Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Acinorev    12/07/2015    2 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao!
Scusate il ritardo, ma la sessione esami estiva può essere piuttosto asfissiante! Soliti piccoli appunti prima di lasciarvi alla lettura:
- per chi avesse la memoria corta (come me), ricordo che "nini?" significa "cosa?", "habari? mzuri" è il saluto tipico. "musungu" è il termine usato per indicare i bianchi e "hapana" significa "no";
- l'avevo già accennato in un altro capitolo, ma lo ripeto: durante la settimana è raro incontrare soldati inglesi in città, a meno che non sia un martedì o un giovedì, che sono i loro giorni liberi;
- breve premessa per quanto riguardo HIV e AIDS, per chi non fosse informato correttamente o a sufficienza: in seguito ad infezione da HIV, non si parla subito di AIDS, che invece è intesa come manifestazione clinica delle infezioni che è più facile contrarre in seguito alla riduzione delle difese immunitarie a causa del virus HIV (replicandosi all'interno dell'organismo uccide i nostri linfociti). Di conseguenza, una persona infetta può essere asintomatica per diversi anni (in media si tratta di sei anni) e poi iniziare a contrarre infezioni gradualmente.

 

 

Capitolo quattro
Le dimenticanze di Dio
 

Ho ancora quel pezzo di plastica con il mio nome scritto sopra,
accanto alle impronte delle tue dita.

 

Peter cerca di respirare il meno possibile: non per l’odore, né per il caldo asfissiante che potrebbe disidratarlo dall’interno, ma per la polvere dalla quale è circondato. Trattiene il fiato ad intervalli regolari, ignorando la schiena sudata a causa del contatto con il pavimento in cemento rovinato, e di tanto in tanto si asciuga le tempie percorse da goccioline di sudore.
«Allora? Hai finito o no?» insiste Mustafa, spostando il peso da un piede all’altro: nonostante i suoi dieci anni, riesce ad essere irritante ed opportunista come il più incallito dei presuntuosi.
«No, Mustafa, non ho ancora finito», sospira Peter, senza badare al tono con il quale è stato richiamato. «E se darti una mano significa averti intorno per tutto il tempo per mettermi fretta, la prossima volta non ti aspettare niente», mente. Non lo farebbe mai.
«Voglio solo dormire», borbotta l’altro, incrociando le braccia al petto ed imbronciando il viso infantile.
Peter non gli risponde, concentrato sugli attrezzi rudimentali tra le proprie mani: più volte ha ripetuto ai ragazzi di non saltare sulle brandine dei dormitori, dato che non sono resistenti né così facilmente sostituibili. Ovviamente, però, non è stato ascoltato: per questo motivo si ritrova sdraiato a terra, con il volto a pochi centimetri dalla rete in metallo arrugginito, a cercare di riparare il riparabile.
«Pete!» si sente chiamare, senza voltarsi ad accertarsi di chi sia.
Maina entra nel dormitorio senza fretta, guardandosi intorno per cercarlo. «Peter?» riprova.
«Sono qui», sbuffa lui, maledicendo un pezzo di filo spinato che gli è appena caduto addosso.
«Pete, Tifah e Ryma ti stanno aspettando», gli comunica, piegandosi sulle ginocchia per capire cosa stia facendo: ha gli occhi curiosi di chi non ne sa mai abbastanza.
«Sì, lo so».
«Tifah ti sta aspettando», precisa Maina, facendolo sorridere: è stata sicuramente lei a mandarlo in ricognizione, impaziente come solo lei può essere.
«Posso immaginare», ridacchia Peter. «Ma dovrà aspettare ancora qualche minuto».
«E non puoi dirglielo direttamente tu?»
«Non ti mangerà, te lo assicuro».
Maina scuote la testa e si rialza in piedi con un sospiro. «Ne sei sicuro?» chiede retoricamente, sorridendo divertito prima di andarsene.
«Pete, hai visto la mia maglia gialla?» gli chiede qualcuno, che non sa come riconoscere.
Peter si contorce sul pavimento per poter posare gli occhi sul suo interlocutore, per poco non batte la testa contro un’asta di metallo e si dimentica di respirare il meno possibile, lasciandosi scappare uno starnuto fastidioso. «No, Jarob», gli risponde, stringendosi nelle spalle e guardandolo sbuffare.
«Puoi aiutarmi a cercarla, quando hai finito? A quanto pare nessuno qui intorno vuole darmi ascolto», aggiunge in tono offeso ed accusatorio.
«Vedrò cosa posso fare», promette vagamente.
«Peter, sbrigati!» lo rimprovera Mustafa, spostandosi per coprire la figura di Jarob ed ottenere tutta l’attenzione.
Un paio di minuti più tardi, Maina ricompare con un’espressione arresa ed interrogativa: sembra chiedersi perché tocchi proprio a lui quell’amaro destino. È seguito da Jude, il bambino sordomuto del Centro. «A che punto sei?»
«Dipende da quanta pazienza hanno», ride Peter, senza distrarsi troppo dal suo compito.
Jude striscia accanto a lui e lo osserva con un largo sorriso sulle labbra, gli occhi grandi e desiderosi di imparare. Tocca la rete in metallo, correndo con le dita lungo la trama vecchia ed instabile.
«Diciamo che Tifah è disposta a sfidare le Mamme pur di venirti a prendere…» spiega Maina, appoggiandosi con una spalla al muro e chiedendo a due ragazzi in procinto di litigare di non osare iniziare. È un tipo piuttosto responsabile per avere quindici anni.
«Immagino che dovremo metterla alla prova».
 
