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Autore: _ A r i a    13/07/2015    10 recensioni
{Storia ad OC | Iscrizioni chiuse} {Percy Jackson!AU}
La vista dall'alto era a dir poco sorprendente:da quella quota qualsiasi palazzo, perfino quelli più alti, che da terra sembravano a dir poco immensi, ora non erano ridotti a nient'altro che piccoli punti indistinti.
A Kidou piaceva quella prospettiva, lo faceva sentire così insignificante, proprio come si sentiva sempre, certo, solo che non del tutto:da lì ci si rendeva veramente conto delle dimensioni ed era lì che si comprendeva che non c'era poi molta differenza tra un ragazzo ed un grattacielo.
Entrambi sono soggetti allo scorrere del tempo, entrambi, prima o poi, crolleranno.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


Speranza vana. Ovviamente.

Erano mesi che convivevo con quegli incubi, mi perseguitavano quasi ogni notte. Al mio risveglio ne ero talmente turbata da ricordarne ben poco, o perlomeno desideravo quanto prima dimenticare il terrore che m’incutevano.

Ogni notte, correvo, correvo ed ancora correvo, nell’oscurità di un bosco. Sapevo di essere inseguita, lo sentivo, per questo le mie gambe schizzavano veloci in avanti tra le foglie cadute a terra.

Erano viscide, perciò avevo timore di cadere un momento sì e l’altro pure. Come se tutto ciò non bastasse i rami degli alberi continuavano a ferirmi le braccia.

D’improvviso però i miei piedi s’incagliavano in una radice, che sembrava essere emersa dal nulla e che sporgeva pericolosamente fuori dal terreno, così caddi rovinosamente a terra.

Le ombre alle quali avevo cercato di sfuggire fino a quel momento ora troneggiavano inquietanti sopra di me. Una voce di donna, profonda e della quale non riuscivo a determinare la provenienza, commentò:-Fine della corsa, Phoebe Drake -.

Mi svegliai di soprassalto, per l’ennesima volta da quando avevo cominciato ad essere perseguitata da quelle terribili proiezioni del mio inconscio. Mi misi a sedere sul mio letto,le lenzuola che mi ricaddero pigramente sulle gambe. Mi passai una mano tra i capelli, poi la poggiai sulla fronte.

Era imperlata di sudore.

E dire che credevo di non riuscire a provare emozioni, giusto qualche ora prima, in aereo. Gettai uno sguardo in direzione del comodino accanto al letto e nella penombra distinsi a stento la sagoma della sveglia. L’afferrai, portandomela in grembo, quindi osservai il quadrante e per poco non sobbalzai di nuovo.

Era tardissimo!

Se non mi fossi sbrigata, avrei finito per far tardi già al primo giorno di scuola. Come se ci mancasse qualcos’altro a complicarmi l’esistenza …


Felpa bordeaux e jeans neri? Banale. Camicia a scacchi rossi e blu, sovrastata da un golf di lana bianca e gonna color sabbia? Dovevo andare al liceo, mica cominciare a seguire una serie di corsi ad Harvard! Lanciai il maglioncino dall’altra parte della stanza. Nemmeno mi piaceva, perché l’avevo comprato?

Ah, già. Non l’avevo comprato io.

In effetti, per vedermi andare a fare shopping doveva esserci una catastrofe nucleare alle porte, altro che una tormenta di neve, come dicono alcuni.

Fantastico, se prima era tardi ora ero veramente sul filo del rasoio degli orari!

Se lo avessi detto a mio padre probabilmente avrebbe stentato perfino a credermi:io, quella sempre puntuale … in ritardo? Incredibile!

Poi probabilmente si sarebbe arrabbiato.

Mio padre non era a casa. Doveva essere partito stamattina presto o forse addirittura stanotte, ad ogni modo mentre io dormivo:il suo lavoro gli impone orari …. particolari? Non so come definirli nemmeno io. Sta di fatto che, essendo un astronomo, si alzava nel cuore della notte per andare ad occuparsi dei suoi rilevamenti.

Chiaramente, le stelle si vedono meglio di notte.

