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Autore: Manto    19/07/2015    2 recensioni
"Lui si chinò verso di me, e io indietreggiai.
Le sue mani erano ancora sporche del sangue di mio padre.
Con quelle mani, mi prese il volto, me lo alzò.
Lo fissai, il gigante che chiamavano Aiace, cercando di apparire coraggiosa.
Vidi i suoi occhi cangianti, ne rimasi rapita.
La mia sete di vendetta, i miei impulsi suicidi si sfaldarono, sotto la forza di qualcosa che ancora non potevo capire."
Frigia, al tempo della grande Guerra di Troia.
Da una parte la giovane Tecmessa, principessa di un regno ridotto in cenere, prigioniera di un terribile nemico venuto dal Grande Mare; dall'altra, Aiace Telamonio, campione dell'esercito greco con la sofferenza nel nome, dall'aspetto di un gigante e dal coraggio di un leone.
Un solo sguardo, e una forza più grande della guerra stessa giocherà con i loro destini, portandoli all'immortalità.
Ispirato alla bellissima tragedia "Aiace" di Sofocle, il personale omaggio a una delle coppie più belle, e purtroppo poco conosciute, della mitologia greca.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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XII – Il Dimenticato




Sì, quello fu l'inizio della fine.
Era giunto il momento: i nostri Destini si svelarono a noi, divennero Realtà.
Prima di entrare nella Storia, ognuno di noi si domandò nel cuore chi era, chi sarebbe stato: re o schiavo?
Eroe o assassino?
Uomo o lupo?



Ricordo il grande dolore e sgomento quando Achille, fuori di sé per la perdita del suo amato Patroclo, lo vendicò uccidendo il principe Ettore.
Ricordo il sorriso trionfale degli Achei e le loro danze intorno ai fuochi, nella notte che aveva il colore del sangue, ebbri di vino, folli e spietati come fiere.
Fui l'unica tra di noi a piangere per il principe: lo vedevo come un altro fratello caduto, prefiguravo la sua stessa ignobile sorte per molti dei nostri.
Ne avevo pietà.
Perfino Aiace, preso dal ricordo delle pene che Ettore aveva fatto soffrire al nostro esercito, gioì per la sua morte. “Piangi per i nostri fratelli, invece che sprecare la tua bellezza per lui”, mi disse, mentre mi coprivo con il velo perché nessuno vedesse le mie lacrime.


Ricordo quella cupa alba, il momento in cui seppellimmo Partenia e i due gemelli che portava in grembo. Scavammo la fossa sulla spiaggia, vicino al mare, perché le onde baciassero sempre i loro corpi.
Athanassa intonò per loro un canto così dolce che fu impossibile trattenere le lacrime, quindi ricoprimmo con fiori e boccioli il pietoso tumulo.
Nei giorni successivi, il suo ricordo scomparve dalla mente di ognuno: lei, una semplice donna che aveva accettato la Morte per risparmiarla ad altri, nessuno l'avrebbe ricordata mai.


Ricordo il giorno in cui Antiloco, il gentile figlio di Nestore, cadde nella polvere della piana per difendere il padre. Vedemmo la figura distrutta del re di Pilo trascinarsi nella polvere rossa, reggendo tra le braccia il corpo del suo adorato ragazzo. “Bambino mio... torna da me”, sussurrava, e il cuore di tutti si spezzò.
Aiace mi raggiunse, senza il coraggio di rivolgermi la parola, e Athanassa uscì dalla tenda di Nestore e andandogli incontro; in quei giorni, nonostante la passione per Diomede, si era molto legata anche ad Antiloco, e la vidi prendere tra le sue braccia il capo del giovane, accarezzargli i lunghi capelli.
Quindi, re Nestore la guardò. La prese per le braccia, la strinse a sé. “Dovevi essere la sua sposa.”
Mi strinsi ad Aiace, il quale mi dovette trascinare nella tenda perché le mie lacrime erano senza controllo.
Ricordo la stessa notte, mentre la pira ardeva e il fumo saliva al cielo in nere volute, macabra offerta agli Dèi. All'alba tutti si ritirarono e solo Athanassa rimase, senza neanche più piangere.
