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Autore: Makil_    27/07/2015    19 recensioni
Una muova minaccia sta per sorgere ad Anvea, il continente prima del Mar Corto, sul cui suolo da anni non veniva istillata guerra. Toccherà ad un nuovo prodigio stabilire il destino delle sue genti, un ragazzo la cui vita si è trasfigurata da un giorno all'altro. Un viaggio ai confini dei regni di Anvea lo attende, una partenza di sola andata forse per ricondurre il bene sul suo continente.
Un fantasy epico, ai confini della ragione, ma molto legato al tempo medievale. Un romanzo ottimo per un pubblico di qualsiasi età.
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Se, da lettore, volessi recensire questa storia; non indugiare, ho bisogno di pareri e critiche di ogni genere.
Tale testo è soggetto ad operazioni di copyright [©] da parte dell'autore Makil_; qualsiasi genere di plagio - senza ovviamente l'autorizzazione e/o il consenso del medesimo autore - sarà ritenuto punibile.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sulla collina di una valle delle montagne grigie a Selvor, al terminare del lungo e lucente fiume Aranel, s’innalzava, nel pieno del suo enorme splendore, Darlas la città del vento. Il regno parzialmente costruito in legno si divideva in ben quattro differenti livelli, ciascuno dei quali situato ad altezze ben precise. Il primo piano della città ospitava esclusivamente la grande recinzione muraria, edificata in legno e pietra. Sul bastione che s’affacciava sul vasto campo irrigato dall’Aranel s’apriva, incluso tra due enormi torrioni dal tetto in legno, un arco che chiuso da due pilastri formava il portone; unica via d’accesso alla cittadella. Maestoso ed imponente delimitava il regno ben protetto dal resto della regione, e sul dorso aveva impresso lo stemma della città; uno scudo circondato da fiamme e frecce, dipinto in rosso sgargiante. La cinta muraria si slanciava fin oltre il secondo livello e, di tanto in tanto, era sormontata da torri di guardia e pontili traballanti. Il secondo ed il terzo piano di Darlas erano coperti per lo più dalle abitazioni dei cittadini che avevano quasi sempre un tetto in paglia e pareti in granito. Nell’ultimo livello, non per nulla di minor importanza, erano situati i luoghi più celebri della città. Il Palazzo d’oro del Re, che veniva tramandato di padre in figlio, era la dimora del sovrano, la base delle guardie, la sede del Consiglio Reale, e la casa di moltissime altre mansioni. Il portone del magnifco Palazzo s’apriva sulla piazza principale e di fronte la statua del primo Re di Darlas – nonché fondatore della città stessa – Galioph il Salvatore. Tutt’intorno il quarto livello era inghirlandato da altre mura interne, precedute da innumerevoli viali che conducevano al secondo portone, in ferro battuto, di fianco all’entrata della piazza. In diagonale e lateralmente alla statua del fondatore, una torre più alta delle altre, con finestre e portone, era l’abitazione del telanor protettore di Darlas; la torre smeraldo, il cui colore variava nel tempo in base a chi vi risiedeva. Tutti i livelli erano raggiungibili attraverso lucide scale in marmo che ruotavano attorno alla città. I Polfinger, una casata di antiche origini, vivevano a Darlas da molto tempo. Isaac Polfinger risiedeva, in tempi abbastanza remoti, nell’antica cittadella ormai distrutta di Veranis. Il ventiduesimo anno del quarto eplogo, una burrascosa tempesta si abbatté sulla città, ma l’uomo e sua moglie resistettero al disastro mentre la loro casa, e quella di molti altri, venivano rase al suolo. Il giorno seguente Isaac non si lasciò prendere dallo sconforto e, appoggiato dal supporto conferitogli dalla moglie Camlie, chiese asilo alla città di Nendir dove riuscì ad addentrarsi attraverso la