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Autore: _Krzyz    20/07/2015    2 recensioni
"Ogni persona ha dei segreti."
Qualcosa di prezioso, di personale, scheletri chiusi a chiave in armadi inesistenti. Ogni persona ha una storia alle spalle , una storia che non si può conoscere. Ma basta una parola, una parola per conoscere le vite degli altri. Una parola che può aprire un mondo e distruggerne un altro.
Una parola sussurrata in punta di piedi.
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Raccolta di One - shot, per raccontare le storie di quei personaggi che una storia non ce l'hanno :)
[Il rating potrebbe variare; spoiler!]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
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Hunger – [sost] fame, appetito, ingordigia [verbo] bramare,
desiderare ardentemente
 
La Fame

Gli Eruditi tendevano ad essere affamati di natura. La loro sete di conoscenza era una cosa risaputa e criticata da tutte le fazioni, gli esperimenti assurdi che venivano perpetrati nei loro laboratori non erano un mistero per nessuno. Loro volevano, dovevano sapere ogni cosa, la bramosia gli scorreva nelle vene pari a pari con il sangue. Ma in mezzo a quel branco di gente che desiderava il mondo c’era qualcuno di diverso, qualcuno che aveva davvero fame.
Quel qualcuno si chiamava Eric. Era un ragazzo che non aveva più di quattordici anni, ma avrebbe potuto sembrare quasi un ventenne. Non che fosse brutto o eccessivamente sviluppato per la sua età, anzi, però i suoi occhi lo facevano pensare. Erano due laghi ghiacciati e profondi allo stesso tempo, così chiari da poterli confondere con la sclera, dalle pupille piccole come spilli. Erano occhi penetranti e severi, occhi di qualcuno che aveva vissuto milioni di vite, occhi che terrorizzavano e attraevano. Erano occhi che avevano fame.
La famiglia di Eric non era di certo una di quelle famiglie Escluse che educano i propri figli alla strada, no. Entrambi i suoi genitori lavoravano come ricercatori nel settore sviluppo delle tecnologie bioetiche, collaborando con i Pacifici. Sua sorella maggiore aveva seguito le loro orme, solo che era ancora un’apprendista e per il momento era ai comandi di un docente di neurologia. Una famiglia perfetta, che sapeva stare al suo posto, dediti al loro lavoro e alla cura dei figli. E in questo ambiente edulcorato e pulito, Eric era cresciuto come cresce la gramigna nei campi di fragole. Era un albero storto in un filare di pioppi diritti, un difetto, quasi. I suoi voti a scuola erano sempre stati mediocri, non eccellevano quanto avrebbero dovuto.  Erano gli stessi voti che avrebbe potuto avere un Candido o un Abnegante, non un Erudito. Eric non si era mai sentito al suo posto. A sua mamma era sempre sembrato un po’ schivo, era un bambino bellissimo che stava sempre inspiegabilmente per i fatti suoi. Quando era piccolo preferiva la compagnia di un pallone alla compagnia di un coetaneo, anche perché enumerare le costellazioni o sapere tutte le cifre del pi greco non erano esattamente cose che lo esaltavano.
Ad Eric piaceva correre. Gli piaceva andarsene per la città in solitaria, entrare in posti dove non doveva, arrampicarsi sugli scheletri degli edifici corrosi dal tempo e dalla pioggia. Ed era quel brivido, il vento sulla pelle, gli ematomi che si faceva quando calcolava male un atterraggio, quelle erano le cose che lo facevano sentire davvero vivo. Lui respirava il pericolo, assaporava il brivido che gli dava camminale sul bordo dei tetti dei grattacieli. Ma queste cose erano relativamente innocue, e più il tempo passava più la sua fame cresceva.

A dieci anni scatenò una rissa, la prima di una lunga serie, per un motivo del tutto irrazionale. Un suo compagno di classe aveva detto che era il più scarso fra gli Eruditi, che se non studiava avrebbe vissuto come gli Esclusi, fra gli stenti e i parassiti. E il pugno sulla mandibola era scattato quasi in automatico. Fortunatamente le liti fra decenni si risolvono con un paio di adulti e qualche cerotto, ma più il tempo passava più le bende di cui Eric aveva bisogno aumentavano.   Cominciò a passare i pomeriggi nelle zone dove vivevano gli Esclusi ad attar briga con qualche ragazzino più magro e più sporco di lui, uscendo sempre vittorioso anche se ammaccato. Si distruggeva le nocche colpendo tutto quello che trovava, rinforzandosi ogni giorno di più, tornando a casa quando i suoi erano già a letto. Non picchiava mai gente della sua età o più grande, perché sapeva che avrebbe perso, e lui non aveva alcuna intenzione di perdere uno solo dei suoi combattimenti. Era cattivo, insensibile, irascibile, codardo. E la sua fame non accennava a diminuire un secondo, non lo lasciava mai in pace.
La sua famiglia non sapeva dove avevano sbagliato. Avevano educato Eric esattamente come avevano educato la sorella, senza privilegi o divieti particolari. Si scervellavano pensando ad una soluzione per questo errore, cercavano di rattoppare con del nastro adesivo una falla troppo grande. E non capivano che loro non avevano commesso alcuno sbaglio, non capivano che Eric era così e basta. C’era qualcosa di terribile, sepolto dentro quel ragazzino, qualcosa che cresceva, cresceva come il bambù, senza fermarsi.

