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Autore: Makil_    05/08/2015    10 recensioni
Una muova minaccia sta per sorgere ad Anvea, il continente prima del Mar Corto, sul cui suolo da anni non veniva istillata guerra. Toccherà ad un nuovo prodigio stabilire il destino delle sue genti, un ragazzo la cui vita si è trasfigurata da un giorno all'altro. Un viaggio ai confini dei regni di Anvea lo attende, una partenza di sola andata forse per ricondurre il bene sul suo continente.
Un fantasy epico, ai confini della ragione, ma molto legato al tempo medievale. Un romanzo ottimo per un pubblico di qualsiasi età.
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Se, da lettore, volessi recensire questa storia; non indugiare, ho bisogno di pareri e critiche di ogni genere.
Tale testo è soggetto ad operazioni di copyright [©] da parte dell'autore Makil_; qualsiasi genere di plagio - senza ovviamente l'autorizzazione e/o il consenso del medesimo autore - sarà ritenuto punibile.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il  giorno successivo Oswald ed Alais ritrovarono ad oziare in piazza, e fu così anche per gli altri due giorni che seguirono. Oswald non raccontò nulla all’amico in riguardo al Qesitay, né, come promesso, a nessun altro. Teneva la pietra nascosta dagli occhi estranei, all’interno del cassetto della credenza scura della sua camera, all’oscuro dalla luce, cui non mancava di produrre.
Il sole, quel giorno, irradiava la piazza e splendeva alto nel cielo tra le candide nuvole. La superficie della Torre Smerlando proiettava riflessi verdi sulla statua di Galioph e fungeva da caleidoscopio. Il tetto rilucente del Palazzo d’oro sembrava una delle stelle alte del cielo notturno, ed era illuminato e splendente. La panca su cui erano seduti Oswald ed Alais, li aveva ospitati per giorni. Liffàr era indaffarato alle loro spalle ad aprire il portone in legno cigolante della sua mistica torre, con in mano alcune lettere ed un bastone da passaggio dal nero legno d’ebano intarsiato.                                                                                                                                        
« No Oswald, sul serio, non pensavo di trovarti qui già di presto mattino! » disse Alais incrociando le gambe e portandole vicino alla panca, cercando di sovrastare le urla che provenivano dalla piazza « Devo ammettere che quest’oggi mi hai sorpreso! »                                
« Mia madre mi ha spinto a scendere al mercato per comprarle alcune cose … ma solo dopo averle portate a casa, ho deciso di restare qui in piazza »    
« Ah, anch’io sono andato al mercato ieri mattino! Un miscuglio di confusione ed urla, ancor più di quelle che vi son qui adesso! » urlò Alais nel frattempo che le grida delle genti s’intensificavano con il susseguirsi dei secondi. Oswald non ebbe il tempo di aggiungere qualcos’altro; in quel preciso istante le porte del Palazzo d’oro s’erano completamente spalancate di fronte ai loro occhi e dinanzi a quelli di tutte gli altri popolani. Immerso nel suo solito lungo abito smeraldo dalle larghe maniche, uscì furioso Vintarige lo sciocco. Il suo volto malconcio, ed i lineamenti irrigiditi formularono in Oswald una strana idea; doveva aver fatto i conti con qualcuno. Due grandi e grosse guardie, coperte di elmi e ferri da tutte le angolazione, dal capo ai piedi, lo seguivano affannate. Quello più grosso ed alto, con una larga cicatrice sul volto e con lunghi capelli era Garmold, il custode del regno. Era molto conosciuto fino al Mar Stretto dal momento che suo padre – Elledor - aveva, in tempi addietro, condotto delle armate in battaglia per scacciare Fentos dal regno di Nendir, cavalcano il suo nobile destriero a tutto spiano e portando luce ove era rimasto a lungo soltanto terrore. Ma per quanti elogi potevano essere attribuiti al buon Elledor grazie i servigi resi, non solo al regno di Nendir certamente, su egli persisteva una larga e profonda critica. Perché mai era padre di quel suino con le gambe? Il modo di fare di Garmold era tutt’altro differente da quello del padre, ed egli era senza un briciolo di cervello, ma solo muscoli e cicatrici. Probabilmente, e come tanti credevano ormai nel regno di Darlas, il cervello doveva averlo perduto insieme al suo orecchio, del quale, pur se costantemente coperto dall’elmetto, era rimasto soltanto un foro. L’altra guardia sconosciuta, corazzata dalla liscia e rigida armatura non era mai capitata sotto lo sguardo di Oswald o Alais, cui non fiatava e non mormorava. Ma era strano questo dettaglio, dato che era impossibile non averlo sotto il naso, l’adipe dell’uomo fuoriusciva addirittura dall’armatura, ed i suoi rotoloni a fatica riuscivano ad essere coperti. Entrambi reggevano uno strano vecchio uomo, e lo trascinavano lungo la scia del loro inutile Sire. Quando arrivarono dinanzi alla statua di Galioph, e le urla si erano del tutto spente all’arrivo di Vintarige, Oswald osservò il vecchio. Era Affard l’unico scalpellino della città, e sgorgava di lacrime – che scivolavano lungo i suoi zigomi rossi – da ogni poro.                                                                              
Con stupore di tutti i cittadini,  Vintarige spalancò la bocca ed urlò contro il vecchio Affard:                                                                                                              
« Mi dica! Questa le sembra una statua proporzionata alla mia grandezza!? Le ricorda forse una statua sontuosa e gradevole da tenere nel mio regno? »            
Oswald ed Alais scattarono via dalla panca e s’avvicinarono ai quattro uomini, ormai circondati da tantissime genti.                                                                        
« Io non volevo dire questo … » cominciò l’uomo anziano con un timbro di voce secco e spaventato « Ma Galioph è il nostro Fondatore, il creatore del luogo in cui risediamo! E’ nostro dovere portargli rispetto … come al tempo stesso dobbiamo fare con i suoi successori. Non è assolutamente corretto rimuoverlo dai nostri pensieri deturpando la sua statua, sarebbe un vero insulto alla sua figura! ». Tremava dalla paura e scuoteva addirittura le braccia delle due guardie che stringevano i suoi fragili polsi.Oswald guardò Alais e bisbigliò:                                                                              
« Ha ancora a che fare con questa storia? Potrebbe pensare a tante altre cose per rendere docile il suo animo! »                                                                            
Ma Alais annuiva senza alcun senso, cercava soltanto di tenere lo sguardo puntato sulla scena, e di tanto in tanto anche verso l’alto.                                              
« Io sono il sovrano! Io devo godere del suo posto su questo piedistallo … Galioph cos’è? Lascia che ti risponda, il Fondatore … come lo definite … non è nulla! » insistette Vintarige nel mentre che il pubblico rimaneva silente, il cui boato era rimasto bloccato in gola per la paura « Basterà soltanto rimuovere questa statua e non ci saranno ulteriori disturbi! Sradicarla dalla base sarà una delle migliori soluzioni! »                                                                                                                            
« Io … io … io non posso farlo Signore! Chiami un altro scalpellino, non ho voglia di macchiare il mio sangue umile con questo gesto ignobile! »                                
« Non ci sono altri come te qui Affard, vecchio vuoi che forse te lo ricordi? »                                                                                                                      
L’anziano signore evitò il suo sguardo per un millesimo di secondo, poi voltò di nuovo il volto.                                                                                                          
« Lui rappresenta il mio passato! Il passato di tutte queste persone! » disse indicando le genti attorno a loro.                                                                                    
« Passato!? No! Il passato non esiste. E’ stato forgiato da chi era troppo debole per affrontare il presente, ed eliminato da chi troppo forte per ascoltarlo. Ora esiste soltanto il presente, e me, Vintarige di Darlas, intento a forgiare un perfetto futuro! »                                                                                                                        
Il vecchio era adesso ancor più impaurito e si mordeva con furia le labbra, poi Vintarige ordinò di gettarlo ai suoi piedi, e l’uomo cadde sulle sottili ginocchia bianche.                                                                                                  
Un uomo dai larghi baffoni e dalla lunghe basette bianche avanzò uscendo dalla folla. Indossava una strana veste di cuoio marrone, ed era anch’egli era molto esile.                                                                                             
« Stolto! Ti auguro che un giorno anche il tuo perfetto futuro diventi troppo debole da essere udito! Ma lo sarà ben prima che possa essere definito passato »               
« Come osi tu!? Nessuno mi si rivolge così! Neppure un garzone del tuo livello; va’ a mungere quelle tue vacche … razza di idiota! » gridò Vintarige.                                                                                                                   
L’uomo impallidì e si voltò umiliato.                                                                                                                            
« Avete sentito tutti voi? » urlò Vintarige rivolgendosi a tutti gli spettatori che stavano osservando allibiti quasi quanto Oswald la scena « Questo regno appartiene a me, a me soltanto! »                                                                                     
Oswald sentì mormorare Alais “Razza d’idiota” e le genti scombussolarsi di fronte a loro.                                                                                               
« E ora, scalpellino, io ti ordino di rimuovere questo sporco peso dal suo piedistallo! » urlò indicando con il tozzo dito la statua « Ti comando di obbedirmi! »                 
« Mio signore, anche volendolo sarebbe impossibile! » mormorò Affard ancora genuflesso « Sarebbe un lavoro troppo faticoso! ». L’anziano scalpellino stava ancora tentando di persuadere Vintarige a cambiare idea, proponendo, ogni volta che poteva farlo, delle giustificazioni. Ma Oswald sapeva che Affard, era noto per aver scolpito grandi cose. Sicuramente, se lo avesse voluto, avrebbe fatto di Vintarige un monumento in pochi giorni … ma era imparziale e giusto; non così stupido da sottostare ai suoi ordini.                                                              
« Oh è vero! Come darti torto … » annunciò Vintarige con un pizzico di veemenza sulla lingua, stupendo così ogni suo cittadino che lo identificò convinto.                   
