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Autore: Acinorev    19/07/2015    2 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Buongiorno!
Stavolta sono in perfetto orario, sono quasi fiera di me!!
- In Kenya il clima è sempre costante, in qualsiasi periodo dell'anno. La stagione delle piogge che nomino nel capitolo non è una vera e propria stagione di piogge continue, come in altre parti del mondo, ma solo un periodo in cui solitamente piove un po' di più.
- Il sistema scolastico non è accessibile a tutti, più che altro per i prezzi troppo alti per la maggior parte delle persone. Talvolta gli studenti riescono a proseguire gli studi grazie ai buoni voti, che valgono una sponsorizzazione da parte delle scuole e quindi un via libera per continuare a studiare. Altre volte, persone anche esterne alla famiglia possono decidere di sponsorizzare il ragazzo in questione, quindi pagandogli la scuola.
- Il nome Sake si legge "sachi".
- In questo capitolo compariranno nuove parole in swahili (ditemi se la cosa vi crea qualche problema o se sono in quantità accettabile): "tafadhali" significa "per favore", "sawa" o "sawa sawa" significa "ok", "baadaye" vuol dire "più tardi", "sasa" vuol dire "adesso".

 

 

Capitolo cinque
Torna presto

 

Ryma sospira sulla soglia del gabbiotto che sfrutta come posto di lavoro: quella mattina, il buongiorno le è stato dato da raggi solari insistenti e curiosi, che si sono intrufolati nel dormitorio senza alcuna esitazione, riscaldando tiepidamente il suo corpo. Ben presto, però, il cielo è cambiato: succede spesso che una splendida giornata soleggiata si trasformi in pochi minuti nel preludio di un potente temporale, anche al di fuori della stagione delle piogge.
Osserva le nuvole allungate e di un grigio scuro che si avvicinano sempre più alla città e si stringe nelle spalle, godendosi il vento che la sta accarezzando piacevolmente: deve tornare a lavoro, o non riuscirà a finire quegli abiti in tempo.
«Ryma, Ryma! Posso provarlo?» domanda Sake, emozionata dal solo guardare il vestito che la sua compagna sta cucendo. Saltella su e giù, mentre le sue ciabatte rovinate sbattono sul pavimento in cemento con ritmicità.
«No, non è ancora finito», le risponde Ryma sedendosi alla sua postazione, dietro la vecchia e difettosa macchina per cucire: ogni giorno ringrazia Peter per averla riparata al meglio, dopo averla aiutata a comprarla ad un buon prezzo e dopo innumerevoli sforzi per risparmiare la somma di denaro necessaria.
«Tafadhali, tafadhali, tafadhali!» insiste Sake, sorridendo apertamente e mostrando i denti leggermente ingialliti e storti. «È così bello!»
Ryma è intenerita dal suo entusiasmo, perché sa cosa significa avere a portata di mano qualcosa che non ci si può permettere, ma cerca di resistere. «Hapana, baadaye».
Evidentemente, però, la sua amica non capisce perché debba aspettare. «Sasa», ribatte con decisione, appoggiando le mani sul bancone in legno e sbattendo le palpebre per muoverla a compassione. Non è una bella ragazza, non è mai stata nemmeno una bambina graziosa, ma le labbra inclinate verso il basso e l’espressione supplichevole riescono comunque a raggiungere il loro scopo.
«Sawa», acconsente Ryma, sbuffando silenziosamente. Sfila delicatamente l’abito rosso mattone dalle grinfie della macchina per cucire, controlla che Sake sia abbastanza pulita e la aiuta ad indossarlo: le sta enorme, non ha nemmeno una forma mentre si appoggia sulle spalle magre di una quattordicenne troppo bassa per la sua età. Eppure Sake ne è comunque entusiasta: accarezza la stoffa senza premere troppo, come se avesse paura di rovinarla, e segue con le dita le fantasie astratte che la rivestono. D’un tratto il suo viso si dipinge di avidità e bramosia.
«Voi due! Cosa state facendo?»
La voce grave di Agnes, una delle Mamme, irrompe nella guardiola e le riscuote fin nelle ossa: le sta osservando dalla piccola finestra che sta loro di fronte, probabilmente con le mani sui fianchi larghi. Indurisce lo sguardo, le rimprovera prima ancora di aprire bocca. «Sake, togliti quell’affare di dosso. Non è roba per te», le ricorda aspramente.
La ragazzina corruga la fronte, come quando si prepara a rispondere con cattiveria solo per difendersi, ma Ryma le posa una mano sul capo e «Dammelo, così finisco di cucirlo», le dice dolcemente. Cerca di distrarla con un sorriso comprensivo, mentre Agnes si allontana, sicura di non dover ripetere quel suo ordine.
