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Autore: Acinorev    31/07/2015    2 recensioni
"«Smettila», le ordinò, prima di lasciarle finire la frase: c'era verità, nelle sue parole, ma una verità che non si applicava a tutti gli inglesi. Non a lui.
«La sua pelle è bianca come i palmi delle tue mani e dei tuoi piedi, Ryma: ha il colore delle mani con cui ti procuri da vivere e dei piedi con cui cammini fino al Dio che ami tanto pregare. E la tua? La tua pelle è del colore della terra che lo nutre, mentre resta qui a fingersi padrone del mondo. Dovrebbe vergognarsi anche solo di posare gli occhi su di te. Tu dovresti vergognarti di posare gli occhi su di lui»."
Temporaneamente sospesa
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Hola!
Una sola precisazione prima di lasciarvi alla lettura: il consumo di colla tra i bambini/ragazzi di strada è davvero molto diffuso. La colla viene
spesso comprata dai calzolai, costa poco e quindi è facilmente accessibile a tutti. Vieni sniffata tramite un fazzoletto su naso/bocca e spesso viene comprata in grandi quantità per realizzare dei veri e propri commerci tra ragazzi di strada, con spacciatori e clienti. Viene consumata per stordirsi o per affrontare meglio la vita di strada, ma anche per commettere crimini più facilmente. È facile camminare per strada e vedere ragazzi drogarsi, soprattutto a Nairobi.
 

 

Capitolo sei
Cosa ci vuole?

 

Tifah sta sfregando energicamente la maglietta tra le sue mani, cercando di lavare via una macchia non meglio definita che ha rovinato il tessuto, quando qualcuno le va a sbattere contro.
«Hey!» esclama infastidita, voltandosi per controllare chi sia il colpevole e massaggiandosi la gamba che ha assorbito il colpo. Non vede nessuno, ma sente dei rumori ai propri piedi.
Corruga la fronte, stranita, e si piega sulle ginocchia per controllare al di sotto dei lavandini in pietra cocente: quello che ha di fronte è un fagotto singhiozzante ricoperto di vestiti larghi e ancora in buono stato, rannicchiato con la testa nascosta tra le gambe.
«Si può sapere che cosa stai facendo qui sotto?» chiede, assumendo un’espressione incredula.
Non ottiene nessuna risposta, solo un gemito più forte.
«Fa’ come vuoi», borbotta, rialzandosi in piedi e tornando al proprio lavoro: non è riuscita a riconoscere il ragazzino, ma data la sua stazza, deve essere uno dei più piccoli. Già questo è abbastanza per scoraggiarla nel portare avanti la sua opera di bene giornaliera: non ne vuole sapere di bambini piagnucolanti.
Restare con le mani immerse nell’acqua fresca è rigenerante, anche se la giornata non è particolarmente afosa: nonostante la sua pigrizia, è un buon incentivo per sbrigare le ultime faccende domestiche che le impediscono di fare qualcosa per sé. Anche se qualcuno glielo vuole impedire.
Il bambino, infatti, tira su con il naso ed inizia a parlare di sua spontanea volontà. «Mi prendono in giro», dice in swahili, masticando le parole e lamentandosi come un piccolo brontolone.
Per un solo istante Tifah è tentata di abbassarsi nuovamente alla sua altezza, ma poi immagina il suo viso umido e gli occhi arrossati dal pianto ed il naso sporco e no. Semplicemente no. Non se ne parla. «Chi?» domanda, sbirciando il dormitorio maschile che sta a pochi metri dai lavandini e dai bagni. Può già indovinare che i responsabili siano i ragazzetti riuniti accanto ad una delle porte, che indicano nella sua direzione e sghignazzano tra di loro.
«Gli altri bambini», è la risposta.
«E per cosa ti prendono in giro?» Non che le importi più di tanto, ma non amare particolarmente gli esseri umani al di sotto di una certa età non vuol dire essere completamente insensibile alle loro altrettanto piccole sventure.