« Come vede, anche lei concorda con me, è normale! » squittì Affard osservandolo con gli occhi lucidi di un bambino terrorizzato.                                                    
« Sì » riprese Vintarige immerso nei suoi pensieri, tornando al mondo « Sì, rimuoveremo soltanto la sua testa. Basterà mozzarla dal corpo come si rimuovono le erbacce secche dai giardini, solamente che a farlo non sarà una cesoia, bensì una lama. A quel punto, scolpirai soltanto il mio viso … lo sostituiremo a quello del vostro Galioph! Il fisico è quasi simile, pertanto è deciso » disse Vintarige sbalordendo nuovamente tutti, tranne Oswald che aveva capito le sue intenzioni sin dall’inizio.                                                                                                      
« Sire … altro arduo lavoro questo! Rovinare una lama per distruggere una statua. Non sia mai! Chi forgia ormai delle lame così robuste e forti!? Dove andrà a prenderne una nuova? » domandò Affard.                                                                                                                                                                                          
Vintarige però parve non udire le sue parole e prese a girare intorno alla statua. Poi urlò:                                                                                          
« Garmold! »                                                                                                                                               
Uno delle due guardie, quello posizionato sulla destra mollò la presa dal polso di Affard e si avvicinò al suo Sire sguainando la sua spada lucente dal fodero. Poi si avvicinò al monumento del Fondatore ed issò la lama verso il cielo, e, con un fendente, stoccò l’aria. Ma prima che il grosso Garmold avesse finito di portare a termine il suo compito, nell’aria s’udì un urlo.                                                                                        
« Viscido minuscolo uomo! » gridò Vintarige alzando lo sguardo al cielo, proprio in direzione del tetto del suo palazzo. Garmold tirò a sé la lama ed ebbe giusto il tempo di scaraventarsi per terra che Vergar, il folletto, si catapultò giù dal tetto d’oro del Palazzo, atterrando dritto sul dorso di Vintarige afferrandolo per il collo. L’uomo iniziò a divincolarsi, tra le urla di Vergar e quelle delle guardie che correvano dietro di lui. Le genti vennero sommerse dai boati e dai latrati che da sole provocavano all’unisono. Tutt’intorno era un subbuglio di colori e voci. Vintarige correva e strillava con ancor Vergar sul dorso:                    
« Toglietemelo di dosso! Staccatelo ora! Credo di non respirare, sta per arrestare il mio fiato! »                                                                                                      
Ma nulla, le guardie erano troppo grasse per stare al passo di Vintarige che non si fermava un attimo.                                                                       
« Sei un folle, Vergar! » sbraitò strozzato Vintarige.                                         
Il garzone che prima era stato deriso uscì ancora dalla folla irrequieta e, a sua volta, rise di Vintarige:                                                                                       
« Re Inutile, lui non è un folle … è un folletto! »                                                                                                             
Oswald ed Alais corsero seguendo il tratto di Vintarige per poter osservare bene la scena, erano entrambi spaventati per la sorte del folletto. Ma questi non sembrava temere nulla, scalciava lungo la schiena di Vintarige e prendeva a pugni il suo duro cranio.                                                                     
« Non … hai … alcun diritto ... di … di … rimuovere Galioph! » mormorò a denti stretti mentre che batteva la mano nel suo collo irsuto.                                              
« GARMOLD, BUONO A NULLA! TOGLIMELO DI DOSSO! » gridò Vintarige ormai stremato stravaccandosi per terra. La presa del folletto rimase però salda, e Garmold non riuscì neppure ora a staccargli le mani dal collo del Sire. Ma proprio quando stava per colpire con un ulteriore pugno il capo di Vintarige, la sua forza venne probabilmente meno e questa cedette alla furia di Garmold che lo sollevò per la casacca, lasciandolo a piedi nell’aria.                                                               
« Prova ancora una volta a toccare Sir Vintarige, e mi nutrirò dei tuoi arti … nano! » sputacchiò la guardia sul volto di Vergar.                                            
« Non sono un nano, grosso leccapiedi, io sono un folletto! Capita la differenza? » bisbigliò Vergar                                                                                            
« Non c’è differenza! »                                                                                             
« Idiota, uno come te non dovrebbe nemmeno adempiere i lavori di guardia reale! »                                                                                                              
« Io non sono idiota » disse Garmold con un secco suono gutturale.                                                                                                                         
« Non fa alcuna differenza! » esclamò Vergar.                                                                                     
« Cambio di programma » urlò Vintarige ancora con a gola secca, affannato più che mai, sistemandosi la lunga veste smeraldo e rialzandosi da terra. All’istante fermò ancora l’attenzione su di sé « Io lo condanno a morte! La testa la tagliamo al folletto »                                                                                                              
Alais balzò all’aria, Oswald si sentì ferire profondamente e nella sua testa una voce urlò: “no!”                                                                                                
« Dunque tu, vecchio, ti rifiuti di lavorare per me! Ecco la sorte che ti spetta; sono io il re, io comando! Prendete anche lo scalpellino, sono sicuro che troveremo un alloggio perfetto per lui giù nelle segrete » urlò contro Affard ancora accasciato per terra, l’uomo era intorpidito. Vintarige si avvicinò alla statua ed urlando, con un gesto impulsivo e netto, assestò un destro contro la pietra. Dalla sua bocca sfuggì un latrato di dolore, simile a quello di un bambino bruciatosi con il fuoco. Si era appena conficcato uno degli speroni che fuoriuscivano dallo stivale di Galioph nel polso.                                                                                             
« Lei … lei non può farlo! » sbraitò Affard che veniva sollevato da terra dall’altra guardia « Io ho famiglia, ho dei figli da sfamare! »                               
« In quel caso sono sicuro che troveremo un posto nelle segrete anche per loro! Vi sfamerete là dentro, o meglio, il cibo mancherà e voi sarete costretti a soffrire per non mangiarvi a vicenda! »                                                        
« NO! » urlò lo scalpellino che veniva trascinato da terra verso il palazzo d’oro « Non toccate la mia famiglia! »                                                                                
Il suo straziante grido fu lacerato dall’aria, lo scalpellino venne trainato con forza aldilà della piazza, lontano, dagli sguardi esilarati di Alasi e Oswald. Da dietro, probabilmente avvertito dalle urla dei paesani, arrivò scortato del suo imponente bastone di legno, Liffàr, arrancando con addosso una lunga e sinuosa veste di seta grigia.                                                                 
« Liffàr faccia qualcosa! » gli ordinò Alais « La prego! »                                                  
Ma Liffàr sembrava paralizzato, teneva la bocca semiaperta, ed i suoi occhi erano ridotti in fessure vuote che osservavano con impeto la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi: Vintarige aveva afferrato Vergar per le spalle e lo stava bloccando con entrambe le mani. Garmold invece punta il collo chino di Vergar con una lussureggiante spada di acciaio, puntata nuovamente in direzione del cielo.                                               
« Non ho paura di te, Vintarige! » sbottò Vergar « Né dei tuoi stupidi modi di fare! »                                                                                                   
« Udiremo i tuoi urli di dolore quando sarai ormai andato, quando il tuo corpo sarà fatto deteriorare e seccare sotto il sole » momorò Vintarige con lo sguardo puntato sul folletto, tagliente come una lama.                                                                                                                            
« Sire, cos’è che succede? » domandò Liffàr facendosi spazio tra la folla accanita, pencolante e logoro.                                                                                  
Oswald ed Alais guardarono sospetti, lo sguardo vitreo e perplesso.                                                                                                                                              
« Ci mancavi soltanto tu! » commentò furioso Vergar.                                                        
« Taci » gli urlò Garmold.                                                                                                
« Liffàr, come vedi qui qualcuno merita una, non poco sbagliata, sistemazione! Un tempo i folletti se stavano nella loro inutile baia a Giorno Splendente, non venivano ad Anvea per nessun motivo. Adesso esigono anche di meglio, aggrediscono il loro Sovrano. Dovrò fare una chiacchierata con il loro Sire … Deniavor di Primavera, voglio proprio vedere cos’avrebbe da dire in riguardo! »                                                                                                                                                          
Liffàr stava guardando Vintarige con lo stesso sguardo che si rivolge a qualcuno che non si tollera. Nel frattempo, Vergar latrava di dolore, preso a schiaffi dalle roventi mani di Garmold.                                                                                                            
« Ti consiglio di pensare bene a questa decisione, mio signore » s’intromise Liffàr che forse non sapeva proprio cosa dire.                                
« Ucciderò questo folletto di mano mia, proprio come lui ha ferito il mio corpo! » sbraitò Vintarige.                                                                                                    
« La migliore delle giustizie, maestà! » approvò Garmold intento a schiaffeggiare Vergar.                                                                                                         
« Vintarige … temo … » dichiarò Liffàr « Temo che questa non sia una soluzione da attuare! »                                                                                              
Vintarige parve schifato, guardò sospetto l’uomo dal basso verso l’alto.                                                                                                                                      
« Voglio dire … deve meritarsi una morte tante volte più dolorosa di questa! Il taglio della testa non lo farà soffrire per nulla, gemerà sì, ma senza mai soffrire per davvero. Invece si potrebbe lasciare in un buio stanzino oscuro, i topi lo rosicchieranno e ne mangeranno i suoi resti! » illustrò Liffàr sotto gli occhi allibiti di Alais e Oswald « Non vale molto più di un topo! »                                                                                                                                                                                     
« Mi ha mancato di rispetto di fronte al mio regno, è ciò che si merita» mormorò Vintarige guardando il folletto in modo sospetto.                         
« Facciate come dico, ne ricaverà ancor più piacere nel vederlo soffrire, maestà! »                                                                                                           
« Ammiro il tuo essere spietato Liffàr, a volte riesci a stupirmi più di quanto tu riesca a credere! »                                                                                                    
« Il folletto ha più fegato di quanto possiate immaginare, lord Garmold. Io porgerei non poca attenzione! » sorrise Liffàr alla guardia intenta a schiaffeggiare Vergar. Poi il telanor, si girò svelto lasciando alle sue spalle soltanto lo strascico della sua lunga veste seta. Si fece strada tra la folla, percorrendola dritto, e sì fermò solo quando vide Oswald.                                                                                                      
« La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale » bisbigliò svelto ammiccando verso la sua direzione, poi pencolante arrancò verso la Torre Smeraldo. Oswald ebbe giusto il tempo di udire le parole, soavi, che il Liffàr gli aveva riferito, senza coglierne alcun significato.                                    
« Lo ritenevo più giusto, quel vecchio telanor! » si lagnò Vergar senza però smettere di farsi schiaffeggiare.                                                                                            
« Bene » esclamò Vintarige ergendosi sopra la figura del folletto annichilito « Conducilo nelle segrete! »                                                                              
Garmolod il grosso, iniziò a marciare verso il Palazzo D’oro, con ancor in pugno la sudicia casacca in cuoio di Vergar, tenuta con forza nella mano destra che lo sollevava da terra e lo lasciava in bilico a mezz’aria. Liffàr, che aveva appena voltato le spalle anche alla sua Torre, stava tornando con velocità al Palazzo D’oro, e quando le porte si furono chiuse, egli v’era già finito dentro.                                                            
« Andate voi! » ordinò Vintarige indietreggiando dalla piazza, in direzione, anch’egli, della sua dimora.