Sake si divincola un po’ troppo energicamente, cercando di sfilarsi il vestito, e Ryma non ha nemmeno il tempo di rimproverarla per quella scarsa delicatezza, perché nel giro di pochi secondi la vede scappare via dalla guardiola. Magari potrebbe comprare un pezzo di stoffa anche per lei, cucirle un abito per regalarle qualcosa e assopire i suoi capricci non del tutto ingiustificati, ma sa che creerebbe un precedente: se decidesse di farlo, dovrebbe confrontarsi con quasi tutte le altre ragazze del Kenyatta Centre, che sicuramente vorrebbero lo stesso privilegio.
Scuote il capo e torna a sedersi, finalmente pronta a ricominciare il proprio lavoro, nonostante la fame che la proietta già all’ora di pranzo.
Pochi minuti dopo, sente chiaramente un concitato chiacchiericcio proveniente dall’esterno: riconosce le voci di alcune delle sue compagne, percepisce il loro entusiasmo persino senza vederle, ma non capisce da cosa sia provocato. Alza lo sguardo, assottiglia gli occhi e rimane in ascolto: le sembra quasi che tutto quel frastuono si avvicini sempre più al suo gabbiotto.
«Buongiorno!»
Ryma scatta in piedi, facendo strisciare rumorosamente i piedi della sedia a terra. Forse smette anche di respirare.
Il soldato incontrato il giorno prima in città è sulla soglia della porta spalancata e vestito in borghese è quasi irriconoscibile: le gambe chiare sono coperte solo fino al ginocchio da un paio di bermuda beige, abbinati ad una t-shirt blu notte. È davvero bello: Ryma ne prende consapevolezza in un istante breve ed infimo.
«Che c’è? Non hai mai visto un cliente?» le domanda lui con fare allegro, forse per rompere il silenzio che li ha separati. Sorride apertamente. Sorride tanto. Troppo.
Ryma si riscuote, inspira profondamente senza scomporsi: dà un’occhiata alle ragazze che sono alle spalle del soldato, accalcate dietro la porta per scoprire la sua identità e le sue intenzioni. Forse l’hanno scambiato per un turista, forse si aspettano persino che sia venuto per fare beneficienza.
«Cosa ci fai qui?» domanda Ryma a bassa voce. Qual è il suo nome? Non riesce a ricordarlo.
Lui fa un passo in avanti e passa un sacchetto di carta da una mano all’altra: ha le braccia esili, ma definite. «Be’, mi hanno detto che tu sei una sarta…» spiega vagamente, come se la cosa fosse ovvia. Probabilmente lo è davvero, ma è comunque piuttosto assurda.
Ryma non si lascia incantare facilmente, anche se è dura resistere. «Chi te l’ha detto?» chiede, insospettita. Dalla finestra è apparsa di nuovo la figura di Agnes: il suo sguardo è ugualmente duro, ma più attento e sospetto. Non si fida delle ragazze e dei ragazzi del Kenyatta Centre che passano del tempo insieme dove lei non può vederli, figuriamoci fidarsi di un estraneo, bianco, che si presenta all’improvviso nella umile attività di Ryma.
«Benjamin è un mio amico, possiamo dire così», racconta il soldato, causando il primo screzio nella benevolenza di Ryma, che indietreggia impercettibilmente. «Gli ho chiesto di te e lui mi ha detto cosa fai per mantenerti, dove avrei potuto trovarti».
Probabilmente lei è particolarmente sensibile, probabilmente la sua mancanza di esperienze la pone in svantaggio, probabilmente tutti gli spettatori di quella conversazione la mettono ad estremo disagio, ma quel passaparola tra Benjamin ed il suo amico le sembra più l’anticipazione di uno scambio di merce.
«Non so cosa ti abbia detto Benjamin, ma-»
«Si scusa», la interrompe… Ryan! Si chiama Ryan.
«Nini?» domanda lei, incerta.
«“Nini?” significa “cosa?”, giusto?» Ryan si passa una mano tra i capelli biondi e corti, sorride. «Scusa, sono qui da poco tempo e la mia memoria fa piuttosto schifo».
Ryma non gli risponde, attenta ad ogni sua espressione e ad ogni suo movimento. Non riesce a capire se i suoi sorrisi siano spontanei come sembrano o se passino il confine della malizia. Forse è quella la sua paura: in fondo, anche quelli di Benjamin sembravano sinceri.
«Se l’hai conosciuto almeno un po’, saprai anche tu che Ben non è il ragazzo più sveglio di Nayuri», scherza Ryan, avvicinandosi ancora, lentamente. Dietro di lui, le spettatrici sono ancora tutte in silenzio, in attesa. «Non te lo verrà mai a dire perché credo si vergogni di cosa ha fatto, ma gli dispiace, ecco».
Se Tifah fosse presente – e per fortuna è al lavoro, o avrebbe sicuramente cacciato Ryan con toni pochi gentili, magari consigliandogli di mettersi le scuse del suo amico in un posto delicato – sicuramente non gli crederebbe. Ryma invece è indecisa.
«Se sei venuto per lui, non ce n’era bisogno», gli dice soltanto, respirando piano per mantenere una certa integrità. Può sentire il giudizio di Agnes bruciarle la pelle: sicuramente si starà chiedendo di cosa stanno parlando, sicuramente avrà da ridire riguardo una delle sue ragazze che conosce e ha rapporti con degli estranei del genere.
