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Autore: KALINKA89    16/07/2015    0 recensioni
Il grande rapporto di amicizia-amore tra Yeul e Noel. Il loro primo incontro durante l'infanzia. Il ritrovamento dopo 6 anni... Problemi e tragedie di vita reale e quotidiana. La grande forza dell'amore eterno che può arrivare a tutto quando è sincero e vigoroso. Giacchè, come suol dire Noel: “Sono convinto che uno vero eroe debba dire e pensare: Dallo spirito riecheggia la forma delle cose, è lo spirito che da forma non la forma che contiene lo spirito. Questa è la mia via”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over, OOC, Otherverse | Avvertimenti: Incompiuta
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CAPITOLO 1 – L’alba di un grande amore
 
 
Il mio nome è Noel.
Il mio nome è Noel.
Il mio nome è Noel.
 
Continuavo a ripetermelo per infondermi autostima, cercando di far sì che il mio cuore smettesse di battere così veloce. L’avevo vista la ragazza dei miei sogni, era una vera dea.
Volevo uscire e andare a conoscere i nostri nuovi vicini, ma ero nervoso. Alla porta accanto viveva questa ragazza magnifica – probabilmente di circa dieci anni, come me – e quando vidi che portava un cappellino rosa e delle scarpette dello stesso colore che sembravano quelle di una bambola di stoffa, sorrisi. Le altre ragazzine del quartiere non si vestivano in quel modo così grazioso e al contempo buffo. Tra l’altro, lei era anche carina. Fu amore a prima vista. L’atro giorno l’avevo sentita parlare al telefono, probabilmente, con una sua amica: Parlava con un tono di voce sottile, gentile, educato. Quando parlava lo faceva con il cuore. Non era come le altre, era diversa. Aveva negli occhi e nei suoi movimenti eleganti qualcosa di magico. Mi sembrò una fata alata, ecco, così l’ho immaginata nei miei sogni. Un principessa splendente.   
Tra una fantasticheria e l’altra, mi appoggiai, con sguardo sognante, al davanzale della mia finestra dai vetri luccicanti e pulitissimi, tenendo d’occhio la porta d’ingresso della casa dei vicini: si sentiva della musica ed era tutto illuminato come se fosse un giorno di festa. Nessuno vi abitava da molto tempo e in ogni caso gli ultimi inquilini erano stati una coppia di anziani morti, poi, di tumore, abbracciati nel letto mentre attendevano che la loro ora sopraggiungesse. Tra le nostre due case c’era un grande albero, ma io riuscivo comunque a vedere la finestra della ragazza dei miei sogni attraverso il fogliame.
“Ehi, tesoro”.
Mi voltai e vidi mia madre appoggiata allo stipite della porta della mia stanza da letto. Aveva un sorriso gentile stampato in volto, ma gli occhi erano umidi e gli abiti tutti stropicciati.
Stava di nuovo male. Stava sempre male quando si attaccava alla bottiglia.
“Ho visto che abbiamo dei nuovi vicini», continuò. «Li hai già conosciuti?”.
“No”. Scossi il capo, tornando a guardare fuori dalla finestra e sperando che se ne andasse. Avevo dei segreti che volevo nascondere a mia madre, si intrometteva troppo nella mia vita ma le volevo un bene dell’anima.
“Hanno una figlia femmina. Niente maschi”, dissi io.
“E tu non puoi fare amicizia con una femmina?”, la voce le si incrinò e la udii deglutire. Sapevo cosa stava per succedere e sentii una morsa allo stomaco.
“No che non posso, le femmine sono sempre un problema, un laccio che fa male al cuore”.
Non mi piaceva parlare con mia madre. In effetti, nemmeno sapevo come fare. Passavo un sacco di tempo da solo e lei, dal canto suo, mi teneva alla larga.
“Noel …”, cominciò, ma poi si interruppe. Dopo un istante, la sentii allontanarsi e sbattere una porta al piano di sotto. Probabilmente era andata in bagno a vomitare. Mia madre beveva un sacco, soprattutto nel weekend. Tutt’a un tratto mi passò la voglia di andare a conoscere la ragazzina, dai capelli nerissimi e lucidi, della porta accanto. Non voglio sognare per poi restare deluso ancora una volta. Avvertii una forte fitta al cuore e un senso di vuoto immenso. Anche, se, devo ammettere che questa ragazza sembrava davvero speciale, divina, quasi ultraterrena. Una dea dell’amore.
Tutto d’un tratto sentii la musica degli Evanescence provenire dalla sua stanza. Almeno credevo che fosse la sua stanza. Le tende erano chiuse ma erano rosa come le sue scarpette minute e il cappello.
Mi tirai su, pronto a dimenticare i nuovi vicini per andare a prepararmi qualcosa da mangiare. Solo il cibo non mi delude mai, mi gratifica sempre. Quella sera probabilmente mia madre non avrebbe cucinato.
Ma poi vidi le tende aprirsi e mi bloccai.
 
