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Autore: Ayr    01/07/2015    3 recensioni
Quando Matisse incontra Zefiro, un ragazzo affascinante ma misterioso, la sua vita tranquilla viene completamente sconvolta: il ragazzo infatti le rivela che lei è la principessa perduta, la legittima erede al trono di Heaven. Inizia così per lei un viaggio in compagnia di Zefiro, il cui silenzio pare nascondere un grande segreto, che la porterà dal tranquillo villaggio in cui vive alla caverna di Procne, una potentissima maga che aiuterà Matisse ad affrontare quello che le aspetta: non si tratta solo di sedere su un trono e di prendere sulle spalle tutte le responsabilità che esso comporta, Matisse infatti, dovrà prepararsi anche per una guerra perchè non è l'unica che ambisce a quel trono e c'è già chi trama nell'ombra per strapparglielo via.
Preparatevi ad accompagnare Matisse in questo viaggio tra maghi, battaglie, segreti, elfi e misteri. Siete pronti a partire?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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…Myr, dolce vento dell’est, bagni di pioggia i frutti dell’estate, baciati dalla luna.
Lebon, ruggente vento dell’ovest, strappi le foglie trasportandole verso il declino del sole.
Nemer, silente vento del nord, consoli pianti di  rami nudi che gridano verso le stelle.

Neren, crudele vento del sud, ghermisci in tempeste le navi che navigano verso l’aurora
 
