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Autore: Harshlove    13/07/2015    3 recensioni
LAYLOR – anche se a prima vista non si direbbe.
Jane ha ventitré anni. Jane non ha idea di cosa significhi stare nel mondo dello spettacolo, eppure quasi per caso ci finisce dentro e fa amicizia con una serie impressionante di attrici, persone che erano già abituate a tutto quello, compresa una certa Taylor. E, dal punto di vista di Jane, noteremo le dinamiche fra la fredda e furba quanto segretamente frustrata Laura Prepon (credo sia un parere di parte della scrittrice, chiedo venia) e la dolce, folle e lunatica Taylor Schilling. Jane è puerile, insicura, drammatica, paranoica. Troppi pochi peli sulla lingua, secondo la sua stronza madre. E, per quanto io possa odiare dal profondo del cuore la mamma di Jane, Dio, se ha ragione.
Ho provato a scrivere questa storia secondo il punto di vista di qualcun altro, e non Taylor o Laura, per rendere la storia più credibile, meno inverosimile. Sinceramente, so che è una pazzia e mi sto buttando in qualcosa che forse non raggiunge neanche le mie capacità, ma traendo una regale ispirazione da Fitzgerald alle quattro di notte di qualche giorno fa, ecco che è uscita questa ideona.
Enjoy!
Genere: Angst, Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Alex Vause, Nuovo personaggio, Piper Chapman, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I WASN'T READY, TAYLOR!

Capitolo 4
State alla larga dai lunatici


Informai Taylor che, se non ci fosse stata lei, avrei dovuto ricorrere ad un aiuto divino per tornare nel mio mediocre appartamento. Quando lo seppe, diventò gongolante.
Il viaggio in auto fu meno pressante del previsto; mi fece scegliere la stazione radio e continuò a trattarmi come un'amica di vecchia data. L'unico momento in cui mi sentii gocciolare la fronte fu quando lei decise improvvisamente di farmi tremila domande al minuto e nessuna di loro aveva un nesso con la precedente.

“Chi truccherai?”.
“Non lo so ancora, Jenji dovrebbe avvisarmi tramite mail”.
“Colore preferito?”.
“Blu. Il blu è un colore caldo”, citai. Lei mi guardò con uno sguardo spiritato, poi lo distolse immediatamente. 
Aveva capito. Non c'erano dubbi, se sapeva di cosa stavo parlando c'erano un 75% di possibilità che il mio gay-radar non avesse fallito neanche stavolta. Certo, adesso mi ero esposta anch'io. Ma in un certo qual modo seppi di potermi fidare di lei. Proprio io, che non avevo fatto coming out con nessuno! 
Notai che stava quasi cercando di sopprimere un sorrisetto. A mia volta, cercai di celare un sospiro di sollievo. 
Entrambe fallimmo miseramente.

“Hai mai studiato teatro?”. Scossi la testa, facendo finta di sbuffare. Rise, ed alzò le mani – mi spaventai terribilmente ed urlai che se continuava a distrarsi saremmo finite fuori strada, ma niente da fare. Sembrava che tutto fosse un gioco, per lei.
“Hai un cane?”.
“Nella mia città natale”.
“Quindi non sei di New York?”. Inarcò le sopracciglia.
“Sono una povera provincialotta, non ricordarmelo”, borbottai, scrollando le spalle.
“Come si chiama?”.
“Kurt, mia mamma è fissata con Kurt Cobain. Ma non ha mai ascoltato i Nirvana. Superficiale di merda”. 

