di villeggiatura. In confronto ai pochi orfanotrofi della città, sembra più un tugurio. «Allora deve ambientarsi in fretta, perché io devo andare dalla Harvey e sono già in ritardo».
Lei sorride. «Sei dolce a non volerlo lasciare da solo», indovina. «Ma anche io ho del lavoro da fare».
Solomon cerca delle alternative. «Qualcuno di voi non se ne può occupare? Almeno per questo pomeriggio».
Ryma alza le spalle, scuote il capo perché non lo sa.
«Sake non c’è?» Sarà anche uno spiritello di ragazza, ma nelle accoglienze non è affatto male.
«È in città».
«Tifah?»
In risposta riceve prima una piccola risata. «Vuoi davvero lasciarlo a Tifah? Come minimo lo trascinerebbe in qualche rissa di prima categoria per testare la sua virilità. No, i bambini non fanno per lei».
Solomon sospira annoiato. Il bambino è ancora immobile su quel sasso.
«Perché non lo porti con te?» gli chiede Ryma.
«Dalla Harvey?»
Lei annuisce.
«Come faccio a controllarlo mentre tolgo erbacce?»
«Lei è una donna sola, sono sicura che sarà felice di occuparsene per poche ore», lo incoraggia Ryma. «Guardalo, è terrorizzato. Cambiare aria lo aiuterà e magari riuscirete a scambiarvi qualche parola».
Solomon è dubbioso, ma deve ammettere che proprio non gli va di abbandonarlo al Kenyatta: teme che potrebbe tornare e trovarlo completamente pietrificato su quel blocco di cemento.
«Ci vediamo più tardi», lo saluta Ryma, rivolgendo un sorriso anche al più piccolo. Evidentemente sa che, se non ha ancora ricevuto alcuna risposta negativa, è perché la sua proposta è stata accettata. Si volta e cammina scalza verso la guardiola nella quale lavora.
«Ah, Ryma?» la richiama Solomon, raggiungendola con calma. «Come stai?» le domanda, ricordando gli occhi malinconici e feriti del giorno precedente, l’ordine di Tifah di non lasciarla sola, la sua preghiera contraria.
Lei serra la mascella per un istante troppo breve. «Bene, asante».
Sta mentendo.
«Non vuoi proprio dirmi cosa è successo?» insiste.
Ryma scuote la testa, fa un altro sorriso per chiedergli di non spingersi oltre e se ne va senza essere fermata.
 
 
 