«Oh, no. Te l’ho detto: sono qui perché mi serve una sarta», si affretta a precisare Ryan, porgendole la busta di carta per invitarla a sbirciare all’interno.
Ryma la afferra cautamente, raccoglie dal fondo un paio di pantaloni militari: sono scuciti in corrispondenza del ginocchio destro e la tasca posteriore sinistra è strappata. Quando li ripone sul bancone, il viso del suo cliente sembra… Speranzoso.
«Non avete delle sarte nella vostra base?» domanda, forse solo per gli altri più che per se stessa: se davanti alle sue compagne e davanti alla Mamma si mostra reticente nel rapportarsi con quel soldato, forse i pettegolezzi ed i probabili rimproveri saranno più miti.
«Sì, ma non sono poi così brave. Anzi, bravi: sono tutti maschi. Così ho deciso di cambiare».
Le ragazze alle spalle di Ryan bisbigliano l’una all’orecchio dell’altra, probabilmente stupite dal fatto che un lavoro così femminile sia svolto da uomini.
«Non avete nient’altro da fare, voi altre?» esordisce Agnes, rimproverando le ragazze. «Avanti, tornate alle vostre faccende», continua, ottenendo il risultato sperato, anche se con riluttanza. Rivolge un’altra occhiata d’ammonizione a Ryma, prima di allontanarsi dalla finestra: è impossibile che se ne sia andata, sicuramente si è solo seduta sul muretto che corre accanto al gabbiotto, in modo da poter origliare ed eventualmente intervenire prontamente. Non la lascerebbe da sola con un uomo per niente al mondo, non quando è lei di guardia.
Ryan si guarda alle spalle, inspirando profondamente forse per il sollievo di essere rimasti soli. «Allora? Posso chiederti di ricucire il mio pantalone?» riprende con tranquillità, rivolgendole un altro sorriso.
Ryma lo osserva come per trovare sul suo viso una risposta, ma non sa ancora interpretare delle iridi tanto chiare. «Va bene», acconsente. «Ma oggi devo finire altri abiti, credo che sarà pronto per domani o dopodomani».
«Non preoccuparti, non-»
Si interrompe e si volta per guardare fuori dal gabbiotto: la pioggia battente ha iniziato a torturare il terreno secco, velocemente e con una certa energia. Si possono sentire le voci allarmate di chi era all’aperto e sta cercando riparo.
«Non ho fretta», continua, sorridendo per il tempismo divertente.
Ryma annuisce e si siede al suo posto, leggermente a disagio per gli occhi che continuano a guardarla.
«È un problema se aspetto qui che finisca di piovere? Sono venuto a piedi e non ho l’ombrello», propone lui, schiarendosi la voce.
«Siediti», lo invita lei, indicandogli una sedia al di là del bancone. Riprende a cucire fingendo di non ascoltare ogni rumore provocato dai suoi movimenti: ora che è più vicino, può sentire persino il suo profumo. È diverso da quello di Benjamin, è più dolce, leggero: si mischia all’odore di pioggia senza stonare.
«E così… Tu vivi qui», esordisce Ryan, spronandola ad alzare lo sguardo su di lui. Lo scopre a spiare il suo lavoro.
«Sì», risponde Ryma semplicemente, senza riuscire a capire il vero significato di quella constatazione.
«Cos’è? Una… Una specie di orfanotrofio?»
Vorrebbe chiedergli se Benjamin non gliel’ha detto, ma non vuole risultare maleducata: le basterà essere cauta e, se davvero questo Ryan non è degno di fiducia, lo capirà il prima possibile. O almeno spera.
Scuote la testa, maneggiando la stoffa tra le proprie mani con leggerezza. «No: accoglie i bambini di strada, ma non solo gli orfani». Non appena termina la frase, si pente amaramente di aver toccato quel tasto: teme che Ryan possa porle la fatidica domanda, teme che possa chiederle della sua famiglia, delle sue origini, e che quindi abbia il poter di indebolirla.
Ma deve ricredersi.
Il soldato tace, non commenta la sua sistemazione né cerca di informarsi sul suo passato: Ryma prende nota di quella cortese delicatezza, né è sollevata.
«Tu ed i tuoi amici, quelli che c’erano anche ieri, non andate a scuola? Al college?» le chiede invece, appoggiando gli avambracci sul bancone e sporgendosi impercettibilmente in avanti: tiene gli occhi sulle sue mani impegnate a lavorare, solo qualche volta li alza sul suo viso.
«Siamo andati quando eravamo più piccoli», risponde lei, ricordando i tempi delle divise scolastiche di seconda mano e scucite, i capelli sempre troppo corti per non far arrabbiare le maestre ed evitare di prendere i pidocchi, le passeggiate di ritorno a casa. «Ora non abbiamo abbastanza soldi», aggiunge.
«Quindi lavorate?» indaga Ryan, senza esprimere alcun giudizio, almeno non ad alta voce. Ryma si prende un attimo per osservarlo, per accertarsi dell’innocenza della sua espressione.