Lei era lì. Mio Dio! Quella era proprio la sua stanza!
 
Per qualche strana ragione sorrisi e il cuore mi si colmò di gioia infinita e sconfinata. Mi piaceva l’idea che le nostre stanze fossero una di fronte
all’altra. Mi sentivo più vicina a lei, come se facessi già parte della sua vita, del suo dolce mondo. Socchiusi gli occhi per vederla meglio mentre apriva le persiane, ma poi quando mi accorsi di cosa stava facendo li sgranai.
Cosa? Era impazzita?
Aprii di scatto la finestra e guardai fuori nella notte. “Ehi!”, le gridai.
“Che stai facendo ragazzina?”.
Lei tirò su la testa e mi si mozzò il fiato quando la vidi ondeggiare sul ramo dell’albero di ciliegio sul quale cercava di rimanere in equilibrio. Agitava le braccia come se stesse per perdere l’equilibrio e io uscii immediatamente dalla finestra, arrampicandomi a mia volta per salvarla da quella che ben presto poteva essere per lei una pericolosa caduta.
“Sta’ attenta!”, le urlai mentre lei si chinava e afferrava un grosso ramo.
Avanzai lentamente, tenendomi forte.
Che stupida. Ma che stava facendo?
Aveva dei grandi occhi di un nero brillante e procedeva carponi, aggrappandosi a un ramo che tremava pericolosamente sotto il suo peso.
“Non puoi arrampicarti su un albero da sola, è troppo pericoloso per te”, le feci notare. “Stavi per cadere. Vieni qui”. La raggiunsi e le afferrai la mano delicatamente. Lei arrossì completamente di botto.
Le dita mi formicolarono all’istante, come succede quando si addormenta una parte del corpo. Lei si alzò, le gambe che le tremavano, e io mi tenni a un ramo in alto, mentre riportavo entrambi verso il tronco.
“Perché lo hai fatto?”, si lamentò lei. “So come si fa ad arrampicarsi. Mi hai spaventata, rischiando di farmi cadere” disse ad occhi bassi con molta timidezza e arrendevolezza. Il suo tono di voce era intimorito e basso come se avesse paura di me.
Cosa sono un mostro? Possibile che tutte le ragazze hanno sempre paura di me?
 
La fissai un po’ deluso, e mi sedetti su un ramo nella parte più interna dell’albero. “Sì come no … Io ti faccio paura vero? Perché hai quell’espressione indifesa stampata sul volto?! Devi essere più sicura di te stessa!”. Mi pulii le mani sui pantaloni sportivi color blu mare.
Dall’alto dell’albero guardai giù la strada di casa nostra, “Via Sanctum”, ma non riuscivo a smettere di pensare alla sua mano, che poco prima stringevo nella mia e al suo viso rosso come un peperone. Quello strano formicolio mi risalì il braccio e si diffuse in tutto il corpo. Avevo la pelle d’oca e mi veniva da ridere, come se qualcuno mi stesse facendo il solletico. Lei rimase in piedi per un po’, probabilmente impaurita, poi però, dopo pochi secondi, si sedette molto lentamente accanto a me. Le nostre gambe penzolavano giù dal ramo. E i nostri sguardi erano fissi al cielo senza stelle.
“Quindi”, fece lei, indicando casa mia, “tu vivi lì?”.
“Sì. Con mia madre”, risposi, e la guardai giusto in tempo per accorgermi che aveva abbassato lo sguardo e aveva preso a torcersi le dita per l’agitazione. Si incupì, poi corrugò la fronte e parve che si stesse sforzando di non piangere.
 
Che cosa avevo detto?
 