La signora Harvey non dovrebbe avere più di settant’anni: Solomon non le ha mai chiesto la sua età, né le ha mai chiesto se l’uomo ritratto nella fotografia sulla mensola della finestra in salotto sia suo marito. Lei non ne parla mai, ma probabilmente è vedova: questo spiegherebbe la fede appesa al collo, oltre quella che le circonda l’anulare sinistro, ed i fiori bianchi sempre accanto a quella cornice, il suo sguardo triste quando non sa di essere osservata.
Ha un figlio, un tenente dell’esercito inglese: Solomon l’ha visto solo una volta, quando pochi mesi addietro ha iniziato a lavorare per lei. Hanno litigato furentemente e, per quanto ne ha capito, il punto della questione era il trasferimento inaspettato della signora Harvey: James non ha preso bene la decisione della madre di seguirlo in Kenya, ma non ha nemmeno cercato di capire il suo punto di vista, la sua solitudine. Forse il loro rapporto è più travagliato di quanto un occhio esterno possa immaginare, forse ci sono altri mille forse, ma il punto è che i due non hanno più un vero rapporto.
«Solomon, buongiorno», esclama la signora Harvey, sorridendo calorosamente dall’uscio della porta che tiene spalancata: si è accorta della sua presenza grazie allo sbattere metallico del cancelletto d’entrata.
«Buongiorno», risponde lui, posando gli occhi sul bambino che gli sta camminando affianco: si è fatto impercettibilmente più vicino, probabilmente a causa del luogo sconosciuto in cui si trova.
«Chi è questo giovanotto?» chiede la proprietaria della piccola villetta recintata, piegandosi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza e sistemandosi gli occhiali rotondi sul naso. Profuma molto, forse troppo.
«È un problema se resta qui mentre lavoro?» replica Solomon, senza rispondere chiaramente: in fondo non saprebbe nemmeno cosa rispondere, dato che non è nemmeno riuscito a capire il suo nome.
La signora Harvey si rimette in piedi, si sistema le pieghe del vestito giallo aderente e smanicato, che mette in evidenza il suo corpo formoso. «Certo che no», sorride, accarezzando il capo del bambino ed invitandoli ad entrare in casa con un cenno della mano. «Puoi cominciare tra poco, adesso è l’ora del chai».
Nei tre mesi in cui Solomon ha lavorato per questa anziana e buffa signora inglese, non è mai riuscito a rifiutare una sua offerta: i suoi occhi piccoli e stranieri sono più caparbi di quanto lascino intendere ed è per questo che Solomon non cerca nemmeno di resistere, accettando subito di seguirla in casa.
Non lo ha mai dato a vedere, forse per orgoglio o per non suscitare pena e compassione, ma si è sempre sentito a disagio nello sfarzo che arreda le mura di quella villa: probabilmente solo ai suoi occhi sembra tutto così prezioso, così splendente e pulito, ma non riesce comunque a misurare e contenere la meraviglia ed il senso di inferiorità che lo attanaglia ogni volta che mette piede nel salotto illuminato, nella cucina spaziosa e dotata di elettrodomestici, su un qualsiasi pavimento lucido.
«Sedetevi pure», li invita la signora Harvey, indicando affabilmente uno dei divani in stoffa color ocra: sono sicuramente importati, perché non hanno niente a che vedere con quelli che vengono fabbricati artigianalmente per le strade di Nayuri, esposti tra la polvere ed il fumo delle marmitte.
Il bambino si stringe nelle spalle e lascia che la signora lo guidi con una mano dietro la schiena, per poi sollevarlo e farlo accomodare sui cuscini morbidi. Solomon resta in piedi, rigido nella familiarità di una situazione nella quale si è trovato più volte: una delle cose che la sua datrice di lavoro non riesce ad ammorbidire è la sua fierezza. Non tenta nemmeno di piegarla, conosce bene i limiti che è meglio rispettare.
«Allora? Non mi dici proprio niente?» domanda lei, non appena torna dalla cucina con un vassoio in ceramica tra le mani, trasportando tre tazze ed una caraffa di chai che profuma di buono. «Non vorrai farmi pensare che questo ragazzino sia tuo figlio?» ridacchia.
Solomon si sente in dovere di correggerla. «È arrivato oggi al Kenyatta Centre: l’ho portato con me perché non riusciamo a farlo parlare, sembra piuttosto a disagio lì dentro». Subito dopo, mette in discussione quella stessa decisione.
«Capisco», annuisce lei, versando il chai con moderazione e porgendolo ai suoi ospiti. «Non ti ho mai chiesto come funzioni il centro da cui vieni. È una specie di orfanotrofio?»
Solomon prende la tazza tra le mani, la osserva per un solo istante e cerca di non metterla a confronto con i vestiti smessi ed impolverati che indossa. Il bambino, sul divano, sta bevendo generosamente. «Non proprio», ammette, prendendo un sorso di thè. «Non tutti i ragazzi del centro sono orfani».
La signora Harvey si mostra stupita, seduta compostamente con le gambe unite. «Ah no?»
«No. Alcuni hanno genitori o familiari che però non possono permettersi di prendersi cura di loro, altri sono figli di persone poco… Buone. Altri ancora sono scappati di casa», specifica, passando in rassegna ogni ragazzo del Kenyatta Centre. «Non importa da dove veniamo: abbiamo in comune il fatto di aver vissuto almeno qualche giorno per le strade di Nayuri».
Quello che gli piace della signora Harvey è che non lascia trasparire alcun giudizio dal suo viso leggermente rugoso, vissuto, e a Solomon non importa se sia davvero priva di giudizi, gli importa solo non vederli e non sentirli sulla pelle.
«Quindi lui è stato preso dalla strada?» indaga lei, con un vago dubbio ad inclinarle le sopracciglia: probabilmente l’aspetto piuttosto curato del bambino la fa dubitare.
«No, lui è un’eccezione: l’orfanotrofio in cui era non aveva più posto per tutti».
«Povero angelo», commenta la signora Harvey, scuotendo la testa.
Il salotto resta immerso nel silenzio per lunghi secondi, scanditi dalla lancetta rumorosa dell’orologio appeso al muro. Solomon si sente più tranquillo in quella stasi, nell’assenza di domande e della necessità di rispondere, ma il privilegio dura poco.
«E tu?»
Lui sbatte le palpebre, non capisce. «Cosa?»
La padrona di casa è più seria, cauta. «Tu hai vissuto per strada?»
I polmoni di Solomon si riempiono spontaneamente, con lentezza. Per quanto ne sa, potrebbe anche esserci nato: non ha ricordi precedenti alla strada affollata, alla solitudine della notte e alle mani fredde e troppo piccole di suo fratello Kelvin. Non conosce altro, se non i sacrifici e gli stenti. Non ricorda nessuna figura amorevole, anche lontanamente calorosa, fatta eccezione per Egbert ed il suo furgone pronto a metterlo in salvo, pronto a dargli nuove prospettive di vita.
«Devo iniziare a lavorare», esclama a bassa voce, posando la tazza sul tavolino tra i due divani. «È tardi».
«Solomon, perdonami, non volevo essere indiscreta», si affretta a scusarsi la signora Harvey, alzandosi in piedi. «È che ti conosco da mesi ormai, ma non ti conosco davvero. Se vuoi… Se vuoi parlare, se hai bisogno di-»
«Hapana, asante», la interrompe, distogliendo lo sguardo e dandole le spalle per raggiungere il giardino sul retro. Non viene fermato, probabilmente non è stato nemmeno sentito mentre mormorava un amaro «Non potrebbe fare niente».
 