Alla fine era così tardi che uscii di casa così com’ero –tanto per me è decisamente inutile pensare di fare una bella impressione-:felpa verde scuro, che tanto mi ricorda i boschi del Connecticut, jeans blu scuro e le mie inseparabili sneakers bordeaux. M’infilai la borsa a tracolla con i libri e, chiavi di casa alla mano, schizzai alla volta della scuola.


Paradossalmente, quando arrivai davanti all’istituto, scoprii che molti studenti  non erano ancora entrati. Al che le cose erano due:o non ero in ritardo come credevo, oppure Tokyo era piena di ritardatari. Decisamente molti più di quanti ne potessi immaginare.

Non sapevo per quale possibilità propendere.

Alcuni chiacchieravano a piccoli gruppi, altri restavano in disparte. Per un attimo mi sembrò di trovarmi nuovamente in un liceo americano:c’erano alcuni studenti vestiti di tutto punto, come se volessero ostentare i loro gusti modaioli (o forse sarebbe più corretto dire l’elevato status sociale delle loro famiglie). Interagivano facilmente tra loro ed ero abbastanza sicura che stessero comunicando le loro recenti conquiste, sia in fatto di moda che d’amore.

Non avevo niente contro quel genere di persone, solo che non ne facevo decisamente parte –come se non si fosse notato- e quando ero in America capitava non di rado che i pochi amici che avevo, che come me facevano parte dei ragazzi più introversi, venissero derisi dagli altri.

Qui sarà diverso, continuavo a ripetermi.

Mi avvicinai ad una delle colonne del cancello e socchiusi gli occhi, cercando di rilassarmi. Proprio nel momento in cui mi ero ormai convinta che forse le cose sarebbero potute andare per il verso giusto, sentii un click e l’aria si riempì di un fascio di luce.

Ma che cavolo …?

Aprii gli occhi di scatto e fissai sorpresa il volto di una ragazza. Sembrava avere la mia età. La osservai attentamente. Aveva degli occhi intensi, un blu scuro e rilucente così pieno di emozioni che quasi riuscì a stordirmi. I suoi capelli invece avevano la mia stessa tonalità color cioccolato, solo che mentre i miei erano lunghi fino alle spalle, quelli della ragazza davanti a me erano sistemati in un comodo e pratico taglio a caschetto, che le arrivava al collo. Ad ogni modo, non mi stava fissando. Sembrava concentratissima sull’oggetto che teneva tra le mani, gli occhi incollati al display. Doveva essere una macchina fotografica, ecco da cosa era stato provocato quel flash.

Mi avvicinai cautamente a lei. I miei piedi provocarono un lieve scalpiccio sulla ghiaia e la ragazza distolse improvvisamente lo sguardo dalla digitale, spaventata –tanto che sobbalzò appena, anche se cercò di far finta di niente-. Si strinse appena nel suo maglioncino, di un tenue rosa confetto, mentre mi affrettavo a puntualizzare:«Perdonami, non era mia intenzione spaventarti».

Mi chiedevo invece se fosse stata la sua …

Nah.

Lei mi fissò incerta, così ne approfittai per domandarle:« Cos’hai combinato? Poco fa, intendo …». I suoi occhi blu cobalto si puntarono nei miei, verdi come smeraldi e per un attimo mi sentii quasi annegare. Un attimo, certo, ma pur sempre un attimo terrificante.

Lei sembrò sorpresa che le avessi rivolto la parola, tuttavia poco dopo ammise:«Una foto».

Avrei voluto dirle che fino a lì ci ero arrivata ma all’ultimo momento decisi di sorvolare. Piuttosto non riuscii a non risultare sorpresa quando le domandai:«A me?».

Lei per un attimo indugiò e ero quasi sicura che non mi avrebbe risposto, tuttavia dopo un’abbondante manciata di secondi ammise:«Beh … eri in una buona posizione. La luce s’infrangeva su quella colonna in un modo a dir poco perfetto, creando punti d’ombra inimmaginabili. Ho provato con il filtro seppia ma in bianco e nero rende decisamente meglio. Guarda …». Mi si avvicinò di scatto e mi mostrò la foto.

Niente male, non c’è che dire.

Poi la ragazza si allontanò di scatto, come se si fosse ricordata solo in quel momento qualcosa d’importante.

Probabile che non socializzasse tanto facilmente con le persone.

Non diversamente da me, insomma.