Peter impiega circa un quarto d’ora per riconquistare una certa libertà: è riuscito ad accontentare Mustafa, terminando la riparazione del suo letto e obbligandolo a promettergli di non romperlo un’altra volta; ha trovato la maglia di Jarob in un altro dormitorio e poi si è lavato frettolosamente ad uno dei lavandini all’aperto. Tutto questo nel timore di avvistare Tifah avvicinarsi a passo svelto e con i pugni chiusi, pronta a rimproverarlo per il ritardo: per questa volta è stato fortunato.
«Si può sapere che diavolo stavi facendo?» viene accolto calorosamente dalla stessa Tifah, una volta raggiunta in prossimità del cancello d’entrata del Kenyatta Centre. Accanto a lei, Ryma sorride divertita. «E dire che sei stato tu a scegliere l’orario: la prossima volta ce ne andiamo senza di te».
«Mustafa ha di nuovo rotto il suo letto, ho dovuto ripararlo», prova a spiegare Peter, seguendole al di fuori del Centro e godendosi l’aria aperta. Per un istante rabbrividisce.
«Sai, dovresti davvero smettere di fare da schiavetto a qualsiasi combinaguai di questo posto», aggiunge Tifah, incrociando le braccia al petto ed alzando un sopracciglio: fin quando non si sarà tranquillizzata, continuerà ad inveire contro qualsiasi piccolo dettaglio osi urtare la sua tolleranza.
«Allora dovrei smettere di fare favori anche a te», la provoca Peter dandole una spallata scherzosa.
«Favori? Non so di cosa tu stia parlando», risponde lei con sicurezza. «Ryma, tu sai di cosa sta parlando?»
L’amica scuote la testa con un sorriso sulle labbra, senza pronunciarsi.
«Sbaglio o pochi giorni fa ho dovuto aggiustarti le scarpe?» insiste Peter.
«Sbagli, ovviamente», replica Tifah, assumendo un’aria indignata. «Pochi giorni fa non credo nemmeno ti conoscessi», scherza subito dopo, solo per tirarsi fuori da quella situazione scomoda.
Lui ride ed alza gli occhi al cielo, senza ribattere.
«Però Tifah non ha tutti i torti», esordisce Ryma, camminando lentamente al suo fianco. «Sei troppo buono, e sai anche tu che tutti ne approfittano».
È vero, non c’è neanche bisogno di negarlo, ma dov’è il problema? «Se qualcuno ha bisogno di qualcosa, perché non aiutarlo?» chiede infatti, abbassando la voce, ma non lo sguardo. Non gli importa di essere usato più o meno a convenienza, sa difendersi da alcuni comportamenti e sa a quali dare valore.
«Ehm, sveglia?» risponde Tifah, incredula. «Ti trattano come un burattino e finisci per non avere mai un po’ di tempo per te. E poi, ti devo ricordare che non sei la persona più adatta a lavorare come un mulo? Potresti tagliarti o chissà cos’altro, e da lì ad un’infezione il passo è-»
«Tifah», la interrompe Ryma, mentre Peter stringe i pugni lungo i fianchi passando inosservato. «Sono sicura che Peter sappia dei rischi che corre».
«Allora perché non fa qualcosa per evitarli?»
«Perché non voglio vivere in una campana di vetro», risponde lui, senza alterarsi. Conosce i modi della sua amica, conosce il suo tono di voce e la sua gestualità, il guizzo nei suoi occhi passionali: sa che nascondono la stessa determinazione e la stessa preoccupazione del tepore quieto di Ryma, lo stesso affetto. Per questo non li percepisce come un attacco personale.
Tifah sbuffa, scuotendo la testa e borbottando qualcosa di contrariato.
«A proposito», interviene l’altra, «ancora niente, vero?» domanda speranzosa.
Peter le sorride per rassicurarla, per negare la comparsa di qualsiasi sintomo collegabile all’AIDS, ma è teso ed inquieto e spera che presto si cambierà discorso.