Mi fissò più del dovuto, al punto che strillai nuovamente di mettere le mani su quel fottuto volante. E rise ancora di più della mia mancanza di peli sulla lingua; evidentemente quando sparavo parolacce random provocavo la sua ilarità.
“Anch'io ho un cane, si chiama Barrie. Cioè – è di una mia amica”. 
Mise più enfasi del previsto sulla parola amica, ma cacciò uno sguardo talmente afflitto e scontento che temetti di averle chiesto troppo. Fortunatamente sparii abbastanza in fretta, lasciandomi solo con un enorme interrogativo che mi ronzava in testa come un'ape incastonata nel cervello. Tenni a mente Barrie, scoprendo che poi era un dalmata.
E via dicendo, con altre cose davvero senza un filo logico.

Allo stesso tempo, una sensazione spiacevole mi sfiorava l'epidermide, facendomi ritornare alla mente come un flashback lo sguardo mortifero della Prepon, concentrato su di me. Sembrava comunicare che mi avrebbe reso la vita un inferno, e in quel momento non capii perché sembrava che ce l'avesse così tanto con la sottoscritta. Provai a non soffermarmici troppo pensando che, per ora, era recintato nel passato. Per ora.

Ritornando a Taylor, fu davvero difficile per me non rivolgerle anche una sola domanda. Ma, proprio come percepivo quella sensazione spiacevole riguardo Miss Ghiacciolo, sapevo che se le avessi chiesto qualcosa di scomodo avrei compromesso quella perfetta sintonia che si era creata.
La domanda era: quanto avrei resistito?

Inchiodò. Eravamo sotto casa.
Prima di scendere dall'auto, osai. Avevo una mano sulla maniglia. Mi girai verso di lei di scatto, facendomi sbattere diverse ciocche color ruggine in faccia. Il mio sguardo deciso l'aveva incuriosita. Quella domanda mi stava letteralmente perforando le budella.

“Perché sembri così interessata a me?”. Non voglio dire che nutrissi qualche speranza in quel senso, anzi. Ma non mi spiegavo un avvicinamento così repentino da parte di una persona famosa.
Taylor sfoderò di nuovo quel sorriso a labbra serrate, che le riempiva gli zigomi. Le si illuminarono gli occhi, e assunse un'aria sognante. Notai che quando pensava intensamente o narrava fatti lontani, gli occhi di Taylor rimanevano puntati a terra, e non si alzavano sino a quando non aveva superato i primi «uhm» iniziali, che duravano sempre almeno una manciata di secondi. 

“Quando ero una bambina di appena sette o otto anni non sopportavo i miei capelli. Forse ero stata condizionata dalla Sirenetta – sai, è il mio lungometraggio Disney preferito – e li desideravo rossi come i suoi. 
Mi piaceva anche scrivere”, mi sorrise, leggermente imbarazzata. “E ogni volta che costruivo il personaggio principale dei miei racconti, avevano gli stessi capelli della Sirenetta. Col passare degli anni, da una semplice immagine di un cartone animato, la mia Ariel ideale si formava sempre di più, cambiando qualche particolare. Erano ondulati, parecchio lunghi e non rosso fuoco, ma quasi color rame… E gli occhi erano nocciola chiaro e non azzurri. Questo rivela quanto disprezzassi la minima cosa che mi ricordava di me stessa”. In pratica, mi aveva appena descritta. 
“In tutta la mia vita non ho incontrato qualcuno che rispondesse a questa descrizione, sai?”. Le sorrisi. Fu molto tenera, come rivelazione.
“Lo prendo come un complimento”.
“Lo è”.

Né io né Taylor eravamo tipe da effusioni d'affetto. Non cercò di abbracciarmi, ed io non tentai altro genere di contatti. Ci andava bene così.
La ringraziai sentitamente, con un sorrisone stampato in viso, cercando con tutte le forze di farle cogliere i sentimenti positivi che provavo nei suoi confronti. Le feci un cenno con la mano, prima che lei rimettesse in moto l'auto e mi bloccasse la vista della sua faccia contenta.