conoscenza di un amico che occupava il ruolo di guardia del Re. Infatti era impossibile oltrepassare il confine del regno di Nendir, perché il sovrano Fentos richiedeva un comune ed atroce pedaggio che consisteva nel taglio di una parte di lingua. I coniugi sfuggirono, quindi, alla tirannia del Re Pazzo che in quel tempo aleggiava in Nendir. Ma l’era della gloria non era ancora giunta. Alla morte della buona vecchia guardia, amico dei Polfinger che li aveva fatti entrare di soppiatto, infatti, Isaac e Camlie vennero cacciati via dal regno di Fentos e feriti gravemente durante la carica alla loro abitazione. Nel viaggio di ricerca di un luogo in cui poter vivere tranquilli gli anni di vita che gli restavano, s’imbatterono in qualcosa di migliore; un vecchio uomo di nome Galioph che, con il valoroso ausilio offertogli dai giganti, aveva intenzione di creare una fortezza per quelli che, come loro, avevano smarrito ogni speranza. La città prese il nome di Darlas – suggerito da uno dei giganti che terminò la fortezza – e venne presidiata da Re Galioph il Buono. Isaac e Camlie concepirono, nel frattempo, un figlio e lo chiamarono Damien. Egli condusse il cognome della sua stirpe fin oltre il quinto eplogo. L’uomo e la moglie Fàmir ebbero ben tre figli; Pletino, Wally e Jorin. Il primo, raggiunta una veneranda età, lasciò il continente di Anvea per raggiungere, nel sesto eplogo, le terre perdute di Fàzira, dove sposò una mutapelle. Wally fuggì via da Darlas, nel quinto eplogo stesso, in cerca di un regno migliore in cui abitare. Per quanto riguarda l’ultimo dei tre, Jorin, egli rimase sempre fedele alla sua terra; Darlas, ed anche dopo la morte del padre continuò a vivere nel regno. Successivamente Jorin sposò Iranis Melin e morì qualche mese prima della nascita del figlio, Oswald - nel sesto eplogo – lasciando la casa e la vita del piccolo fanciullo nelle mani della moglie. Erano passati esattamente sedici anni da quando Oswald era nato. Alla città erano state apportate poche modifiche durante il corso del tempo, ma questa aveva continuato a crescere sia fuori che dentro di sé.

« Oswald! » lo accolse la madre Iranis mentre che il ragazzo chiudeva la porta alla sue spalle «Dove sei stato? » La donna balzò dalla poltrona e corse in direzione del figlio. Iranis aveva una pelle molto chiara e curata, i capelli castani attraversati da sfumature di grigio, ed occhi chiari inseriti in un volto ossuto e rovinato dalla maternità, ma straordinariamente bello. Ella era una donna austera ed ambiziosa, giusta e d’onore; molto protettiva e che spesso preferiva seguire il suo cuore piuttosto che la sua testa. In quel momento indossava un lungo abito nero attraversato da una linea verticale di porpora all’altezza del petto e sul quale s’intrecciavano parecchi lacci.
« Madre, sono stato trattenuto in piazza » iniziò Oswald tutto d’un fiato; non voleva rivelare ogni particolare « Ma ero con il figlio di Palgolin! Alais … lo conosci! »
« Quel buon ragazzo di cui mi hai tanto parlato? » chiese Iranis.
« Esattamente » confermò lui « E con noi c’erano anche i due figli di Javanne e suo nipote »
« E cosa facevate tutti in piazza? » troncò la madre inarcando le sopracciglia.
Oswald avrebbe preferito non sentire quella domanda, non voleva dire nulla in riguardo. Poi sbuffò e mormorò lentamente:
« Vintarige, quel buono a nulla, vuole far demolire la statua di Galioph » spiegò Oswald.
« Demolire la statua del buon Galioph? » esclamò lei « E per quale arcano motivo? »
« Non ne ho proprio idea … pensa di essere tante volte più importante del Fondatore » precisò « Quanta arroganza per un così piccolo ometto, lo spedirei dritto fuori dalle mura! Ma non dimentichiamo che lui ci governa e sarebbe meglio evitare di metterselo contro » enunciò deciso e svelto Oswald.