Le sue preghiere vengono esaudite quando Tifah interrompe il silenzio pochi istanti dopo. «Solomon?»
«Ci raggiunge appena finisce di lavorare dalla Harvey», le spiega l’amica.
«Kelvin stanotte non è tornato: ve lo ha detto?» chiede Peter, usando un tono quasi intimorito da una possibilità che non piace a nessuno. Difatti l’atmosfera si fa più rigida.
«Quel ragazzo lo farà impazzire», sospira Ryma, sinceramente dispiaciuta per la situazione. «Non posso credere che abbia così poca considerazione per suo fratello: eppure è l’unica vera famiglia che gli è rimasta. Dovrebbe… Dovrebbe significare qualcosa», aggiunge con amarezza.
«È solo un teppistello ingrato», commenta Tifah, serrando la mascella. «Se fossi Solomon lo picchierei dalla mattina alla sera, fino a fargli entrare un po’ di sale in zucca».
Peter sospira, si passa una mano dietro al collo per ripararsi almeno momentaneamente dal caldo cocente del primo pomeriggio. «Credo che di questo passo non ce ne sarà bisogno».
Le due ragazze lo osservano con aria interrogativa, continuando a camminare lungo la strada sterrata e arida.
«Sta peggiorando», spiega lui, privo di grandi speranze. «È quasi sempre fuori casa e quando ritorna è quasi sempre reduce da una rissa o chissà quale altra bravata. Quanto ci vorrà prima che qualcuno lo metta in prigione? È stato fortunato a non esserci ancora stato, dato quante ne combina».
Nessuno parla.
«E poi… Credo stia rubando anche all’interno del Kenyatta Centre», aggiunge.
«Cosa?!» esclama Tifah, indignata.
Ryma corruga la fronte, trattiene il fiato.
«L’altro giorno ho sentito Mikail parlarne con qualcuno: ultimamente dai dormitori scompare sempre qualcosa e puntualmente Kelvin torna a casa con qualcosa di nuovo per sé. Credono che venda quello che prende, anche se non penso che usi i soldi solo per comprarsi da vestire e da mangiare».
«Che si faccia di colla è risaputo», risponde Tifah, visibilmente irritata, «ma quello che mi fa incazzare è che si azzarda anche a rubare a qualcuno di noi. Non mi importa un accidente di quello che combina fuori dal Kenyatta, è abbastanza grande da ragionare con la sua testa, per quanto stupida sia, ma come diavolo si permette di mettere nei casini anche noi?»
«Tifah, quello che fa fuori non è meno importante o meno grave di quello che fa all’interno del Centro», la corregge Ryma. Sembra piuttosto turbata. «È tutto collegato ed è tutto sbagliato».
«Non mi interessa, Ryma: noi abbiamo le sue stesse difficoltà, allora perché lui deve essere così idiota? Si va avanti lo stesso, anche senza rischiare la prigione, anche senza trattare tuo fratello come l’ultima schifezza sulla Terra, anche senza rubare ai tuoi stessi compagni».
Tutti sanno che ha ragione, ma nessuno lo sottolinea.
È Peter a prendere la parola. «In ogni caso Egbert non sa ancora niente di questi ipotetici fu-»
«Ipotetici?» lo interrompe Tifah.
«Di questi furti», si corregge lui. «Vorrei prima parlarne con Solomon».
«Così potrà di nuovo coprire le sue bravate e fargliela passare liscia?»
«Tifah-»
«No, dovete smettere di difenderlo. Se la sua vita gli fa così schifo ed è disposto a peggiorarla ancora di più, è libero di farlo: perché dobbiamo andarci di mezzo noi? Che se ne vada, lascia pure che Egbert lo cacci: staremmo tutti meglio, persino Solomon starebbe meglio senza di lui».
Ancora una volta, lasciano che la risposta giaccia sottintesa.
 