 
 
Quattro ore dopo, mentre il sole si appresta a tramontare, Solomon si sente fiero di aver guadagnato qualche scellino in più, la signora Harvey non gli ha più rivolto la parola se non per salutarlo – per senso di colpa, probabilmente – ed il piccolo nuovo arrivato sta saltellando sulla strada sterrata che porta al Kenyatta Centre: gli è piaciuto giocare nel giardino fiorito, costruire strutture di terra nera ed ha persino tollerato piuttosto allegramente la presenza della proprietaria di casa, che ogni tanto cercava di cavargli poche parole dalla bocca.
«Ti sei comportato bene oggi», si complimenta Solomon, soddisfatto della sua compostezza e dalla sua genuina innocenza: forse è abituato agli scalmanati con cui convive, che hanno evidentemente ricevuto un’educazione di tutt’altro tipo. «Magari puoi venire con me anche la prossima volta, se ti va», continua, senza nemmeno rendersene conto: gli è venuto spontaneo proporgli qualcosa di simile, allontanarlo almeno momentaneamente da un’atmosfera che non gli si addice. In un certo senso gli ricorda Kelvin, quello che non ha potuto essere.
Il bambino saltella un po’ più in alto, abbozzando un sorriso che gli solleva gli zigomi paffuti, ed annuisce emozionato.
Anche Solomon sorride in risposta, calciando un sassolino sulla strada ed aprendo il cancello d’entrata del centro: può già sentire gli schiamazzi caotici, riconoscere le voci dei suoi compagni, ed in qualche modo si sente a casa.
«Cos’è questo?» esclama una voce, quasi con indignazione.
Tifah si avvicina a passi svelti, con le labbra carnose imbronciate in una curva curiosa.
«Chi è, al massimo», la corregge Solomon, mentre il bambino gli si avvicina alle gambe come per nascondersi: evidentemente Tifah lo intimorisce, cosa del tutto normale, dato che ha lo stesso effetto più o meno sul settanta per certo della popolazione di Nayuri.
«Non dirmi che sei diventato padre e per tutto questo tempo ce l’hai nascosto», sbotta lei, appoggiando le mani sui fianchi. «Ho sempre saputo che non sai tenertelo nei pantaloni, ma-»
«Perché oggi siete tutti pronti a scambiarmi per un padre?» la interrompe, scuotendo la testa per reprimere un sorriso. «È nuovo, è arrivato mentre tu eri in città».
«E perché nessuno me l’ha detto? Perché sono sempre l’ultima a sapere le cose?»
«C’è ancora una cosa che nessuno sa», la rincuora lui, stringendosi nelle spalle.
«Cioè?»
«Il suo nome».
Tifah assottiglia gli occhi, incrocia le braccia al petto ed alza il mento con un’espressione concentrata. Tamburella un piede a terra, poi sposta il peso da un piede all’altro ed accetta la sfida. «Tu», esclama, attirando l’attenzione del bambino: lui sobbalza, ma si mette goffamente sull’attenti. La pancia in fuori, le labbra serrate. «Dimmi come ti chiami», gli ordina dolcemente.
Il piccolo lancia un’occhiata a Solomon, che non nutre speranze in un risultato positivo, poi torna a fissare la sua interlocutrice. Inspira a fondo e «Bahati», dice velocemente.
Lei sorride soddisfatta, annuendo. «Visto?» domanda al suo amico, posandogli una mano sulla spalla. «Non era poi tanto difficile», commenta, prima di andarsene.
Solomon sbatte le palpebre più volte, incredulo: è uno scherzo?
«Mi prendi in giro?» chiede a Bahati, che lo guarda innocentemente, senza ben capire a cosa si riferisca. Si arrende subito dopo, sospirando stancamente senza capacitarsi di ciò che è appena successo.
Che poi chissà cosa avrà di così fortunato.
 