Quella domanda si dimostra sbagliata nel momento in cui scatena un nuovo pianto, più forte e fastidioso del precedente, che se non era terminato si era almeno affievolito. Tifah alza gli occhi al cielo e sospira, lasciando la maglia nel lavandino ed appoggiando una mano sul proprio fianco con fare impaziente. «Senti, smettila subito di piangere, hai capito?» gli intima senza troppi rimorsi. Anche se agli occhi di molti il suo atteggiamento in queste circostanze è troppo duro, lei può confermare che non causerà alcun danno: nessuno ha mai asciugato il viso a lei, quando da piccola piangeva per qualcosa, eppure eccola lì, ancora viva e vegeta.
Il bambino la ignora per un paio di minuti, continuando a sfogarsi e mettendo a dura prova la sua pazienza: Tifah è davvero tentata di invitarlo ad andare a frignare da un’altra parte, quando lui si decide a parlare con il respiro interrotto da singulti più radi. «Ho fatto la pipì nel letto», confessa tutto d’un fiato.
Lei alza un sopracciglio, sbuffa di nuovo. «Esci da lì, muoviti», lo sprona gentilmente.
«No!»
Da dove ha tirato fuori tutta questa decisione, il moccioso? si chiede Tifah.
«Esci da lì, ho detto», ripete più fermamente, piegandosi per afferrare il bambino da un braccio e tirarlo via dal suo nascondiglio. Trova una debole resistenza, ma riesce nel suo intento.
«Bahati?» esclama stranita, subito dopo: non l’aveva affatto riconosciuto.
Bahati si nasconde il viso con le mani sporche di terra, si stringe nelle spalle come per eclissarsi e sparire dalla sua vista, probabilmente anche dal suo giudizio. Sembra che stia per ricominciare a piangere.
«Non ti azzardare», lo ammonisce, puntandogli un dito contro. «Non ricominciare a piangere».
Bahati la guarda con gli occhi lucidi, increspando le labbra per non cedere. È buffo, così impegnato a combattere contro i propri istinti, ma Tifah si trattiene dal ridere.
«Ascolta», sospira lei, massaggiandosi la fronte, «appena succede qualcosa, non puoi scappare via e metterti a frignare sotto un lavandino. Che razza di bambino sei?»
«Ma-»
«Devi reagire! Devi imparare a difenderti», lo interrompe, troppo concentrata su quel discorso d’incoraggiamento. «Se ti prendono in giro, tu fai lo stesso con loro. E se ti picchiano, perché lo faranno, tu devi picchiarli a tua volta!»
«Ma Kibet mi ha detto che non-che non bisogna picchiare gli altri bambini», balbetta il piccolo Bahati, perplesso ed intimorito dai consigli appena ricevuti.
«E chi sarebbe questa Kibet?» domanda Tifah, confusa.
«Lei cucinava dove ero prima».
«Be’, evidentemente Kibet non è mai stata qui da noi, oppure ti avrebbe detto qualcosa di diverso», ribatte prontamente: all’interno del Kenyatta Centre ci sono regole ben precise riguardanti la sopravvivenza. Come nel Kenya più selvaggio, o mangi o vieni mangiato.
Bahati non risponde, abbassa lo sguardo e si mostra pensieroso: probabilmente sta decidendo se cambiare o meno gli insegnamenti ormai consolidati. Tifah ne approfitta per rincarare il concetto: dopo aver chiesto al piccolo chi tra quei ragazzi sia il principale responsabile dell’accaduto, chiama ad alta voce Mustafa ed aspetta che sia abbastanza vicino.
«Di’ un po’», lo apostrofa, mettendosi le mani sui fianchi e lasciando che Bahati si nasconda dietro le sue gambe. Poi ci ripensa, si scosta. «Ti diverti tanto a fare lo sbruffone? Devo ricordarti che pisci a letto più o meno ogni notte? O credi che nessuno ti veda, di mattina, quando metti il materasso ad asciugare al sole?» Diversi ragazzi tra i più giovani hanno quel vizio: una delle Mamme una volta le ha spiegato che dipende dal fatto di essere stati abbandonati o qualcosa del genere.
Mustafa la guarda indispettito, non osa ribattere con troppa veemenza. «Tu non c’entri niente», le risponde imbronciandosi.
