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Autore: erflascor    03/07/2015    0 recensioni
Leon ha 15 anni, una fidanzata di cui è profondamente innamorato, degli amici che conosce fin da piccolo e una famiglia che lo ama, nonostante Bill, il compagno della madre, non sia il suo vero padre. Un giorno, però, la vita del ragazzo subisce una brusca svolta, e un susseguirsi di eventi negativi lo renderanno sempre più insofferente e apatico, finché non scoprirà veramente chi è...
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Inutile dire come Leon avesse passato il periodo immediatamente successivo alla partenza della ragazza: ci mise tre settimane per uscire di casa. Era terrorizzato come un bambino all'idea di dover affrontare il mondo esterno da solo. Vedeva la realtà un po' come se si trovasse in un film horror, e ogni oggetto che vedeva fuori dalla finestra e gli faceva ritornare in mente Rebecca, sembrava che volesse ucciderlo togliendogli tutta l'aria per respirare. 
Quando si accorsero che non si faceva sentire da qualche giorno, inizialmente i suoi amici non gli davano peso: immaginavano che non avesse voglia di uscire, che stesse poco bene o qualcosa del genere. Poi, quando videro che né lui né Rebecca si erano fatti vivi il primo giorno di scuola, iniziarono a preoccuparsi. L'enigma fu risolto durante la seconda ora: la signora Planck, la professoressa di chimica, una donna piccola e graziosa, sulla cinquantina con gli occhi scuri e i capelli di una particolare tonalità biondo cenere, esordì all'inizio dell'ora dicendo di avere un'importante notizia da comunicare alla classe. Si schiarì la voce con un paio di colpi di tosse, poi  rivelò di aver trovato una lettera scritta da Rebecca nella sua cassetta della posta una settimana prima. Probabilmente la ragazza aveva scritto alla docente di chimica perché era l'insegnante con la quale aveva un rapporto più confidenziale, con la quale poteva parlare di altro al di fuori della scuola. Forse aveva deciso di scrivere alla signora Planck perché lei era l'unica professoressa che durante il primo anno di liceo fosse riuscita a lasciare qualcosa impresso nella coscienza di Rebecca, qualcosa che va oltre una semplice lezione di chimica.     
Ad ogni modo, dopo aver spiegato alla classe il modo in cui era venuta in possesso di tale lettera, tirò fuori dalla borsa un foglio di carta a quadretti piccoli piegato in quattro parti. La signora Planck rimase qualche secondo a fissare il manoscritto, rendendosi conto del fardello che le aveva affidato Rebecca. Diverse volte aveva pensato con ansia al momento in cui avrebbe dovuto leggere alla classe ciò che la ragazza le aveva scritto, e ora, alla fine, era giunta l'ora di espandere la brutta notizia anche alla classe e agli altri professori. Dopo un istante che agli altri alunni sembrò esser durato un'eternità, finalmente la signora Planck iniziò a leggere le parole di Rebecca, scritte con una grafia piccola e perfettamente chiara e ordinata:    

Salve prof, sono Rebecca Grint.    
Probabilmente in questo momento si starà chiedendo perché io le abbia scritto questa lettera, e perché tra le tante persone avrei dovuto scrivere una lettera proprio ad una professoressa. Volevo, tra le altre cose, ringraziarla per questo primo anno trascorso insieme. Trovo che lei sia un'insegnante fantastica, che sa trasmettere la propria materia nel modo giusto ai suoi alunni e ho sempre creduto che molti dei nostri professori debbano prendere esempio dalla sua pazienza e disponibilità. Se le dicessi che è riuscita a farmi appassionare alla chimica, nonostante la mia totale incompatibilità con le materie scientifiche non creda che la stia adulando: non ne avrei alcun motivo e presto capirà il perché.    