«Hai il nome di un vento?» domandò sorpresa Matisse, quando Neren smise di cantare. L’elfo sorrise.
«È così che mi chiamano qui» replicò «Il vento del sud»
In quel momento il Myr, che dava il nome alla piana, si alzò, facendosi sentire. Non aveva mai smesso di soffiare da quando erano partiti, trascinando con sé le ultime propaggini della tempesta e lasciando il cielo sgombro e terso. Un caldo sole estivo aveva da allora fatto loro compagnia durante il resto del viaggio. Da quasi due giorni, ormai, l’orizzonte, che fino a quel momento era rimasta una linea sfocata ininterrotta, era stata improvvisamente spezzata dal profilo frastagliato di una città. «Solwin» aveva annunciato Barden, rompendo il silenzio in cui aveva cavalcato fino a quel momento: era da quando Neren si era unito a loro che non aveva proferito parola, diventando taciturno e cupo come Alcor.
«E come sarebbe il tuo nome nella tua lingua?» domandò la ragazza, scostandosi i capelli dagli occhi. L’elfo rispose, ma la ragazza non riuscì a capire il nome in quello scorrere musicale di sillabe simili al rumore di un ruscello; la ragazza rimase rapita da quei suoni così armoniosi e limpidi che sgorgavano dalle labbra dell’elfo, quasi fossero davvero un rivolo di montagna.
«E cosa significa?» domandò Matisse
«Vento del sud» rispose ridacchiando Neren
«E Alcor?» domandò ancora la ragazza facendo riferimento al misterioso accompagnatore, che per tutto il viaggio era rimasto in silenzio, più simile ad un’ombra che ad una presenza corporea.
I suoni emessi dall’elfo, questa volta, era duri e decisi, quasi aguzzi e appuntiti, come la roccia che costituiva le fredde montagne del nord.
«Roccia sbeccata è il suo significato» spiegò Neren «Ma qui lo chiamano Alcor, l’indegno, perché ha ingannato il suo popolo, disertando e alleandosi con i nemici…almeno, è quello che si dice» sospirò l’elfo, gettando un’occhiata al suo compare che cavalcava poco distante, silenzioso, come sempre.
«E come siete diventati amici?» domandò la ragazza, chiedendosi come Neren avesse potuto diventare amico di un traditore, o presunto tale
«Gli ho salvato la vita e da allora mi segue, come un’ombra, fino al giorno in cui non mi avrà restituito il favore» rispose l’elfo e tornò a guardare dritto davanti a sé, canticchiando sottovoce.
A Matisse non dispiaceva la sua compagnia: era un abile intrattenitore, aveva una voce dolcissima e melodiosa e conosceva tantissime canzoni e storie che non disdegnava mai di raccontare, era sempre disponibile e gentile, e rispondeva a tutte le sue domande. Era stata la migliore distrazione degli ultimi due giorni. A volte, però, c’era come un’ombra che oscurava il suo sguardo e spegneva per poco tempo la luce di allegria che di solito lo illuminava. Aveva notato quella stessa ombra aleggiare, a volte, anche negli occhi di Zefiro e si chiedeva spesso se Neren non nascondesse qualcosa di oscuro che lo opprimeva e lo ottenebrava, come succedeva al ragazzo.
Matisse sospirò, come le capitava sempre quando il pensiero volava a Zefiro.
«Entro domani sera o dopodomani, al più tardi, dovremmo raggiungere la città» annunciò Barden. Ormai anche da quella distanza, si riuscivano già a distinguere le alte torri di Solwin, la città di pietra.
Sia Matisse che Corniolo tirarono un sospiro di sollievo: finalmente avevano raggiunto la tanto agognata città. Corniolo, in particolar modo, non ne poteva più di cavalcare, aveva tutte le gambe e la schiena indolenzite, inoltre, la continua esposizione a quel vento persistente gli aveva fatto prendere un bel raffreddore. L’omuncolo tossì e sobbalzò, il suo corpo, in quegli ultimi giorni, era stato spesso sconquassato da quegli attacchi di tosse a cui si aggiunsero un naso rosso e una fastidiosa e ben poco autoritaria voce nasale. Trovava piuttosto difficile farsi rispettare in quello stato: il raffreddore, unito alla bassa statura, non aveva fatto altro che renderlo più ridicolo.
Uno starnuto più forte degli altri fece imbizzarrire la sua cavalcatura che, spaventata, si gettò a rotta di collo lungo la via che stavano percorrendo. Fortunatamente non c’era nessuno lungo la strada. Essendo così vicini a Solwin, avevano optato per le strade secondarie che si sondavano lungo i campi di frumento e le fattorie, molto meno frequentate e sgombre dai carri che intasavano la via principale, rallentando di molto il traffico.
L’omuncolo venne trascinato per un buon tratto, fino a quando Miele non inchiodò bruscamente, sbalzando via Corniolo dalla sella. L’ometto ricadde sul proprio fondoschiena sollevando una nuvola di polvere, che gli irritò il naso, facendolo starnutire di nuovo. Il resto della compagnia lo raggiunse.
«Stai bene?» domandò Matisse preoccupata, tentando di trattenere il riso
«Un po’ ammaccato, ma vivo» rispose Corniolo rimettendosi in piedi con l’ausilio della ragazza, che faceva di tutto per tentare di trattenersi dallo scoppiare a ridere. Purtroppo gli altri non erano bravi quanto lei: Neren sghignazzava sotto i baffi, Barden, invece, si stava sganasciando dalle risate, rischiando di cadere da cavallo; anche Morten dietro ad uno sguardo preoccupato e quasi compassionevole, celava un sorriso divertito appena accennato. L’unico che non rideva era Alcor, rimasto impassibile.
Con questa posso dire di essermi giocato l’unico rimasuglio di dignità e serietà che mi era rimasto pensò Corniolo montando a cavallo, con non poche difficoltà e tra esilaranti espressioni di dolore che fecero scoppiare a ridere anche Matisse quale protettore degno di questo nome si becca un raffreddore, cade da cavallo e si ritrova con un livido sul sedere? Si domandò massaggiandosi la parte lesa, cercando di non farsi vedere. Gli altri, intanto, stavano cercando di ritrovare un contegno, ma invano: Barden era addirittura piegato in due sulla sella e si stava trattenendo la pancia.
Corniolo alzò gli occhi al cielo, avrebbe potuto minacciare il ragazzo per farlo smettere di ridere, ma non credeva che la minaccia sarebbe stata molto efficace, non con quella voce nasale. Con un sospiro diede un colpo di tallone al suo pony che obbediente si accodò al cavallo di Barden. Il ragazzo continuò a ridere per il resto della strada.