«E questo dovrebbe cambiare il fatto che tu sia un idiota?» domanda retoricamente, con fare quasi annoiato. «Vattene via, avanti», lo caccia. «E piantala di infastidire gli altri».
Il ragazzo le rivolge una smorfia, muove le labbra in silenzio come se la stesse maledicendo o insultando, o entrambe le cose nello stesso momento, ma la sua reazione non si spinge oltre: sicuramente ha troppa paura di scatenare l’ira di Tifah, cosa che la lusinga. Gli sorride soddisfatta, con aria di superiorità, e gli dà le spalle per tornare a lavare la sua maglia.
Bahati le ronza ancora intorno, le si aggrappa ai pantaloni e tira su con il naso. Lei corruga la fronte ed abbassa lo sguardo su di lui: «La smetti di starmi appiccicato?» lo rimprovera debolmente, senza risultati. «Agosto sta finendo, goditi gli ultimi giorni prima della scuola: vai a giocare, su».
Lui scuote il capo e le sorride timidamente: sul suo viso infantile si dipinge qualcosa di simile a gratitudine ed ammirazione. Tifah ne è quasi terrorizzata: piccolo essere approfittatore e ruffiano.
«Vieni a giocare con me?» le chiede Bahati, alzandosi sulle punte ed insistendo con lo sguardo.
Tifah ride appena. «No», risponde semplicemente. «Solomon dov’è? Chiedi a lui».
Il bambino si rattrista appena, lascia la presa dai suoi pantaloni e si imbroncia. «Solomon è andato a cercare il suo fratellino. Non ha voluto nessuno con lui... Nemmeno me».
«Cosa?!»
Quel dannato stupido.
Non ha bisogno di decidere cosa fare, sta già camminando a passo svelto verso il dormitorio, ignorando Bahati che la segue per pochi metri richiamandola ed arrendendosi subito dopo.
Peter è sgattaiolato in città alle prime ore del mattino, per poter svolgere tutti i lavori per i quali verrà pagato meno di ciò che merita, e probabilmente tornerà dopo cena. Ryma si comporta in modo strano da quando quel soldato si è presentato al Kenyatta Centre, quindi ormai da tre giorni, e la tensione è sfociata in piccole discussioni che hanno portato Tifah ad irrigidirsi ed insospettirsi: è troppo abituata ad avere quello che vuole e subito, quindi non può che sentirsi indispettita dalla distanza e dal silenzio della sua amica.
Dato che i suoi due amici non sono disponibili e dato che preferirebbe tagliarsi una mano piuttosto che fidarsi di qualcun altro, non le importa se sarebbe meglio farsi accompagnare da qualcuno: esce di nascosto e si mette alla ricerca di Solomon.
 
 
 
Ha setacciato diversi angoli della città senza grandi risultati: alcuni sembrano aver intravisto Solomon o qualcuno che gli somiglia, ma nessuno è riuscito a darle informazioni precise. Tifah è piuttosto nervosa, non per la stanchezza, ma per la preoccupazione: non manca molto al tramonto e lei non può e non vuole restare fuori casa con il buio pesto della notte keniota: è poco raccomandabile, poco sicuro e spaventoso persino per lei. Deve assolutamente trovare Solomon prima delle sei e mezza.
La rabbia nei confronti di Kelvin cresce ad ogni passo che compie, ad ogni ragazzo trasandato al quale è costretta a chiedere informazioni: non riesce a credere che lui, fortunato ad avere un posto in cui stare ed una persona che patirebbe le pene dell’inferno solo per vederlo stare bene, sia tanto stupido da rovinarsi la vita in compagnia dei ragazzi di strada, tanto stupido da stordirsi con la colla e combinare chissà cosa chissà dove. È egoista nella sua apparente disperazione, non si rende conto delle ripercussioni che le sue azioni hanno su chi gli sta intorno. Soprattutto su Solomon.
Quando arriva al centro commerciale di Nayuri, l’unico che lei abbia mai visto in tutta la sua vita e l’unico esistente nel raggio di centinaia di chilometri, il cielo si sta scurendo e lei è sempre più impaziente: in un angolo del parcheggio, tra automobili sulle quali non è mai salita, intravede un gruppo di ragazzi che parlotta tra di loro. Non riesce a vedere bene, sono troppi e sembrano tutti uguali a quella distanza, per cui si avvicina lentamente, continuando a guardarsi intorno.