Come lei ben sa, mio circa dieci mesi fa fu diagnosticata la SLA a mio fratello maggiore Simon. Trovo che sia inutile girarci intorno, le sue condizioni non sono buone e l'attuale cura non dà segni di poter portare miglioramenti. Tuttavia alcuni mesi fa i miei genitori scoprirono durante uno dei numerosi controlli all'ospedale che in un ospedale privato di New York hanno messo a punto una nuova terapia che, dicono, potrebbe portare alla guarigione di Simon entro due o tre anni. I primi soggetti di questa terapia devono ancora terminare il ciclo, tuttavia i medici affermano che i risultati sono incoraggianti. Questa cura però sembrerebbe richiedere molto impegno, e come converrà, non è possibile effettuare degli spostamenti così importanti più volte al mese. È per questo che mio padre mi ha comunicato, circa un mese e mezzo fa, che ci saremmo trasferiti a New York. L'aereo che mi porterà nella mia nuova città è domani. Il tempo è agli sgoccioli, e vorrei che comunicasse alla classe della mia partenza.    
“Ma come, Rebecca, parti senza dire nulla a nessuno?”. Purtroppo è proprio così. Non ho voluto parlare a nessuno del mio trasferimento, mi sono tenuta tutto dentro nelle ultime settimane: non si poteva fare nulla per evitarlo, quindi ho deciso di far trascorrere agli altri gli ultimi giorni in mia compagnia con la solita spensieratezza alla quale sono abituati.    
Domani dovrò dirlo a Leon, e già so che non sarò pronta. Ho paura. È come se si avvicinasse sempre più il momento della mia morte. Sto per perdere un ragazzo meraviglioso, che sa capirmi a volte anche meglio di me e che mi ha sempre messo in cima alle sue priorità. Non si merita di venire abbandonato da un momento all'altro, ma gliel'ho detto: ho voluto passare l'ultimo periodo con lui in totale serenità. Domani faremo l'amore l'ultima volta, passeremo molto tempo nel letto ad abbracciarci e poi, quando me ne dovrò andare, gli dirò tutto. Spero soltanto che non la prenda troppo male... non riuscirei a perdonarmelo se entrasse in depressione per colpa mia.    
Volevo anche spendere qualche parola per i miei amici più cari: ringrazio Pleun per essere stata sempre la mia migliore amica, per avermi sempre ascoltata quando sentivo il bisogno di parlare di qualcosa, per avermi sempre appoggiata ed aiutata in ogni mia scelta, pur sbagliata che fosse. Ringrazio Ethan, perché anche se non sempre siamo andati d'accordo per il suo essere scorbutico, so che è una persona con un cuore d'oro, che è soltanto nascosto dietro ad un apparente aria da duro. Grazie anche a te, Julian, che sei una persona fantastica; non importa se sei un po' distratto, perché hai una gentilezza e una pacatezza d'animo che difficilmente ho trovato in altri ragazzi. Infine volevo parlare anche della piccola Sophie, anche se non frequenta la nostra classe: sei speciale piccola, non dimenticarlo. Non cambiare mai, per nessuno al mondo, e in bocca al lupo per l'inizio del liceo... vedrai, ti troverai benissimo.     
Pare che sia finalmente arrivata la fine di questa lettera d'addio al mondo in cui ho vissuto fino ad ora. In questi giorni stavo riflettendo sul detto “ognuno è artefice del proprio destino”. Forse è la più grande cazzata di tutti i tempi. Non l'ho scelto io di andare a New York e di lasciare tutto e tutti, è stato il fato a volerlo. È come un'onda anomala, non si può domare, non si può sconfiggere; si può solamente cercare di rimanere a galla al meglio possibile. Mi mancherà stare qui, mi mancherà la mia classe, Leon, i miei amici. Mi mancherà questa piccola città.