Quando tutta la folla si congedò, Oswald ed Alais s’avvicinarono furtivi e lemmi lemmi al Palazzo del Re. I due posarono le loro orecchie proprio sul maestoso ed imponente portone d’oro del Palazzo.                                                                                                                                    
« Se qualcuno dovesse scoprirci ad origliare, Oswald, saremo nei guai! » lo avvertì Alais terrorizzato dall’idea.                                                                                
« Lo so Alais, ma voglio sentire cos’è che hanno da dirsi! Hai sentito Liffàr prima? »                                                                                                                        
« No, certo che no. Che ha detto? »                                                                                                     
« Mi ha suggerito di andare nelle segrete, era plausibile! »                                      
Provenivano dal Palazzo d’oro e la piazza ne era inondata. Urla e latrati di dolore scaturivano dalle bocche di Affard lo scalpellino che stava, certamente, ricevendo un trattamento non molto affascinante.              
« Per favore, non fatelo per favore! »                                                                                             
Nel contempo Oswald pensò che Vergar doveva già essere stato scortato, come da ordine, all’interno della cella di prigionia; ma una voce smentì questa sua idea: il trattamento era stato adoperato anche su di lui.                                                                                                                
« Continuate pure, stolti! Non ho paura di questi ciottoli, non ho paura di voi! »                                                                                                                                
Il folletto non pareva affatto scosso, qualsiasi cosa gli stavano facendo egli rimaneva un uomo d’onore.                                                                                          
« Questo è quel che vuoi farci credere! » abbaiò Garmold, la cui voce era assolutamente riconoscibile.                                                                                              
« Non esattamente » rispose altezzoso Vergar.                                                                                   
« Le celle sono piene, Sire! » esclamò una quarta voce, appartenente a Liffàr.                                                                                                                                
« Le abbiamo già terminate!? Uh, devo proprio iniziare a sgomberarle da quegli inutili scatoloni! » esclamò Vintarige.                                                                          
« Proprio così. Le consiglierei di farlo al più presto, maestà, non abbiamo molte altre stanze da adibire alla prigionia. Dunque, propongo di utilizzare la Torre Alta, dovrebbe esserci un’anticamera utile al nostro intento lì sopra! » suggerì Liffàr.                                                                                                
« Quale delle tre? » domandò Vintarige « La Torre Alta dell’ultimo è troppo lontana! Troppo poco sorvegliabile durante ogni ora del giorno e della notte »                      
« Non quella torre, maestà. Utilizziamo la Torre Alta del Palazzo, sarebbe impossibile fuggire da là su, sarebbe tante altre volte improbabile che qualcuno percorra i Corridoi dopo il trono, sire. E se dovessero farlo, a nessuno verrebbe in mente di recarsi nell’ Alta Torre dilaniata ed abbandonata. Sarà sotto il controllo e la supervisione di voi, maestà. Non gli occorre altro »                                                      
« Io non sorveglierò nessuno, da solo, in quella torre diroccata … maestà » enunciò Garmold. Oswald sapeva bene il perché, lungo il regno si mormorava che la Torre Alta del palazzo d’oro, raggiungibile dai corridoi sotterranei del Palazzo, ma non edificata su questo, era stata, in tempi addietro, folgorata e bruciata da un fulmine dalle enormi dimensioni. Ogni cittadino aveva paura di recarsi un quel meandro oscuro, ed aveva altrettanta paura di restarvi, solo e senza protezione, poiché si diceva che il fulmine non se ne fosse mai andato, e che, manovrato da uno dei molti déi, avrebbe colpito ancora una volta la Torre, nel momento di meno attivo soccorso.  
Vintarige non ascoltò le parole di Garmold, e lo sovrastò con le sue:                                           
« Sarà fatto, Liffàr, grazie del tuo servizio. Sarai ricompensato appena mi sarò liberato di questo peso alla caviglia! »                                                                        
« Vostro onore » lo salutò Liffàr, poi il suo passo delicato ed altezzoso fu avvertito lungo tutto il perimetro del Palazzo, che né aumentava il suono, vuoto e cupo, nell’eco della sala del Re. Pochi secondi dopo, il portone d’oro s’aprì, ed Alais ed Oswald, colti alla sprovvista, ebbero giusto il tempo di fuggire e nascondersi sotto una delle tante nicchie incavate nel prospetto del Palazzo. Liffàr procedeva nuovamente scattante in direzione della sua torre. Ma poco. prima che vi fu arrivato vicino, Oswald balzò fuori dal luogo che lo celava e si contrappose tra il telanor e la sua dimora.                                                                                                                
« Liffàr, signore! » lo accentò.                                                                                            
« Ragazzi … fossi in voi per prima cosa saluterei con dovere, e ancor prima, mi schiarirei forte la voce! » disse Liffàr avvistando anche Alais alle spalle di Oswald « Dunque, ditemi! »                                                                      
« Cosa gli faranno? » domandò Alais attanagliato dal nervosismo evidente, non badando alle precedenti parole del vecchio « Che faranno al folletto? »                        
« Quel che si merita, ahimè, nulla di meraviglioso! Ma questi particolari non sono indirizzati alle vostre orecchie, né tantomeno alle mie » farfugliò il telanor, in procinto di fuga.                                                               
« Lei non può permettere tutto ciò! La consideravo una persona giusta! » abbaiò Alais.                                                                                                 
« Ho fatto il possibile. Forse è arrivato il momento che io mi ritiri! »                               
« No » lo fermò Oswald « Cos’è che mi ha suggerito qualche momento fa, in piazza? »                                                                                                                  
« Di continuare ciò che ho iniziato io » disse Liffàr.                                                                                          
Alais iniziò a discutere con Liffàr, sosteneva che Vergar non aveva mai osato attaccare qualcuno, e doveva esserci riuscito poiché intimorito. Ma ad ogni accusa Liffàr giustificava Vintarige, ricordando che lui governava, e dicendo che nessun motivo era valido, abbastanza, da concedergli il diritto di prendere a pugni un suo superiore; il suo Re. Oswald ripensò alle parole del Telanor, quelle pronunciategli di fretta e furia, durante la presa di Vergar ed dello scalpellino Affard. “La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale”; cos’è che veramente il Telanor voleva far intendere?                                                        
Interrompendo il dialogo tra Liffàr e Alais, Oswald sormontò le loro voci aizzandosi al loro cospetto, poi prese fiato e domandò:                                                          
« La Torre Alta è il luogo in cui porteranno Vergar, non è così? »                                        
Liffàr fissò il vuoto per qualche secondo e s’accarezzò l’irta barba nera, le labbra gelide e secche ed il volto greve. A quel punto, Liffàr si voltò senza discutere oltre, e proseguì in direzione della Torre Smeraldo, ancora una volta.                                                                                       
« Che intenzioni hai, Oswald? » chiese l’amico insospettito, lievemente tramortito, ancora incosciente di ciò che Oswald stava pensando.                                          
« Dobbiamo andare da Vergar, quest’oggi, al calar del sole! E’ l’ora in cui il Palazzo è quasi per lo più vuoto. Liffàr ci ha dato un chiaro ammonimento! Il folletto si trova sulla Torre Alta, e desidera che sia io che tu, cerchiamo di arrivare da lui » spiegò Oswald cercando di racimolare tutte le idee, tutte le informazioni, che fin ora gli erano state concesse.                                                                                                                                                                                               
« Ma non ti rendi conto di quale pericolo corriamo? » domandò Alais incredulo « Ci sarà sempre qualcuno al Palazzo, non lo lasciano mai vuoto. Tu non sai cosa si cela dentro quell’edificio, Oswald, oltre il trono e la Sala d’Oro. Le sue gallerie sono infinite, i suoi corridoi attraversano tutte le cavità interne di Darlas, giungono e scorrono sotto ogni casa, diramate tanto in profondità; come radici di enormi alberi secolari. Metteresti anche la tua famiglia in pericolo! »                                              
Oswald si prese un secondo per riflettere. Certamente non poteva costringere Alais a seguirlo, né poteva però rimettere la pelle per essersi insediato all’interno di luoghi cui non doveva vedere. Ma non poteva abbandonare il folletto nelle mani di quelle genti, lo avrebbero massacrato, con più di quanto il suo corpo avrebbe potuto sopportare. Per un attimo si rifiutò di ascoltare Alais, l’amico da cui ricavava conoscenza, e che più gli era sincero e fedele. E poi, lui stesso gli aveva detto di nutrire profonda ammirazione per il folletto Vergar, perché adesso voleva rinnegare ciò?                                                                                                                    
Oswald sorrise, un sorriso asimmetrico che gli coprì l’intero volto, mostrando tutti i suoi trentadue denti, ma che assolutamente non era un ghigno.                            