Salii le scale, trascinandomi pesantemente – niente ascensore – e ad un tratto abbandonai la forma di umano e mi misi a gattonare. Non ebbi neanche la forza di salutare il portiere, che sonnecchiava. Beato lui, che lo pagavano per fare quello.
Arrivata alla porta, suonai diverse volte ad Angelina che, poco ma sicuro, stava dormendo già da diverse ore a culo aperto.
Quando mi aprii, eravamo entrambe troppo assonnate per parlare. Ci dirigemmo ai letti.
Io caddi in catalessi appena mi ci posai sopra, vestita e truccata.


Il mattino seguente, appena aprii gli occhi, mi resi conto che ero un intero pezzo di marmo, triste e dolorante. Per quanto possa sembrare assurdo, mi svegliavo con un cattivo umore terribile quando dormivo col trucco ancora in faccia. Mi sentivo unta e sporca. E poi, un mal di testa lancinante mi stava affliggendo. Avevo forse bevuto, la sera prima? Non riuscii a ricordarmelo. Tra l'altro, come al solito non sapevo che cazzo di ore fossero.

Angelina probabilmente era andata a lavoro, quindi non mi stupii di trovare l'appartamento vuoto. Anche meglio; quasi sicuramente, se mi avesse rivolto la parola, le avrei dato una rispostaccia. 
Lei era la segretaria in uno studio dentistico. Ma stava pensando di cercare anche lavoro part-time come dog sitter o baby sitter. Egoisticamente parlando, glielo sconsigliai con tutto il cuore. Già nella mia città natale ero abituata a vedere una casa perennemente vuota.

Andai a farmi una bella doccia rigenerante – scoprendo poi che erano le tre del pomeriggio – spogliandomi per strada come una qualche modella di uno spot pubblicitario. In bagno, accesi lo stereo, mettendo un disco blues della mia coinquilina, molto a tema. 

Girl, I hear you're a mover. Well, I'm just about a mover, too”.

Iniziai a muovermi come una demente sotto il getto d'acqua calda che si vaporizzava velocemente sulla mia pelle, imitando una diva d'altri tempi. Come facevo di solito quando ero sola, il balletto si trasformò in qualcosa di sexy – probabilmente era il mio unico modo per sfruttare la mia frustrazione sessuale. 
Io ero la protagonista e stavo ammaliando una ricca e bella ragazza, cercando di persuaderla a trasferirsi con me.

Oh, they tell me you're a groover, mama! Well, I just wanna groove with you”.

Sculettai, ondulando con tutto il corpo.
L'acqua era un qualcosa di magnifico. Ti purificava, letteralmente. Era capace di farti distrarre da qualsiasi preoccupazione, turbamento. E ti levava di dosso quelle fastidiose bollicine del bagnoschiuma, che la popolazione civilizzata ti costringeva ad usare, mettendolo su un piano etico. 

“So come on, let's move – move and groove!”, urlai invece di cantare. Come se il salire di diverse ottave potesse coprire la mia incapacità di riuscire a prendere anche una singola nota.
Il trucco si stava lentamente sciogliendo sotto i miei occhi, iniziando a farmeli bruciare. 

Ad un tratto, mi venne in mente il sorriso luminoso di Taylor, così dritto e perfetto. Iniziai a rimuginare sugli sguardi che mandava alla Prepon, bloccandomi. 
L'acqua cadeva violentemente su di me, senza che ci facessi più caso. 
Iniziai lentamente a fare due più due: era chiaro come il sole che Miss Ghiacciolo non fosse altro che un'eterosessuale convinta – dai suoi modi, dalle sue vistose unghie lunghe e curate, anche se la voce poteva far prendere carne per pesce, di tanto in tanto – eppure non la smetteva di fissare Taylor. 
A sua volta, Taylor la teneva d'occhio non poi così tanto di rado, nonostante avesse parlato di questa fantomatica amica. Fui sicura quasi da subito che non si riferiva assolutamente a Laura.

Decisi di uscire dalla doccia, quando sulla soglia della porta vidi un'ombra.