Però decisi di provare comunque a continuare il discorso –non so perché ma sentivo che ne valesse la pena- così mi presentai:«Io sono Phoebe».

Stranamente, mi uscì uno dei miei migliori sorrisi gentili. Per qualche istante sembrò titubante ma alla fine allungò la mano in direzione della mia e la strinse cordiale.

«Nina» si annunciò a sua volta.

Nel frattempo due ragazzi, un ragazzo ed una ragazza, si avvicinarono a noi.

La giovane avrà avuto all’incirca la mia età e mi colpì molto:in particolare rimasi sorpresa dai suoi capelli. Il loro colore rosa era quantomai inconsueto e da lontano m’ispiravano una sensazione di morbidezza, quasi a ricordarmi lo zucchero filato che adoravo prendere quando io e mio padre andavamo in giro per fiere, quando ancora ci trovavamo in America. Le ciocche dei suoi soffici capelli erano acconciate in una treccia che le scendeva lungo la spalla destra. I suoi occhi, invece, erano blu come lapislazzuli.

Il ragazzo che la seguiva era più alto di lei. La sua carnagione era molto chiara ed i capelli, al contrario, erano corvini. Inoltre erano lunghi quasi fino alle spalle e gli sfuggivano in ogni direzione. Alcuni erano perfino finiti davanti ai suoi occhi ma con un po’ di sforzi riuscii ad intravedere due occhi intensi e verdi come smeraldi.

Solo che non erano come i miei.

Non so, c’era qualcosa che non mi tornava in quegli occhi. Sembravano freddi, attenti, calcolatori, uno di quei paia d’occhi al quale non sfuggirebbe neppure il minimo particolare, abituati a catturare pure i dettagli minuscoli.

Mi sorpresi non poco quando ci raggiunsero. Non credevo che a qualcuno interessasse attaccare bottone con due ragazze che apparentemente avevano cercato di isolarsi dal resto del mondo fin dal primo istante.

Ad ogni modo, la ragazza dai capelli confetto ci smentì in pieno.

«Ciao!»ci salutò dopo averci raggiunte.«Siete nuove? Piacere di conoscervi! Io sono Chieko Miura, del terzo anno, lui invece è Sora Buki, del quarto».

Il ragazzo allungò la mano nella nostra direzione.«Piacere»commentò.

A turno, io e Nina gliela stringemmo, meravigliandoci non poco della forza a dir poco poderosa del suo palmo.

In quel  momento giunse il suono della campanella e Chieko commentò:«Beh, che aspettiamo? Entriamo!».


Le lezioni trascorsero in modo abbastanza gradevole, più che altro perché non accadde nulla di particolarmente rilevante.

Io, Nina e Chieko eravamo in classe insieme –visto che avevamo la stessa età- insieme a diversi altri ragazzi e ragazze dei quali ancora continuavo ad ignorare l’esistenza –ed il nome- e francamente dubitavo che questo sarebbe cambiato in fretta.

Chieko, essendo estremamente socievole, non ebbe difficoltà a trovare posto. Probabile che quei ragazzi che per me erano estranei lei li conoscesse già alla perfezione.

Io e Nina ci accomodammo vicine, in terza fila. Non parlammo molto, preferimmo concentrarci sulle lezioni.

Durante l’appello mi sembrò in imbarazzo ma feci finta di non accorgermene e lei non diede segno di aver notato che me ne ero accorta.

A ricreazione decidemmo di affidarci a Chieko –anche perché non conoscevamo praticamente nessun’altro- e la seguimmo in corridoio. Lì ci fermammo quasi subito, perché Chieko sembrò notare qualcuno in lontananza e, con un grande sorriso stampato in volto, chiamò:«Rin!».

La ragazza in questione si voltò nella nostra direzione e si esibì in un sorriso ancor più ampio di quello di Chieko.

Era bassa e forse avrà avuto un anno meno di noi. Eppure, anche semplicemente fissandola –seppur da lontano- provai un senso di allegria e giovialità.

Aveva i capelli cortissimi, quasi come quelli di un ragazzo, di un raggiante color arancio. Anche lei, proprio come me, aveva dei grandi occhi verdi, luminosi come foglie di magnolia irradiate dal sole.

Ci sorrise ed allungò il braccio, ricoperto da una maglietta di cotone beige a maniche lunghe, agitando la mano verso di noi. Il giubbino senza maniche dalla trama mimetica che indossava si mosse con lei.