« Avere una corona in testa e sedere su un trono non significa governare » urlò lei « e Vintarige non è un Re, soltanto uno stolto che cerca di impadronirsi della vita dei suoi cittadini »
« Già, proprio così … »
« Ma puoi starne certo, Oswald, questo fannullone non ha lunga vita nel nostro regno; prima o poi qualcuno gli si rivolterà contro con delle buone, buonissime, maniere! »
« Ah sì! Speriamo tanto! » biasimò Oswald che cercava di mettere un punto all’argomento e desiderava, nel contempo, non aver mai detto nulla della statua. Era quasi mezzodì e lo stomaco di Oswald iniziò a brontolare dalla fame.
« … e se qualcuno non lo farà, allora questa statua non durerà molto. Te lo assicuro Oswald, nessuno nel regno riesce più a sostenere le sue idee. E’ diventato più arrogante di quanto lo era da bambino. Temo proprio che il potere gli abbia stravolto l’esistenza, ricordo ancora quando costringeva le persone a baciargli i piedi doloranti e sudati … il fanciullo esigente lo osavano chiamare. Che nome ridicolo, quasi fin troppo per uno come lui! »
« Lo capisco, madre, ne sono a conoscenza ». Poi stentò qualche minuto « Quando si pranza, madre? »

La domanda si rivelò subito un diversivo; la madre adesso parlava di altro.
« Questa mattina mi hanno portato alcuni polli dalla fattoria di Gregor, ho intenzione di cucinare un buon brodo con questi » illustrò indicando i pennuti stecchiti sul davanzale della finestra.
« Magnifico! » esclamò Oswald con la pancia che iniziava a brontolare sempre più « Mi ci voleva proprio! »
Iranis sorrise. Oswald era ancora accigliato sull’uscio della porta d’ingresso, la casacca sporca tra le mani. Attaccò il fardello sulla trave ed entrò in cucina. Subito venne irradiato dalla luce del sole che penetrava nella sala da pranzo attraverso la finestra aperta sul viale. Il suo sporco volto esile s’illuminò, così come la sua lucente zazzera color biondo scuro. Egli era slanciato e magro, con un naso abbastanza paffuto impresso sul volto e gli occhi grigi. Era nobile, più di qualsiasi altro ragazzo, ed era un ottimo pescatore. Tutte queste virtù lo portavano ad essere apprezzato anche dagli adulti; per i quali nutriva profondo rispetto. Casa Polfinger era sempre molto ordinata, sistemata e pulita. L’abitazione, come tutte le altre a Darlas, era costruita in legno e questo rendeva l’ambiente ancor più caloroso. Il salotto e la sala da pranzo erano un tutt’uno, ed era presente una sola porta che conduceva alla camera da letto. La camera di Oswald era situata in una piccola anticamera quadrata e stretta, situata a breve distanza dal salotto e subito alla destra del tavolo. Iranis stava cuocendo il brodo di fronte ad Oswald che, seduto sulla sedia, attendeva con impazienza e tirava sguardi fugaci fuori dalla finestra; nel viale su cui s’affacciava la casa. Contemplava con ammirazione gli uccelli che volteggiavano nel cielo e che, cinguettando, animavano lo splendore della calda atmosfera a Darlas. Ma il suo sguardo perse d’un tratto lo stupore per la scena; le sue orecchie avevano avvertito qualcosa di meglio a cui badare … qualcosa di maggiormente interessante.
« … certo cara bambina! Con un bel gruzzolo di monete posso adempiere ogni tuo più profondo desiderio! » esclamò una voce rauca.