 
 
Stanno attraversando il vecchio ponte che collega la strada sterrata a quella asfaltata diretta al centro della città, quando Tifah inasprisce lo sguardo. «Oggi è mercoledì, giusto?» domanda a Peter, mentre aspettano che Ryma scelga accuratamente della frutta da comprare.
«Sì», sbadiglia lui, sbattendo le palpebre. Gli fa male la testa, si sente stanco.
«Allora perché ci sono dei soldati inglesi per strada?»
Peter sposta la sua attenzione sul lato opposto della strada, spiando i tre soldati in divisa che camminano senza fretta, scherzando l’uno con l’altro rumorosamente. Effettivamente è strano ritrovarli in città al di fuori dei loro giorni liberi. «Cosa te ne importa?» le chiede, senza farsi gli stessi problemi. In realtà sa perfettamente che Tifah vuole soltanto trovare una scusa per lamentarsi della loro presenza.
«Hey!» la saluta uno dei soldati, inaspettatamente.
«Oh, no», borbotta lei, piuttosto irritata.
Peter alza entrambe le sopracciglia, a metà fra l’incredulo, lo scettico ed il meravigliato.
Tifah volta le spalle al ragazzo e serra la mascella, decisa ad ignorarlo. Si conoscono?
«Guarda chi si rivede», commenta il soldato, fingendo di non notare la sua determinata freddezza nei suoi confronti. «Sei la ragazza del bar, giusto?»
«E tu sei quello di cui non mi importa nemmeno di ricordare il nome, giusto?» sibila lei, incrociando le braccia al petto ed ostinandosi a non guardarlo.
Peter invece lo osserva attentamente, curioso: probabilmente avrà una ventina d’anni, proprio come lui, o al massimo venticinque. Ha la carnagione così pallida da essere ancora più strano di qualsiasi musungu si possa incontrare da quelle parti, i capelli di un biondo scuro e gli occhi chiari, di come non se ne vedono tra i locali.
«Avanti, dovresti essermi almeno riconoscente», continua il soldato, sorridendo apertamente.
«Ragazzi, credo che prenderò qualcosa più avanti, qui non…» Ryma smette di parlare non appena si avvicina abbastanza da notare la presenza di tre estranei. Peter nota qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che assomiglia a della paura e che non è da lei.
«Habari», la saluta il soldato, rilassato nella sua uniforme. La sta guardando in modo strano, non come ha guardato Tifah: sembra quasi che sia rimasto stupito, romanticamente e stupidamente incantato, forse. Peter sente un moto di gelosia e protezione azionargli i riflessi: non gli importa nemmeno di essere stato completamente ignorato.
«Mzuri», risponde Ryma a bassa voce, distogliendo le iridi scure dalle sue e guardandosi intorno a disagio.
«Io sono Ryan, piacere», si presenta lui, porgendole una mano e continuando ad osservarla senza alcuna esitazione: sembra privo di filtri.
Tifah si irrigidisce, guarda la sua mano come se fosse la cosa più rivoltante al mondo.
Ryma è stupita da quel gesto, ma non si ritrae. «Ryma», sussurra, stringendogli la mano per un solo istante.
«Ryma… Quella Ryma?» domanda Ryan, rivolto a Tifah.
«Ora dobbiamo proprio andare, torna a fare quello che stavi facendo», esclama quest’ultima, afferrando i due amici per le braccia e trascinandoli con sé senza alcuna possibilità di opposizione.
Il soldato non li segue e Peter quasi se ne dispiace, perché era sinceramente curioso delle dinamiche che si stavano susseguendo sotto il suo naso. Si libera dalla presa di Tifah e «Di’ un po’», la interpella, sorridendo. «Ora ti metti a fraternizzare con il nemico?» la prende in giro, senza trattenere una risata incredula. Vedere quella ragazza avere uno scambio di battute quasi civile con un inglese è come andare d’accordo con uno dei babbuini della riserva: semplicemente assurdo.