Ci raggiunse poco dopo, non appena venne a capo della fila nella quale era stata imbottigliata fino a quel momento, ai distributori automatici. Scartò in fretta la barretta al cioccolato e nocciole che aveva acquistato, dopodiché ne morse un pezzetto un attimo prima di trovarsi esattamente davanti a noi.

«Ciao, Chieko!»salutò la ragazza accanto a noi «come va?».

Chieko sorrise appena e rispose:«Oh, non c’è male, grazie! Rin, loro sono Phoebe e Nina, sono nella mia stessa classe».

Rin non sembrava riuscire a stare ferma per più di dieci secondi, infatti, per tutto il tempo in cui Chieko aveva parlato, non aveva smesso un attimo di frugare nelle tasche del suo giubbotto mimetico. Quando la ragazza dai capelli confetto ebbe finito di presentarci, l’altra si sfilò rapidamente le mani dalle tasche e ci porse la destra, esclamando:«Piacere di conoscervi, ragazze!».

Per un momento mi sembrò che, dalla sua mano sinistra, chiusa a pugno, sbucassero alcune molle e dei bulloni.

Che diamine …?!


Cominciavo a credere che, andando avanti di quel passo, per mezzogiorno avrei conosciuto mezzo istituto.

Grazie al cielo, non avevo considerato la ferrea disciplina delle scuole giapponesi. Qui, infatti, l’intervallo durava decisamente meno che nei licei americani.
Ricordavo ancora che alcune volte, nella mia vecchia scuola ad Hartford, alcuni ragazzi rimanessero fuori dalle aule anche dopo il suono della campanella che indicava la fine della ricreazione.

Qui, invece, rientrarono tutti in classe all’istante. Dubito che qualcuno abbia raggiunto la propria aula anche un minuto dopo il suono della campana.

Per pranzo io e Nina, ritenendo di aver conosciuto fin troppe persone in un giorno solo –perlomeno per quanto riguardava i nostri standard- decidemmo di rintanarci all’esterno dell’edificio, evitando per quanto più possibile la sala mensa gremita di studenti, finendo così a rifugiarci nei giardini della scuola.

Sedute all’ombra su una panchina sotto un albero parecchio frondoso, ci rilassammo mentre un vento leggero attraversava l’aria e mangiavamo il nostro cibo giapponese –del quale all’epoca ancora ignoravo l’etimologia perché … ehi, ero arrivata in Giappone solo il giorno prima!-.

Proprio nel momento in cui stavo cominciando a credere che saremmo riuscite a passare almeno quel momento e stavo per decidermi di chiedere a Nina per quale ragione mi fosse sembrata imbarazzata durante l’appello di quella mattina –sempre che non fosse stata una mia impressione ed allora sarei stata io ad essere in imbarazzo- sentii uno scalpiccio sulla strada ricoperta di sassolini che correva davanti alla nostra panchina.

«Ehi!»gridò qualcuno, poco lontano.

Subito io e Nina ci voltammo in direzione di quella voce e restammo non poco sorprese di scoprire che chi aveva parlato si rivolgeva proprio a noi.

E tanti saluti alla tranquillità.

Ad aver parlato era stata una ragazza. Avrà avuto all’incirca dodici, tredici anni al massimo anche se a guardarla da lontano non lo si sarebbe detto. Era alta e formosa nonostante il fisico magro, gli occhi chiari e delicati come ghiaccio ed i capelli neri, lisci e lunghi fino alle scapole. Aveva un sorriso allegro in volto e poco dopo ci raggiunse, sorprendendomi ancor di più.

Era un po’ affaticata per la corsa, così prese alcuni respiri profondi prima di esordire:«Ciao! siete nuove, vero? Direi di sì, non vi ho mai viste in giro prima! Io sono Susan Light, piacere di conoscervi!».

Allungò la mano nella mia direzione, così gliela strinsi e ricambiai:«Phoebe Drake, piacere. In effetti sì, sono nuova, sono arrivata qui giusto stamattina! Mi sono trasferita dall’America …».