« Non preoccuparti Alais, andrò da solo! » disse Oswald « Dopotutto è una mia idea, e non voglio che tu ci finisca di mezzo! »                                                          
« Per quanto tu possa trovarmi coraggioso Oswald, io non lo sono affatto » mormorò Alais.                                                                                                            
« Non è così, io ti trovo coraggioso perché tu lo sei! Tu sai utilizzare una spada, meglio di chiunque altro qui in città probabilmente! O magari al pari di una guardia reale»                                                                        
« Oh, certo, maneggio con destrezza le spade, ma ho imparato a farlo con il tempo. Qui la questione è nettamente diversa; nessuno può imparare ad essere coraggioso come s’impara ad aizzare una lama, l’audacia nasce con l’uomo coraggioso; e questi, non a tutti i costi è un guerriero »                                                                                                                                                                               
La storia di Vergar, fu ripetuta così molto nei giorni successivi nel regno che – Oswald ne era ormai convito – presto sarebbe divenuto tutt’altro che una leggenda. Il tempo passò a Darlas, dopo quella grigia mattinata, del folletto non si udirono più voci né lamenti. « La prigionia sta facendo effetto! » questo si mormorava in piazza, tra un’anziana e l’altra, questo giungeva alle orecchie dei cittadini. E per un lasso di tempo non molto ristretto, si pensò addirittura a Liffàr come un mostro, uno spietato servitore del Re Inutile. Quanto al vecchio Affard, egli fu scarcerato e riportato tra le braccia della sua famiglia. Ma più passavano i giorni e più nel regno si vociferava di un processo, di un boia e di un’ascia, che insieme dovevano tornare utili per qualcosa riguardante il folletto. Oswald non mise più in atto il suo piano, non diede più orecchio alle parole di Liffàr, che risultavano ormai essere remote e perdute. Iranis, sua madre, aveva accolto l’idea non molto bene quando Oswald decise di parlargliene, e di raccontargli per filo e per segno l’accaduto. Più che una donna posseduto dall’ira, ad Oswald, quel giorno, sembrò l’ira fatta donna. Aveva cercato di persuadere la folle idea del figlio, che consisteva nell’intrufolarsi segretamente all’interno del Palazzo D’oro e aiutare Vergar nella fuga, giorno per giorni, senza finire per stancarsi nemmeno una volta. Ogni momento della giornata era ottimo per rifilargli quanto più poteva dire su storie e leggende riguardanti il Palazzo. Gli raccontò addirittura che le mura del palazzo d’oro erano un continuo scintillio di trappole mortali, al cui interno era conservato il sangue dei nemici uccisi, di quelli che, ancor prima di lui, avevano avuto la sua stessa delirante idea. Gli raccontò che le vie sotterranee conducevano ad inconsueti rifugi, a luoghi oscuri e bui, le cui strade non portavano mai più alla luce. Diceva che perdersi all’interno di uno di questi cunicoli lo avrebbe condotto inconsapevolmente alla, misteriosa e recondita, fucina di Darlas, un luogo di culto delle sei religioni, un posto ambiguo nel quale si riunivano alcuni stregoni oscuri e formavano sette e strane congreghe. Ma tutto ciò ad Oswald non faceva alcun peso, non badava alle storie che cercava di raccontargli sua madre, storie sicuramente inventate denotate da una mente ben organizzata, di cui Iranis disponeva certamente. Ed ella lo notava. Riusciva a vedere che le sue storie non scalfino in alcun modo la mente del figlio, e non lo inducevano a cambiare la sua idea. Così un giorno mentre erano entrambi seduti sul loro tavolo, intenti a degustare il cibo preparato per il pranzo, Iranis afferrò una mela da uno dei vassoi posizionati a centro tavola. Afferrando uno dei coltelli adagiati sul vassoio, solcò il frutto con la sua lama e ne fece uscire l’altra estremità dalla parte opposta. « Ecco cosa potrebbe succederti se Vintarige dovesse scoprirti! Bada a quel che ti dico, non pensare più a questa storia! Che lo liberi Liffàr quel dannato folletto! » gridò quel giorno, ed Oswald non poté fare a meno di ricordare alla madre che lui non era né una mela né un idiota. Ma questo continuò a non bastare, Iranis non era una donna dalle maniere facile, soprattutto quando si trattava della sua famiglia. La madre gli proibì, allora, di uscire di casa fino alla fine della stagione, ed Oswald, non riuscì più a ribattere o a distogliere dalla sua mente questo parere. Ma anche il suo anormale castigo passò in fretta, il destino stava forse aiutando Vergar, e Oswald. Una fresca mattina, di qualche settimana dopo, venne rispedito a comprare la frutta al mercato, nel frattempo che la madre, dolorante e sfinita a causa di un malore, era costretta a restare sotto le coperte del suo soffice letto. A dire la verità, Oswald non aveva più pensato a Vergar, dopo l’accaduto, forse a causa del tempo che ormai era passato dal quel giorno. Ma quella mattina, dopo essere passato dal mercato, sempre situato al quarto livello, non riuscì a non guardare il magnificente Palazzo D’oro, e i ricordi, che mai erano stati celati, gli tornarono freschi in mente. La porta del palazzo era costantemente aperta durante le ore mattutine, ed Oswald riflettendo decise di provare ad entrare, decise di provare a non ascoltare sua madre, e decise che ella avrebbe potuto attendere il suo ritorno. Ma allo stesso tempo una strana sensazione lo folgorò, stava per fare il contrario di quello che sua madre gli aveva suggerito, si stava prendendo gioco di lei che era troppo debole per ghermirlo ancora una volta, ed una parte di sé iniziò a voler credere a ciò che gli era stato raccontato. Mentre che l’altra parte, quella più ardita e temeraria, avanzava oltre le porte del palazzo. Mai i suoi occhi erano stati condotti fin là dentro, non c’era mai stato tale bisogno. Ciò che osservò lo abbagliò come la luce del Qesitay, al cui non aveva più pensato dopo così tanto tempo passato a cercare di persuadere la madre. Erano giorni che non stava nella pelle in attesa di questo momento, si sentiva come bruciare dentro, come se in certo qual modo fosse responsabile di ciò che Vergar aveva, fin ora, subito; perché non aveva da subito messo in pratica il volere di Liffàr. Ma pensò pure che il telanor aveva, magari, risolto già ogni cosa, e che il regno ne era rimasto inconsapevole.
Il palazzo d’oro era magnifico, il nome affibbiatogli gli si addiceva completamente. Era composto da tre differenti navate, lungo le due corsie sulla destra e la sinistra ciondolavano dei luccicanti candelabri, sei su ogni lato. Ed al centro, nella navata principale, si calava un grosso lampadario d’oro tempestato di rossi rubini. Oswald per un momento si chiese da dove era stato ricavato così tanto oro, e pensò che Galioph il Creatore, doveva essere proprio una persona coi controfiocchi. Un palchetto in legno si levava al finir della navata, e su questo poggiava un trono d’oro, che sembrava un sedile di materiale fuso, dato che questo si intersecava su di se stesso, la cui strana forma era simile alle corna di un cerbiatto. Ma questo era vuoto, e freddo, Vintarige al momento doveva non essere al palazzo. Com’era suo solito, d'altronde, non occuparsi di ascoltare le genti … ma starsene a discutere per farsi ascoltare da queste, e troneggiare senza un trono; su garzoni e villani, più torreggiante di un vero Re. Iniziò a proseguire lungo il corridoio del palazzo, un brivido pervadeva la sua schiena, un brivido gelido, eppure non aveva paura.                                        
Sapeva in cuor suo di non star facendo nulla di giusto, né nulla di sbagliato d’altra parte, e si ripeteva: “ La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale”. Ma dov’erano le celle del primo corridoio?                                                                       
Le sue memorie si perdevano all’interno di quel luogo, tutto era così angusto, perfino le pareti erano ricoperte da strati di oro puro, e sul pavimento vi erano incastonati alcuni frammenti di quel materiale. Tutto lo spazio era suadente, immerso in un comune e silenzioso senso di pace e tranquillità. Oswald arrancò verso il trono, osservandosi più volte le spalle, controllando che non vi fosse nessuno né sulla destra, né sulla sinistra. Ma non vi era nemmeno la traccia di un uomo, e, notò con poca felicità Oswald, neanche quella di una porta, o di una piccola entrata, scavata nel soffice oro. Controllò ogni zona e non trovò alcuna porta. Soltanto nella prima navata, proprio accanto al tempio dedicato al Dio Qesi, vi era una porta in legno foderata da alcune striature di vecchio e malandata ferro. Ma Oswald non provò nemmeno ad addentrarvisi, qualcosa lo turbava, quella porta così vicino al luogo di culto di Qesi non prometteva nulla di buono, ed era anche restio ad avvicinarvisi; forse le storie sulle strane congreghe di sua madre avevano avuto fin troppo effetto. La statua di Qesi, il dio della Luce, sembrava che lo stesse fissando, lo sguardo vuoto ed incosciente, incapace, in quanto realizzato in fine marmo, di esprimere qualsiasi impressione. A Darlas, uno degli dèi a cui era riservato il culto era proprio Qesi, conosciuto anche dalle tribù nomadi, e da alcuni popoli del settentrione, come Stella della Luna Calante. Si narrava che egli avesse formulato agli albori, la luce, e che, ancor meglio, l’avesse rappresentata totalmente. Non era affatto strano trovarlo all’interno del Palazzo d’oro – benché comunque lo si trovava menzionato in ogni ponderoso volume risalente ad anni assai precedenti – forse perché la luce del Dio, era sinonimo dello splendore emanato dal Palazzo. Da qualche parte, due navate più in là, una spessa parete s’aprì emanando un fastidioso cigolio metallico, all’orecchio, ma frutto dell’oro.                                                                                             
« Maestà » chiamò quel grosso omone che ne era sbucato. Le sue parole librarono lugubri nell’aria, e rimasero sospese nel Palazzo, l’eco poi ne aumentò il volume. Oswald, terrorizzato, corse via dal fianco della statua, ed arrancò verso il Trono. Era l’unico spazio in cui potersi celare alla vista di quel grosso tizio. Salì lentamente i gradini in legno che conducevano al trono, poi si fermò per un lungo momento dinanzi a questo. L’omone era voltato verso la vetrata, in ginocchio, ma completamente solo. La luce che proveniva dall’esterno, filtrata dal vetro, abbagliava il suo capo calvo. E, di spalle, sembrava avesse una fisarmonica di rotoli di adipe sulla pancia, che gli pendevano a cascata, giungendo addirittura al di fuori della rossa veste a larghe maniche. Oswald, pur dubitante della sua memoria in quell’attimo tremolante, riconobbe di non aver memoria di quell’uomo. Oswald si raddrizzò. Aveva paura. Poi, si nascose dietro al sontuosissimo trono d’oro.                                      
Quando l’uomo si fu alzato da terra, girò il suo capo guardingo, doveva aver udito qualcosa. Oswald strinse le palpebre, sempre più convinto di aver fatto un errore entrando in quel posto. Poi, quando osservò ancora una volta la base della grande vetrata, egli era sparito, e la parete da cui era fuoriuscito stava cigolando nuovamente, accompagnata da un tonfo alla chiusura. Preferì rimanere eclissato dietro al trono, ancora un per un po’ magari, il sudore grondante dalla fronte, gelido e agghiacciato quasi quanto Oswald stesso. Era accovacciato accanto da una strana porta d’ebano scuro, proprio dietro al trono. Qualcosa nella sua testa lo fece riflettere, qualcosa gli disse che forse quella era la porta corretta; in quell’istante l’unica cosa che provò a fare fu cercare di rammentare le parole di Liffàr e Vintarige, origliate tempo prima. Ricordò dei suggerimenti nella parole del telanor; “Improbabile che qualcuno percorra i Corridoi dopo il trono” e poi aggiunse “La Torre Alta si trova giusto al finir delle celle del primo corridoio, su una rampa di scale" . Era tutto lì a portata di mano, Liffàr gli aveva dato dei limpidi suggerimenti, ed egli, adesso che li aveva compresi fin in fondo, doveva soltanto attuare il suo piano. Allungò il braccio e spinse la porta, alzandosi dal pavimento. Il clangore metallico, simile a quello di due lame l’una sbattuta contro l’altra, era assordante, e riecheggiava nella Sala Reale.   