Sente qualcuno litigare, si volta alla propria sinistra e si ferma ad osservare un ragazzino rannicchiato a terra: è nella stessa posizione di Bahati, sotto quel lavandino, e per un istante le due immagini si sovrappongono. Ma il viso del piccolo Bahati non era così sporco, né il suo naso era grondante di sangue, probabilmente a causa di un colpo appena ricevuto. Tifah stringe i pugni, serra la mascella e cerca qualcuno che possa fare qualcosa, ma trova solo la solita indifferenza schiva che caratterizza la città. La verità è che nessuno aiuterebbe un ragazzo di strada, nessuno lo porterebbe in ospedale e pagherebbe le spese mediche. Ciò che è peggio è che non lo farebbe nemmeno lei.
«Levami le mani di dosso!» sente esclamare a denti stretti. Riconosce la voce di Solomon, anche se preferirebbe sbagliarsi.
Tifah scatta in avanti e non esita a raggiungere il gruppo di ragazzi verso il quale si stava già dirigendo: scorge Solomon con la schiena premuta contro la recinzione metallica del parcheggio, qualcuno che lo tiene fermo con l’avambraccio che gli soffoca il collo. «Hey!» urla Tifah, inconsapevolmente: è coraggiosa sì, ma questa volta si pente di aver parlato troppo presto.
Il suo intervento, però, non provoca grandi reazioni: i più la ignorano completamente, alcuni sorridono tra loro per la sua sola presenza spavalda, qualcuno è troppo concentrato a tenere il fazzoletto di colla contro la propria bocca per badare a lei. Solomon la guarda furioso.
«Vattene di qui, idiota!» la rimprovera, con un labbro gonfio e spaccato. Cerca di liberarsi dalla presa del suo aggressore, mentre lui è distratto da Tifah: la sta osservando con un sopracciglio alzato, forse è indeciso se considerarla o meno. Evidentemente Solomon ha una maggiore attrattiva, perché gli riserva un pugno nello stomaco e lo schiaccia ancora di più contro la recinzione.
«A me non frega un cazzo di dove sia il tuo fratellino: se anche l’avessi visto non te lo direi, a meno che tu non abbia dei soldi con cui convincermi», gli dice a poca distanza del suo volto: gli sorride beffardo, con quel viso ancora giovane che probabilmente nasconde più anni di quelli che mostra. Tifah si avvicina ancora, meccanicamente, e le viene da vomitare per quella scena, per l’impotenza e la paura. «L’unica cosa che voglio sono i soldi che quella merda di Kelvin mi deve», ricomincia lui, assottigliando la voce e muovendosi minaccioso. «Lui può anche marcire all’inferno per quanto mi riguarda».
Solomon si agita, scalcia per allontanarlo, ma prima che possa rispondere, Tifah si stupisce di sentire la propria voce. «Non possiamo trovare Kelvin, se non lo lasci andare. E se non troviamo Kelvin non possiamo convincerlo a pagarti».
«Tifah!» urla Solomon, contrariato.
Il ragazzo allenta la presa, lo lascia respirare appena un po’ di più, e si volta per guardare ancora una volta quell’intrusa sfrontata. Le sorride, viscido e sporco, in ogni modo in cui potrebbe esserlo una persona. «Forse non hai capito, carina. Non mi interessa che sia Kelvin a darmeli: sono sicuro che il suo dolce fratellone non avrà problemi a parargli il culo ancora una volta. A me servono quei soldi. E mi servono subito».
Tifah deglutisce a vuoto, alza il mento e prende un respiro profondo. «Devi comunque lasciarlo andare: per darti i soldi deve andare a prenderli», dice banalmente. Ci sono cose, persone, possibilità, sguardi, che spaventano anche lei: le tremano le gambe anche se sta continuando a parlare, anche se sta resistendo alla tentazione di allontanarsi immediatamente da lì.
