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Autore: _ A r i a    03/08/2015    7 recensioni
{Storia ad OC | Iscrizioni chiuse} {Percy Jackson!AU}
La vista dall'alto era a dir poco sorprendente:da quella quota qualsiasi palazzo, perfino quelli più alti, che da terra sembravano a dir poco immensi, ora non erano ridotti a nient'altro che piccoli punti indistinti.
A Kidou piaceva quella prospettiva, lo faceva sentire così insignificante, proprio come si sentiva sempre, certo, solo che non del tutto:da lì ci si rendeva veramente conto delle dimensioni ed era lì che si comprendeva che non c'era poi molta differenza tra un ragazzo ed un grattacielo.
Entrambi sono soggetti allo scorrere del tempo, entrambi, prima o poi, crolleranno.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Si ringrazia rie (endorphin) per il banner~


Lo Scettro della Notte


“Sono le cose che amiamo di più a distruggerci”
[Hunger Games:Il Canto della Rivolta - Parte 1]

Il respiro che si chiude in gola.

Un brivido che corre lungo la schiena.

Il cuore che, sebbene tu non riesca a spiegarti perché,smette per un momento di battere, per poi accelerare di colpo nell’arco di un paio di secondi.

Una sensazione familiare, il panico.

Certo, non lo provavo da due anni a questa parte, diciamo però che nel corso del tempo ho avuto modo di averci a che fare.

Mi pare il minimo.

Lo so, sembra un paradosso.

Io dovrei essere quello imperscrutabile, impassibile, nulla dovrebbe essere in grado di turbarmi.

La situazione mi fa quasi ridere per quanto sfiori l’assurdo:incredibile che io riesca a perdere la mia abituale calma solo quando c’è di mezzo chi, in fin dei conti, mi ha insegnato ad assumere tale atteggiamento di ragionata pacatezza, quella salda freddezza di nervi, talvolta così intensa da poter sembrare quasi cinismo, necessaria per poter analizzare fin nel minimo dettaglio pure i momenti di maggiore criticità.

Però non rido. Ci mancherebbe altro.

Perché, per quanto ridicolo possa sembrare tutto ciò –perché sì, è inutile, checché se ne dica questo esatto frangente è semplicemente ridicolo- sento, inevitabilmente, qualcosa che si spezza dentro di me.

Crack.

Non è un’immensa parete come mi sarei immaginato, visto che fino ad ora credevo di essermi rifugiato dietro di essa, pur di sfuggire alla dura verità della realtà.

No, è qualcos’altro, qualcosa di più fine, di più sottile.

Vetro.

Di colpo mi torna in mente un ricordo lontano, sfocato, che credevo di aver definitivamente relegato nel profondo della mia memoria.

Invece no, prepotentemente sembra voler tornare a galla, fare a pugni con la mia stessa coscienza pur di avere la meglio.

Così eccolo qui, proprio davanti ai miei occhi, un bimbo di sei anni che vede un vaso di cristallo cadere dal davanzale ed infrangersi in mille pezzi, a terra.

Non avrebbe dovuto lasciare la finestra aperta, si riprende. Avrebbe dovuto pensarci prima:una folata di vento sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento e buttare giù quel vaso.

Ricordavo fin troppo bene il rumore che il vaso aveva provocato, schiantandosi sul pavimento.

Crack.

Un rumore fin troppo familiare, ripensandoci.

Il rumore di qualcosa che va in frantumi, di nuovo, ancora una volta, l’ennesima ad essere sinceri.

La consapevolezza che ormai quel che è stato fatto è fatto, che non si può più evitare il danno, l’impatto … la distruzione.

È così che, ancora una volta, la mia vita andava in frantumi.

Con quel semplice, insulso ed inutile crack.

Due anni, due anni buttati al vento.

Due anni passati a cercare di andare avanti nonostante tutto, di farsene una ragione.

Nonostante quanto facesse male, sopportando tutta quella sofferenza, evitando di pensare a quanto fosse orribile tutto ciò che ti circondava.

Tutto inutile.

Il vetro s’era infranto un’altra volta, ne ero certo.


Eppure, fui il primo a voltarmi.

Avevo bisogno di conferme o forse solamente di sapere.

Fu una realtà spiazzante e tutta nuova quella che mi ritrovai davanti.