Addio per sempre,       
Rebecca Grint            

Quando la signora Planck sollevò lo sguardo verso la classe, vide un'espressione che dipingeva in maniera impeccabile quel sentimento chiamato tristezza sui visi di ventidue quindicenni. Fu come un proiettile per molti. Rebecca era una ragazza che non poteva non essere amata: era dolce, gentile, sempre disponibile a dare una mano a qualcuno, sempre pronta a sacrificarsi per il prossimo.    
Pleun nascose la sua testa tra le braccia e la poggiò sul banco, e stette per alcuni minuti a piangere e singhiozzare ininterrottamente prima di risollevare il capo mostrando due occhi gonfi e color porpora. Julian ebbe un comportamento simile. Ethan invece, dopo aver passato qualche minuto con le mani tra i capelli biondi e spettinati, si alzò di scatto in piedi, facendo cadere la sedia per terra.    
“Signora Planck, posso uscire un momento dalla classe?”.    
“Hai bisogno di qualcosa, Ethan?”    
“Solo di prendere un po' d'aria. Qualche minuto e torno”    
“Va bene, ma non andare troppo in giro per i corridoi, altrimenti i richiami me li prendo io”.    
Chiusa la porta della classe con violenza, Ethan cominciò a gironzolare per i corridoi della scuola. Passeggiava distrattamente e con la testa altrove, costeggiando una lunga fila di armadietti, i distributori automatici e una finestra che dava su un ampio cortile con al centro un campo da basket con i canestri arrugginiti e le reti sfilacciate. Quando, ad un tratto, incrociò un professore.    
“Tu, biondino, che ci fai qua fuori? In che classe sei?”    
“Secondo anno, sezione C, signore” disse il ragazzo al docente, seccato per esser stato beccato da un insegnante.    
“Non puoi stare qui, lo sai vero? Avanti, fila in classe”    . 
“È che...” Ethan cercò di inventarsi sul momento una scusa più convincente possibile “mi sono perso... Sa, dovevo andare in bagno ma non sono mai stato in questo piano della scuola, quindi cercavo qualcuno a cui chiedere dove andare”. Gli sembrava una scusa così assurda che non se la beveva neanche lui. A quanto pare però il professore gli credette (o per lo meno volle far finta) e indicò al ragazzo la strada per i bagni maschili.     
Si diede un'abbondante sciacquata al viso con acqua fredda, e cominciò a scrutare lo specchio davanti a sé, quasi come se non riconoscesse la persona che era riflessa in quella lastra di vetro e alluminio. Eppure era sempre lui, sempre il solito ragazzone con un'altezza notevole per i suoi sedici anni, con le spalle larghe e il fisico palestrato, gli occhi piccoli color cobalto e le sopracciglia bionde sempre aggrottate a suggerire un'aria arrabbiata che però è sempre stata soltanto apparente. Eppure, in quel momento, c'era qualcosa che non andava in quel viso. Perché si sentiva così per la partenza di quella dannata ragazzina? Non facevano altro che discutere, e ora, per qualche strano motivo, sentiva i crampi allo stomaco quando pensava a Rebecca. Aveva capito l'importanza di una persona solo dopo averla persa. A sedici anni, Ethan aveva finalmente capito cosa volesse dire tenere veramente ad una persona. Aveva capito quanto effettivamente contassero gli affetti nella vita.     
Alla fine dell'ora una mandria di studenti si catapultò fuori dalle proprie aule per dirigersi a consumare il proprio squallido pasto alla mensa scolastica. Ethan continuava a vagare senza una meta per il corridoio principale. Non aveva fame, aveva solo voglia di stare un po' da solo, di non avere nessuno che gli girasse intorno e lo disturbasse nel suo momento meditativo. Con la testa china e lo sguardo basso, fissava un oceano di sneakers e di jeans passargli davanti, ma nessuno sembrava far caso al suo stato di smarrimento, fino a quando non sentì il suo nome pronunciato da una voce fin troppo familiare: la signora Planck gli fece segno di venire da lei.    
“Che hai fatto fuori per tutta l'ora? Ti senti bene?”    