«Sì, da un po’ di tempo. Peter, il ragazzo che era con noi ieri, è una specie di tuttofare. Tifah invece lavora nei campi oltre il fiume-»
«Ah, forse ho capito: si intravedono dalla nostra base», interviene lui, annuendo per confermare la sua affermazione. «Tifah… Un bel tipo, eh?» domanda ironicamente. «Non credo di piacerle molto».
«Non è colpa tua», si affretta a precisare Ryma. «È solo che…»
Ryan termina la frase al posto suo. «È solo che sono un musungu?» prova ad indovinare, alzando un sopracciglio senza segno di alcuna offesa.
«Un inglese», precisa lei, smettendo per pochi istanti di cucire.
A quel punto, Ryan mostra forse la prima espressione che non comprenda un sorriso: probabilmente quella verità l’ha colto alla sprovvista, o semplicemente lo fa riflettere su qualcosa che non può essere ignorato.
Ryma è quasi infastidita dalla consapevolezza di aver incupito i suoi occhi, quindi cerca di rimediare senza nemmeno programmarlo. «Ma ieri non ti ha insultato: vuol dire che non ti odia poi così tanto», riprende accennando un sorriso, il primo che gli abbia mai mostrato.
Lui ne resta stupito, ma lo ricambia immediatamente: ha i denti bianchi come il sapone che la mattina è conteso tra tutti gli occupanti del Kenyatta Centre e, per un solo, timido attimo, Ryma ha la sensazione che possa diventare ugualmente desiderato ed indispensabile. Un bene prezioso.
Restano in silenzio per diversi minuti, fino a quando un nuovo abito è pronto ed un altro inizia a prendere forma: Ryma si dimentica persino di essere osservata mentre si concentra sul tessuto color ocra e su una cucitura che le sta dando dei problemi. Entrambi si dimenticano della pioggia, che si è alleggerita fino quasi a scomparire.
«Dove hai imparato a cucire così?» le chiede Ryan, allungando una mano sulla stoffa che li separa. Alza gli occhi in quelli di lei, serio, ma non intimidatorio.
Lei serra la mascella per impedirsi di pensare a quel qualcosa di indefinito che sta provando. «Qui vicino abitava una sarta, si occupava anche dei nostri vestiti. Un giorno le ho chiesto di imparare e… Be’, immagino che pian piano sia migliorata, anche se non sono ancora ai suoi livelli». Sembra così facile aprirsi con lui, parlare fino a non avere più niente da dire, che Ryma deve sforzarsi di contenersi, o inizierebbe a raccontare molte cose riguardo moltissimi altri argomenti solo per avere la sua attenzione.
Ryan apre la bocca per ribattere, probabilmente per contraddirla, ma qualcuno si schiarisce la voce rumorosamente. Agnes vuole imporre la propria presenza anche senza comparire fisicamente, anche restando nascosta al di fuori della gabbiola: solo in quel momento Ryma si accorge che ha smesso di piovere e che probabilmente la Mamma non trova più alcun motivo per cui il soldato debba restare.
«Dovresti approfittarne», esordisce vagamente a disagio, controvoglia, indicando con un cenno del capo l’ambiente esterno. «Potrebbe ricominciare a piovere da un momento all’altro», si sforza di dire, pur prendendo atto del fatto che per lei non sarebbe affatto un problema.
Ryan si volta per guardare dove dovrebbe essere Agnes, evidentemente riesce a capire quale sia la situazione, perciò non insiste. «Hai ragione, meglio che vada», esclama alzandosi in piedi.
Lei annuisce lentamente, lasciando che le labbra carnose formino l’accenno di un sorriso di scuse e forse rivelatorio. Lo osserva darle le spalle e si trova a sperare di potergli parlare ancora, così cerca di darsi un’opportunità, improvvisamente mossa dalla curiosità. «Ryan?» lo chiama, senza alzare troppo la voce, come per timidezza nei confronti di quel nome nuovo.
«Sì?» risponde lui, sorridendole.
«Perché hai chiesto di me a Benjamin?» gli domanda, memore delle sue parole.
Ryan allarga il sorriso e «Chi lo sa?» le risponde, prima di improvvisare un saluto militare scherzoso ed uscire dal gabbiotto senza voltarsi.
Ryma sospira profondamente, abbandonandosi sullo schienale della sedia per riflettere e per ascoltare il cuore battere più veloce. Non le è molto chiaro quello che è appena accaduto, né riesce a mettere a fuoco le speranze che sente di covare senza pretese, senza nemmeno una logica. Recupera il pantalone di Ryan e lo osserva come se potesse guardare lui, immagina in quali esperienze lo abbia accompagnato ed in che occasione si sia rovinato.
Le basta poco per scovare un dettaglio stonante, una tasca anteriore ricucita perfettamente, con una tecnica che lei deve ancora perfezionare.
«Non avete delle sarte nella vostra base?»
«Sì, ma non sono poi così brave. Anzi, bravi: sono tutti maschi. Così ho deciso di cambiare».
Bugiardo.
 