« E puoi anche parlare con chi non è più sulla terra? » chiese una voce che aveva lo stesso timbro del cigolio degli uccelli che, poco prima, stava osservando. Oswald spinse il suo viso fuori dalla finestra per osservare meglio. Di fronte al viale si trovava una bancarella con il tetto di tela, scuro, rattoppato e in alcuni punti strappato. Dentro il capanno si trovava un uomo del quale si scorgeva soltanto il brutto volto che, imbrunito e lacero, gi forniva un’aria poco sana e affidabile. La fronte, su cui posavano capelli arruffati coloro oro, era sporgente e deforme ed il suo naso appiattito e piccolo. Una folla esterrefatta, per lo più formata solamente da bambini e ragazzini, ammirava la scena.
« Vorrei tanto poter sentire ancora una volta la voce della mia dolce nonna... » suggerì la bambina con voce sottile ed acuta.
« Certo! » urlò l’uomo con la solita voce debole « Dammi solo qualche moneta e riuscirò a metterti in contatto con lei »
La bambina allungò la mano e posò sul banco quattro monete luccicanti. L’uomo sembrò aguzzare la vista, guardare il denaro che la bambina aveva poggiato e fare una smorfia. La tranquillità ora invadeva la strada, tutti osservavano insospettiti l’uomo sotto il tendone che, con gli occhi chiusi, restava immobile e silenzioso. Anche Oswald era stranito. Poi, ad un certo punto, l’uomo sbaragliò gli occhi e li spalancò come le finestra di una casa aperte per permettere il passaggio dell’aria fresca. Poi la voce dell’uomo sembrò diversa quando parlò:
« Bambina mia! » urlava con voce possente gonfiando il petto ed allungando la testa storpia verso la fanciulla « Sono la nonna! Parla con me! »
« Nonna! Da quanto tempo, come stai? » domandò la bambina con gli occhi lucidi.
Ma sopravvenne ancora una volta il silenzio e l’uomo calò le palpebre.
« Nonna … nonna … nonna … rispondimi ti prego …» mormorò la bambina, poi cambiò « Signore … mi scusi signore … »
La brutta faccia dell’uomo si avvicina sempre più alla quella della bambina, mantenendo però lo sguardo serrato; d’un tratto, ormai arrivato vicino al suo naso adunco, li spalancò e la bambina balzò dallo spavento urlando come se non ci fosse un domani.
« La tua nonnina desidera un altro paio di monete, dolce bambina » disse l’ometto con il tono di voce straziato e sottile, come se stesse ripetendo quella frase da ore ma nessuno lo aveva capito. Ma la bambina non lo ascolta più, fuggiva e girovagava in corsa lungo il viale schiamazzando come una vecchia gallinaccia intorpidita. « Oh, che bambocciona! » esclamò lui « Chi vuole vedere le mie doti di drago? Sì miei cari spettatori! Io emano fuoco dall’interno » disse mettendosi dritto e colpendo il suo petto con un pugno.
Una miriade di bambini si scombussolò ed iniziò ad urlare all’unisono. Nella confusione Oswald comprese chiaramente le intenzioni dell’uomo che stava architettando il progetto per riuscire ad emanare fuoco. Infatti, lo vide tirar fuori dal banchetto un fiammifero che, acceso, posizionò sotto il banchetto stringendolo con la mano sinistra. « Bambini, mettete le vostre monete qui! » suggerì poi indicando il piatto di ceramica alla sua sinistra. Tutti obbedirono come se comandati da una forza sconosciuta, ed il piattino ben presto risultò essere stracolmo di monetine.
« Bene, osservate! » urlò rendendo la sua voce robusta e grossolana; poi soffiò il fiammifero – che nessuno aveva notato – e sembrò che zampillasse di fuoco e fiamme dalla bocca. Tutti applaudirono ancor più meravigliati di prima.
« Come ci sei riuscito? » urlano un gruppetto di ragazzini di fronte al banchetto.
« Ahh, tutto merito delle mie prestazioni! Dentro sono per metà drago … cari miei! »
La folla spalancò gli occhi come se avesse visto un morto camminare e urlò dallo stupore.