“Credo di sì... Sentivo solamente il bisogno di restare un po' da solo. Sa, professoressa, questa storia di Rebecca mi ha sconvolto. L'ho sempre ritenuta una ragazza irritante e viziata, non facevamo altro che discutere e mi sono sempre chiesto per quale motivo Leon continuasse a stare con una così... Però, ora che so che non la vedrò più, sento come un vuoto allo stomaco. Un po' come quando i miei genitori sono morti. Solo che allora avevo otto anni, non capivo fino in fondo cosa significasse perdere una persona per sempre”.    
“Lo capisco bene, Ethan, ma non puoi startene tutta un'ora fuori in questo modo. So che per voi che eravate più legati a Rebecca questa storia di cui siete venuti a conoscenza tutto di un botto è stata come una bastonata, e per questo se potrò aiutarvi in qualche modo sarò ben felice di farlo... ma Ethan, non puoi passare un'ora così. Questa volta ho deciso di far finta di nulla, ma per favore, cerca di non passare più le ore a zonzo per la scuola, ok?”    
“... Va bene, grazie. Se non c'è altro, andrei alla mensa.”    
“Nient'altro, puoi andare. Buon pranzo.”    
Dopo aver riempito il vassoio con quello che sarebbe dovuto essere puré di patate, un paio di fettine di carne provenienti da qualche animale indefinito, un budino al cioccolato e un succo di frutta, Ethan si mise alla ricerca di un tavolo in cui sedersi. Dopo una rapida occhiata, trovò i suoi compagni di classe seduti intorno ad un tavolo al centro della sala. Mentre lui si avvicinava, Pleun si fece più a sinistra per permettergli di sedersi accanto a lei, mentre Julian era nel bel mezzo di una discussione con Alan, un ragazzo della sua classe con dei capelli scuri portati a spazzola, un vistoso apparecchio sull'arcata dentale superiore, un paio di occhiali con una piccola montatura rettangolare  e il viso che, in generale, ricordava vagamente un topo. Il topos del dibattito era il seguente: secondo Julian il miglior pranzo della settimana è quello del martedì, in cui viene servita la pizza, mentre Alan sosteneva che non c'è nulla di meglio che mangiare un buon hot-dog il venerdì. Dall'altra parte del tavolo, seduta accanto a Pleun, la piccola Sophie era persa nelle sue fantasie, mentre assisteva alla sua prima mensa da liceale. Tutti quegli studenti così grandi e la confusione che generavano erano una completa novità per lei. Era proprio come nei film: c'erano i tavoli riservati alla squadra di football (non c'era propriamente scritto “per la squadra di football”, ma nessuno avrebbe mai osato sedersi lì), così come quelli per i team di baseball e di basket; vicino agli sportivi sedevano le cheer-leaders, o comunque le ragazze più popolari e carine della scuola; ai tavoli più esterni e meno in vista della sala sedevano quelli che erano considerati dalla masse gli “sfigati”, cioè coloro che avevano degli interessi particolari che andavano oltre il calcio e la pallacanestro, e magari discutevano di computer, videogiochi, motori ecc.; alcuni poi, avevano i tavoli tutti per sé: erano i cosiddetti asociali, coloro che non riescono a farsi degli amici. Oltre a queste categorie, esistevano le persone “normali”, la classe media del liceo. Ben presto Sophie avrebbe scoperto la stupidità di questa divisione in “caste”, e di come gli studenti più popolari e in vista della scuola fossero costretti a tenere sempre un certo comportamento in ogni situazione per non rischiare di essere degradati tra la gente comune, tra la plebe.    