La sua osservazione sembra infastidire il ragazzo ad un paio di metri da lei. «Credi che non lo sappia?» le domanda infastidito, sull’orlo della provocazione.
Solomon approfitta del momento e riesce a scrollarselo di dosso, ma non lo colpisce, non ricambia i colpi ricevuti: evidentemente sa alla perfezione i rischi che corre e non vuole peggiorare le cose. L’altro, d’altronde, non cerca di fermarlo: lo guarda con tranquillità, come se sapesse la posizione di vantaggio nella quale si trova.
«Andiamo, muoviti», le intima Solomon, sputando a terra della saliva sporca di sangue ed afferrandola bruscamente per un braccio. «Razza di stupida», le ringhia all’orecchio, mentre la costringe a seguirlo. Lei non si ribella, non si divincola: si sente stordita.
«Ricordati i miei soldi!» urla quel ragazzo dietro di loro, prima di ricominciare a parlare con i suoi compagni.
Entrambi lo ignorano, accelerando il passo.
«Si può sapere che diavolo stai facendo qui?!» esclama Solomon, in preda alla rabbia e probabilmente all’adrenalina. La presa sul suo braccio è rigida, ma la sua mano sta tremando impercettibilmente.
«Io?!» si riscuote Tifah, liberandosi dalla sua stretta. «Tu, piuttosto! Venire a cercare Kelvin da solo! Sei impazzito?!»
«Invece tu sei stata più furba?!» urla sul ciglio della strada, gesticolando. «Cosa ti sei messa in testa di fare? Quel tipo avrebbe potuto prendersela anche con te!»
«Ma non l’ha fatto! E tu ora non sei più appeso ad una ringhiera!»
Solomon è sbigottito, non crede alle proprie orecchie: ha perso la calma che lo caratterizza, ha lasciato spazio a qualcos’altro di sé, qualcosa che solo Tifah e pochi altri conoscono. «Pensi di avermi salvato!? Il tuo intervento è stato solo stupido!»
«Non mi importa cosa sia successo, l’importante è che tu non sia più lì a prenderti pugni nello stomaco!» ribatte, respirando velocemente. In fondo Solomon ha ragione, è stata un’incosciente, ma ci sono prezzi che Tifah è disposta a pagare quando è necessario.
Lui si passa le mani sul capo, chiude gli occhi ed inspira a fondo: sta cercando di trattenersi dal rimproverarla ancora, dal litigare. I passanti guardano con sospetto il suo viso emaciato.
Tifah gli afferra il mento delicatamente, gli alza il volto per poter prendere coscienza dei reali danni: ha lo stomaco accartocciato mentre studia il sopracciglio rotto ed i lividi sulla pelle scura, la bocca gonfia. «Guarda come ti ha combinato…» mormora in un sospiro.
Solomon distoglie lo sguardo dal suo, evita il suo tocco, ma le sposta la mano stringendogliela appena, come in un muto ringraziamento.
«Hai già cercato ovunque?» chiede Tifah dopo diversi secondi, seria. Non sa se sperare in una risposta positiva: da una parte vorrebbe che Kelvin fosse scomparso dalla faccia della Terra, dall’altra spera che Solomon possa trovare sollievo almeno per una volta.
«No, devo controllare ancora un posto», sospira lui, serrando la mascella.
 
Il carcere non è altro che un edificio maltrattato ed istituito proprio accanto alla centrale della polizia locale, dietro la quale si sollevano tre palazzi che fungono da abitazione per alcuni degli impiegati. L’intera struttura è leggermente fuori città, illuminata da lampioni alti e radi: ormai il sole è tramontato, Tifah cammina più vicina a Solomon.
L’entrata del complesso è presidiata da guardie armate, come quelle che pattugliano in abbondanza l’intera città, ed una di loro chiede a Solomon cosa facciano in quel posto, imbracciando meglio il fucile.
«Non ho notizie di mio fratello da un po’ di tempo», risponde lui, compostamente. «Vorrei sapere se è stato arrestato».