Mentre Susan stringeva la mano di Nina, che ammise di essere arrivata alla Raimon solo qualche giorno prima e che si era a sua volta trasferita ma non dall’America, bensì dalla Russia, una ragazzina spuntò da dietro la corvina e mi domandò:«Dall’America? Sul serio? Il mio ragazzo vive lì!».

Avrà avuto un paio d’anni meno di me. Era alta e magra ed aveva dei capelli particolarissimi:erano lilla, sfumati in alcune parti di nero, legati in una treccia. I suoi occhi erano di un azzurro limpido e cristallino come il cielo.

Mi sorrise allegra e si presentò:«Mi chiamo Miriam Star, piacere!».

Nel frattempo mi accorsi che c’erano altre due ragazze. La prima avrà avuto anch’essa all’incirca la mia età e rimasi parecchio colpita da lei, a partire dai suoi occhi, di un color ambra caldo ed intenso. Anche i suoi capelli erano particolari:all’inizio, vedendola in piedi davanti a me avevo pensato che fossero azzurri, tuttavia quando si era inchinata per stringermi la mano –ero ancora seduta sulla panchina, già- i suoi capelli erano ondeggiati ed erano comparsi da dietro la sua schiena, rivelando una chioma fluente, lunga fino alla fine della schiena, con una sfumatura acquamarina decisamente più chiara della parte superiore. Della stessa tonalità era una piccola ciocca, acconciata a mo’ di treccia, che le pendeva da un lato del viso.

«Rachel Sasaki, piacere» mi salutò cordiale.

La maglietta verde menta, in cotone e con le maniche lunghe, oscillò lungo il suo bracciò quando mi allungò la mano affinché potessi stringergliela. In quel momento mi accorsi che, stretta alla sua gamba, c’era un paio di braccia sottili.

Per poco non morii dallo spavento quando mi accorsi che, in effetti, avevo visto due ragazze e me ne si era presentata solo una di loro.

L’ultima era decisamente più piccola delle tre ragazze che mi si erano presentate. Aveva dei lunghi capelli biondi, gli occhi grigi e tempestosi come il mare in burrasca e la carnagione rosea, come d’altronde le sue labbra a cuore. Era abbastanza alta ma si era piegata tutta, aggrappandosi alla gamba di Rachel e nascondendocisi dietro. La turchina, accorgendosi che stavo fissando la ragazzina attaccata a lei, mi spiegò: «Oh, lei è Lilian. Non preoccuparti, è che è molto timida e di solito è chiusa. Ha solo undici anni».

La ragazzina mi fissò ed io accennai un lieve saluto con la mano. Lei sorrise appena.

In quel momento, non troppo lontano, si levarono alcune grida. Susan si lasciò sfuggire un sorriso a trentadue denti e commentò:«Venite! Sono arrivati!».

Lei, Miriam, Rachel e Lilian corsero nella direzione dalla quale erano spuntate fuori. Per un attimo io e Nina ci fissammo ma alla fine decidemmo di alzarci e seguirle a nostra volta, sebbene camminando normalmente e non correndo come avevano fatto le altre. Avevo una sola domanda in quel momento.

Ma chi ha deciso che io non debba pranzare, oggi?!


* Angolo autrice *

Salve, mondo!

Anzitutto chiedo clemenza se sono quasi dieci giorni che non mi faccio viva ma devo essere sincera, scrivere questo capitolo mi ha messa a dura prova!

Avendo ricevuto sedici (e sottolineo SEDICI … grazie davvero ragazzi, non pensavo che la mia storia vi fosse piaciuta tanto! Mi sento lusingata!) ci ho messo un po’ a raccogliere tutte le schede, organizzare il cervello e chi più ne ha più ne metta! :)

Ad ogni modo, vi chiedo scusa anticipatamente se in questo capitolo non sono presenti tutti gli OC e quelli che ci sono forse non sono descritti in modo sufficientemente dettagliato ma ho pensato di dividere il capitolo in due parti (di cui chiaramente questa è la prima) per poter presentare i personaggi in due tranche da otto. Chiaro, no?

No. Affatto.

Ad ogni modo, questo è il risultato. Spero che vi piaccia!

Mi impegno a pubblicare la seconda parte del capitolo quanto prima, anche perché il bello arriva adesso!

Chi avrà provocato quel frastuono? Aspetto i vostri commenti!

A presto (spero)

Aria_black
   
 
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