«Sta’ zitto», gli intima lei, cercando di dargli una gomitata.
«Cosa significa “Quella Ryma”?» domanda invece Ryma, vagamente stordita dal precedente incontro.
«Lui era presente quando ho parlato con Benjamin», risponde l’altra quasi telegraficamente.
Peter è sempre più confuso. «Chi è Benjamin? E perché dovresti essere riconoscente a questo Ryan?»
«Fatevi gli affari vostri», li liquida Tifah, accelerando il passo e superandoli.
La osservano scappare dalle loro domande senza poter fare nulla a riguardo, ma non la inseguono: hanno tutti la stessa meta e, in fondo, se Tifah non ha voglia di parlare, è sicuro che non lo farà come è sicuro che il Monte Kenya ha sette punte.
«Ah, Ryma?»
«Sì?»
«Non so se te ne sei accorta, ma credo tu abbia fatto colpo».
Ryma sbatte le palpebre e per un attimo sembra rallentare il passo. «Nini
«Non hai visto come ti guardava quel soldato?» sorride Peter, stupito dalla sua cecità e dalla sua innocenza.
«Hapana».
«Quando sei agitata o imbarazzata parli in Swahili più del solito: lo sai, vero?»
«Hapana
Peter ride con una mano davanti alla bocca, piegandosi in avanti. «Credo sia anche per questo che Tifah se ne è andata in quel modo: l’avrà notato anche lei e starà cercando un modo per ucciderlo senza lasciare tracce».
Ryma serra le labbra e scuote la testa, senza commentare: probabilmente non vuole dargli altro modo di tirare ad indovinare il suo stato d’animo o forse vuole rimuginarci su da sé. Lui le cammina accanto fischiettando qualcosa, fino a quando non raggiungono Tifah.
Si è già seduta sulla sponda del ruscello che scorre nei pressi della città: ha lasciato le scarpe sul terreno poco erboso ed ha immerso i piedi nell’acqua limpida e trasparente, che sicuramente è rigenerante dopo una camminata di circa quarantacinque minuti sotto altrettanti gradi di calore. Gli altri due la imitano, giocando con l’acqua per farle tornare il sorriso.
«È arrivato Solomon», constata Ryma, indicandolo con una mano ed attirando l’attenzione dei suoi amici.
Solomon è dall’altra parte del ruscello, alcuni metri più a valle ed intento ad attraversalo in modo poco convenzionale: al posto di usare il ponte, come quasi tutti fanno, preferisce sfruttare il vecchio albero abbattuto che funge da attraversamento più veloce, anche se più rischioso.
«C’è anche Bahati con lui», esclama Peter, notando il bambino alle sue spalle, evidentemente spaventato dall’idea di dover camminare su un tronco apparentemente instabile.
«Non sapevo che fosse andato di nuovo con lui dalla signora Harvey».
«Vanno quasi sempre insieme», spiega Peter, annuendo e continuando a guardare i loro movimenti. Ormai è quasi una settimana che i due sono uno l’ombra dell’altro. «Bahati gli sta sempre appiccicato: credo sia diventato una specie di figura di riferimento per lui».
Solomon, in lontananza, prende in braccio il bambino e, un passo alla volta, arriva con cautela dall’altra parte del ruscello.
«Che fregatura», commenta Tifah, sbuffando.
«Dio si è dimenticato di darti un po’ di istinto materno, o sbaglio?» scherza lui, lanciandole un piccolo sassolino.
Lei gli rivolge una smorfia intollerante e poi borbotta tra sé e sé. «Dio si è dimenticato di parecchie cose».
 