Dentro l’aria del lugubre corridoio era gelida, Oswald ne ispirò una profonda boccata, facendo sì che il freddo lo invadesse. Poi, barcollando più volte, prese a scendere una ripida scalinata di pietra, ed era molto difficile percorrerla;  i gradini erano stretti e corti. La scala s’ingarbugliò all’interno della sua stessa architettura, s’intrecciò sempre più in fondo, ed iniziò a percorrere le profonde cavità terrene. Per un lungo momento Oswald, rabbrividì ancora una volta. Poi, meravigliato per l’improvvisa conclusione della rampa di scalini, percorse un’altrettanto stretto corridoio oscuro, ai cui lati s’aprivano alcune celle, rimpinzate da soli scatoloni e bauli di legno. Percorse moltissimi metri nella buia oscurità che lo attanagliava, solo ed esanime, in cerca del punto in cui la via finisse. Più camminava più il luogo da cui era sceso si allontanava da lui, sopra la sua testa non giaceva più il Palazzo d’oro, adesso stava attraversando le viscere sotterranee del regno, passando magari anche sotto la sua stessa casa.
Era ancora in piedi, per sua fortuna, quando arrivò al termine del corridoio. Alcuni pilastri di pietra s’ergevano di fronte a lui, proiettando sottili ombre lunghe sul suo corpo, stranamente lunghe e contorte, per quanto poca luce le riusciva a produrre. Attonito scorse una strana rampa di scale, curva, nera, stretta e distrutta. Non c’erano altre vie attorno a lui, se fin ora il fato - del quale non si era mai fidato - lo aveva accompagnato fin lì, allora quella doveva essere l’esatta via da percorrere. Salì la ripida serie di scalini posti sotto i suoi piedi esitanti reggendosi sulle tante scanalature presenti sulla roccia corvina, incerto e timoroso. Più saliva tanto più l’aria si faceva rarefatta, e luce intensa e penetrante. Poco dopo, ancora aggrappato ai solchi sulla parete rocciosa e nera, il suo volto venne abbagliato, non più dalla luce delle torce ardenti, ma da quella del sole del cielo turchino. Quando la rampa si fu conclusa, Oswald giunse nell’Alta Torre. Come ben sapeva, la Torre era stata folgorata in passato da un fulmine dall’abnorme potenza, difatti le pareti dell’edificio erano incenerite, increspate completamente di nero, anche se in alcuni punti si scorgeva ancora il grigio del remoto passato. La torre era scoperta, le mancava tutto il tetto, e la parte superiore era radicalmente crollata, lasciando soltanto qualche pietra, poi levigata con gli anni, dinanzi alla sommità del cielo.  Dal suo pavimento sbucavano dei pilastri, appartenenti ad antiche costruzioni giacenti sul torrione, ma adesso, erano spenti e vuoti. Tra due cavità, chiuso da una strana inferriata di ferro e piombo, giaceva accigliato tra le scartoffie ammassate, le polveri, i residui di granito ed i ciottoli non ancora smorzati, Vergar Lewin, il folletto delle Isola della Primavera. 
Oswald corse in direzione dello strano giaciglio in cui era rinchiuso Vergar, prese un respiro di sollievo alla vista del folletto; finalmente era riuscito a trovarlo.
« Vergar … » mormorò Oswald stagliato fin troppo vicino alla prigione del folletto.                                                                                                                             
« Non gradisco né cibo né acqua, da voi, servi dell’inutile » farfugliò Vergar rivolgendo le spalle ad Oswald « Potete andarvene ora, avverto il vostro respiro affannato lungo la mia schiena! Avete davvero paura di venire a trovarmi qui sopra!? Che gli déi mi perdonino per quello che sto per dire; che il Gran Fulmine vi folgori per davvero! »                                                                                                                                                                                                                                   
« Vergar, non sono nessuna delle guardie … mi chiamo Oswald … Oswald Polfinger, guardami » tentò Oswald.                                                                                 
Il folletto si girò lentamente in direzione del ragazzo, ma non voltò l’intero busto, solamente il capo e gli occhi che gli erano d’ausilio per osservare. Oswald riconobbe a stento Vergar, il suo volto era annichilito, ossuto e scarno, le sue labbra violacee e sottili, ed i suoi occhi quasi incavati. Era anche sporco di cenere e polvere, ferito ovunque lo si guardasse.                               
« Conosci il mio nome? Come? »                                                                                     
« Davvero pensi che nel regno la notizia non si sia propagata? »                                     
Vergar lo squadrò, lo sguardo spento e buio.                                                                                                                                    
« Quante volte al giorno ti portano da mangiare? » chiese Oswald.                                                            
« Una o due, alla settimana … mai al giorno! » rispose Vergar che, pur avendo perso la sua carne ed il cibo, non aveva smarrito il suo tono di voce rasserenante, e la sua dignità, il suo valore morale e la sua onorabilità « Dimmi … ci conosciamo? »                                                                        
« Non ancora » rispose Oswald « Cos’è che ti ha ridotto in questo modo? »                                                                                                                                     
« Oh, vuoi dire queste ferite? Devi sapere che le guardie di Vintarige, e forse anche lui stesso dato che spesso non riesco a vedere chi mi ferisce la notte, hanno una strana passione per il tiro del calcinaccio, cui qui non smette mai di mancare! Si divertono talmente tanto che potrebbero anche morire asfissiati dalle frastornati risa quando lo fanno, devi proprio vederli! Anzi suppongo che le loro sghignazzate echeggino per tutto il regno, la notte, non occorre vederli per capire ciò di cui ti sto narrando »                                                                                        
Oswald rabbrividiva al solo pensiero, ed era frastornato dalla sola idea.                                                                                                                                            
« Devi ringraziare Liffàr per la mia presenza qui, questa mattina! Mi è stato d’aiuto, mi ha suggerito come arrivare a te! »                                                                    
« Liffàr … spero tu stia scherzando! Anche lui si è rivelato il mostro che è sempre stato! Un codardo. Non è che tu stai cercando di aiutarlo? Oh, non dirmi ragazzo, forse anche tu fai parte della sua squadra? »                                                                                                                             
« Liffàr non è un mostro, fidati, lui mi ha aiutato ed ha aiutato anche te. E … » le parole gli fuggirono quasi alla bocca, non sapeva cos’altro aggiungere « Ed io non sto aiutando nessuno! O meglio, forse soltanto te! »                                                                                                                                             
Vergar lo squadrò dalla testa ai piedi. Oswald non lo aveva mai avuto così vicino da quanto lo aveva conosciuto, quel giorno, sulla strada, ed era veramente molto disarmonico e sproporzionato.                                                 
« Ho qui qualcosa per te » aggiunse Oswald afferrando il fardello che consuetamente legava al petto; ne estrasse una decina di mele comprate qualche ora prima per sua madre, che stava ancora attendendo il suo ritorno « Prendile e mangiane alcune! Non ti consiglio di mangiarle tutte di fretta, conservale e nutriti a porzioni, non ti arriverà altro cibo nei prossimi giorni! »                                                                 
« Non prendo nulla, affatto! » mormorò Vergar « Voglio prima assicurarmi che tu non voglia uccidermi! Mangiane metà per me! La mela la scelgo io »                          
« Davvero non ti fidi della mia parola? E sia! »                                                                            
Vergar gli mostrò la mela ed Oswald l’addentò bruscamente, il rumore della sua mandibola in procinto di frantumazione era assordante in quella gelida torre scoperta.   
« Ecco fatto, sano proprio come la mela che ho appena ingoiato! »                                                                                                             
Vergar gli rivolse ancora un altro sguardo rammaricato ma piano di ilarità. Poi allungò il suo braccio corto e tirò a sé, una ad una, le mele.                                           
« Questi ciottoli non mi indeboliscono, non preoccuparti » mormorò Vergar afferrando l’ultima mela « Al contrario, più continueranno a scagliarmene, più avrò in mano la situazione. Lo fanno da ubriachi, quei monchi, la notte, te l’ho già detto, non si accorgono di nulla. Come ben sai tutti temono il peggio su questa torre, sono allo sbando!»                                                          
« Io penso che Liffàr ti abbia agevolato, come vedi … è una buona persona! »                                                                                                                                
« Se mi avesse agevolato di certo non starei qui. Bada ben a quel che dici, giovane Polfinger »                                                                                              
Oswald si limitò a fissarlo con uno strano sguardo cupo che non era da lui, non aveva altro d’aggiungere per il momento. Ma poi aprì nuovamente la bocca:                  
« Per quale motivo ti sei rivoltato contro Vintarige!? Dovresti riconoscere che Liffàr non poteva farci nulla alla fine! Ma tu non avresti dovuto farlo! »                            
« Ah ecco, tu sei uno di loro! Stai difendendo Vintarige, l’Inutile Re » mormorò il folletto a denti stretti.                                                                                
« Oh no, non intendevo affatto questo, Vergar » si corresse Oswald « Voglio dire, perché lo hai fatto? Non dovevi tirarti in ballo all’interno di quella discussione! »         
« Voleva demolire Galioph, e ferire lo scalpellino. Quando sbarcai lungo le coste di Anvea, anni fa, ero più barbuto che mai, più irsuto e scarno d’adesso! Il primo luogo in cui mi diressi fu Arsalan, al Forte del Drago, ma Eriglion, Lord del Forte, non accettava la presenza di mezz’uomini e bestie nel suo castello. Così fui cacciato, e per giorni, forse settimane, vagai per le terre in cerca di luoghi in cui dormire e mangiare. E poi, giungendo al nocciolo, arrivai lungo la sponda dell’Aranel, qui giù, a Darlas. Galioph con il suo regno mi offrì protezione, Aglarend con il suo buon dominio, mi offrì una casa. Tutto l’opposto di quel che ora mi sta giungendo da Vintarige, suo figlio! » sbraitò Vergar, in un piagnucoloso urlo straziante « E Galioph mi ricorda molto Sir Deniavor, il Signore di Giorno Splendente, il mio Lord »                      
Oswald era molto commosso dalla storia, notò che, proprio come aveva detto Alais, i folletti non erano molto tollerati nei regni degli uomini. « Mi spiace davvero tanto »
« Oh, non devi dispiacerti! » disse Vergar « Non importa »                                                                 
Oswald osservò il cielo sopra al suo capo, il sole era ancora stagliato sull’azzurro.                                                                                                                           
« E’ proprio ora che io torni a casa, mia madre non vorrebbe che io stessi così vicino a Vintarige »                                                                                 
« Ammiro tua madre! » lo bloccò Vergar.                                                                                       
« Devo proprio lasciarti ora, Vergar, continua a resistere! Troverai il modo di uscire da qui, Liffàr ti aiuterà ancora … ne sono sicuro. Nel contempo bada bene alle mele che ti ritrovi, fattele bastare per un po’, temo che non ci rivedremo ancora! Che i tuoi ed i miei déi sappiano proteggerti »                                                          