 
 
Poco dopo pranzo, segue il rumore della legna spaccata con forza, il ritmico cadere dell’accetta ed i tonfi sordi dei ceppi pesanti che si aprono a terra. Solomon è completamente rapito da quelle azioni meccaniche, anche se probabilmente i suoi pensieri sono legati indissolubilmente a qualcun altro.
In fondo, Kelvin non è ancora tornato.
Solomon sta fremendo per la tentazione di andare a cercarlo, di perlustrare ogni centimetro di Nayuri per avere una rassicurazione, di andare a chiedere informazioni ad ogni feccia di ragazzo che l’ha aiutato a percorrere quella strada poco raccomandabile. Freme, ma non si muove. Non ancora.
«Hey», lo saluta Ryma affettuosamente, sedendosi su un grande pezzo di legno che giace a terra inanimato.
Lui la guarda per un istante, si asciuga la fronte con la canottiera sudata e riprende a spaccare ceppi: forse è solo una sua impressione, ma le sembra che stia impiegando più forza rispetto a prima. Probabilmente sta indovinando i suoi pensieri, probabilmente non vuole essere compatito, ma Ryma sente solo una certa rabbia animarle le vene solitamente placide: un senso di ingiustizia e frustrazione la fa reagire agli occhi stanchi del suo amico.
Tempo fa Solomon sorrideva molto più spesso, tanto da essere persino fastidioso con le sue espressioni silenziose, ma bizzarre: sarebbe bello ritrovare quel sorriso, quella spensieratezza leggera. E se lei desidera così tanto rivederla sul suo volto, come può il suo stesso fratello non volere lo stesso? Non sa nemmeno come sentirsi nei confronti di Kelvin: non l’ha mai odiato, come altri all’interno del Kenyatta Centre, ma non è mai riuscita a capirlo fino in fondo e questo ha rappresentato un ostacolo alla sua predisposizione nei suoi confronti. Certo, ora come ora prova rancore per il suo comportamento ed i suoi gesti: dopo quello che le ha detto Peter, è facile sospettare che sia stato proprio lui a rubare i suoi soldi – cosa di cui non vuole parlare per non peggiorare la situazione. Eppure, c’è ancora qualcosa che le sfugge, forse una misera speranza di poter trovare una giustificazione al suo stile di vita.
I suoi pensieri vengono interrotti bruscamente da un rumore che le spezza il cuore. Un singhiozzo, basso, soppresso e forse carico di vergogna.
Alzando gli occhi su Solomon, scorge le sue guance percorse da lacrime mute. Continua imperterrito ad accanirsi sulla legna, finge di non provare nulla ed intanto si lascia consolare dalla presenza di Ryma, che vorrebbe toccarlo e rincuorarlo, ma che non osa farlo per lasciargli gli spazi che merita.
 