« Bene, per oggi lo spettacolo finisce qui! » annunciò con continuo tono teatrale che non gli si addiceva per nulla « Ci rivediamo domani, stessa ora, stesso luogo … diverse magie e nuove, splendenti, monete! »
« Oh, Vergar Lewin, io non ne sarei così convinto! » sibilò una voce alla sue spalle, proveniente da un uomo che scendeva lentamente la scalinata « Piccolo furfante! » Oswald riconobbe subito la figura coperta dal bianco mantello e la rossa veste. Era Liffàr, il telanor di Darlas, dominatore dell’aria. Avanzava deciso verso il banchetto, i grigi capelli trasandati sventolanti sul capo e la folta barba nera sul volto. Il resto del viso era coperto da rigogliose sopracciglia che gli attribuivano un aspetto di indiscutibile severità. Ma Oswald lo sapeva benissimo che era tutto il contrario, quanto il suo animo fosse d’oro e buono; egli si batteva per il bene comune – anche senza ricorrere ai poteri da telanor in eventuali casi – e quanto fosse amato lungo tutti i vicoli di Darlas.
« Oh … emh … Liffàr caro vecchio amico mio, vuoi qualche moneta anche tu? » esclamò l’uomo seduto ancora al banchetto, ma sudato e terrorizzato « Prendi pure; non esitare! » continuò con un falso sorrisetto stampato sul sudicio viso inutilmente contorto.
« Ti avevo già informato giorni fa, ti avevo avvertito Vergar! Non dovevi continuare a rubare! » precisò allarmato il telanor.
« Rubare!? » ripeté lui esilarato « Vergar Lewin non ruba! »
« Convincimi a credere che ti siano cadute dal cielo allora! » ribatté Liffàr.
« Non farneticare! Io … me li hanno regalati loro. ‘Sta mattina un mucchio di ragazzini è giunto qui alla buon ora e mi ha detto di prenderle tutte, io non volevo … ma hanno insistito! » piagnucolò Vergar.
« Bene, allora li riporterò a chi di proprietà, ne sarai felice suppongo» disse Liffàr.
« NO! » urlò l’ometto « No, per favore! »
Frignava come un bambino e ad Oswald scappò una fragorosa risata.
« Vergar Lewin, non insistere ubriacone! » gridò Liffàr.
« Comportati da misericordioso, amico! » insistette ancora Vergar.
« Il tuo è furto Vergar, ed io non lo tollererò un’altra volta! » sbraitò Liffàr. Poi afferrò la moltitudine di monete con le mani, facendone cadere anche qualcuna per terra.
« NO! » urlò ancora Vergar «Tu non puoi privarmi dei miei guadagni»
« Smettila Vergar … » mormorò scocciato il telanor.
« No! » gli gridò ancora l’ometto.
« Non provocarmi! »
Allora vi fu un trambusto, il capanno crollò per terra spinto dalla forza bruta di Vergar che scese, nel contempo, dallo sgabello. Oswald non aveva mai visto il furfante, era deforme, con gambe corte , occhi storti, aveva un passo goffo ed era quasi gobbo. A differenza degli altri cittadini, e di Liffàr stesso, era molto basso. Corse, poi, sopra il suo stesso capanno in legno ed avanzò in direzione del telanor roteando le mani per colpirlo con i suoi pugni fermi.

« Ora ti ricorderai di Vergar Lewin come Vergar pugnidiferro! »
Oswald riconobbe con riluttanza che se Vergar avesse comunque raggiunto Liffàr e gli avesse sferrato un destro, sarebbe arrivato a malapena a colpire la pancia dell’uomo. Ma Liffàr non si fece attaccare, cercò di sfuggirgli girando in tondo con l’ometto alle calcagna che continuava a barcollare scalciando ed urlando. « Vecchio sbruffone! Fermati qui! »
Oswald era molto divertito, si era quasi dimenticato di avere fame e rideva come non mai. Ma per sua gioia, quando Vergar fu abbastanza vicino a Liffàr, questi sferzò l’aria con la mano e, gettando un’ ondata d’aria, lo scaraventò contro il muro.