Portava ancora gli stessi abiti che aveva quella mattina quando l’avevo vista scaricare il furgone con suo padre. Aveva i capelli sciolti e nerissimi che ondeggiavano al vento, lunghi fino alla fine della schiena e a parte qualche macchia di sangue sulla gonna, sembrava pulita. “Perché sei sporca di sangue?”
Chiesi incuriosito e un po’ amareggiato al pensiero che potesse essere stata picchiata o ferita. La ragazza non mi rispose e guardò ancora il cielo come se i suoi occhi si fossero persi nell’immensità dello spazio vuoto del cosmo. “Mi piacciono le stelle …” mi disse voltandosi, poi, verso di me e sorridendo. Il suo volto sembrava emanare una luce dorata e brillante. Aveva un’aura misteriosa e allo stesso tempo delicata e gentile. Restammo seduti lì per un minuto circa, a guardare la strada e ad ascoltare il vento che faceva frusciare le foglie intorno a noi.
 
Che pace! Che beato silenzio! Avvertii il calore della sua mano che stava appoggiata vicino alla mia. Lei sembrava proprio minuscola accanto a me, come se rischiasse di cadere giù da un minuto
all’altro, incapace di tenersi. Aveva le labbra atteggiate a una smorfia triste, ma io non sapevo perché fosse di così cattivo umore. Tuttavia ero certo di non volere andare da nessuna parte finché non si fosse sentita meglio.
“Ho visto tuo padre”, le dissi. “Dov’è tua madre?”.
Il labbro inferiore le tremò e lei alzò lo sguardo verso di me. “Mia madre è morta in primavera. Quando sono nata”.
Aveva le lacrime agli occhi, ma trasse qualche profondo respiro come se stesse cercando di fare la dura.
Non avevo mai conosciuto nessuno della mia età che avesse perso il padre o la madre e mi sentii in colpa per il fatto che mia mamma non mi piaceva, che mi lamentavo sempre di lei. «Io non ho un papà», le dissi, cercando di farla sentire meglio. “Se n’è andato quando ero piccolo
e mia madre dice che non era una brava persona. Almeno tua mamma non l’ha fatto apposta a lasciarti da sola, giusto?”.
Mi rendevo conto di aver fatto la figura dello stupido. Non volevo far sembrare che lei se la cavasse meglio di me, ma solo dire qualcosa che potesse aiutarla a riprendersi. Avrei anche potuto abbracciarla, che poi era proprio quello che desideravo.
Ma non lo feci. Cambiai argomento per non spaventarla.
“Ho visto che tuo padre ha una macchina d’epoca”.
Lei non mi guardò, ma alzò gli occhi al cielo. “È una Chevy Nova. Non una macchina d’epoca qualsiasi”.
Io lo sapevo, ma volevo vedere se lo sapeva anche lei.
“Mi piacciono le macchine”. Mi tolsi le scarpe con un calcio, lasciandole cadere per terra. Continuammo a dondolare i piedi, ormai scalzi.
“Un giorno correrò al Loop”, le dissi.
“Il Loop? E che cos’è?”
“Un circuito in cui vanno a correre con le macchine i ragazzi più grandi. Potremo andarci anche noi quando saremo al liceo, ma ci servirà una macchina bella e potente. Tu puoi venire e fare il tifo per me”.
“Perché non posso correre pure io?”, mi guardò con aria un po’ da tonta.
 
Diceva sul serio?
 
“Non credo che facciano correre le femmine, è uno sport per maschi”, risposi, sforzandomi di non scoppiarle a ridere in faccia. Lei socchiuse gli occhi e tornò a fissare la strada. “Magari potresti convincerli”.
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. “Forse”.
Sì come no.
 
Mi tese la mano. “Mi chiamo Yeul, ma tutti mi chiamano Yu per abbreviare” disse con voce dolce e sottile.
Annuii, le strinsi la mano e sentii un po’ di calore irradiarsi di nuovo nel braccio. Una fitta di gioia mi invase il cuore fino a farmi provare benessere e amore verso di lei.
“Io sono Noel”.
“Hai dei bei capelli, Noel” e sorrise di nuovo a occhi chiusi. Era fantastica quando mi sorrideva. Il viso le si illuminava di felicità. Un vero angelo caduto in terra. Mi pareva che potesse essere una di quelle stelle cadenti che illuminano il cielo e cadono ogni 1000 anni. Una di quelle stelle che si vedono solo per pochi istanti per poi scomparire per sempre dalla tua vita. Pochi istanti di amore eterno. E poi il buio più totale.  
 
Sotto il cielo notturno e nero come la morte,
Sotto il ciliegio in fiore
Ci siamo appena incontrati. Io e te.
Grazie di cuore per ciò che mi hai dato Yeul.    


 
 
 
   
 
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