Vergar spinse il suo corpo in avanti barcollando lievemente, e si inchinò al cospetto di Oswald, in segno d’onore e saluto. Prima di girare le spalle Oswald lasciò cadere una boraccia marrone, stracolma di acqua fresca che poco prima gli ciondolava sul petto, giù, nel gelido pavimento imbrunito.                                                                            
Il trono del Re, era ancora luccicante e vuoto quando Oswald sbucò fuori dalla porta in ebano scuro, percorrendo la via a ritroso, dalla quale era arrivato alla Torre Alta. Stava per percorrere in corsa l’Atrio del Palazzo, la Sala del Trono, quando le sue gambe ancora in movimento ricevettero l’ordine di fermarsi bruscamente. Per un attimo ansimò vapore da ogni poro, si sentì pervaso da un forte senso di impotenza e di spavento. Di fronte alle porte del Palazzo D’oro, adesso chiuse momentaneamente, discutevano animatamente Liffàr e Vintarige, entrambi scarlatti in volto.                                                                                                             
« Maestà, questo è un inutile ragionamento! » deglutì Liffàr cercando di mantenere un tono di inferiorità « Posso parlare con franchezza? »                              
Vitarige agitò la mano come a scacciare invisibili moscerini che tentavano di raggirarlo.                                                                                                                    
« Tutto ciò è una pazzia, volete davvero che Darlas attraversi ancora un volta l’orlo della distruzione? » domandò corrucciato Liffàr.                                       
Vintarige non rispose, si limitò a corrugare la fronte, visibilmente a disagio.                                                                                                                                     
« La paura vi avrà offuscato il cervello Sire, lasciatevi persuadere dalle mie parole, vi prego! »                                                                                                          
« No, sbagli Liffàr. Io non sono spaventato. Sono impaziente, attendo le forze di Neralguna più di ogni altra cosa, sono pronto ad inchinarmi al loro cospetto, se è tornato io sono pronto a servire le schiere. Ne ricaveremo vantaggi, vecchio uomo del vento, saremo posti nell’avanguardia! »                                                                       
« A meno che » riprese Liffàr tornando a fissare Vintarige negli occhi « essi non abbiano ulteriori piani, da voi sconosciuti maestà! »                            
« Vi state mettendo al suo stesso imparagonabile livello, maestà, al suo stesso piano di crudeltà! »                                                                                                 
« Parlare con franchezza non significa insulare il tuo Re, Liffàr! Ora basta, è deciso, non aggiungo altro. La parola del Re è parola divina, non si contesta; non si mette in discussione. I saggi consiglieri mi hanno giustamente suggerito il giusto, e questa sarà la strada che seguirò. Nessuno, e sottolineo, nessuno, oserà interporsi tra me ed il mio piano di gloria, o lo estirperò con le mia mani.                                                        
Per qualche minuto, nella sala incombette il silenzio. Liffàr si accarezzava la fronte dolorante, una vena gli pulsava sulla pelle, probabilmente, anzi sicuramente, non sapeva cos’altro dire.                                                     
Oswald, si scostò leggermente dal trono, intento a scrutare meglio la situazione, sempre in cerca di un modo per fuggire. Nel tremore che lo invadeva, una mano grassoccia gli scivolò giù per la spalla, tirando a sé anche la veste in cui erano imbavagliata; una setoso abito giallo a larghe maniche.                                              
« Maestà, questo ragazzo stavo origliando! » urlò il grasso uomo, lo stesso che qualche ora prima Oswald aveva visto uscire da una parete della Sala. Gli occhi di Vintarige si scaldarono, così come il sangue che circolava nel suo cervello, d’un tratto corse in direzione del suo trono.                                                                      
« Un intruso! » gridò Vintarige acchiappando Oswald e lasciandolo scivolare dalla mano del grosso tizio « Come ti dicevo, vecchio Liffàr, questi tipi non meritano di stare nel mio regno! »                                                                                                                                                                         
L’ omone si avvicinò al Re, coperto dalla sontuosa ed elegante veste gialla « Stava origliando, mio signore, probabilmente da non poco tempo! »                                
« Cos’hai sentito!? Parla se non vuoi che ti tagli la lingua, miserabile »         
Oswald, in quella frazione di secondo, ripensò agli avvertimenti di sua madre, ad Alais ed a Liffàr. Non avrebbe dovuto trovarsi lì, senza alcuna protezione, solo e morente come un pesce nella giungla.                                    
« Maestà, io … » mormorò Oswald in cerca di una risposta da fornire.                                     
« Era con me! » sbraitò velocemente Liffàr « E’ colpa mia se si trova qui, ed ancor più se era dietro al trono. Dev’essersi perso quando voi mi avete detto di seguirla, sire. Le Sale del Re sono immense e confusionarie, lo avete detto voi stesso poco prima »                                                                                         
Liffàr afferrò Oswald e lo avviluppò nel suo manto grigio, respingendolo da sguardi troppo severi.                                                                                                    
« Personalmente, maestà, non ricordo di aver visto entrare il fanciullo a corte, questa mattina » s’intromise l’uomo grasso.                                                                
« Allora ti consiglio di aprire quegli occhi che ti ritrovi, non sono lì per restare serrati anche di giorno » sibilò Liffàr costringendo il grasso ad abbassare lo sguardo sul pavimento, lasciando il vista soltanto la testa spoglia.                                                                                                                                    
Poi trainò Oswald lontano dalla Sala, avanzando con fatica in direzione del portone, lasciando alle sue spalle gli sguardi interrogativi e perplessi di Vintarige e del suo consigliere.                                                            
« Ne verrò a capo Liffàr, non prenderti gioco di me, abbi solo pazienza! Basterà poco tempo ed anche tu ti ritroverai in un grande, grandissimo dilemma »                     
« Tempo che tu stesso stai perdendo! » sottolineò Liffàr, rivolgendosi al suo Re con un altro tono, e chiudendo alle sue spalle le porte del Palazzo.                              
Il sole allungava i suoi raggi lucenti, come dita del polso di una mano, all’interno del regno, contornando case ed abitanti, alcuni sereni altri tesi, ma mai quanto Oswald.
« Liffàr, signore! » schiarì Oswald « La ringrazio ancora, una volta, ha fatto tanto e troppo per Vergar! »                                                                                    
« Non parlare di queste questioni qui, ragazzo, forse è meglio che tu fugga a casa, su, non perdere altro tempo! »                                                                  
Oswald prese alla lettera gli ordini del telanor, e corse, caotico e tutt’altro che quieto, verso casa. Sapeva cosa lo attendeva, il calore della sua casa. O meglio, non c’era soltanto il calore della sua dimora ad attenderlo. C’era l’ardore dell’alloggio e sua madre.                                                                                         
Era esattamente mezzo giorno, quando Oswald posò frutta comprata al mercato sul tavolo, pulito e lucido, della sala da pranzo. Sua madre si era leggermente ripresa, e adesso era immersa nel sistemare i punti del suo ricamo, di nuovo.                                                                                               
« Dove sei stato Oswald? » chiese tutt’un fiato senza neppure guardalo entrare.                                                                                                      
« Al mercato, ovviamente » mentì lui, che sapeva di farlo per una buona causa. Se avesse saputo la verità, si sarebbe irata come non mai. La madre lo squadrò dalla testa ai piedi, gli zigomi perfettamente scolpiti dalla cipria sul suo volto vellutato.                                 
« Per tutti gli déi, è già ora di pranzo! » esclamò Iranis gettando a terra i punti del suo ricamo, ora che forse aveva creduto alla farsa di Oswald. Per la prima volta, in vita sua, era riuscito ad ingannare sua madre. Ma si sentiva pervaso nel suo profondo da uno strano senso di rammaricato disprezzo, come se anche lei lo avesse imbrogliato.                                                            
« Ah, Oswald, stamane mi hanno portato delle lettere … ce n’è una indirizzata a te! » mormorò la madre « Non mi sono presa la briga di leggerla, prova un po’ a vedere». 
Gli indicò con le lunghe dita della sua mano, una serie di buste avorio sulla mensola, accanto ad una teiera.                                                                                   
« E’ quello strano rotolo di pergamena! »                                                                                                                        
Oswald prese il sottile foglio arrotolato su sé stesso, cingendolo tra le sue mani. Lo strano messaggio, incognito, era chiuso da uno strano lucchetto in ceralacca viola, smaltata da alcune sfumature di nero. Staccare il lucchetto non fu un impresa facile, cercava di non rovinare la stesura del foglio color avorio, e ci riuscì. Ciò che lesse lo meravigliò così tanto, da fargli sbaragliare ancora una volta i lucidi occhi:                                                                                                                          

                                                                                                                                                                                               Calengol, Selvor.
                                                                                                                                                                        Diciassettesimo anno del S(es).E.
Caro Oswal Polfinger,                                                                                                                          
 
ti invio questo messaggio dal Gorgoglio. Non mi aspetto che tu abbia memoria di me, ma tua madre dovrebbe riconoscermi. Iranis Melin era una mia amica di vecchia data, prima ancor che conoscesse suo marito Jorin. Bando alla ciance, ho saputo che qualcosa ha suscitato il tuo interesse qualche mese fa, qualcosa il cui nome è andato perduto con gli eploghi. Lo chiamano Qesitay, la gemma della luce, un qualcosa che tua madre dovrebbe saper’essere tanto pericolosa. Rammento te che si tratta di un gingillo dell’oscuro dio, il Signore dei Sire, suppongo già tu sappia tutto ciò. Se ti sto scrivendo, ignora la fretta che sto porgendo nel formulare queste parole, sappi che ho bisogno di parlarti faccia a faccia. Ci incontreremo al Gorgoglio, questa sera, sono sicuro che saprai riconoscermi; sono un lepricauno del Reame Verde di Calengol.                                                                                              
P.S. Probabilmente il destino e l’avvenire di molte cose, potranno dipendere da questa conversazione, ti prego di non mancare.                    
Con la speranza che, dopo aver letto ciò, continui a stare bene,                                                                                  

                                                                                                                                                           Il vecchio mercante Oliver Barbatuil.