Un altro aspetto era simile ai classici film sulle high school americane: il capitano del team di football, un certo Nicholas Drums, del quarto anno, aveva appena bloccato in mezzo alla sala pranzo un ragazzo della sua classe, Vincent Grundler, un ragazzetto piccolo e mingherlino, che se non fosse stato il secondo studente più brillante della scuola, nessuno lo avrebbe distinto da un ragazzo del primo anno: non arrivava neanche al metro e settanta, indossava un paio di jeans tenuti alla vita da una cintura marrone tirata fino all'ultimo foro disponibile, un paio di occhiali squadrati con delle lenti spesse come binocoli che contribuivano ancora di più a dargli la classica aria da secchione poco sveglio, e una costellazione di brufoli che prendeva spazio lungo il viso.        
Quando Nicholas lo vide con il suo vassoio in mano dirigersi ad uno dei “tavoli degli sfigati”, si incamminò verso il piccolo Vincent.    
“Ehi Grundler! Sì, dico proprio a te” gridò Nicholas in mezzo alla sala, facendo girare molte persone, compreso il gruppo di Ethan e gli altri, che si trovava solamente ad un tavolo di distanza, “devi aiutarmi a fare quel lunghissimo  e noiosissimo compito che ci ha dato il prof di storia, non ho idea di come si faccia”    
“V-va bene, Nicholas... Vuoi che c-ci vediamo in biblioteca d-dopo i tuoi allenamenti?” disse balbettando, intimorito.    
“C'è un problema, piccolo Vincent” il giovane quarterback lo prese sotto il  braccio, facendolo sembrare suo figlio “dopo gli allenamenti dovevo uscire con la mia ragazza, e non ho il tempo di venire in biblioteca... temo proprio che ti toccherà fare anche il mio tema”    
“M-ma io questa sera ho una cena a casa dei miei nonni...”    
“Mi dispiace, significa che porterai i libri dai tuoi cari nonnini”    
A quel punto, le orecchie di Ethan avevano già sentito troppo. Posò il suo succo di frutta con violenza sul vassoio e scattò verso i due, scostando il ragazzo più gracile.    
“Senti se quest'idea ti piace: lasci stare questo povero ragazzo, il tuo dannato tema di storia te lo fai da solo e la tua ragazza la fai uscire con me. Allora?”. Sebbene Ethan fosse due anni più piccolo, fisicamente era ben piazzato come Nicholas, e forse anche più alto di qualche centimetro, e visti da fuori sembravano due leoni pronti per sbranarsi.    
“E tu chi diavolo saresti?” chiese Nicholas senza scostarsi di un centimetro.    
“Uno che si è stufato di voi idioti del team di football che ve ne girate per la scuola come se foste delle divinità: tornate con i piedi  per terra, sfigati. Come vedi, basta trovare qualcuno grosso quanto voi per zittirvi.”    
A quel punto, il giocatore di football si lasciò partire un gancio destro con il quale sperava di stendere l'altro ragazzo, ma Ethan schivò con velocità il pugno e con una spinta lo mandò per terra, a tre metri di distanza.    
Immediatamente i compagni di squadra di Nicholas si precipitarono ad aiutare il loro amico. Dall'altra parte, Ethan guardava i suoi avversari con occhi indemoniati. Aveva una lunga vena gonfia che gli attraversava il collo, e il respiro pesante, che sembrava quello di un animale feroce; il suo corpo era molto caldo, stava con il petto all'infuori e le braccia aperte, come se stesse invitando il team ad attaccarlo. Questi, però, sembravano intimoriti e non osavano avvicinarsi. Appena prima quel diavolo biondo andasse all'attacco contro dieci ragazzi, sentì due braccia che lo bloccarono. Pleun aveva abbracciato Ethan intorno alla vita, appoggiò la fronte sulla sua schiena larga e gli disse con voce bassa di smetterla, o sarebbe finito nei guai.     
Quelle parole furono come un narcotizzante per Ethan: la vena sul collo cominciò pian piano a sgonfiarsi, il respiro tornò ad un ritmo regolare e i livelli di adrenalina nel suo corpo si abbassarono rapidamente. Un professore giunse sul posto quasi istantaneamente, facendosi spazio tra la folla di studenti che si era riunita a guardare la scena. Era lo stesso che aveva incrociato prima Ethan per i corridoi.     