Tuttavia, in qualche modo, era quasi confortante.

Sapere che, in qualche modo che non riuscivo a spiegarmi, ci fosse rimedio a qualcosa di tanto definitivo.

La morte.

Un timido sorriso fece per affacciarsi sul mio volto ma lo respinsi prontamente indietro.

Prima le risposte, ricordai a me stesso.

Era bello. Averlo di nuovo lì, intendo.

Stranamente confortante, a volerla dire tutta.

Mi rivolse uno sguardo incuriosito, addirittura quasi sorpreso, un’espressione vagamente divertita in volto.

Come biasimarlo, in fondo?

Kageyama Reiji era tornato.


Nessuno degli altri si era ancora voltato.

Il che era semplicemente assurdo, anche perché ero assolutamente certo che, perlomeno per quanto riguardava i miei compagni, conoscessero bene quanto me la sua voce.

Le loro ragazze … ne dubito.

Quel fastidioso sciame di api ci ronzava intorno da quando avevamo cominciato il liceo.

Dopotutto, essendo i giocatori che avevano vinto il prestigioso Football Frontier International, intorno a noi si era creata una sorta di cerchia di ammiratrici.

Alquanto asfissianti, per la verità.

Uno dei pochi che era riuscito a non cadere in quel vortice di adulazione, in effetti, ero stato proprio io.

L’altro era Shirou.

Sfortunatamente, la lista non era poi tanto lunga.

Lui come scusa aveva il fatto di avere un carattere schivo, che generalmente lo portava ad evitare complimenti o smancerie d’altro genere.

Io, invece, avevo cercato di mostrarmi sempre distaccato, impegnato a pensare a tutt’altro.

Generalmente usavo la scusa dell’essere troppo preso dalle questioni della squadra per pensare a faccende tanto futili come l’amore.

Ma la verità, lo sapevo bene, era ben diversa.

In quei due anni non avevo cercato di far altro che farmene una ragione, capacitarmi di una morte tanto improvvisa.

A quanto pareva, non ci ero riuscito, non del tutto perlomeno.

O meglio, se quello era l’effetto che continuava ad avere su di me nonostante fosse passato tutto quel tempo, allora ero abbastanza certo che i miei sforzi non avessero avuto la benché minima utilità.

Poi ci pensai e realizzai che, forse, se gli altri non si erano ancora voltati, era perché volevano dare del tempo, ad entrambi.

Ma che cosa carina, pensai, a metà tra il sorpreso ed il disgustato.

Decisi che, perlomeno, la mia squadra si meritava un ringraziamento degno di essere definito tale.

«Kageyama Reiji»sibilai, uno strano quanto spaventosamente familiare senso di perfidia che si avvolgeva intorno al mio cuore, sotto forma di volute di vapore.

«Direttamente dall’espresso Inferno – Tokyo solo andata»ironizzò lui, un sorriso beffardo sulle labbra.

Così dannatamente seducente …

Cielo, perché doveva sempre complicare tutto?

Non ci pensai due volte e cominciai ad avanzare minaccioso nella sua direzione.

«Tu»sbottai, lasciandomi trascinare dall’accesso di bile che d’improvviso aveva invaso il mio corpo.

Mi ritrovai di fronte a lui e per un breve –seppur fin troppo lungo- istante, avvertii il mio stomaco stringersi in una morsa d’acciaio, dopodiché puntai con rabbia e violenza l’indice contro il suo petto.

Lui arretrò di un passo, se spaventato o colto di sorpresa non saprei dirlo.

Continuai a puntargli quel dito contro ed a premerglielo sul petto ad ogni parola che pronunciavo.

Così eruppi con quel rimprovero, se lo si sarebbe potute definire tale.

«Razza. Di. Povero. Idiota. Come. Osi. Presentarti. Qui. Dopo. Due. Anni. Comparendo. Dal. Nulla?!» strepitai.

L’unico essere vivente presente su questo pianeta in grado di farmi venire una crisi isterica, già.

La cosa paradossale era che, nonostante stesse letteralmente camminando all’indietro a causa della mia ira, non stesse incespicando minimamente.

Mi fermai, perlomeno per riprendere fiato. Accidenti, non credevo che le mie emozioni potessero essere tanto intense e distruttive.