Oswald era confuso e spiazzato, non riusciva a comprendere una sola parola. La scrittura fine ed esule, curata e sottile, gli sembrava un intersecarsi di rami di un albero, e ciò rendeva ancor più temeraria l’impresa. Porse la lettera anche alla madre, che, scioccata, parve leggerla in attimi istantanei. Anche perché, nell’ultimo mese, aveva tentato di badare alla gemma.                                                                                                                                                                                   
« Oliver Barbatuil » mormorò « Se non sbaglio era quello strano ometto che portava il miele lepricauno da Calengol, anni fa. Lo conosci sicuramente! Ricordi che ti faceva salire sul dorso del suo grande bestione, e tu scalciavi? Eri ancora piccolo, me ne rendo conto … »                                                                              
Oswald non pareva ricordare nulla di quei momenti, gli sembrava che la madre stesse parlando di qualcosa a lui estraneo.                                        
« Io ti avevo tenuto in guardia, figliolo » piagnucolò Iranis « Quel mostruoso artefatto non è prodotto per stare tra i vivi! Siano maledetti gli inferi e Garmagan! »
Oswald aveva uno sguardo vuoto e perso nelle parole della madre, sconcertate e terrorizzate.                                                                                                        
« Devo farlo? » domandò « Questa sera devo andare da lui, pensi che sia prudente? »                                                                                                                     
« Non so più cosa sia quella parola, Oswald. Non andrai solo, verrò con te. Devi imparare a non fidarti delle altre persone, specie se sconosciute, quando chiedono la tua presenza » illustrò la madre « Non avere paura, non potrà accaderci nulla, occorre fiducia però. E’ la sola cura conosciuta contro la paura, figliolo »                                                                                                                                             
Il loro passo era tortuoso quella sera, lungo i viali del regno. Iranis indossava un lungo abito turchese a larghe maniche, molto elegante. I suoi capelli erano stretti in una treccia ramata che le pendeva dall capo fino al petto. Il suo volto era imbavagliato da un cappuccio di soffice tulle bluastro. Oswald aveva con sé la sua consueta casacca ed un giaccone porpora cinto alle spalle, camminava dietro la gonna della madre, come fosse terrorizzato dal solo pensiero, come un bambino che cerca protezione nelle orme dei genitori. La strada che stravano percorrendo era buia, e si trovava al terzo livello del regno. Stagliato contro il cielo della notte, uno strano locale costruito in legno si ergeva di fronte a loro. Il volto di Iranis era accarezzato dalla leggiadra forza del freddo notturno, proveniente da est. L’edificio era illuminato da alcuni speroni con delle torce accese, dal suo interno, sul viale si riversavano vocii e urla. La gente dentro si stava divertendo, sicuramente, a differenza sua che avrebbe addirittura preferito non aprire la porta della locanda per addentrarvisi. Il Gorgolio, la locanda più prestigiosa di tutta Selvor e dintorni, era un locale caldo ed accogliente. Sulla soglia dell’edificio, ciondolante dall’alto, ricadeva verso il basso un insegna. Vi era un grosso pentolone gorgogliante impresso, ed una scritta sottile e rossa: “Buono l’amico, buono il parente; triste la locanda in cui non si trova niente.”
 Urla in festa immersero immediatamente Oswald e sua madre nel bailamme comune, ogni cosa era tirata da una parte all’altra della locanda, piatti, mortai, calici e tazze. Tutto era immerso in un vocio persistente, Oswald e sua madre riuscivano a comunicare esclusivamente con gli occhi, tirandosi di tanto in tanto sguardi fugaci di ammirazione e risentimento. La locanda era spaziosa e dimessa, ma offriva ad i suoi avventori un lieta accoglienza ed una atipica atmosfera da taverna. Ivi erano tre zone all’interno dell’edificio, tutte separate da arcate circolari ben rifinite. Le finestre sulla parete erano tonde come delle lune, a bifora, e tale era la luce che proiettavano fuori. Al centro della locanda, sedeva il gestore Brop, un uomo addentrato nel cuore dell’età, grande e grosso, con folte basette grigie. Sulla destra pendeva alcune scale a chiocciola che conducevano alle stanze per gli ospiti, e sulla sinistra vi erano i camini e le tavolate per le cerimonie. Tutta la sala centrale era piastrellata di tavoli rotondi, con tre o più sedie, a seconda della necessità. Iranis si avvicinò a Brop, poggiando le lunghe dita sul bancone sporco della locanda.                                       
« ‘Sera, signore » lo salutò educatamente « Potrei chied … » iniziò, ma venne fermata dall’omone.                                                                                                    
« A lei, donna, carissima avventrice della nostra locanda. Dopo la pioggia dello scorso mese i cavoli, freschi e vegeti, sono bel lieto di annunciarle, hanno avuto una rapida crescita! Pertanto, il vostro Brop vi offre una sostanziosa cenetta. Paste fredda con saporitissimo cavolo ben cotto e speziato, come primo piatto; spezzatino con funghi e cavoli o pancetta cotta alla brace con contorno di cavoli aromatizzati, per il secondo piatto; e per finire in bellezza dei cavoletti sott’olio. Il tutto accompagnato da una pinta di fresca e deliziosa birra! » annunciò Brop esilarato e sorridente.                                                                              
« Temo … » riprese la madre « temo di aver sviluppato una precoce intolleranza al cavolo, signore ». Ad Oswald sfuggì una risata, il faccione curvo di Brop si era squadrato completamente, e pareva essere incuriosito dalla donna.                                                                                          
« Brutta cosa, tanto! » mormorò « Oh, attenzione! ». Un calice di vetro gli sfiorò il volto per pochissimo, gli trapassò perfettamente il lo zigomo infrangendosi contro la parete. Sotto gli occhi tramortiti della donna, Brop urlò:                                                                                                    
« Mannagia, Falae! »                                                                                                                          
Un uomo, completamente fradicio, ballava sopra una delle tante tavolate accanto ai caminetti, nella sala sulla sinitra. Falae l’ubriaco, danzava spiegando le gambe e saltellando, e vociava.                                                                                                                                                              
Oswald e sua madre si allontanarono dal bancone di Brop, ma prima che ebbe voltato il suo volto, un successivo uomo s’avvicinò al gestore.                                      
« ‘Sera signore » lo salutò Brop.                                                                                                            
« Jorah Marrister, è il mio nome » sottolineò l’uomo sui cinquant’anni.                                                                                                                                         
Poi Oswald si girò completamente dall’altra parte. Sua madre correva lungo tutta la locanda, a gambe levate, sotto la gonna turchese. Poi si fermò completamente, osservando con stupore ogni singola gente. Un uomo tarchiato, trasandato e stanco in volto, sedeva su uno sgabello di legno, le gambe incrociate sotto il tavolo e gli stivali rovinati terminanti con una punta affusolata.                                                                                                                                       
« … zaffiro di zaffiro,                                                                                                                                                                                            
speranza in ogni dove;         
nel docile clangore,                                                                                                                                                                      
zaffiro di zaffiro »   
                                                                                                                                            
« Che splendido cantico, signore! » sbraitò la donna che contemplava l’uomo « Da dove proviene questa idilliaca musica? »                                                              
« Direttamente dai Reami Verdi di Calengol, mia lady »                                      
Gli occhi della donna luccicarono, forse non quando quelli di Iranis.      
« E’ quello Oswald, va’ da lui! » gli bisbigliò.                                                                 
« E tu? Tu non vuoi ascoltare cos’ha da dirmi? »                                                      
« Non occorre, me ne parlerai quando tutto sarà finito. Mi apposto di là, non badare a me »                                                                                                
Oswald si limitò ad annuire e proseguì, lasciando sua madre alle spalle, in direzione del lepricauno. Era uno strano ometto, quello, della stess’altezza di Vergar. Sembrava sprizzare gioia e felicità da ogni poro, rideva e beveva boccali di birra, era tipico di lepricauni essere completamente, in ogni momento, contenti ed appagati. Avvicinandosi sempre più, quando la donna dai capelli biondi ebbe lasciato il posto vuoto di fronte all’ometto, Oswald avvertì uno strano odore sgradevole, di quello che emanano gli oggetti tarchiati ed antichi, come quello di Brop, ma riassunto in un corpo più piccolo. Sicuramente era trasandato per il viaggio, dato che da Calengol fino a Darlas la strana non era poca, ma neanche molta. Portava ancora con se i segni di una lunga e ardita cavalcata. Il suo volto era completamente ricoperto dai segni di una vita vissuta, da una folta e lussureggiante barba grigia che scendeva in grandi ciocche oltre le ginocchia, come una cascata di peluria. I suoi occhi erano piccoli e luminescenti, come frammenti cobalto di gioielli incastonanti in un piccolo volto. Le guance rubiconde potevano a mala pena essere scorte, attanagliate dalla barba. Oswald prese posto accanto all’uomo, impassibile di fronte ad ogni suo movimento.                                                                        
« Oliver Barbatuil? » chiese sempre all’erta.                                                                                                                         
« Ecco giungere Oswald Polfinger » sbraitò radiante « il giovane dai mezzi termini! »                                                                                                             
Oswald parve rasserenato, e sospirò profondamente.                                                                            
« Temevo che non fossi mai arrivato, stentavo a credere che fossi giunto a me, senza conoscermi, senza aver fiducia » puntualizzò.                                                
« La fiducia è l’unica cura conosciuta contro la paura » disse Oswald, rammentando le parole della madre.                                                                                        
« Come darti torto, mio caro Oswald! » mormorò il lepricauno                       
« Dovrei presentarmi, sono Oliver Barbatuil, di Calengol. Vecchio mercante dei regni di Selvor, non hai memoria di me, non è così? »                            
« No, affatto »                                                                                                                                                                                                                            
« Ecco, come temevo. Gradisci una calda tazza di tè? » domandò Oliver.                                                                                                                            
Oswald annuì leggermente.                                                                                          
« Allora sono due » disse afferrando il gomito di uno dei camerieri « due tazze di tè! »                                                                                                          
Oswald cercò con degli sguardi veloci e fugaci l’ombra di sua madre, desiderava che anche lei lo stesse guardando. In quel momento la sua supervisione era ciò che gli occorreva, più di ogni altra misera cosa. Era seduta appena dopo qualche tavolo più in là, e beveva qualcosa da una tazza di strano avorio contorto, simile ad una zanna di elefante levigata e sgusciata. I suoi occhi, profondi e cupi, erano riversati attentamente sul figlio, le sue orecchie non si lasciavano sfuggire un solo movimento.                                                                                                                                   
« Dove hai lasciato quella buona donna di tua madre? » domandò Oliver.                                                                                                                         
« Oh, ha preferito restare a casa »                                                                                                     
Oliver lo fissò con uno sguardo tagliente, poi riprese:                                 
« Ti starai chiedendo per quale motivo ti ho convocato qui … temo che tu abbia capito ben poco dalla lettera, anzi, lo credo proprio dato che non ho potuto scrivere con la dovuta calma necessaria. Conosco il tuo nome, perché ovviamente come ti avrà detto tua madre, ti conosco da quando eri poco più piccolo di così! » gesticolò mettendo le mani una sopra l’altra, a distanza di una trentina di centimetri.            