 
 
Quella sera Kelvin torna relativamente presto, intorno alle dieci di sera. Il fratello lo intravede mentre è seduto sulla panchina davanti alla Casa, dove Egbert è ancora impegnato a lavare le ultime stoviglie che ha usato per una cena consumata stranamente più tardi: quando lo vede spuntare dall’oscurità della notte, però, smette di respirare.
«Dio», sospira con la voce strozzata, alzandosi subito in piedi e quasi correndogli incontro. Gli afferra il mento e lo strattona per impedirgli di allontanarsi.
«Levami le mani di dosso», sibila Kelvin, cercando di divincolarsi.
«Stai fermo, o giuro che ti faccio di peggio», gli intima Solomon, alzando la voce e riferendosi alle ferite sul suo viso: l’occhio destro è completamente chiuso, troppo gonfio e violaceo per essere altrimenti. Il labbro inferiore è spaccato nel lato, lacerato profondamente e sanguinante. Qualcuno deve avergli colpito il naso, che risulta emaciato, forse anche rotto. La pelle è quasi del tutto livida, sofferente. E Solomon è così furioso che potrebbe aggiungere una ferita amara a quelle che suo fratello sembra divertirsi a procurarsi.
«Cos’hai fatto stavolta?» domanda Egbert, uscendo dalla cucina ed asciugandosi le mani grandi sui pantaloni: ha i capelli brizzolati in disordine, gli occhi stanchi e delusi che si infiammano non appena studiano la situazione.
«Vaffanculo, ho detto di lasciarmi stare», li liquida Kelvin, riuscendo a scappare dalla presa di Solomon.
«Vaffanculo a chi?» ripete Egbert, afferrandolo per la maglia sgualcita ed obbligandolo a fermarsi. «Con chi credi di parlare, ragazzino? Ti sei forse dimenticato chi ti salva il culo ogni volta che decidi di comportarti da stupido? O vuoi che ti ricordi di ogni scellino che ho speso per pagarti l’ospedale, la galera o qualsiasi altra merdata di cui hai avuto bisogno?»
«Nessuno ti ha chiesto niente, quindi evita di rompere e lasciami in pace», ribatte Kelvin, senza saper rispondere in altro modo. Solomon non ha nemmeno le forze di intromettersi, né il coraggio: Egbert ha ragione, ha ragione ad alzare la voce, avrebbe persino ragione ad alzare le mani. È una situazione quasi abitudinaria, un replay continuo ed estenuante, che non produce mai risultati diversi, migliori.
«Non mi hai chiesto niente, ma se non fosse per me a quest’ora saresti a marcire in qualche angolo schifoso di questa città», replica Egbert, dandogli una spinta. «Non me ne frega un accidenti di cosa è successo stasera, se hai di nuovo fatto qualche cazzata o se una vecchietta ti è caduta addosso, ma ti avverto: torna un’altra volta in questo stato e ti sbatto di nuovo da dove sei venuto. Mi hai capito?»
Kelvin lo guarda con aria di sfida, Solomon ha il cuore piegato su se stesso. «Kelvin», lo chiama a bassa voce, lo prega. In risposta non riceve nemmeno uno sguardo.
«Mi hai capito?» ripete Egbert, pretendendo una risposta.
Kelvin non lo accontenta, si limita ad andarsene con le mani nelle tasche dei pantaloni sotto lo sguardo delle uniche due persone che ha sempre avuto accanto e che gli sono rimaste.
Solomon si passa una mano tra i capelli rasati, sospira ed accetta la mano di Egbert che si posa distrattamente sulla sua schiena, per poi ritrarsi subito dopo. «Devi rimetterlo in riga», esclama. «Non devo dirti io che fine fanno quelli come lui».
Lui annuisce come senza vita, evitando di pensare a quelle parole, a quella previsione più reale di quanto vorrebbe.
«Tieni», mormora Egbert, pescando qualcosa dal suo portafoglio. «Domani portalo in ospedale a farsi medicare quella faccia», gli consiglia, regalandogli dei soldi che più volte si è ripromesso di negargli e che più volte ha comunque prestato per un amore resistente.
«Asante», sussurra Solomon, stringendo nella mano quegli scellini preziosi.
È davvero stanco.