“Che succede qui? Ci sono problemi? Voi due... cosa avete combinato?”    
“Niente signore, non c'è nulla che non va. Cosa mai sarebbe dovuto essere successo?” rispose Nicholas all'insegnate, sperando di riuscire a farla franca.    
“Non lo so... ho visto che si erano tutti riuniti intorno a voi due, e temevo che ci fossero dei problemi, magari una rissa. Ma a quanto pare mi sbagliavo, non è vero?”    
“Una rissa?” chiese Nicholas cercando di fingersi il più stupito possibile “con l'impegno che ci metto nel football e con quello che studio per avere una media scolastica del genere, sarebbe stupido farsi punire per una cosa così futile, non trova?”    
La faccia di Ethan era sbalordita nel vedere quanto Nicholas potesse essere sfacciatamente bugiardo e bravo con le parole quando gli serviva per non rimetterci.     
“Sì, hai ragione Nicholas. Non avrei nemmeno dubitare di te” disse il professore, quasi rassicurato dalle parole del capitano della squadra. Dopodiché, rivolse un altro sguardo ad Ethan e lo ammonì: “ti ho riconosciuto, sai? Sei quello che ho beccato oggi in giro per i corridoi! Ti tengo d'occhio, sappilo”.    
Nicholas fece una strizzata d'occhio a Ethan, come a fargli capire che se non fosse stato per lui ora sarebbe si sarebbe trovato in presidenza in un mare di problemi.     
Ben presto tutti tornarono ai propri posti per terminare il pasto. Appena Ethan ritornò al tavolo, venne subito ripreso da Julian. Non erano mai andati d'accordo i due, ma c'è da dire che, sebbene Ethan fosse fin dalla nascita particolarmente scontroso e difficilmente riusciva a non discutere con qualcuno grazie al suo caratteraccio, tra i due c'è sempre stato un astio particolare, fin da quando erano bambini. Non si è mai riuscito a capire il motivo di tanto disaccordo, ma anche da piccoli erano come cane e gatto, e finivano sempre per picchiarsi.    
“Come al solito tu sai sempre come trovarti nelle situazioni migliori, non è vero?” disse Julian rompendo il silenzio che regnava nel tavolo.    
“Io starò anche in mezzo ai casini ogni volta, ma tu invece il coraggio lo sai che cos'è? Potevi aiutarlo tu quel ragazzo al posto mio, e invece hai anche da ridire su ciò che ho fatto...”    
“Non sto dicendo che tu abbia fatto una cosa sbagliata: è stato un gesto altruista e nobile il tuo, senza dubbio, ma anche incredibilmente stupido. Perché mai avrei dovuto farmi picchiare per una persona con cui non ho neanche mai scambiato una parola? Non ha senso, Ethan”    
“C'è una cosa che si chiama etica in questo mondo. Tu che passi tutto il tempo sui libri, l'hai mai sentita? Se puoi aiutare qualcuno in qualche modo, allora devi farlo. Quel ragazzo aveva bisogno di aiuto, e io gliel'ho dato. E poi l'altro, quel Nicholas... meritava una lezione, e ancora non l'ha ricevuta. Per ora.”    
“Va bene, va bene” interruppe Pleun il discorso, evitando così un altro dei numerosi litigi “che hai fatto fuori dalla classe per tutta l'ora di chimica invece?”    
“Mi sono fatto un giro per la scuola: sai, avevo bisogno di starmene un po' da solo a riflettere. E così ho deciso di farmi una passeggiata..”    
“Immagino che il nostro filosofo abbia fatto delle scoperte sensazionali” lo interruppe Julian con l' ironia che Ethan ha sempre odiato; ricambiò questa battuta con uno sguardo fulminante “Ti prego, illuminaci, o maestro”    
“Sì” rispose Ethan indispettito “ho scoperto quanto sono importanti le persone come voi”.    