Indietreggiai anche io, senza il coraggio di andarmene, e mi ritrovai accanto a Diomede.
Il re di Argo sospirò, chinò il capo. “Successe tanti anni fa, quando ero solo un bambino.
Quel giorno Argo era in festa: re Adrasto era tornato vittorioso da un duro scontro, e tutti i nobili della città si erano riuniti nel palazzo per recargli doni: la sala del trono risplendeva di oro e splendide armi, nelle scuderie scalpitavano cavalli di bellezza immane, mentre giovani splendide venivano condotte al cospetto della regina.
Ultimo fra tutti, stava quel pastore. Lo riconoscemmo subito: le sue erano le greggi più belle della regione e gli animali che teneva tra le braccia, due agnelli dal vello candido come mai avevo visto, lo dimostravano.
Quando giunse re Adrasto abbandonò i nobili per recarsi da lui, e nella sala calò il silenzio.
Il pastore con un sorriso gli porse il suo dono, ma Adrasto scosse il capo. “Non posso. Questi agnelli sostengono la tua famiglia, come posso accettarli?”
“Prendili, mio wanax. Non rifiutare questo omaggio.”
“Pensaci; potresti ricavere molto più di semplice benevolenza.”
Il pastore rise. “La ricchezza non mi interessa. In essa non vi è nessuna libertà.”
Quelle parole così schiette e oneste mi entrarono nel cuore. Mi resi conto che lui, nella sua povertà e semplicità, era molto più felice di tutti noi, che vedevamo soddisfatto ogni nostro capriccio. Lo invidiai, allora, come lo invidio ora.
Invidio la vita dei semplici, allietata solo dalla presenza dei suoi figli; io non ho avuto neanche questa felicità. In questo momento scambierei la mia, piena di gloria, con una sconosciuta, pur di non soffrire così... pur di non soffrire ancora.”
Guardai i penetranti occhi azzurri di Diomede, vi lessi la sua sincerità. Lui ricambiò lo sguardo per qualche istante, poi rivolse la sua attenzione ad Athanassa.
Lo osservai avvicinarsi alla ragazza, accarezzarle i capelli con dolcezza. Me ne andai, perché quell'istante doveva essere solo per loro.


Ricordo, infine, quella notte.
Quello stesso mattino, mentre controllavano le navi, gli Achei trovarono un grosso scrigno, una specie di tesoretto sepolto nella sabbia del lido e riaffiorato durante l'ultima marea.
I guerrieri lo presero, lo portarono al centro del campo e qui lo aprirono rivelando oggetti di scarso valore: perline, calici di legno, qualche pugnale; poi un Argivo tirò fuori un oggetto che destò l'ilarità di tutti.
Mi avvicinai, riconobbi immediatamente una statuetta della dea Kubile. In quel mentre, infastidito da ciò che stava succedendo, apparve Agamennone, e le risate cessarono; la statuetta finì a terra e nessuno si curò più di essa. Attesi che se ne fossero tutti andati, e avvicinandomi la presi tra le mie mani, la portai al sicuro nella tenda e sedendomi mi misi a fissarla.
La strinsi al mio cuore, ricordando anni lontani e volti perduti, e Aiace, quando ritornò, mi trovò intenta ancora ad osservarla e ad accarezzarla.
Lui me la prese per guardarla, passando un dito sul ventre prominente, e io sorrisi. “In Frigia la chiamiamo Kubile, la Grande Madre. Le femmine di ogni specie le sono care, perché sono portatrici di Vita, come lei.
Le grotte sono i suoi templi, e ricordo che la sua effigie, scolpita nella pietra o dipinta sulle pareti, mi intimoriva sempre: la reputavo orribile, così sformata... eppure ora mi sembra così bella.”
Aiace mi si sedette accanto, e io sentii l'impulso di rivelargli ciò che nessuno sapeva. “La prima volta che sentii parlare della Dea ero così piccola che non raggiungevo neanche le ginocchia di mia madre. Così piccola, e già lei stava per lasciarmi sola, consumata da una lunga malattia.
Io piangevo a lungo, perché non aveva la forza di alzarsi dal letto, perché non poteva giocare con me; e lei non faceva altro che sorridermi, per darmi forza.