“Ma che-”.
Cacciai un urlo talmente mostruoso che rivalutai la mia potenza vocale.
Quando poi scoprii che era solo Angelina, quasi non andai a strozzarla, nuda e gocciolante.

“Chiudi quella cazzo di porta!”.
“Jane, l'hai lasciata aperta tu… Uh, Benny Latimore?”.
“Taci e chiudila! Si può sapere che cazzo ci fai a casa?”, le chiesi, appena la porta fu finalmente chiusa. “Mi hai fatto prendere un cazzo di colpo!”.
“Smettila di dire cazzo”. Anche se non la vedevo in viso, potevo metterci la mano sul fuoco che aveva alzato gli occhi al cielo.
“Mi sono presa un giorno libero allo studio dentistico, ero andata a chiedere in giro la faccenda di baby sitter. Ma niente da fare”. Un tonfo mi fece rendere conto che si era poggiata di spalle alla porta.
Con un «ah» cercai di celare il mio sollievo. Ma una parte di me restava scontenta, perché significava che non aveva abbandonato l'idea di lasciarmi a casa da sola per chissà quanto tempo.

“E non ti dispiacerà lasciarmi tutto il giorno da sola?”, con una risatina nascosi la tristezza e le feci credere che stavo solo giocando. Uscii definitivamente dalla doccia, indossando l'accappatoio azzurro shocking, legandomelo in vita. 
“Inizierai a lavorare anche tu, fra un po'. Quindi è inevitabile”, mi rispose lei. Sembrava pensarci seriamente.
“Ma avremo comunque tempo per stare insieme, di tanto in tanto?”. Questa volta il mio tono non era stato granché convincente. 
“Certo”.
Con un sospiro, bussai alla porta. Lei si mosse e, quando uscii, mi rivolse un sorriso abbagliante. Quando mi osservò meglio, scoppiò a ridere.
“Sei inquietante come Samara di The Ring”, biascicò fra le risate, indicando il trucco sceso. Sbuffai, sorridendo, troppo abbacchiata per unirmi alla risata.

Dopodiché, chiamai mia madre. La avvisai del lavoro fantastico che avevo trovato. Ma, come al solito, non mi disse neanche una sola parola incoraggiante o positiva. 
“Potevi trovarti un lavoro più normale, il mondo dello spettacolo non fa per te”, “ti mangeranno viva, questi piranha di Hollywood”, o ancora “Jane, quando crescerai? Non è un lavoro sostanzioso. Te ne sei andata di casa per sciupare la tua vita così?”. 
Ma il colpo finale fu quando nominò una ragazza che forse odiavo dall'asilo, e mi disse che sarei finita come lei.
Sinceramente, non avevo idea di cosa significasse sciuparsi la vita secondo i suoi canoni, ma quel lavoro era stato forse l'unica cosa davvero positiva che mi fosse accaduta dopo tanto tempo.

Quando Angelina scomparve nuovamente dal portone, davvero non seppi cosa mi bloccava dal legarmi un cappio intorno al collo.
Ero rimasta sola, degradata da mia madre e con la consapevolezza che sarei stata più sola e degradata del solito, da quel momento in poi.

Mi misi davanti al mio piccolo pc portatile, senza digitare nulla. Fissavo lo schermo, inespressiva. 
Ad un certo punto aprii la finestra di Google – ci mise diversi secondi e mi innervosii ancora di più. Stupida connessione lenta.
Ora ticchettavo parole a caso per poi cancellare tutto.

Ma certo, la mail di Jenji! Aveva detto che me l'avrebbe mandata entro quella mattina.
Entrai sulla mia posta Outlook tutta contenta di avere uno scopo. Mi sentivo quasi come quando facevo un ordine su Zalando. 
Avrei saputo quando iniziavano le riprese e di chi sarei stata la truccatrice. Di nuovo, la connessione lenta mi lasciava con l'amaro in bocca. 
Si aprì, con mia immensa gioia. Lessi l'e-mail della regista nella posta in arrivo ed ebbi un tuffo al cuore. 