Il suono della campanella si diffuse con vigore per tutta la scuola sancendo definitivamente la fine della giornata scolastica. Con una velocità inversamente proporzionale a quella con cui, svogliati, entravano in classe la mattina per iniziare le lezioni, tutti gli studenti si sbrigarono ad uscire dalle loro classi, contenti più che mai di non doverci più entrare fino alla mattina successiva. E sebbene il primo giorno di scuola potesse riservare agli studenti qualche aspetto positivo, come ad esempio poter rivedere tutti i compagni che erano stati lontani per un'intera estate, questa parvenza scomparve ben presto, facendo posto alla routine e alla noia.    
Pleun, Sophie e Julian percorrevano insieme a piedi la strada che li avrebbe ricondotti a casa. Quest'ultimo precedeva le due ragazze, spazientendosi continuamente per l'andatura lenta delle amiche, che però sembravano non dargli molto credito. Dietro, Sophie parlava con occhi sognanti delle sue impressioni sulla scuola. Le raccontò di un ragazzo della sua classe che trovava molto carino, del professore di ginnastica che si credeva un allenatore di una squadra olimpionica e faceva fare molti esercizi complicati e di un gruppo di ragazzi che venivano dalla stessa scuola media e che volevano comandarsela all'interno della classe. Aggiunse anche però credeva di aver fatto una gran figura con i suoi compagni facendosi vedere con degli studenti più grandi, e che tre persone le hanno chiesto se conosceva Ethan dopo la pausa pranzo, rimanendo scioccate quando Sophie gli rivelò che erano amici d'infanzia. Quando Pleun sentì il nome di Ethan arrossì di colpo. Non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva un debole per quel ragazzo, e le faceva piacere che solo poche ore prima era riuscito a calmarlo mentre era infuriato. Persa nei suoi pensieri, si perse l'ultima parte del discorso di Sophie, che ormai da più di un quarto d'ora non faceva che vomitare tutto ciò che gli era passato per la mente durante la mattinata.    
“Insomma, vi volete sbrigare?!” le riprese il povero Julian, risvegliando Pleun dal suo sogno a occhi aperti “non è possibile che siate così lente. Che cosa avete oggi?”    
“Sei sempre così noioso” lo apostrofò Sophie “se hai tanta fretta vai pure, nessuno ti ha chiesto di aspettarci. Ci vediamo domani”    
Spiazzato dalla risposta, Julian non poté fare altro che adeguarsi al passo delle due, mettendosi all'ascolto del monologo della piccola Sophie, finché non fu interrotta da Julian, quando i tre passarono sotto casa di Leon.    
“Secondo voi starà tanto male?”    
“Parli di Leon? Credo di sì, molto peggio di tutti noi...” rispose Pleun, ancora traumatizzata dalla partenza della sua migliore amica “spero solo di rivederla il prima possibile, anche se ha detto che probabilmente passerà un bel po' di tempo prima che tornerà.”    
“Vorrei solo poter fare qualcosa per lui. In questo momento, il periodo peggiore lo sta passando proprio Leon, e noi, maledizione, non possiamo fare nulla”.    
“Non ti preoccupare, Julian” disse Pleun “non siamo supereroi che devono salvare qualcuno, siamo semplicemente suoi amici, e l'unica cosa che possiamo fare è stargli vicino il più possibile per non farlo sentire solo”    
I restanti cinque minuti di cammino furono percorsi in silenzio, mentre i tre ragazzi riflettevano sulle conseguenze a cui avrebbe portato il trasferimento di Rebecca tra loro.