Era così diversa da tutte le altre donne del palazzo, da tutte quelle che conobbi: amava me e mio padre senza falsità, senza volgarità, con passione e affetto.
La stessa notte in cui lei mi parlò di Kubile iniziai a pregarla, promettendole in dono ogni cosa: le mie vesti, i miei giocattoli, persino la mia stessa vita; tutto, purché salvasse mia madre.” Qualche lacrima riempì i miei occhi. “Questo non successe. Mia madre morì pochi giorni dopo, al tramonto, e io mi arrabbiai molto. Perché la Dea non mi aveva ascoltato? Aveva forse dimenticato la mia preghiera?
Per molto tempo pensai che fosse tutta colpa mia, perché io non volevo essere una sposa. Cercai quindi di innamorarmi, perché pensavo che in tal modo la Madre della Natura potesse perdonarmi, e riportare la regina alla vita.
Quest'ombra mi perseguitò finché mio padre non l'allontanò con il suo amore.”
Aiace mi accarezzò i capelli, e io appoggiai la testa contro la sua spalla. “Io odiavo Teucro.”
Lo guardai stupita, e lui scoppiò a ridere. “Ero anche io molto piccolo quando tutto iniziò, eppure già conoscevo e comprendevo ogni cosa del mondo degli adulti... tranne una: il motivo per cui mio padre, che aveva al suo fianco una tra le più belle regine di Acaia, avesse sposato anche la principessa Esione.
La vedemmo arrivare, io e mia madre, in un pomeriggio di primavera così freddo che tutti i fiori avvizzirono e gli uccelli smisero di cantare. Lei era giovanissima, e mia madre credette di aver davanti a sé una prigioniera di guerra; invece mio padre l'aveva presa in moglie, ne aveva fatto l'altra regina.
Fin dal primo momento provai solo odio verso quella fanciulla che fu causa di grandi pianti per la mia adorata madre. Come aveva potuto il re dimenticarci? La colpa doveva essere sua, di quella maledetta principessa: era stata lei a sedurlo e ad incatenarlo a sé, coprendo di vergogna la legittima regina.
Il mio astio aumentò quando nacque Teucro. Non potevo sopportarlo, sentire il suo pianto, vedere i suoi occhi così simili a quelli di mio padre, ai miei...
Ma tutto mutò, una notte: la terra tremò improvvisamente, e parte del nostro palazzo crollò, tra cui il soffitto della mia stanza.
Non riuscii a correre abbastanza veloce, e le travi mi bloccarono al suolo; sbattei il capo, la voce mi si mozzò in gola. Udii mio padre urlare il mio nome, ma non potei rispondere.
Poi, in mezzo alla polvere, spuntò Teucro. Mi chiamava, con la sua voce appena percettibile.
“Vattene! Vai via!”, urlai, per spaventarlo.
Lui mi vide e si avvicinò, mi ripulì il viso con le sue piccole mani. “No, se non vieni anche tu”, rispose. Si infilò tra le travi, si stese al mio fianco.
“Corri via da qui, stupido! Moriremo entrambi!” ruggii di nuovo. Per risposta, lui mi abbracciò.
Io lo guardai stupito... e poi ricambiai il suo abbraccio. Lo strinsi a me, e immediatamente non ebbi più paura.
Nostro padre, quando riuscì a penetrare nella camera, ci trovò addormentati, con le mani intrecciate. Da quel giorno non ci lasciammo più.”
Chinai il capo, gli occhi lucidi di commozione, e gli strinsi la mano. Non parlammo più, ma quella notte ci addormentammo con un sorriso sul volto.
Entrambi avevamo vissuto nelle tenebre, per poi rinascere alla luce.


Tecmessa.
Quella voce...
Tecmessa.
Mi riscossi, e per un momento mi parve di vedere Tealissa accanto a me; ma erano gli occhi di Odisseo a fissarmi, e sobbalzai. Il re di Itaca mi lanciò un'ultima, penetrante occhiata, e allungando una mano fece per scuotere Aiace dal sonno.
Questi balzò a sedere e gli afferrò i polsi con forza, poi, quando lo riconobbe, lo lasciò andare. Odisseo indietreggiò, senza perdere il suo sorriso. “Sei temibile nel sonno come nella veglia, figlio di Telamone.”