È la possibilità che più lo spaventa, che lo fa irrigidire ad ogni respiro che prende: sarebbe molto meglio trovare Kelvin in strada, nascosto in un vicolo malfamato, piuttosto che in una cella sopraffollata, vittima di percosse e su una via incerta del destino. È normale essere arrestati a Nayuri, anche senza una motivazione, ed è normale fungere da sfogo per le frustrazioni delle guardie o degli altri detenuti, nell’attesa di uscire grazie all’intervento di qualcuno.
«Torna durante gli orari di visita», replica il poliziotto, spostando lo sguardo fisso di fronte a sé. Sembra una statua.
La voce di Solomon si altera. «Non voglio vederlo, voglio solo sapere se è qui».
L’altro lo osserva con un sopracciglio sollevato, sospettoso nella sua divisa scura. «Entrate», dice dopo qualche secondo. «Chiedete a quell’uomo laggiù e poi sparite».
Tifah si lascia scappare un respiro di sollievo e segue Solomon, che cammina con fermezza verso il punto indicato: è il portone d’entrata del carcere, controllato da una guardia seduta su una sedia lì accanto.
«Cazzo…» borbotta Solomon, rallentando il passo per un solo istante.
«Cosa c’è?» domanda lei, allarmata.
«Quello mi odia», confessa sospirando, ma senza abbassare lo sguardo turbato. «E odia ancora di più Kelvin».
«Perché? Cosa c’entri tu?»
«Arrivo sempre in tempo e lui non riesce mai ad arrestarlo», sussurra.
Tifah scuote il capo: non è un buon presupposto.
«Sei venuto a costituirti?» esclama la guardia, ridendo profondamente ed accogliendo un Solomon infastidito. Si alza in piedi, altissimo, e sorride di un sorriso sorto e rozzo: il fucile ben fermo nelle sue mani grandi. Tifah odia il modo di porsi della polizia locale: l’avere un’arma sembra alimentare la loro consapevolezza, li fomenta oltre ogni decenza.
«Ho bisogno di un’informazione: all’entrata mi hanno detto di chiedere a te», spiega Solomon, meno diretto rispetto a poco prima. Sembra girare intorno al reale succo della questione e probabilmente perché prevede la reazione che otterrà.
«Davvero?» domanda lui, beffardo. «Cosa vuoi?»
Tifah stringe i pugni, irritata dalla sua sfrontatezza: se non fosse a rischio, attaccherebbe fino a spezzare il suo ego in minuscoli frammenti.
«H-»
«Ah, aspetta».
La guarda interrompe Solomon, facendo un passo avanti e mostrando un viso rilassato, ma provocatorio. «Scommetto che si tratta di tuo fratello».
Tra di loro si insinua il silenzio, frutto di diverse emozioni.
«È qui?» chiede Solomon in un sussurro.
L’altro sorride nuovamente. «Certo che è qui», afferma con orgoglio. «Pensavi davvero che sarebbe riuscito a scappare per sempre?»
Tifah non sa se essere sollevata dalla notizia: ci sono troppi vantaggi e svantaggi da considerare, troppe variabili che la sua logica si rifiuta di analizzare sul momento. E probabilmente anche Solomon è in preda alla sua stessa confusione, ancora più accentuata, perché è rallentato in qualsiasi risposta: sembra persino che abbia smesso di respirare.
Vorrebbe prendere la mano di Solomon e stringerla forte, ma non lo fa. Lo guarda.
«Cosa ha fatto?» domanda piano lui.
«Stavolta niente», ride il poliziotto: la conversazione lo diverte, è evidente. «Ma sai, per tutte le cazzate che ha combinato e che tu l’hai aiutato a nascondere, non appena l’ho visto non ho saputo resistere: si merita di restare al fresco per un bel po’ e si merita pure lo schifo che si sta beccando là dentro. I suoi compagni di cella non sono molto affabili».
Tifah assume un’espressione disgustata, incredula, e vorrebbe urlare il proprio rancore: a prescindere dal suo cattivo rapporto con Kelvin, non riesce a concepire simili ingiustizie. Vorrebbe cancellarle dalla propria vita, e aver trovato un colpevole al quale attribuirle non la soddisfa a sufficienza: può disprezzare gli inglesi fino a farne lo scopo della sua vita, può incolparli della povertà straziante e dei modi ignobili di affrontarla che sono nati, dell’aumento della criminalità che è diventata ingestibile, ma non è mai abbastanza.