Alzai gli occhi, rendendomi conto che, durante tutta la mia sfuriata, non lo avevo guardato, nemmeno per un momento.

E rimasi non poco sorpreso nel notare quella sua espressione sorpresa e vagamente divertita.

In un momento avvertii qualsiasi tipo di forza o rancore abbandonare il mio corpo, al che mi chiesi se tutte quelle spiegazioni, così affannosamente inseguite in quei tormentati due anni, fossero davvero necessarie.

La cosa spiazzante è che non trovai risposta alcuna a quella domanda.

«Kidou»sussurrò, quella maledetta nota di sorpresa ora presente anche nella sua voce e non più solo sul suo volto.

E la razionalità andò a farsi benedire.

Invaso dai sensi di colpa per essere stato tanto sciocco, gli gettai le braccia al collo.

Potei solo che immaginare le espressioni sorprese sui volti delle persone alle mie spalle ma francamente in quel momento non me ne importava poi molto.

Il mio mondo aveva deciso di crollare ancora una volta ed io, in quel momento, avevo solo bisogno di un po’ di sostegno.

Lo sentii poggiare una mano alla base della mia schiena e sebbene arrossii fino alla punta delle orecchie -detestavo il contatto fisico, mi metteva in imbarazzo, perciò cercavo di evitarlo per quanto più mi fosse possibile- non lo rifiutai di certo, limitandomi ad affondare ancor di più il volto dalle gote imporporate contro la sua giacca, affinché nessuno notasse quel rossore.

«Ti odio»brontolai, seppur la mia voce tradisse tutta la mia emozione.

«Oh, mi sei mancato anche tu, Kidou»replicò lui, la voce leggermente divertita.

In quel momento ci sarebbero state così tante cose da dire ed al tempo stesso nessuno di noi due ne sentiva veramente il bisogno.

Forse perché qualunque parola sarebbe stata inutile per descrivere quel momento.

In fondo andava bene così.


Mi ero ormai rassegnato alla prospettiva di dover passare l’ora successiva –e forse pure la settimana a venire- a giustificare la mia reazione a quanto era appena avvenuto ai ragazza.

Mi sbagliavo pure quella volta.

Alle mie spalle avvertii una strana energia irradiarsi per tutto il campo.

Qualcosa, forse istinto di sopravvivenza, mi suggerì che sarebbe stato decisamente meglio non voltarsi, così mi limitai a stringermi ancor di più al corpo di Kageyama.

Lui, d’altra parte, aumentò la presa sulla mia schiena. Quasi potevo sentire le sue dita entrare nella mia carne, scivolare dentro di me.

Per quanto potesse fare impressione, era al contempo stesso anche abbastanza rassicurante.

L’energia sembrò scemare, così mi sistemai meglio col busto per poter voltare la testa in direzione del punto in cui l’avevo sentita generarsi.

E ci trovai una donna.

La cosa, stranamente, m’inquietò alquanto, forse soprattutto per il fatto che apparentemente non avevo motivo di ritrovarmi innervosito dalla presenza di una donna esattamente al centro del nostro campetto da calcio.

Se non per l’inquietante particolare dell’energia che avevo avvertito prima di voltarmi.

Che l’avesse generata lei?

Cominciai a rimettere insieme i tasselli, forse per abitudine o forse perché quel briciolo di razionalità che avevo perso quando avevo abbracciato Kageyama era tornata ad albergare nel mio corpo.

Degli strani simboli luminosi erano comparsi sulle teste di alcuni dei miei compagni e di alcune delle loro ragazze, un sole luminoso sopra Endou, un cinghiale su per il ciuffo punk di Fudou –non ci stava neanche poi tanto male-, delle fiamme tra i capelli di Gouenji.

Sobbalzai quando, lanciando uno sguardo verso l’alto, notai la presenza di una civetta azzurra sopra i miei dreadlocks.

Kageyama, avvertendo il mio movimento improvviso, mi strinse maggiormente a sé ed io ne approfittai per affondare ancor di più il volto nel suo petto, spaventato.

Ne riemersi poco dopo, avevo tutte le intenzioni di scoprire cosa stesse succedendo.

Ero convinto che tutto fosse legato a quella donna, apparsa dal nulla a centrocampo.

Lei lasciò correre lo sguardo su tutti noi. Quando scivolò su di me, mi concentrai al meglio per analizzarne ogni dettaglio.