 
 
Nel tardo pomeriggio, le ragazze ed i ragazzi del Kenyatta Centre si riuniscono nella Nursery per la preghiera giornaliera. Sono disposti in cerchio, accalcati uno addosso all’altro per mancanza di spazio: quella stanza sarà anche considerata grande, rispetto alle altre del Centro, ma deve pur sempre contenere circa sessanta persone. I più pigri si dispongono nelle ultime file di quel cerchio malformato, i più diligenti – tra cui Ryma, ovviamente – si mostrano senza alcun problema, desiderosi di iniziare.
Non appena il sacerdote venuto appositamente inizia il suo sermone, parlando con enfasi e regalando parole di speranza, Ryma si sente pizzicare la schiena. Sa già chi sia la responsabile, per questo non si volta a controllare.
«Hey, Ryma! Non mi ignorare!» le ordina Tifah in swahili, cercando di controllare il tono di voce.
Sente della confusione alle proprie spalle: probabilmente Tifah sta cercando di raggiungerla. Difatti, poco dopo se la ritrova accanto. Alza un sopracciglio, la osserva incredula e «Che piacere vederti qui», le dice scherzando.
Conosce bene la scarsa fede di Tifah, sa altrettanto bene quanto si annoi a prender parte alla preghiera e ricorda perfettamente ogni volta che è stata sgridata per averne saltata una o per non aver partecipato rispettosamente. È una delle cose che le separa e le unisce allo stesso tempo: mentre Tifah non ha alcuna fiducia in un Dio che a parer suo è immeritevole persino di essere, Ryma confida nella sua presenza invisibile, nella sua provvidenza così strettamente legata al libero arbitrio del singolo. In un certo senso la loro visione religiosa bilancia il loro rapporto: laddove Ryma, nelle situazioni più buie, si affida ad un volere superiore e buono, per quanto talvolta incomprensibile, Tifah si preoccupa di sperare in una logica ben più prevedibile, che non deve sottostare alle intenzioni di un essere ultraterreno con piani, risorse e volontà discutibili.
«Di’ un po’», ricomincia l’amica, ignorando il suo commento. «Chi è il soldato che è venuto a trovarti oggi? Non sarà mica Benjamin?»
I pettegolezzi circolano velocemente. «No, non era lui», le risponde Ryma, interrompendo il discorso per recitare una parte della preghiera.
«E allora chi era? Avanti, parla».
«Perché ti interessa? È solo un cliente».
«Perché mi interessa?» ripete Tifah sbalordita, alzando la voce inconsapevolmente e ricevendo un’occhiata d’ammonizione dal sacerdote. Si ricompone e riprende a parlare solo dopo qualche istante. «Forse perché a Nayuri ci sono decine di sarte? E scusami se te lo dico, ma sono anche più famose e più brave di te. Figurati se uno sporco inglese-»
«Tifah, per favore», sospira Ryma. A quell’appellativo non è proprio riuscita a sopportare il contrasto con la figura di Ryan.
«Che c’è? Non è un ragionamento tanto assurdo», borbotta lei, indisposta.
Effettivamente no, effettivamente Tifah ha ragione e Ryma ha pensato la stessa cosa da quando Ryan è comparso nel suo gabbiotto. Ma lui ha chiesto di lei a Benjamin, non è stato un incontro casuale: fino a quando non capirà qualcosa in più, però, che sia una verità positiva o meno, Tifah ne rimarrà all’oscuro.
«Fa’ silenzio», le intima Ryma, senza riuscire ad essere decisa quanto basta.
Non appena l’altra riapre la bocca per ribattere, lei alza la voce nel cantare insieme agli altri le parole dedicate al suo Dio, sorridendo divertita.