Quell’uccellaccio nero non aveva smesso di seguirlo. Fino al giorno prima ne aveva avuto solo il sospetto, ma ne aveva avuto la conferma, quando alzato lo sguardo lo vide, per l’ennesima volta, sopra di sé compiere evoluzioni nel cielo, come se cercasse di fare l’indifferente e di essere solo un altro dei corvi che svolazzavano sui campi di grano. Ma non era un comune corvo: era più grande del normale, la sua figura nera si stagliava chiara contro il cielo terso e spiccava per contrasto, con quelle più piccole dei corvi comuni. Sembrava quasi che lo stesse tenendo d’occhio e la cosa lo infastidiva. Si domandò chi avesse potuto mandare un corvo a spiarlo e un nome si formò repentinamente nella sua mente: Radamanto, sussurrò tra i denti, stringendo con forza le redini.
Ci mancava solo che quell’uomo tornasse alla carica per stanarlo ed eliminarlo: non erano bastati gli elfi neri che aveva sguinzagliato contro di lui e che l’avevano “accompagnato” per tutto il viaggio, lasciandogli anche un bel ricordino.
Il ragazzo sfiorò la camicia nel punto in cui sapeva esserci la cicatrice. Quella volta l’avevano colto di sorpresa: sapeva di essere seguito, ma non credeva che i suoi inseguitori avessero anche ricevuto l’ordine di ucciderlo. Per causa loro aveva abbandonato gran parte della sua roba nel bosco che con ogni probabilità era finita nelle loro mani. Ma siccome, la seconda volta che l’avevano attaccato non avevano portato niente con sé, se non le loro spade e il loro ghigno schifoso, non aveva avuto modo di recuperarle.
Un altro sguardo al corvo. Si pentiva di non avere un arco con sé: avrebbe volentieri abbattuto quell’uccellaccio nero. Lo metteva terribilmente a disagio, gli gettava addosso un’ansia che gli faceva attorcigliare le viscere.
Zefiro maledì Radamanto sottovoce: sembrava proprio che stesse spiando lui. Si domandò con un brivido quale sarebbe stata la sua prossima mossa: era certo che non avesse accantonato il proposito di eliminarlo, stava solamente aspettando il momento adatto. E quale modo migliore per coglierlo se non pedinandolo  e approfittare di un momento in cui avrebbe abbassato la guardia?
Ma Zefiro non si sarebbe lasciato cogliere impreparato, non di nuovo. Non se lo poteva permettere: c’era Matisse da proteggere e su cui vegliare.