 


Ciao di nuovo!
Inizio con il ringraziarvi ancora una volta per aver letto, sperando che anche questo capitolo - meno movimentato - vi sia piaciuto! E passo subito a commentare:
- punto di vista di Solomon, che ha i suoi problemi un po' come tutti: a partire dal suo rapporto con Kelvin, passando per il ruolo momentaneo di baby sitter e finendo con il suo disagio in casa della signora Harvey. Spero sia chiaro l'atteggiamento protettivo nei confronti del fratello, la stanchezza di situazioni già vissute e sempre uguali, ma presto verrà approfondito anche questo aspetto, con un punto di vista di Kelvin. La signora Harvey avrà un ruolo abbastanza importante, se tutto andrà secondo i piani: ho cercato di far comunque emergere la distanza che Solomon mantiene, anche solo evitando di sedersi sul divano. Non per disprezzo, ma per un disagio più timido, dettato dalla differenza degli stili di vita;
- la scena in casa della signora Harvey mi è servita anche per accennare al passato di Solomon e Kelvin e per descrivere un po' di più "i criteri di scelta" dei ragazzi del Kenyatta Centre: non è un orfanotrofio, è letteralmente un centro di recupero dei bambini di strada, che possono essere orfani o meno. Spesso hanno delle famiglie e vanno anche a trovarle;
- Bahati è il piccolino che nel prologo viene accolto in ospedale dopo essere stato abbandonato: nella realtà non è successo questo, lui non ha nemmeno un anno e si trova ancora in orfanotrofio, in attesa di essere adottato. Nonostante sia una delle figure principali, non ci saranno capitoli dal suo punto di vista, ma se ne parlerà tramite gli altri personaggi. Ovviamente tutto il suo disagio è dovuto al cambio di atmosfera: in realtà non so bene come siano gli orfanotrofi, ma sono sicuramente in condizioni migliori di quelle del centro;
- Egbert ricomparirà ancora nella storia, ma come avrete notato è una figura molto decisa e forte: non si fa scrupoli a riprendere i suoi ragazzi, soprattutto il recidivo Kelvin, ma è comunque molto dedito al suo ruolo. È completamente fedele alla persona alla quale si ispira e ve lo farò conoscere: vi posso già anticipare che, nonostante sia proprietario di un centro di recupero e si occupi di bambini bisognosi ai quali tiene moltissimo, non è affatto un uomo dolce, credente, affettuoso etc etc. Come mi disse lui "Non fraintendere: io non sono un missionario, lo faccio solo quando sono a letto con qualcuno".
E nulla, credo di aver blaterato abbastanza hahah Per qualsiasi dubbio, non esitate a chiedere :) 
Vi chiedo di farmi sapere cosa ne pensate, in positivo ed in negativo, perché così mi stimolate e mi aiutate a scrivere!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Veronica.

 
 
  
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