Aiace mi lanciò un'occhiata, e io mi alzai, svegliai Eurisace e lo portai alla spiaggia. Lo condussi alla nave di suo padre e giocai con lui all'ombra della grande prua, e un senso di sicurezza mi prese mentre mi appoggiavo alla fiancata, la sensazione che finché sarei rimasta lì, tra il mare e il cielo, nessuno avrebbe potuto vedermi, neanche gli Dèi.
Ma mi sbagliavo: lo sguardo del re arrivò fino là, e ben presto lo sentii bruciare sulla pelle e nel mio cuore. Interruppi i giochi, mi voltai: Odisseo ci fissava dalla spiaggia, e quando i miei occhi incontrarono i suoi sorrise, chinò il capo.
Rabbrividii quando Eurisace corse da lui e quando vidi il re prenderlo, come se... come se fosse suo. Non ho il coraggio di pensarlo, ora come allora.
Mi avvicinai a riva e Odisseo mi sorrise nuovamente, mentre Eurisace si staccava da lui e tornava nell'acqua.
“Gli Dèi vogliano che abbia la stessa tempra del padre, e lo stesso splendente Destino”, disse. E i Numi risero.
“Avrà tutto questo. Ha già dimostrato il suo coraggio e la sua forza”, risposi.
Mi voltai, ma il re mi afferrò per un braccio. Mi divincolai, spaventata, e un'ombra triste gli solcò il volto.
Fissai quel viso di modesta bellezza e gli occhi pieni di una luce sovrannaturale, inquietante. “Tu mi guardi con desiderio, figlio di Laerte. Lo fai sempre.” E mi fai paura.
Il re abbassò il capo. Quando lo rialzò, il suo sguardo non era mai stato più intenso. “La mano di un Dio antico, sconosciuto e terribile, è posta sul tuo capo e ti protegge, ti rende irraggiungibile.
Hai ragione, figlia di Teleuta: io ti desidero... ma non ti avrò mai.”
Non avevo mai sentito nessuno parlare in tal modo, e non seppi cosa rispondere. Odisseo mi volse le spalle, si allontanò.
Quell'uomo ha ragione. Non ti avrà.
Mi voltai, e vidi il riflesso di Tealissa prendere il posto del mio nell'acqua. Alzai lo sguardo, e con sgomento vidi che non c'era nessuno.
“Tu... sei un'ombra”, sussurrai, tremante.
Sono la Sua messaggera. Lei soffrirà con te.
Corrugai la fronte, senza comprendere quelle parole.
In questo giorno molti Destini si compiranno, e il tuo sarà uno di questi. Sii forte.
Un battito di ciglia, e il riflesso svanì.
“Madre?”
Eurisace era accanto a me, mi tirava per un braccio. “Madre, torniamo alla tenda? Sono stanco”, disse, e io annuii.
Ero scossa, e piena di domande e pensieri: che cosa era successo veramente e cosa era frutto della mia mente?
Mama [1]... stai bene?”
Annuii, cercando di essere convincente, quindi un grido ci scosse. Corremmo al campo, e compresi che qualcosa di grave era accaduto: i guerrieri si aggiravano spaesati, gli occhi spalancati e vitrei, e le donne, corse fuori dalle tende, si strappavano i capelli piangendo.
Strinsi Eurisace a me perché non fosse travolto dagli uomini in corsa, e in quel momento qualcuno mi afferrò per un braccio. Mi voltai e vidi gli occhi spaventati di Laio, il giovane Salaminio che mi aveva salvato la vita nella tempesta.
“Che cosa sta succedendo?”, gli chiesi, prendendogli il volto fra le mani.
Il giovane scoppiò in pianto. “Quel vile cane di Paride... ho visto tutto, perché ero con il wanax Aiace... è stato orribile...”
Vidi che stava per svenire, e lo presi tra le braccia. “Achille è morto, mia signora! Lo hanno ucciso!”
Per la sorpresa lo lasciai andare, e lui scivolò al suolo, si aggrappò alle mie ginocchia.
“Achille è morto”, sussurrai. E ora, come potevamo avere speranza di vincere, di abbattere le mura di Ilio, ora che il più forte tra i campioni ci era stato strappato?