Ethan suonò il campanello. Ad aprirgli fu un uomo alto quanto lui ma decisamente più largo. Aveva una grossa pancia, un gran numero di piercings sul viso e una lunga barba bionda con un po' di ciuffi bianchi sparsi qua e là. Indossava una maglietta nera di un gruppo rock a Ethan sconosciuto, dalle cui maniche spuntavano due grosse braccia, così come il collo taurino, coperte da ogni genere di tatuaggio. Il ragazzo, un po' intimorito dalla burbera figura dell'uomo che gli si era presentato davanti, entrò nella piccola sala.    
“Come posso aiutarti, ragazzo?”    
“Vorrei fare un tatuaggio...” disse Ethan un po' esitante.    
“Non avevo dubbi su questo” rispose il tatuatore, terminando con una risata, più simile ad una serie di colpi di tosse, che mostrò due file di denti non proprio bianchissimi.    
“Avevo in mente un diamante, o una gemma, qualcosa di simile...”    
“Quanti anni hai, ragazzo?”    
“Diciotto”    
“Hai un documento con te?”    
“Mi dispiace, ma l'ho scordato a casa”    
“Perché vuoi farti questo tatuaggio?”    
“Sono affari miei questi, non credi?” rispose Ethan con la sua solita spavalderia a quell'uomo che aveva le dimensioni di un orso.    
“È vero, ma dal momento che non puoi dimostrarmi di essere maggiorenne, non ti farò nessun tatuaggio se non vedrò prima che hai un'ottima motivazione per farlo. Abbiamo una nostra etica, noi tatuatori, capisci? Quindi avanti, ti ascolto”        
Cosa diavolo voleva adesso questo tizio? Come si permetteva di trattarlo come un ragazzino e di ricattarlo? Per un momento si rizzò, come pronto per iniziare una rissa, poi ripensando a chi aveva di fronte, pensò che forse era meglio non andare in escandescenza come al suo solito e rispondere alla domanda.    
“Vedi” sospirò Ethan “oggi ho scoperto che una ragazza con la quale sono cresciuto si è trasferita a migliaia di chilometri e probabilmente non la rivedrò mai più. Non che sia mai stato innamorato di lei o cosa: era fidanzata con il mio migliore amico, e in più non facevamo altro che litigare. Però oggi ho scoperto che era partita, e ho iniziato a stare male. Per la prima volta, ho sentito veramente di voler bene a qualcuno, e ho realizzato che anche se non mi è mai andata molto a genio quella ragazza, siamo cresciuti insieme. Così ho capito che le persone più importanti che ho a questo mondo sono quelle che mi hanno accompagnato fino ad ora, sono i miei amici. Sono la cosa più preziosa che ho, per questo avevo scelto il diamante... so che è un collegamento stupido, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente...”    
Ethan abbassò lo sguardo in silenzio, in attesa del giudizio.    
“Sai, ragazzo... hai ragione, è un'idea un po' strana in effetti. Però mi hai raccontato una storia niente male, e sembra che questa esperienza in qualche modo di abbia fatto crescere. Come ti chiami?”    
“Ethan”    
“Io sono Michael. Vediamo se ho già qualcosa di pronto” gli disse iniziando a spulciare tra decine di disegni “ecco qui! Che ne dici di questo?”    
Mostrò un diamante avvolto in un sottile nastro giallo ocra, con un piccolo fiore sullo sfondo.    
“È fantastico! Proprio quello a cui pensavo.”    
“Mi piaci, Ethan” strillò Michael facendo quasi prendere un infarto a Ethan “vieni con me, ma ti avviso: essere così grosso a “diciotto” anni non ti allevierà il dolore. Sta' pronto a soffrire”    
“Non c'è problema: nessun dolore mi spaventa” rispose Ethan , che aveva appena ritrovato il suo classico sorriso beffardo.

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Ecco qui il secondo capitolo :D la storia procede a rilento causa esami di maturità, ma vi prometto che prossimamente sfornerò un capitolo dopo l'altro! Fatemi sapere cosa ne pensate :))
Ciaooo!
   
 
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