 
 
Seduto davanti alla Casa, Peter può ancora sentire il profumo della cena appena consumata da Egbert, quella che prima o poi spera di assaggiare: sono quasi le nove, il Kenyatta Centre è già immerso nel buio ed il cielo è fatto di stelle.
Egbert gli sta fumando accanto: sono stranamente da soli, senza nessuno intorno a disturbarli.
«Hai saputo ancora qualcosa riguardo il Centro?» gli domanda Peter, andando consapevolmente a toccare un tasto dolente, ma che non può essere ignorato. Lui non dovrebbe nemmeno essere a conoscenza di quella questione, ma un giorno si è semplicemente trovato ad ascoltare casualmente una conversazione di troppo.
«Non c’è niente da sapere: me lo vogliono togliere», risponde Egbert, con la voce graffiata dal fumo e da una certa età. Li porta bene, è vero, ma sono pur sempre più di cinquant’anni. «Quegli stronzi sono sicuri che questo posto sia una miniera d’oro, una fonte immensa di guadagno: non hanno capito che esiste solo perché ci ho speso tutti i miei soldi, quelli che avevo ancora prima di venire qui».
Peter non riesce ad immaginare cosa succederebbe se lo Stato decidesse di strappare il Kenyatta Centre dalla gestione di Egbert: non riesce ad immaginarlo né in positivo, né in negativo. Non ha speranze, né paure: vorrebbe semplicemente che il problema si dissolvesse senza alcuna ripercussione, senza andare incontro ad un ignoto che lascia inquieti.
«Kelvin è tornato?» chiede Egbert dopo un paio di minuti. Sta fumando un’altra sigaretta, mentre Puppy gli dorme su un piede.
Peter scuote la testa, sospirando.
Solomon non riesce ad accettare le possibili spiegazioni dietro la scomparsa di suo fratello: certo, più volte è capitato che Kelvin restasse fuori casa per giorni, tornando quando più ne aveva voglia e senza dare particolari spiegazioni, ma ogni volta che succede ci sono preoccupazioni da affrontare, terrori da sedare.
«Suo fratello?»
«Non è ancora andato a cercarlo: vuole aspettare un altro po’, sai, per vedere se ritorna da solo».
Egbert inspira profondamente del fumo. «Se ritorna».
Peter riflette sulla situazione, torna alle parole di Tifah di quel pomeriggio: è quasi tentato di raccontare ad Egbert dei furti che si sono verificati negli ultimi giorni, nonostante Solomon gli abbia poi chiesto di non farlo, ma si morde la lingua e cerca di resistere. In fondo sono supposizioni, si ripete, supposizioni che hanno come capro espiatorio una persona mal considerata.
O almeno vorrebbe che fosse così.
«Vai a letto, Pete», esclama Egbert, gettando il mozzicone spento in un posacenere. «Ci vediamo domani», lo saluta, appoggiandogli una mano sulla spalla ed alzandosi in piedi.
Peter lo ascolta riordinare la cucina, spegnere la luce e chiudere la porta, allontanarsi a passi lenti con una torcia nelle mani per far luce intorno a sé. Finalmente solo, può sospirare sonoramente, chiudere gli occhi e lasciarsi sfuggire un’espressione sofferente.
Ha la febbre da due giorni, ma è bravo a nasconderlo a tutti. Lo nasconde persino a se stesso, quando può.
Non vuole che qualcuno scopra che le infezioni hanno iniziato a debilitarlo già da qualche settimana, non vuole che qualcuno scopra che ha già iniziato la terapia contro l’AIDS: lo terrà segreto fino a quando i sintomi glielo concederanno, fino a quando avrà abbastanza soldi per permettersi di affrontare tutto da solo, fino a quando avrà abbastanza forza per sorridere a Ryma e mentire, per prendere in giro Tifah ed ascoltare Solomon che aspetta suo fratello. E intanto lavorerà ed aiuterà dove può, cercando di scrollarsi di dosso la paura di non poter più fare tutto quello, la consapevolezza di avere un destino ben chiaro.