La città di pietra si apriva solenne e maestosa davanti ai loro occhi. La morbida luce rosata del crepuscolo accarezzava gli spigolosi edifici di pietra addolcendone l’asprezza. Il nucleo più antico sorgeva nell’abbraccio delle quattro torri che indicavano i quattro punti cardinali e che un tempo servivano per proteggere la città neonata dalle incursioni di predoni e feroci guerrieri del nord. Ora, invece, erano le abitazioni dei cittadini più abbienti. Erano altissime e svettavano quasi con prepotenza, grigie e imponenti come severi custodi dormienti; mettevano soggezione. Lì le case erano ville molto grandi che si sviluppavano principalmente in larghezza e si accavallavano le une sulle altre senza apparentemente nessuno spazio a dividerle. Dava una spiacevole idea di soffocamento mitigata, in parte, dai giardini che spuntavano a sorpresa sui tetti delle case e dai rampicanti che si abbarbicavano sulle facciate austere.
Era uno spettacolo da togliere il fiato vedere quel grigio quasi opprimente spezzato improvvisamente dal verde brillante degli alberi da frutto o dal rosa tenue dei fiori di pesco o dai colori sgargianti di fiori tropicali che erano riusciti a sopravvivere anche lì nella piana. Matisse si chiese come sarebbe stato passare i pomeriggi su quei tetti avvolti dalla cacofonia armoniosa di colori e profumi.
La ragazza appena entrata in città aveva spalancato occhi e bocca e non li aveva più richiusi: voleva riempirsi avidamente lo sguardo con tutto quello che vedeva, abbeverarsi dei nuovi, meravigliosi e inaspettati scorci che ad ogni angolo si aprivano alla sua vista, mozzandole il respiro.
La parte più recente della città era meno spettacolare: le case erano edifici popolari a più piani, ma nemmeno qui mancavano le note di colore date dai fiori che affollavano i davanzali e dai pergolati di glicine e gelsomino che correvano tra una casa e l’altra. L’aria era satura dell’odore di quei fiori mischiato ai profumi che giungevano dalle botteghe che si facevano largo sulla strada mediante tendoni colorati. Nonostante fosse sera le vie, ampie, lastricate e pulite, simili a nastri d’argento che si snodavano nella distesa di pietra scura, brulicavano di persone di tutte le età e le etnie. C’erano uomini con i tratti tipici della piana, i capelli e la pelle bruciati dal sole e lo sguardo aperto e sorridente; intrepidi nani dell’ovest con le barbe lunghe acconciate in trecce e lo sguardo truce e burbero che si apriva in un sorriso caldissimo e poi elfi che provenivano dal sud, con i capelli scuri e il mare racchiuso nelle iridi, o elfi provenienti dalle foreste che si muovevano sinuosi come fuscelli accarezzati dal vento e ridevano con una risata cristallina simile ad una cascata, e ancora uomini del nord con la pelle diafana rovinata dal freddo o uomini dalla pelle scura e i capelli raccolti in trecce fermate da anelli di bronzo dorato accompagnati da donne dall’incedere austero e regale, con il volto celato da impalpabili veli che profumavano di mirra e sabbia calda. E tutti chiacchieravano, discutevano o scoppiavano in risa riempiendo le strade di un indistinto ma piacevole schiamazzo.
Matisse si strinse a Corniolo, non era abituata a vedere una tale congerie di razze e quell’accozzaglia di colori, suoni e profumi la affascinava ma nel contempo la stordiva. Corniolo era stato molte volte a Solwin, ma ogni volta lo sorprendeva come se fosse la prima, e in particolar modo questa volta, dopo tanto tempo che non rivedeva la città, venne travolto anche lui dal senso di stordimento e ubriachezza. Neren pareva un principe che fosse tornato nel suo regno: da quando avevano superato le prime case ad ogni crocicchio gruppi di persone più o meno numerosi l’avevano fermato per salutarlo, baciarlo, trattenerlo in chiacchiere; pareva essere molto conosciuto.
«Per qualche tempo, quando ero giovane, sono stato alla corte di Sostrat come menestrello» aveva spiegato dopo l’ennesima volta che veniva riconosciuto e fermato in mezzo alla strada.
Anche Barden sembrava avere confidenza con la città, li guidava con sicurezza attraverso le strade affollate e a volte, soprattutto i mercanti affacciati alle porte delle botteghe, lo salutavano con un cenno del capo o un sorriso.
Erano alla ricerca di una locanda con la speranza che, nonostante il mercato che si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni, avrebbero trovato un posto libero.
Neren aveva assicurato di conoscere un posto un po’ fuori mano e quindi meno frequentato, dove avrebbero avuto maggiore possibilità di trovare posto.
La locanda si trovava al confine con la zona vecchia: sorgeva in un posto tranquillo, lontano dal caos delle vie principali, a pochi passi dalla torre sud; era un edificio ampio, a due piani con un portico e un piccolo edificio in legno, una stalla.
«Sei sicuro che non sia troppo caro?» domandò Corniolo scettico, osservando il gruppo di mercanti che fumavano la pipa sotto il porticato abbigliati in modo ricco e sfarzoso.