“Achei!”
Quella voce, sovrannaturale, forte come un grido di guerra, ebbe il potere di immobilizzarci.
L'aria scintillò, e tutti chinammo il capo mentre il mare ribolliva e la più potente delle figlie di Oceano, Teti, la sventurata madre di Achille, usciva dalle onde.
Le sue urla di dolore, orrende a udirsi, ci fecero tremare e indietreggiare, mentre entrava nel campo Acheo spostando le navi al suo passaggio. “Achei... voi che custodite il corpo del glorioso Achille, non disperate! Lasciate a me il dolore, e organizzate la difesa.
Ora i Troiani gioiscono dell'insperata vittoria, ma voi non cedete: scegliete un campione, il più valoroso di voi, che si affianchi ad Agamennone nel condurre l'esercito, e a lui io donerò le armi del mio amato figlio.”
Un brusio si diffuse per il campo, seguito poi da un profondo silenzio. Poi, i guerrieri si fecero da parte e Aiace avanzò, lo sguardo fiero e risoluto, e dopo qualche istante si fece avanti Odisseo. Nessun altro li seguì.
Incrociai gli occhi di Athanassa, a poca distanza, e ci scambiammo uno sguardo carico di preoccupazione.
Teti guardò a lungo i due guerrieri, quindi annuì. “Affido le armi di mio figlio agli Atridi. Saranno loro a giudicare chi tra il figlio di Telamone e quello di Laerte sarà il più degno di riceverle.” Dette queste parole, l'Oceanina si tramutò in acqua e scomparve.
Aiace ed Odisseo si volsero l'uno contro l'altro e portarono la mano all'impugnatura della spada; ma Agamennone si frappose fra di loro. “No, fratelli e compagni: sangue prezioso è scorso oggi, e io non voglio perdere un altro campione. Vi sfiderete in altro modo.”
Aiace estrasse la spada e la piantò al suolo con violenza, facendolo tremare. “Questa contesa non dovrebbe nemmeno avere luogo! A me spettano le armi. Io ho combattuto contro Ettore, salvando la sorte del nostro esercito.
Io ho resistito, più di ogni altro, all'assalto dei Troiani, quando irruppero nel campo per incendiare le navi; io li ho cacciati e tenuti a bada, con le mie sole forze, mentre voi eravate feriti e scoraggiati.
Io mai sono stato ferito in battaglia, pur combattendo sempre tra i primi.
Io ho portato al campo il corpo di Achille, evitando che finisse tra le mani nemiche per essere spogliato e umiliato.
Io sono il campione che porterà alla rovina Troia.”
Aiace tacque, nell'esercito ci furono mormorii di assenso; anche Agamennone e Menelao annuirono.
Odisseo sospirò, e tutti si azzittirono mentre avanzava. E guardandoti, re dell'Inganno, compresi che mi avresti ucciso.
Chinò il capo, sospirò di nuovo. “Tutti conoscono e ammirano la forza e l'audacia del figlio di Telamone. Senza la sua presenza saremmo stati sconfitti, uccisi e respinti molto tempo fa, e l'umiliazione e l'oblio coprirebbero il nome dell'Acaia.
Lui è la torre e lo scudo della nostra terra, a lui vada eterno onore.”
Questo disse il re di Itaca, e già Agamennone stava per assegnare le armi ad Aiace, quando l'altro rialzò la testa. “Tuttavia, questa guerra non avrà termine con la forza.
Aiace non potrebbe riuscire nell'impresa di espugnare la città, come non vi è riuscito Achille; perché la città è imprendibile con le armi.”
Fece una pausa, e noi non osammo respirare. “Gli Immortali ci hanno dotato di astuzia e ingegno, oltre che della forza nelle membra. E io vi dico, fratelli, che sarà con la nostra superiore intelligenza che abbatteremo le odiate Porte Scee e finalmente porteremo a compimento questa guerra.”
“Parla apertamente, Odisseo”, sbuffò Agamennone, spazientito.
Odisseo sorrise, e io tremai.
“Un immenso cavallo di legno. La spiaggia deserta, le navi lontane, solo quel gigantesco dono a dominare questo lido, come offerta ad Atena per un propizio viaggio di ritorno.