« Ogni informazione di cui sono provvisto, mi viene concessa dall’anima del bosco di Calengol, egli conosce ogni cosa di Selvor, e le sue sono notizie certe. Ma tutto ciò non ci interessa in questo istante. Qualcosa, mesi fa, è venuto tra le tue mani, che lo hanno accolto inconsapevolmente! Per il dio dei boschi, Oswald, Iranis non ti ha avvertito? Perché  non hai scagliato via quel Qesitay!? » domandò Oliver.                                                                                                                                  
Il cuore di Oswald pulsava all’impazzata, ma non sapeva cosa rispondere.                                                                                                                                      
« Sono qui per avvertirti, Oswald, l’anima di Calengol, l’essere superiore a noi, mi ha obbligato a farlo! Come ti sarà ben noto, Darlas non è mai stato un regno ove pace e tranquillità hanno saputo regnare sovrani, la fortezza è più volte venuta meno al suo duplice intento. Lo si può ben costatare … » disse Oliver afferrando i due calici d’avorio dalla mani del cameriere e porgendone uno ad Oswald, che non bevette « in una della battaglia ormai più menzionate dell’ultimo eplogo. Quella che vide fronteggiarsi le armate dei Gurak di Garmagan e dei paladini di Darlas. Poi sai sicuramente il modo in cui si concluse. Tuo padre, Jorin Polfinger, fece quello che era giusto fare e mozzò la battaglia »                                                                                                               
Oswald annuiva furioso, senza parlare.                                                                                                                  
« Ma le armate di Neralguna non combatterono per gloria, lo fecero per quella gemma; il Qesitay. Garmagan pur avendola sotto le sue grinfie, pur ghermendola giorno dopo giorno, fino all’arrivo di Morgael, non ebbe mai la sfrontatezza di percepire il potere che il monile emanava. Non riuscì a scoprirne le sue forze. Ma ora, una nuova minaccia incombe sul territorio, Neralguna sprigiona nuove forze, generate da Marbag l’abominevole, che per conto mio di abominevole ha soltanto il nome, cerca ciò che apparteneva a suo padre. E’ disposto a fare ogni cosa pur di riaverlo indietro, pur di riuscire a riportarlo con sé »                                                                         
« Non si conoscono effettivamente i poteri del gioiello di Garmagan, è quindi impossibile spiegarne le conseguenze che potrebbero essere causate. Le mie impassibili informazioni mi costringono, giovane Polfinger, a riferirti che Darlas è in grave pericolo. La minaccia di un attacco al regno è ora sempre più di vicina, tutti i possibili aiuti saranno ben accetti, posso essere necessari tanto quanto un’arma »         « Se ti sto dicendo ciò è per una un semplice motivo, ci occorrono difese, i Gurak si preparano all’attacco. Orde di queste creature stanno marciando al confine di Selvor, lo spirito dei boschi me lo ha riferito con chiarezza, spietati come non mai stanno tornando per riprendesi ciò che è di proprietà del loro padrone. Infidi mostri putrefatti accorreranno in migliaia, in schiere con altrettanti servitori di Marbag »                 
« Ecco ciò che ti propongo; Il tuo compito è quello di riuscire ad ingannarli tutti, di non permettergli di posare le loro mani sulla gemma. Se non fallirai saremo un passo in meno dalla sconfitta, un passo in più dal perdere la speranza di una vita serena e compiaciuta. Oswald Polfinger, tu rimarrai a Darlas durante l’assedio, attenderli e poi fuggire, soltanto dopo, con me.                                                                            
« Fuggire? » pensò ad alta voce Oswald.                                                                                           
« E’ quel che ti ho detto, fuggire. Mi sono preso la briga di informare Lord Tomard di Forte del Drago, troverete rifugio nel suo castello ad Arsalan, vi ospiterà nella sua roccaforte. Ma ciò che più mi interessa riferirti è che tua madre, Iranis Melin, dovrà fuggire prima di tutti, prima dell’assedio »                                                             
« Mia madre? » domandò a ancora una volta.                                                                                                  
« Ancora esatto! » esclamò Oliver « I Gurak conoscono fin troppo bene la moglie di colui che ha assassinato il loro precedente sovrano, non avranno scrupoli con lei. Ella deve fuggire prima del loro arrivo, ne sarà informata personalmente, potrà soltanto così nasconderti dalle loro grinfie »                                                                 
« Ma allora loro conoscono anche me » sbraitò Oswald.                                           
« Oh no, tu sei cambiato dall’ultima volta che ti ho visto, non avranno alcun timore di sterminare qualsiasi ragazzo, è normale ciò, ma non sapranno che tu sei Oswald Polfinger. Tua madre non è variata di una virgola, il suo bel volto è ancora appeso sulle sue spalle. Guardala, è proprio laggiù! » indicò Oliver che doveva averla vista mentre Iranis abbassava lo sguardo velocemente « Stanca di restare in casa, forse?»                                                                                                                  
Poi riprese a parlare:                                                                                                                                                                                                                    
« Meno sapranno chi è Oswald, meno possibilità avranno di acciuffarlo. Ahimè, giunge noi un piccolo imprevisto, qualcuno, come ben puoi sospettare dal loro arrivo, cui hai già mostrato la gemma oltre tua madre, ha informato Marbag. E’ irrimediabile questo piccolo dettaglio, ma confondibile sicuramente »                                            
« Se anch’io scappassi, prima dell’arrivo dei Gurak, non sarebbe meglio? »                                                                                                                                   
« Sì, sarebbe meglio per quei pochi attimi che ti rimarrebbero di vita. Le truppe di Marbag ti daranno comunque la caccia, pur se tu fuggissi fin dopo il Mar Stretto. E scaglieresti in questo modo, la minaccia non soltanto su di te e su Darlas, ma sull’intero continente di Anvea. Sarai costretto ad abbandonare quindi, tutto, la tua casa per prima, i tuoi interessi per seconda. Pensa che almeno, non dovrai abbandonare la tua vita » continuò toccandosi l’irta barba grigia.                                               
« Come puoi esserne sicuro? Tu hai mai abbandonato qualcosa? » chiese in tono arrogante Oswald.                                                                                
« Io no, ma … » la sua voce venne sovrastata da quella di Oswald.                                
« Come posso fidarmi di una persona che nemmeno conosco!? »                                                           
« Oswald, ragiona, non puoi rispondermi così! Qui non rimarrà nulla. Porterai tua madre con te, dovresti esserne felice, andrete al riparo »                                        
« Come si può essere al riparo se si è lontani da casa »                                                          
« A volte le parole sono celate dietro ad altre, e forniscono spiegazioni che non dovrebbero fornire in quel modo »                                                            
« Chi mi assicura di star parlando con un uomo giusto, con un uomo che non ha intenzione di mettere le sue mani sul Qesitay? »                                             
« Io » rispose una voce tonante alle sue spalle, gli occhi di Oliver balzarono sopra la testa di Oswald. Egli si girò si scatto e vide, con immensa gioia, la sagoma di Liffàr stagliata nella penombra. Era incappucciato anche lui come sua madre, da un soffice e tenue velo grigio.                                                                                          
« Non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre voci, fossi in lei, mastro Barbatuil, mi riferirei ad Oswald con un tono tanto più lieve, se non preferisce che tutto il regno sia messo al corrente come me »       
« Oh » bisbigliò Oliver bloccando uno sbadiglio con il palmo della mano.                                                                                                                         
« Ecco Oswald, ogni parola di Oliver è semplice verità filtrata, pura come la acqua di una sorgente. Vedi, so per certo che Vintarige è più pronto che mai ad accogliere i Gurak di Marbag, me lo ha riferito egli stesso questa mattina, quando tu ci hai visti ed uditi parlare. Egli è a conoscenza di ogni cosa, brama come al solito all’accrescimento del suo potere, più di ogni altra cosa, vuole assecondare tutto ciò. Marbag l’Oscuro, gli avrà promesso la gloria eterna in cambio della gemma, ed egli, cieco per com’è, non si è disturbato a rifiutare. Ma Marbag è troppo spietato per frazionare il potere, non ne ricaverà nulla, soltanto distruzione! Io penso che la colpa sia di Vintarige, ma non ne sono altamente certo, potrebbe avermi detto queste poche cose per trarmi in inganno, è diabolico quell’uomo »                                      
Oswald era ammaliato dalle parole di Liffàr, “allora” pensò “deve essere vero”.                                                                                                        
« Hai capito Oswald  » chiese Liffàr « Ascolta i consigli di Oliver, segui ciò che ha darti e non contraddirlo »                                                                                    
« Va bene » disse Oswald abbassando il capo.                                                             
« Ottimo » riprese Oliver « Mio caro fanciullo, è tardi adesso, tua madre sarà stanca. Puoi anche tornare a casa, ti scriverò e mi farò vivo io per spiegarti come proseguire, le armate stanno arrivando, non abbiamo ancora moltissimo tempo. Prima d’allora, suppongo, che non ci vedremo mai più » poi si rivolse a Liffàr sgranando gli occhi « Tienilo sotto custodia, lui e sua madre, non mancarli di vista per un solo attimo. E tu Oswald, conserva bene la gemma »                                                  
« Li proteggerò fino all’arrivo ad Arsalan, mastro Barbatuil, stanne certo! Proteggeremo il Qesitay? »                                                                                                 
« Scegli tu come agire adesso, Oswald »                                                                 
« Agirò per il meglio, Oliver » rispose Oswald ritornando a mantenere il suo autocontrollo, cui spesso veniva meno.                                                                     
Oliver si voltò, si chiuse nel suo manto marrone e si rintanò in un buio angolo scaldato dalla luce del camino, come una bambino addolcito, iniziò a contemplare le fiamme. Liffàr salutò Oswald con una stretta mano e fuggì via dalla locanda, quasi deserta. Iranis era rimasta retta come un soldato, sulla seggiola, la taverna, senza poter sentire le parole di Oliver né quelle di Oswald o Liffàr, poiché troppo lontana dai loro flebili bisbigli. Quando Oswald arrancò verso sua madre questa si alzò, ancora inglobata nel suo soffice vestito turchese, poi si rimise in testa il tenue tulle bluastro, e camminò senza proferir parola verso l’uscita. Brop, dormiva stravaccato nel bancone, con un cuscino porpora sotto il mento e le braccia conserte.
Quando madre e figlio uscirono dalla locanda, ansimanti e meno nervosi di quando vi erano entrati, la luce che fuoriuscì dalla taverna proiettò nel viale le loro lunghe ombre unite in una sola. Per qualche momento, Iranis Melin ed Oswald Polfinger, insieme, furono più prominenti di un Sovrano. Di un vero sovrano, perché mai di Vintarige, di quello lo erano anche senza dover ricorrere ai giochi delle ombre.
   
 
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