« Siate maledetto Liffàr, padrone dell’aria; signore dei cieli … io vi maledico! » borbottava Vergar con le mani tra i capelli per massaggiare il capo. Oswald notò spavento nel suo tono, e constatò che aveva cambiato modo di rivolgersi al telanor.
« Non sono né il padrone né il signore di nulla » ribatté Liffàr che era un uomo molto umile « E poi, sicuro che non ti serva del denaro per maledirmi, folletto? » Oswald capì solo dopo, avendo sentito la frase di Liffàr, che Vergar era un folletto. La statura che possedeva era simbolo dell’appartenenza a quella razza; i folletti, poco diversi dagli uomini nei lineamenti e nella conformazione fisica, ma tanto diversi in altezza. Liffàr voltò l’angolo lasciando Vergar steso al suolo, immerso in una delle sue strazianti grida.
Oswald pensò all’istante che forse era meglio entrare, ma prima che ebbe messo in pratica la sua riflessione si sentì sgridare.
« Razza d’idiota! Cosa guardi!? Non hai nulla di meglio da fare? »
Vergar lo fissava rabbioso ed Oswald non rispose, non voleva infastidirlo ancora.
« Vuoi per caso assaggiare la mia furia? » continuò lui ancora steso per terra.
« No, oh, mi perdoni signore … non volevo turbarla! »
Poi chiuse in fretta la finestra, pressandola con forza sulla parete. Quando si voltò avvertì all’istante l’odore del brodo di pollo che aleggiava tutt’intorno alla sala da pranzo e che la madre stava preparando con minuziosa cura.
« Cos’è successo là fuori, Oswald? » domandò incuriosita dalle urla la madre.
« Oh » rise Oswald « Un folletto di nome Vergar si è appena scontrato con il vecchio Liffàr »
« Fortunatamente abbiamo sempre Liffàr … » bisbigliò Iranis.
« Già, chissà come faremo quando lui non ci sarà più! » disse Oswald.
« In quel caso avremo qualcun altro e nel frattempo eviteremo di farcelo scappare! » sorrise la madre.

Il pomeriggio non tardò ad arrivare quel giorno, Oswald era stanco ed annichilito e così decise di andare a riposare per qualche ora. Iranis, nel frattempo, stava leggendo un antico manuale dal titolo “La scoperta di Zàfira” seduta sulla poltrona della sala da pranzo. Non passò molto tempo nella serena e pacata tranquillità, Oswald, che venne disturbato dal rumore della porta di casa che qualcuno, dall’esterno, s’apprestava a picchiettare con il pugno.

« Oswald apri! » annunciò la voce da dietro la porta « Sono Alais! »
Oswald percorse correndo la sala da pranzo e con un gesto netto tirò a sé la porta e l’aprì.
« Oh Alais! » iniziò Oswlad.
« Ciao Oswald » mormorò lui.
Alais aveva un volto allungato, carnagione chiara, bocca sottile e capelli castani e corti. Era snello e prominente; di grande prestanza fisica, buono e finanche socievole.
« Come mai qui? » chiese Oswald insospettito.
« Volevo andare un po’ al fiume per passare del tempo pescando qualcosa … » iniziò Alais « Pensi di potermi seguire? »
Oswald si prese un attimo per poter riflettere, poi annuì.
« Bene, allora ti attendo qui! » disse Alais entusiasta.
« Siamo soltanto io e te? » domandò Oswald.
« Sì »
« Perché non vai a chiamare Imelda e Dalan? Anche a loro potrebbe fare piacere … » propose Oswald.
« Certo; perché non ci avevo pensato prima? » si domandò per conto suo Alais.