Lunghi capelli neri, leggiadre vesti bianche.

Anche se, forse, ciò che mi colpì di più furono i suoi occhi.

Infatti, sul volto candido come neve, spiccavano le labbra rosse come petali di rosa, le lunghe ciglia nere e poi quegli occhi.

Scintillanti ed intensi come smeraldi.

Avevo già visto quegli occhi ma non riuscivo a capire dove.

Poi, come colto da un ricordo improvviso, la mia mente fu invasa dalle gocce di pioggia copiose del temporale del giorno precedente.

Allora ne ebbi la certezza.

Quegli stessi occhi verde smeraldo.

Phoebe Drake.

Lei, la nuova arrivata della Raimon, la giovane venuta dall’America, colei che mi aveva seguito fin in quel vicolo sperduto, nemmeno ventiquattr’ore prima.

Spostai il mio sguardo dalla parte opposta del campo, ricordandomi d’improvviso che la ragazza si era avvicinata a me, poco dopo la comparsa degli strani simboli luminosi e che era poi rimasta lì, proprio dove l’avevo lasciata, dopo che mi ero allontanato in direzione di Kageyama.

La vidi subito e compresi che anche lei doveva essersi resa conto che quella donna venuta da chissà dove aveva i suoi stessi occhi, vista l’espressione che aveva in volto, un misto tra stupore e terrore.     

Tornai a fissare la donna e le chiesi con voce –stranamente- insicura:«Chi sei?».

Mi rimproverai subito dopo per quanto stupida suonasse quella domanda.

Lei si voltò nuovamente a guardarmi, dopo che come me aveva concentrato la propria attenzione su Phoebe, quindi esordì:«Semidei!».

C’era qualcosa che continuava a non tornarmi:perché quella donna si stava rivolgendo ai ragazzi presenti sul campo chiamandoli “semidei”?

Una volta, per motivi di lavoro, avevo seguito il mio genitore adottivo in Europa. Una volta lì, avevamo soggiornato per varie settimane nelle diverse nazioni del continente.

Sarebbe anche potuta essere una vacanza, anche perché era estate, certo, peccato che mio padre fosse troppo impegnato dai suoi affari.

Quando arrivammo in Grecia, cercai di godermi al meglio possibile il luogo, cosa che feci, oltre che visitando le spiagge dalle acque cristalline ed incontaminate ed i vari siti archeologici delle vicinanze, leggendo un sacco di libri ed informandomi sulle leggende del posto.

Così, mentre mio padre era impegnato in una full-immersion nel suo lavoro, io passavo le mie giornate in compagnia di dei ed eroi e proprio leggendo di questi ultimi ero venuto a conoscenza dei cosiddetti semidei, uomini e donne nati dall’unione tra un dio ed un essere umano.

Generalmente avevano grandi poteri oppure erano dotati di una forza sovrumana, come Eracle, uno dei più famosi semidei.

Ciò tuttavia continuava a non spiegare perché quella donna si fosse rivolta ad un gruppo di giovani giapponesi come se si trovasse in presenza di eroi dell’antica Grecia.

D’improvviso i miei ragionamenti furono interrotti da una voce, che squarciò il silenzio che era calato sul campo.

«Scusi … com’è che ci ha chiamati?».

Non ebbi difficoltà a riconoscerne il proprietario:Endou, il mio capitano.

Per quanto sciocca potesse sembrare in un primo momento la sua domanda, non potevo che essergli grato per averla posta:dopotutto, non era anche ciò che mi chiedevo io?

La donna si voltò e per un momento pensai che avrebbe ignorato la domanda di Endou, proprio come aveva fatto con la mia d’altronde, invece, inaspettatamente, tornò ad indirizzare lo sguardo nella mia direzione e rispose ad entrambi.

«Il mio nome è Artemide e sono la dea della caccia, nonché rappresentazione della Luna»spiegò la donna «e sono qui perché ho una missione per voi. Giovani uomini e donne, vi sarà ormai chiaro che non siete come i vostri coetanei:voi siete diversi, speciali oserei dire. I simboli divini sopra le vostre teste ne sono la prova».

Cercai di fare mente locale, dunque osservai:«Le fiamme … sono il simbolo di Efesto. Il sole, invece, rappresenta Apollo, dio del sole, della medicina e protettore delle arti. Quanto al cinghiale … credo sia l’animale sacro di Ares. Devo averlo letto da qualche parte, un tempo …».