 


Ed eccoci qui!
Ci sono un po' di cosette da dire, quindi meglio iniziare subito:
- le Mamme sono figure piuttosto rigide nel centro di recupero, le loro regole riguardo i ragazzi e le ragazze ed il tempo che passano insieme sono piuttosto ferree (e a volte ridicole): quando ho alloggiato presso il centro, le ragazze non potevano venire a giocare davanti al dormitorio maschile, perché le Mamme non potevano vederle e quindi temevano chissà quali esperienze sessuali alla luce del sole, quindi dovevamo svolgere qualsiasi attività davanti al dormitorio femminile. Mi è stato raccontato che comunque ci sono state varie relazioni, alcune concluse anche con una gravidanza e quindi con l'espulsione dal centro (sempre sotto spinta delle Mamme, piuttosto che del gestore). Quindi è per questo che ho marcato questo aspetto di Agnes, che in pratica rimane di vedetta per tutto l'incontro tra Ryma e Ryan;
- Ryan!! Spero davvero che vi piaccia :) Non voglio dilungarmi su di lui, sui suoi comportamenti e sulle sue eventuali intenzioni, perché mi piacerebbe prima leggere le vostre ipotesi! Ho lasciato in giro alcuni indizi, quindi non vedo l'ora di sapere le vostre opinioni! Ovviamente Ryma non si fida fino in fondo, dopo l'esperienza con Benjamin, ma non può nemmeno negare quanto sia piacevole la compagnia di Ryan (PS: le ragazze del centro sperano sia un turista, perché per la maggior parte di loro turista bianco = soldi);
- ne ho approfittato per precisare che anche Peter e Tifah hanno un lavoro con cui si mantengono, o almeno ci provano;
- Kelvin non è ancora tornato a casa e vi ho regalato uno spazio per Solomon, dato che nello scorso capitolo è comparso solo da lontano: spero di aver fatto trasparire bene il fatto che sia esausto e al limite della preoccupazione (preciso che il fatto di non andarlo a cercare subito è ispirato alla realtà, nel senso che mentre io ero nel centro, diversi ragazzi si allontanavano per alcuni giorni, ma le ricerche non iniziavano subito, perché il più delle volte tornavano spontaneamente e ovviamente senza specificare cosa fossero andati a fare né dove);
- riguardo le preghiere giornaliere, diciamo che non sono da frequentare davvero in ogni occasione (ma comunque non se ne possono saltare molte): mi sono presa una piccola licenza. Sono bellissime da vedere, perché si canta e si balla ed i sermoni non hanno niente a che vedere con le prediche dei nostri preti. Comunque, stavolta è proprio Ryma a confrontare la propria fede a quella di Tifah: non so se ci sono riuscita, ma volevo far notare quanto le loro visioni delle cose siano complementari. Dove la fede di Ryma a volte si aggrappa al nulla, subentra la razionalità di Tifah e viceversa: in qualche modo hanno sempre qualcosa a cui affidarsi;
- quando Ryma parla della scuola, accenna qualcosa sul dover portare i capelli corti: quando i ragazzi vanno a lezione (non so fino a che età sinceramente, ma sono sicura almeno fino ai tredici) le maestre controllano che si siano rasati i capelli e, se non è così, li rimandano a casa immediatamente. È una questione di immagine, ma anche di pidocchi;
- ultima cosa: il cambiamento climatico nell'arco di pochi minuti è una cosa reale, assurda e anche piuttosto scomoda hahaha Ti svegli la mattina con un sole accecante, ti vai a fare la doccia e quando esci ci sono già i nuvoloni neri che mettono a repentaglio qualsiasi piano avessi in mente per la giornata.
Basta, ho blaterato anche troppo ahhaha Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Scrivetemi le vostre opinioni - positive o negative che siano - se vi fa piacere: mi sarebbero davvero utili!
E grazie per aver letto :)

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Veronica.

 
 
  
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