«Fidati» rispose enigmatico Neren scendendo da cavallo e prima di sparire all’interno dell’edificio gli fece l’occhiolino.
«Quello non me la racconta giusta» borbottò tra sé e sé l’ometto.
L’elfo tornò dopo pochi minuti con la lieta notizia che avevano posto, dietro di lui seguiva un ragazzo allampanato con i capelli color stoppa che li guidò verso la stalla e si occupò dei loro cavalli.
L’interno della locanda, nonostante le pareti di pietra scura, era caldo e accogliente, nell’aria aleggiava un buon profumo di cibo che risvegliò l’appetito nel gruppo di viandanti.
Appena entrati venne loro incontro una ragazza florida dalle forme procaci.
«Benvenuti!» li accolse calorosamente con un sorriso cordiale «Vi mostro le stanze. Seguitemi»
Le stanze erano un po’ piccole e fredde, ma era normale dal momento che persino le pareti interne erano fatte di pietra.
Matisse si buttò sul letto distrutta ed esausta: cavalcava da giorni ormai e aveva tutte le gambe indolenzite, inoltre sentiva la testa pesante a causa di tutta la tensione e le preoccupazioni accumulate: le distrazioni offerte da Neren non erano state abbastanza da permetterle di non pensare continuamente a quello che l’aspettava. Si sentiva terribilmente inadeguata e più di una volta si era chiesta perché proprio lei e non qualcun altro era stato chiamato a questo compito. Non si sentiva pronta a ricevere sulle spalle una così grande responsabilità e la prospettiva di dover affrontare misteriosi pericoli non l’allettava per niente. Più volte avrebbe voluto girare il cavallo e tornare al galoppo a Verderamo, da Ortensia, nella tranquilla e semplice, seppur monotona, vita a cui era abituata. Tutto l’entusiasmo e la curiosità per il viaggio, pian piano si era dissolta, come neve e aveva lasciato spazio solo ad un sacco di dubbi e domande. Il fatto che Zefiro non fosse lì con lei aggravava la situazione: quel ragazzo, nonostante lo conoscesse poco, le aveva dato sicurezza, l’aveva fatta sentire protetta. Quando aveva ricevuto la notizia che avrebbe viaggiato con lui era stata piuttosto restia e scettica a riguardo, soprattutto perché era uno sconosciuto. Ma pian piano aveva capito istintivamente che poteva fidarsi di lui, nonostante tutti i misteri e i segreti che nascondeva. Le mancava Zefiro, terribilmente, e non solo perché si era perdutamente e irrimediabilmente innamorata di lui.
«Tutto bene?» le domandò Corniolo, la voce nasale stanca, una mano forte sulla sua spalla. Matisse sospirò
«A volte mi chiedo perché sia partita» disse con voce sottile «E se non fossi adatta? E se in realtà mandassi tutto all’aria? In fondo non sono altro che una ragazzina. Come fate ad avere una così grande fiducia in me?»
La ragazza si era tirata su a sedere di scatto e Corniolo aveva presto posto accanto a lei
«Ho paura» confessò la ragazza con un filo di voce e Corniolo fece una cosa che sorprese entrambi: l’abbracciò.
Matisse sussultò, stupita di ritrovarsi tra le corte e muscolose braccia dell’omuncolo che a malapena riuscivano a circondarla del tutto. Si lasciò avvolgere da quel calore frammisto a qualcosa di vagamente simile all’affetto.
«Ti conosco da quando sei un esserino urlante che non faceva altro che magiare e dormire. Allora anche io mi sono chiesto se una creaturina così fragile ce l’avrebbe fatta a sopportare e ad affrontare tutto quello che l’aspettava. All’inizio, lo confesso, non lo credevo. Ma poi ti ho vista crescere, maturare; ti ho osservata e più diventavi grande, più diventava grande in me la certezza che, nonostante tutto, ce l’avresti fatta. Sei molto più forte di quanto pensi Matisse…e nel caso non ce la dovessi fare, sappi che io ci sarò. Sempre. Nel bene e nel male»
Fino alla morte aggiunse poi, in un sussurro che la ragazza non sentì.
Matisse lo strinse forte e affondò il viso nel suo petto.
«Credi davvero che ce la possa fare?» domandò, la voce rotta dalla commozione
«Altrimenti non sarei qui» rispose l’ometto, accarezzandole piano i capelli, sorpreso di quel dolce gesto paterno di cui non si credeva capace.


 

***


Non vi biasimerei se qualcuno avesse mandato tutto al diavolo. Mi dispiace immensamente di non essere riuscita più ad aggiornare e mi stupirei se ci fosse ancora qualcuno che segue questa storia e ha aspettato con ansia un mio aggiornamento, dopo mesi di presunta morte. Il capitolo c'era nella mia testa, il problema era il passaggio dalla testa al foglio. Spero che questo capitolo, dopo tanti mesi di attesa, non deluda...
Ho assolutamente bisogno di sapere una cosa: credo che il personaggio di Matisse sia sempre un po' in ombra? E così oppure è solo una delle mie tante pare mentali?
 
Grazie a tutti quelli che non hanno abbandonato la storia nonostante tutto e a quanti non mi hanno ancora mandato in malora.
Non so quando aggiornerò, spero presto.
Scusate ancora
Ayr

 

   
 
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