Sentii una ventina di paia d’occhi puntarsi su di me, così mi ritrovai di nuovo in imbarazzo.

Artemide sorrise affabile e commentò:«Credo che non dovrei esserne poi così stupita. Dopotutto, la civetta che è apparsa sopra la tua testa è un chiaro segno che tu sia figlio di Atena».

Mi resi conto di quanto potesse sembrare assurda la situazione, quindi domandai:«Ma com’è possibile? Voglio dire, la mitologia greca risale a circa tremila anni fa, come potremmo credere di essere figli di … dei?».

Vari mugolii di approvazione si levarono intorno a me e seppi di aver colto il nocciolo della questione.

Artemide mi guardò e sembrò quasi divertita mentre replicava:«Beh, credo che questo potrebbe spiegartelo anche il tuo amico».

Mi sentii nuovamente in imbarazzo quando mi resi conto che con “amico” Artemide si stava riferendo a Kageyama, anche perché il nostro rapporto era la cosa più lontana esistente dall’essere definita amicizia.

Mi voltai comunque verso di lui, che si limitò ad alzare le spalle con aria vaga mentre aggiungeva:«Ecco, non è così semplice da spiegare. Per quanto ridicolo possa sembrare, la divina Artemide ha ragione:la mitologia greca non sono solo favole inventate dagli antichi per spiegarsi fenomeni naturali o l’origine dell’universo, tutti eventi ai quali non sapevano dare una giustificazione. Io stesso ne sono venuto a conoscenza quando, in seguito all’incidente dopo il quale mi avete creduto morto, gli dei mi hanno salvato, risparmiandomi la vita».

Di colpo fui colto da un sospetto, qualcosa che avevo solo ipotizzato ma che ora aveva un senso ben diverso.

«Il temporale di ieri pomeriggio, dunque … non aveva origini naturali»valutai.

Lui sorrise ed ammise:«No, affatto. Sono stato io a generarlo».

Per un istante rimasi perfino sorpreso, poi pensai che stavamo parlando di Kageyama Reiji e che quindi cercare di dare un senso a quell’affermazione sarebbe stato tutto, fuorché logico.

A quel punto le mie parole e tutte le mie ipotesi ebbero finalmente un senso, così ripresi:«Ecco perché la pioggia non mi sfiorava … eri tu che non volevi che arrivasse al mio corpo! Solo … come diavolo è possibile che tu sia in grado di provocare un temporale?».

Lui sorrise ancora, dunque si voltò in direzione del cielo, stendendo il braccio in avanti, quasi proteso a toccare le nuvole.

Subito l’atmosfera sembrò incupirsi, grosse nubi bigie s’addensarono sopra di noi.

Un tuono rombò nell’aria, diffondendo quel rumore assordante per tutta l’area circostante.

I miei occhi tornarono a puntarsi su Kageyama, che mi sorrise comprensivo mentre concludeva:«Mio padre è Zeus, re del cielo e signore degli dei».

Un brivido mi corse lungo la schiena ed avvertii di nuovo l’odore di ozono che avevo percepito il pomeriggio precedente, poco prima dello scoppio del temporale.

Mi resi improvvisamente conto di essere tra le braccia di un uomo potente, incredibilmente, immensamente potente, volendo essere precisi.

Un tempo gli avrei attribuito l’aggettivo “potente” con tutto un altro significato, eppure adesso …

Marina, una ragazza che come me frequentava il terzo anno, domandò allora:«Divina Artemide. Lei ha parlato di una missione. Di cosa si tratta?».

La dea si voltò in direzione della ragazza che le si era rivolta, dunque rispose:«Oh, giovane Marina Sapphire, figlia di Atena anche tu … purtroppo ho delle spiacevoli notizie da darvi, semidei:qualcuno ha rubato lo scettro di Nyx, la dea della Notte. Nyx è una divinità primordiale, ben più antica e potente di noi dei dell’Olimpo ed il suo scettro è in grado di generare le tenebre eterne:se ciò accadesse, il mondo per come lo conosciamo non esisterebbe più e saremmo costretti a brancolare nell’oscurità per il resto dei nostri giorni. Se, come temiamo, lo scettro è caduto in mano a dei mostri o, peggio ancora, ad entità malvagie ben più potenti di questi, per chiunque, umani, semidei e dei sarebbe la rovina. Il vostro compito è quello di ritrovare lo scettro e riportarlo in salvo prima che sia troppo tardi».