Taylor Schilling.

Rilessi la frase. Avevo capito male? 
Ero la truccatrice di Taylor.
Mi alzai e urlai uno «ya-ho!» così intenso che mi avrebbero dovuto querelare tutti gli abitanti dell'appartamento. 
Oltre Taylor, ero la truccatrice di Laverne. Mi mise ancora di più di buon umore, perché ritenevo la sua esperienza di vita non solo molto interessante, ma anche capace di farmi crescere, in un certo senso. Ebbi sin da subito una grande considerazione di lei, a causa dell'immenso coraggio che aveva avuto per attuare la «transizione».

Dopodomani avrei dovuto essere nella struttura carceraria; quello significava che entro due giorni avrei saputo dare un senso alla mia vita, anche se persino i due giorni in quel momento gravarono sul petto come un macigno. 

Ero davvero stanca di aspettare, sperare, conciliare il sonno a forza, fare spese ristrettissime, occupare il mio tempo vegetando e pensando, corrodendomi le pareti celebrali. Ero stanca di fare il mobile d'epoca in una città in continua evoluzione, che non smetteva mai di muoversi. Ero stanca di guardare gli altri andare avanti, crescere, evolversi, mentre invece io restavo invariata e annoiata dalla mia stessa esistenza, come se mi ritrovassi dietro una imponente vetrata che mi limitava, o uno schermo, che mi faceva essere lo spettatore della vita degli altri, senza essere mai la protagonista della mia.
Più tristemente di quanto si può pensare, quella situazione non descriveva i miei tre mesi a New York, bensì tutta la mia vita.
Ma ora sapevo di poter cambiare le cose.


Due giorni dopo, la mia positività ebbe un calo a dir poco spaventoso.

Disperazione. Enorme disperazione.
Gente che urlava, tette al vento. 
Taylor isterica a livelli sconcertanti, Laura che mi guardava in cagnesco, Aaron che sembrava pronto ad umiliarmi pubblicamente. Se io avevo cercato di mettere da parte i vecchi dissapori – ergo battutine bastarde dal primo momento in cui i nostri occhi si erano scontrati – lui non pareva essere dello stesso avviso.

Arrivai lì tutta carica, ma appena salutai la bionda, bellissima attrice che adoravo, capii che quella giornata non avrebbe soddisfatto le mie rosee prospettive. Più che mai, mi sentivo avvilita dal male che non potevo cambiare.
La beccai che parlava a telefono con qualcuno e beh, nuda. Almeno per quanto riguardava la parte superiore. 
Le lunghe extension ondulate e bionde le sbattevano in viso, mentre si stressava con le mani nei capelli. Vidi un pezzetto di extension cedere.

“È il mio lavoro, devi accettarlo. Sono stanca di ricadere in questi argomenti. Lo sai. Ti ho mai fatto storie per il tuo strafottutissimo tour, Carrie? Per tutta quella gente che incontri?”.
Parlava molto veloce, che quasi ebbi difficoltà a seguirla, e con una voce diversa. Quando si agitava si faceva molto più sottile e stridula. Ma poi, strafottutissimo? E il sarcasmo? Ma quella era Taylor, sul serio? Carrie?
Pausa. Lunga pausa. Aveva uno sguardo da pazzoide. 
“Oh, ma per favore. Devo girare la mia prima scena, prenditi una tisana”.

Mi vide.
La fissai, totalmente incapace di proferire parola. Non ebbi neanche il tempo di chiederle scusa, di motivare la mia presenza lì, di spiegarle il mio sguardo assorto. Nella mia testa risuonò un: “Non volevo origliare, davvero!”. Inutile dire che non uscì mai dalle mie labbra.
“Levati”, disse solo.

No, davvero. State alla larga dai lunatici.
   
 
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