« Ma non ci hai pensato neanche adesso … te l’ho suggerito io! »
« E’ vero! »
Entrambi scoppiarono in una lieta risata.
« Allora vado, ci vediamo dopo al portone » lo salutò Alais, poi si congedò correndo lungo il viale e voltando l’angolo. Oswald richiuse la porta ed entrò in casa.

« Madre, io vado al fiume con Alais! » annunciò Oswald alla madre che era ancora immersa in una profonda lettura.
« Va bene, ma vedi di tornare prima di cena … »
« Certo! »
Poi afferrò la canna da pesca poggiata di fianco alla credenza e colse al volo la casacca ancora fradicia e sporca. La strada era semi deserta, il sole illuminava e riscaldava il viale; splendente e remoto nell’alto candido cielo. Oswald corse lungo la stradina e svoltò a destra, poi scese la lunga scala che si snodava lungo tutto il perimetro di Darlas, e nel camminare lungo la scalinata scorse Vergar, del tutto innocuo e del tutto tranquillo, intento a fischiettare libero come un usignolo. Quando arrivò al bastione principale s’avvicinò al piccolo casale del guardiano proprio accanto al portone principale della cittadella. Zacharias, il guardiano, era un uomo anziano e lugubre, con lunghi capelli marroni ed una molto corta sul volto ossuto, su cui splendevano due occhi neri situati in un lobo incavato. « Buondì, dovrei passare! » spiegò Oswald al vecchio guardiano.
« Sicuramente giovane, non tardare però, oggi serriamo prima di notte » illustrò Zacharias.
« Non lo farò; può starne certo! »
Zacharias allora tirò una lunga leva e mise in funzione una serie di cigolanti ingranaggi che, in continuo movimento, aprirono il portone principale.
« Oswald! » urlò una voce alle sue spalle che infranse il rumore ancora profondo degli ingranaggi in metallo. In effetti Oswald si era perfettamente dimenticato di Alais, che correva verso la sua direzione.
« Alais! » sbraitò Oswald « Pensavo fossi già arrivato al fiume! »
« Eh no, ti avevo detto di attendermi qui! » disse lui.
« Ma Imelda e Dalan? » domandò Oswald mentre oltrepassavano il portone ed uscivano da Darlas.
« Non c’è nessuno in casa loro … »
« Oh capisco … andremo da soli allora »
Quando i due amici giunsero al fiume si sedettero per terra e insieme iniziarono a pescare, immersi comunque in un continuo e lungo chiacchierio. Le acque gelide dell’Aranel erano attraversate da una luce sfavillante che il fiume, come fosse una sfera di cristallo, rifletteva.
« … e poi lui si alzò e cercò di sferrare qualche pugno, si divincolarono a vicenda ma Ziffàr fu scaltro e lo schiantò a muro … » si sbellicò dalle risate Oswald raccontando di Vergar all’amico.
« Sì, è così quel folletto … un po’ strano effettivamente; mi costa ammetterlo » dichiarò Alais che stava tirando nuovamente l’amo in acqua.
« Anzi, lo è proprio » riprese « Vergar è un uomo dotato di un’intelligenza e di una perspicacia molto acute, l’ho notato l’altra sera, è abile ed astuto … tutti i suoi piani di furto colpiscono il segno! E comunque, sono capacità straordinarie per lui che è un folletto »
« Ah davvero? » chiese Oswald « E’ strepitoso! »
« Sì, l’ho visto accigliato sul tetto di una casa con un bel paio di monete d’oro tra le mani; dovevi vederlo … camminava nei tetti ed agile come un gatto era! » spiegò Alais che aveva appena preso tra le mani un grosso pesce e lo infilava nel cesto in vimini alle sue spalle. Oswald parve concentrarsi poco sulla pesca; non riusciva ad agguantare neanche un misero stivale.
« Ma ci sono altri come lui ad Anvea? Voglio dire … altri folletti? » chiese curioso Oswald all’amico.