Calò di nuovo il silenzio. Da come l’aveva descritta Artemide, la situazione era tutt’altro che rosea:un folle sembrava aver rubato un potentissimo scettro, in grado di gettare il mondo intero nelle tenebre senza fine.

La cosa peggiore era che, a quanto pareva, toccava a noi rischiare la vita per fare in modo di non passare il resto dei nostri giorni in una specie di cecità permanente.

Incredibile, com’è che ricevo sempre belle notizie?

Mi schiarii la voce, attirando l’attenzione di tutti i presenti su di me, dunque chiesi:«Divina Artemide, non vorrei sembrare insolente ma come può aspettarsi che una ventina di persone, che oltretutto hanno appreso neanche mezz’ora fa di essere discendenti di antiche e potenti divinità greche, possano recuperare un preziosissimo scettro, peraltro appartenente ad una dea, senza nemmeno sapere da che parte iniziare? Insomma, non ho mai ricevuto nessun genere di addestramento per questo, come può aspettarsi che sappia cosa fare in una situazione del genere, vale a dire totalmente estranea a me come del resto a chiunque su questo campo, senza contare poi il fatto che ci ritroveremo di fronte ad imprevisti di qualsiasi tipo che magari neanche sapremo spiegarci con nulla che possa aiutarci?».

La dea mi sorrise risoluta e commentò:«Oh, per quest’ultima parte credo proprio di potervi essere utile».

Artemide si esibì in un ampio gesto della mano ed in un battito di ciglia ognuno di noi aveva, tra le mani o fermata in vita, un’arma.

Notai subito la presenza di una cintura che mi fasciava i fianchi ed appesa ad essa si trovava l’elsa di puro argento di una spada, lunga all’incirca una novantina di centimetri.

Il fodero era di pelle nera lucente, adornata qua e là da delle borchie argentate.

Afferrai l’elsa ed estrassi cautamente l’arma, osservandola con estrema attenzione.

Dove l’impugnatura incontrava la lama, l’argento era di un nero brillante, mentre la parte tagliente del lungo strumento era d’acciaio lucente.

Nonostante sembrasse estremamente sofisticata, era oltremodo leggera e maneggevole.

Peccato che non avessi minimamente idea di come si utilizzasse:a volte si finisce per cadere nel banale cliché che i figli di uomini ricchi imparino fin da piccoli l’uso della spada giocando a scherma.

Non esiste niente di più errato.

Certo, mio padre adottivo era un ricco imprenditore, tuttavia mai aveva espresso il desiderio che mi fossero impartite lezioni di scherma.

Quindi, per quanto bella e preziosa potesse essere quell’arma –non ero poi stupido al punto di non riconoscerne il valore- non ero di certo in grado di maneggiarla.

La dea, come leggendomi nel pensiero, spiegò:«Essendo la dea protettrice della caccia, conosco bene l’utilizzo delle armi. Queste sono le più adatte in base a corporatura, forza e velocità, oltre a rispecchiare la vostra personalità. Sono abbastanza sicura che, ora come ora, pressoché nessuno di voi sappia come utilizzarle ma vedrete che, al momento opportuno, l’istinto di sopravvivenza avrà la meglio su di voi, così saprete quale sarà la cosa giusta da fare».

Rinfoderai la spada ed i miei occhi caddero su Phoebe, che era esattamente davanti a me, dalla parte opposta del campo:aveva ricevuto in dono dalla dea un arco e delle frecce.

Dubitavo che sapesse cosa farsene.

Artemide lasciò nuovamente correre il suo sguardo smeraldino su ciascuno di noi, quindi concluse:«L’ultima cosa che posso dirvi, semidei, è che dovete dirigervi verso meridione:lì troverete il vostro primo compito e se lo svolgerete correttamente, avrete un passaggio assicurato verso la vostra meta successiva».

La dea non aggiunse altro, eppure avevo già cominciato a ragionare sulle mie supposizioni. Meridione …

Artemide ora mi rivolgeva le spalle, gli occhi puntati sulla giovane davanti a sé.