Quel giorno Eric andò fra gli Esclusi come al solito, alla ricerca di facili prede, solitario come un lupo, letale come un coltello. I vestiti azzurri di sartoria erano tutti sgualciti, coi gomiti bucherellate e l’imbottitura delle spalle della giacca disintegratasi tempo addietro. Non fosse stato per la superbia che tanto caratterizzava ogni Erudito avrebbe potuto tranquillamente mimetizzarsi con la gente della strada. Ogni passo rimbombava contro le pareti degli edifici fantasma della zona vecchia della città. Svoltò in una laterale angusta della Dickinson, schiacciandosi come un’ombra contro i mattoni nudi. Eric era così bravo a non farsi trovare in giro quando non doveva , si muoveva sicuro e silenzioso come uno spettro. Quel giorno aveva saltato la scuola, che andassero a farsi fottere tutti quei professori arroganti, che ripetevano che era una vergogna per gli Eruditi. Attraversò la stretta via per poi ritrovarsi di fronte ad un vecchio condominio dove si riunivano solitamente gli Esclusi in cerca di guai. Il ragazzo fece schioccare le nocche ed entrò, spostando il portone cigolante con facilità. Iniziò a salire le scale, un gradino alla volta, per arrivare al sesto piano. Era pronto, scattante, avrebbe pestato con qualche ragazzino più debole di lui e se ne sarebbe andato apparentemente soddisfatto. E la fame lo divorava, lo consumava, bruciava. Valicò la porta dell’appartamento del sesto piano sorridendo, ma i suoi occhi gelati non erano di certo preparati a quello che gli si presentò davanti.
C’era stata una sparatoria, gli Esclusi gestivano un traffico di armi illegali che poteva contare centinaia di migliaia di pezzi, ma quello era normale, fra le bande di strada ci si ammazzava tutti i giorni. Ma non aveva mai visto dei bambini, che al massimo potevano avere otto o nove anni, spararsi a vicenda. I corpi dei poveretti erano riversi sul pavimento, coperti di sangue, con delle pistole ancora in mano. Li contò, erano sette. Sette bambini morti. Mentre a quell’età fra gli Eruditi la preoccupazione più grave era quella di andare bene a scuola questi si piantavano pallottole di piombo addosso, forse per gioco. Come li disprezzava, Eric, gli Esclusi. Pesavano sulle spalle della società come macigni, erano sporchi, viscidi, ingombranti, inutili. La maggior parte di loro non lavorava, se ne stava sul ciglio della strada a elemosinare un po’ di cibo, o vestiti nuovi. Gli davano i nervi, avrebbero dovuto conservare quei pochi che servivano per mandare avanti la città e spazzare via tutti gli altri. Andava bene quando lavoravano nelle fabbriche, pulivano le strade o guidavano gli autobus, in tutti gli altri casi erano più che inutili. Straccioni, alcolisti, teppisti, puttane. In un’altra situazione si sarebbe fatto quattro risate e se ne sarebbe andato via senza fare nulla.
Ma quel giorno Eric se li caricò tutti in spalla, ogni bambino, e li portò via da li. Prese quei cadaveri, chissà se le madri o i padri li avrebbero mai cercati, chissà se si sarebbero mai accorti che uno di loro mancava all’appello. Passava inosservato, nonostante i vestiti inzuppati di sangue. Uno ad uno li portò in una zona che una volta avrebbe dovuto essere un parco, e li si mise a scavare a mani nude. Le unghie gli si spezzarono a furia di spostare terra; passò ore a scavare, fino a che non divenne buio. Posò i sette corpicini ognuno in una buca e li ricoprì lentamente, con attenzione. Quando ebbe finito, posò delle pietre lisce su ogni tomba. Non ci scrisse niente, non sapeva cosa scriverci, neanche li conosceva quei bambini. Si pulì le mani sui vestiti e se ne tornò a casa.

Da domani si ricominciava, senza pietà, senza paura, senza aver cura di chi era più sfortunato. Gli occhi di ghiaccio sarebbero rimasti com’erano: severi, freddi, distaccati, cattivi. Sarebbe tornato ad essere il ragazzo iroso che era di solito.
Ma la morsa della fame quel giorno si era attenuata un po’.
Lui credeva che fosse causata dall’ira che aveva dentro, dalla voglia di uccidere che cresceva senza fermarsi mai.

E invece tutta la fame che aveva Eric era solo fame di pietà in un corpo che divora come un lupo anche la più piccola traccia di umanità. 

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IL KACTUS DI KRZYZ

Eccoci qua, con il nuovo capitolo e con Eric, il cattivo più gettonato di tutto il fandom! :D
Come prima cosa ringrazio tutti i commenti, le seguite, le preferite e le ricordate, davvero, grazie mille dal profondo del cuore!
Chiedo scusa a tutti voi perchè temo di non essere stata abbastanza IC. Tuttavia ci tenevo a precisare che proprio non ci vedevo Eric come persona gentile e sensibile che ama tutto e tutti, per quello la storia ha un carattere relativamente più duro rispetto a tutte le altre.
Che ve ne pare? E, ora che il nostro amichetto è saltato fuori, chi sarà il prossimo?
Alla prossima settimana!
Saluti dal Kactus!

_Krzyz :) 
  
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