«Vorresti che lo rilasciassi?» domanda la guardia, assottigliando lo sguardo, come un predatore che attira la sua preda con l’inganno.
Solomon inasprisce la propria espressione, non risponde.
Lo fa Tifah, con il sangue a ribollire per l’indignazione, per la rabbia cieca. «Quanto vuoi?»
Lui la osserva compiaciuto, felice che si siano intesi così in fretta.

 


Et voilà!
Allooooora, innanzitutto scusate per il ritardo, ma ho avuto un po' da fare! Passando al capitolo:
- piccola scena tra Bahati e Tifah, che con i bambini fa piuttosto pena hahah Secondo voi le cose cambieranno? A Bahati Tifah inizia a piacere! Ah, forse avevo già parlato del "vizio" dei bambini di fare la pipì a letto: succede spesso, anche superata una certa età, principalmente a causa delle condizioni in cui crescono. Di mattina portano fuori i materassi e li lasciano asciugare: raramente li lavano, ahimé;
- Solomon è andato a cercare Kelvin, dopo aver aspettato altri tre giorni, ma Tifah non ne è molto felice, così si avventura da sola. So che fino ad ora si è dimostrata molto forte, combattiva e decisa, ma come avrete visto, in questo capitolo il suo coraggio si è un po' affievolito: ci sono cose che nemmeno lei sa affrontare bene, e i pericoli derivanti dai ragazzi di strada sono un esempio. La scena del ragazzino a terra con il viso insanguinato è reale, nel senso che è successo a me durante una passeggiata in città: non so cosa sia accaduto effettivamente, ma il bambino aveva sicuramente il naso rotto, anche se ha rifiutato qualsiasi aiuto ed è scappato via. Una scena piuttosto triste. Anche l'indifferenza delle persone è vera: diciamo che c'è un rapporto piuttosto teso tra la popolazione ed i bambini di strada, ma ne riparlerò nella storia.
Kelvin ha anche dei debiti, oltre ad avere uno stile di vita discutibile, e Solomon ne va di mezzo: ho sottolineato anche il fatto che Solomon ha più volte tirato il fratello fuori dai guai, sia con i ragazzi di strada, sia con la polizia;
- avevo già parlato in un altro capitolo della polizia locale e della sua corruzione, del fatto che gli arresti sono quasi all'ordine del giorno e che spesso non c'è nemmeno bisogno di commettere un crimine per finire in galera. Pagare è il modo più semplice per uscire subito, a volte l'unico modo. Mi dispiace molto che la situazione sia questa, la polizia non è affatto rassicurante e la sua corruzione è disgustosa: persino per un crimine non si svolgono indagini se qualcuno non paga.
In questo caso Kelvin non ha fatto nulla, sul momento, ma indirettamente si sa che ha commesso diverse cavolate, che però non ha mai pagato. Incontrare proprio il poliziotto che ti vuole mettere in galera dal primo giorno non è esattamente fortuna. In più, all'interno delle celle la situazione è quella che si può immaginare.
La guardia chiederà una somma di denaro accettabile? Solomon se la potrà permettere? Aiuterà il fratello ad uscire di prigione oppure no?
- ho nominato di nuovo l'odio di Tifah nei confronti degli inglesi: nella presentazione del prologo ho cercato di illustrare un po' la situazione ed il rapporto consequenziale tra la colonizzazione inglese e l'economia keniota, che non riesce a soddisfare certi standard finendo per schiacciare i più poveri. Ma si riparlerà anche di questo.
- PS. Ryan non si è fatto più vedere, Ryma sembra in crisi e lei e Tifah si sono un po' allontanate: secondo voi?
Insomma, direi che ho detto abbastanza, ma come sempre potete chiedermi qualsiasi cosa: sarò felice di rispondere e chiarire eventuali dubbi :) Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere le vostre impressioni! Giuro che ci saranno capitoli anche meno tesi ahahha 
Grazie per aver letto!! Buona giornata :)


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Veronica.

 
 
  
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