«Phoebe Drake … avvicinati, cara»ordinò la dea.

A Phoebe non restò niente da fare se non assecondarla, una nota evidente di riverenza nei suoi movimenti.

Quando si ritrovò di fronte alla dea, a pochi passi da lei, questa stese il braccio in avanti, il palmo della mano rivolto verso l’alto.

Poco dopo, sopra la testa di Phoebe –sulla quale, fino a quel momento, non era apparso nulla- s’illuminò una luna piena, di un bianco perlaceo lucente, alcune candide e soffici nuvole a danzarle intorno.

Phoebe sussultò, terrorizzata.

La dea invece sorrise soddisfatta mentre annunciava:«La luna è il mio simbolo, un satellite che da migliaia di anni rischiara le notti buie sulla terra. In quanto mia figlia, Phoebe, sarà tuo dovere tenere alto il mio nome, così che si continui a venerarmi come un’appartenente di diritto al pantheon greco, formato dalle dodici divinità più potenti dell’antichità. Il tuo compito è arduo, figlia mia ma so per certo che non mi deluderai».

Detto ciò, la dea si tramutò in una cerva dorata e scomparve, dirigendosi verso dei boschi non molto distanti dietro il campetto di calcio.

Ed io rimasi lì, con una spada che non avevo la minima idea di come utilizzare, due dozzine di ragazzi e ragazze per metà dei armati di tutto punto ed un figlio della più potente divinità del mondo antico, che sarebbe dovuto essere morto e che invece, a quanto pareva non lo era affatto, in grado di generare tempeste e tornato direttamente dal regno degli Inferi.

Proprio una situazione normale, già.


* Angolo delle spiegazioni (?) *

Ed eccomi di nuovo qua, ragazzi!

Allora, anzitutto prima di venirmi a dire che ho messo una parte di capitolo al presente ed una al passato, lasciate che vi spieghi:la prima parte del capitolo, infatti, è molto generale, quasi vago oserei dire, giacché non ha una collocazione ben precisa all’interno della storia.

È più un momento “lirico” se così vogliamo definirlo, estemporaneo alle vicende della storia vera e propria –seppur non del tutto- ed ha la funzione di spiegare lo stato d’animo di Kidou in quel determinato momento.

A proposito, vi è piaciuto il capitolo sotto il suo POV? In teoria anche il prossimo dovrebbe essere scritto in prima persona da lui, quindi fatemi sapere! Ho pensato inoltre che, nei capitoli dal punto di vista di Kidou, inserirò delle citazioni, per distinguerli da quelli di Phoebe. Vi piace l’idea? E la citazione che ho scelto per questo?

Poi, altre spiegazioni random generali:in questo capitolo gli OC non sono presenti (e temo non lo saranno neppure nel successivo):questo succede perché ho deciso di portare parallelamente avanti due storie, raccontate per l’appunto tramite due POV differenti, quello del mio OC Phoebe e quello di Kidou.
Pertanto vi chiedo anticipatamente scusa e vi tranquillizzo:tra due capitoli tornerà (credo) il POV di Phoebe e saranno presenti tutti i vari OC, con le diverse coppie che interagiranno tra loro.

Contenti? Me lo auguro per voi, eh.

Che altro c’è da dire? No, niente, volevo chiedervi se in generale vi sta piacendo la storia e se vi aspettavate quanto è successo.

Chiudo con l’ormai consueto indovinello di fine capitolo:secondo voi, cosa intende Artemide con “meridione”?

Aspetto di sapere i vostri pareri – a tal proposito, scusate se ve lo chiedo ma mi farebbe molto piacere ricevere un vostro riscontro tramite recensione, almeno per sapere se il capitolo fa poi così schifo. So che è estate, fa caldo e praticamente a nessuno va di mettersi a scrivere una recensione chilometrica ma ve l’assicuro, bastano poche righe per riempire di gioia il cuore di un’autrice.

Un’ultima cosa prima che me ne dimentichi:avete preferenze per le armi? Avevo pensato a spade, archi, pugnali e lance, cose così insomma. Sarei per attribuire una determinata arma al vostro personaggio in base alle caratteristiche di questo ma ripeto, se ne volete una piuttosto che un’altra non esitate a farmi sapere.

A presto (spero)

Aria_black
   
 
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