 


Buongiorno!!
Sono leggermente di fretta, quindi mi tocca essere il più sintetica possibile:
- capitolo relativamente tranquillo, senza grandissimi eventi a caratterizzarlo: più che altro si concentra sui rapporti tra i vari protagonisti. Ho scelto di raccontarlo dal punto di vista di Peter perché di Kelvin mi occuperò più avanti (probabilmente avrà meno POV degli altri) e perché volevo farvelo conoscere, dato che non è ancora comparso se non nel prologo (dove ricordo si era appena saputo della sua infezione da HIV). Cosa ve ne pare? È uno spiritello piuttosto allegro, almeno quando è con gli altri: troppo buono per negare un favore a qualcuno e piuttosto altruista. Cosa pensate del fatto che non abbia detto a nessuno della comparsa dei primi sintomi?
- Kelvin non è tornato a casa (è passata quasi una settimana dalla scorso capitolo) la sera precedente e si scopre che è il sospettato per diversi furti che sono avvenuti nel Kenyatta Centre: vi ricorda qualcosa?
- ritorna in scena Ryan, che avrà il suo ruolo nella storia, ed incontra Ryma: secondo voi? Mi pare che qualcuno avesse ipotizzato un'eventuale relazione tra lui e Tifah: chissà, chissà!
- non so se qualcuno se ne ricorda, ma all'inizio del prologo avevo accennato al problema del Kenyatta Centre, che vuole essere tolto dalla guida di Egbert: ho voluto risollevare la questione giusto per non farla cadere nel dimenticatoio di tutti;
- non mi viene più in mente niente da dire hahahha Se avete dubbi, domande o perplessità, contattatemi pure :)
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante non abbia molte pretese: cosa vi aspettate che accada?
Ah, so che per ora la storia ha avuti dei toni piuttosto... malinconici? Un po' cupi? Ma giuro che ci saranno momenti anche più leggeri hahaha
Grazie ancora per aver letto e grazie a chi recensito! Mi farebbe piacere conoscere i vostri pareri!

Vi lascio tutti i miei contatti:
 ask - facebook - twitter 


Veronica.

 
 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Acinorev