I Troiani non potranno fare altro che accoglierlo quale simbolo di vittoria su di noi, gli odiati invasori, e apriranno le porte della città, e gioiranno... senza sapere che saremo noi a gioire per ultimi. Noi, che nascosti nell'oscuro ventre del cavallo, con pazienza attenderemo la notte più nera per aggredirli.”
“Tu vuoi prendere Troia con l'inganno”, disse Aiace indignato, “da uomo vile quale sei.”
Agamennone e Menelao si guardarono per qualche istante, e questi sospirò. “Basta così, Odisseo. Il valore di Aiace è molto grande, wanax di Itaca, perfino gli Dèi lo invidiano...”, disse, e fece una breve pausa, “ma il decimo anno di guerra sta finendo, e noi siamo ancora bloccati alle porte di Ilio. Forse sei tu la soluzione a tutto questo.
A te vadano le armi del divino Achille, figlio di Laerte: tu sarai il nostro campione.”
Aiace impallidì, e per un momento sentii che il suo cuore si era fermato.
L'esercito si ritirò lentamente, senza una parola, e percepii il suo malumore: i soldati amavano molto Aiace. Con la coda dell'occhio vidi i Salaminii piantare le spade al suolo in segno di protesta e andarsene sprezzanti, e la stessa cosa fece Aiace di Oileo, molto legato al mio amato, seguito dai suoi Locresi.
Il volto del mio guerriero, invece, non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Padre!”, gridò Eurisace quando lo vide andare via, ma Aiace non lo ascoltò. Si diresse verso il mare, solo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Guardatelo, il Dimenticato, sembravano dire le onde lontane, guardatelo, e piangetelo.
Athanassa mi si avvicinò, ma io scossi la testa e mi allontanai, prendendo per mano Eurisace. Corremmo via, ci fermammo solo quando fummo al riparo della tenda, e io chiusi gli occhi. Li riaprii solo quando sentii dei passi alle mie spalle, e Aiace entrò. Istintivamente indietreggiai, ed Eurisace si nascose dietro di me, tremante. I tuoi occhi, pieni di follia. Come una belva sembravi fiutare il nostro sangue, ne assaporavi il gusto.
“Aiace”, sussurrai, e i suoi occhi si spostarono su di noi.
“Tecmessa”, disse, e la sua voce suonò distorta, spaventosa, “Tecmessa, perché?”
Cadde in ginocchio, affondò il viso nel mio grembo scoppiando in singhiozzi.
Io allungai una mano per accarezzargli i capelli, e lui la prese, me la torse dolorosamente facendomi urlare. Eurisace si staccò da me, spaventato. “Madre!”
“Corri alla tenda di Teucro! Scappa!”, gli gridai mentre Aiace mi gettava al suolo e mi strappava le vesti con violenza, mi lacerava il petto con i denti e le unghie.
“Fermati, ti prego”, sussurrai, mentre con una mano mi serrava la gola e con l'altra mi costringeva ad aprire le gambe.
“Sono io il campione degli Achei! Sono io che ho salvato questo esercito maledetto!”, gridò, schiaffeggiandomi.
“No! No!”, urlai, graffiandolo in viso.
Lui sembrò riscuotersi, balzò indietro.
Io mi alzai e feci per correre via, ma lui mi afferrò per la vita, mi sollevò. “Dove fuggi? Tu sei mia!”, ruggì stringendo la presa e togliendomi il fiato.
“Aiace... torna in te...”, singhiozzai, mentre mi sbatteva al suolo in un angolo della tenda. Senza curarsi dei miei lamenti si strappò strisce di stoffa dalla tunica e mi legò con esse ad uno dei pali; quindi indietreggiò, senza guardarmi, e si fermò sulla soglia.
Stagliato nell'ultima luce del Sole sembrava ancora più grande, ancora più feroce. “Tutti sapranno chi hanno privato dell'onore. Nuovi lutti, nuove lacrime riempiranno questa piana.
Solo allora, quando i colpevoli saranno morti ai miei piedi, avrò pace e potrò ritornare ad essere Aiace Telamonio.”



NOTE

[1] Termine affettivo per definire la madre.
   
 
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