« Oh sì, qualcuno sì, come Vergar! Ma sono estranei a questo tipo di territorio; dei veri e propri viandanti. Migrano qui in cerca di cibo e monete, suppongo, ma vivono in famiglie sotto la protezione di Sir Deniavor nella sua grande dimora – la fortezza del Giorno Splendente – lontano oltre il mare nell’isolotto Primavera » « Ma allora godono di ogni minima indispensabile cosa, non è così? » domandò senza riflettere Oswald « Perché mai dovrebbero voler trasferirsi qui? » « Gran bella domanda Oswald, me lo ha spiegato mio nonno … dice che loro desiderano più di ogni cosa essere indipendenti, sono leggermente arroganti e presuntuosi!» spiegò Alais inserendo un altro pesce nel cesto « Forse proprio perché vorrebbero dimostrarsi più esperti ed abili di noi uomini; da cui, ammettiamolo, sono poco tollerati »
« E’ vero » concordò Oswald che finalmente aveva afferrato un pesce e lo stava mettendo nel cesto.
« Io li ammiro personalmente » concluse esaustivo Alais.
« Anch’io penso di ammirarli in fondo … molto in fondo! » precisò Oswald scattando in un’immensa risata con l’amico. Oswald riteneva Alais una guida, forse perché aveva qualche anno in più di lui e sapeva rispondere ad ogni sua domanda e far trasparire dettagliatamente ogni suo dubbio ed ascoltarlo. Il sole tramontò in fretta quel magnifico pomeriggio, ed Oswald alzò gli occhi per osservare il cielo splendente sopra i loro capi. Ecco che questo sembrava, all’istante, aver perso lucentezza e pareva solcato da grossi e grandi nuvoloni neri che ne oscuravano il suo colore.
« Alais, proporrei di tornare … finiremo per inzupparci dalla testa ai piedi »

« Sì, hai ragione, torniamo al regno » rispose Alais che stava guardando oltre le Montagne Grigie, a ovest. I due allora afferrarono i loro oggetti; canne da pesca, cesti e casacche.
« Il pesce te lo porto dopo io! » illustrò Alais che sembrava aver fretta di andare a rifugiarsi dentro le mura di Darlas, e che, ovviamente, temeva di non aver tempo per dividere il pescato in modo equo.
« Va bene! » sbraitò Oswald.
Poi entrambi udirono l’avvicinarsi di un acquazzone preannunciato da un frastornato boato al quale seguì l’avvio del potente temporale. Tutto fu istantaneamente inondato dal fiume che straboccò dal letto e si infranse sulla piana. « Sbrighiamoci! » urlò Alais .
Ma Oswald sembrò non sentire le gelide parole dell’amico, qualcosa di meraviglioso era piombato sotto il suo sguardo, qualcosa di splendido stava sfavillando come stelle nel cielo, come il sole al tramonto, come luce non ancora decomposta. Era una strana pietra disadorna in superficie ma variopinta, di strana forma perfettamente ovale, che luccicava e splendeva di luce propria e che sembrava variare in base all’angolazione dalla quale la si osservava, e splendeva attorno al fango e l’acqua scura. Oswald mai aveva visto qualcosa di simile in vita sua, mai qualcosa di meglio, emanava uno splendore paragonabile a poche, pochissime bellezze. “Cos’è questo splendido gioiello?”, “E se lo portassi a casa … che guadagni potrei ricavarne vendendolo?”, “E se, invece, lo tenessi per me; potrei autonominarmi un giovane fortunato e ricco? “ … molti pensieri gli sobbalzarono in mente. Ma poi il suo nobile animo prevalse, non poteva lasciare lì un simile splendore … ma non poteva farsi condizionare da tanta maliziosa bellezza. Pertanto, immerso nel cumulo dei suoi irascibili pensieri, persuaso dalla voglia di afferrare la pietra, protese il braccio e iniziò a scavare, ripulendola dal fango. “E se la pietra fosse appartenuta ad una dama che, lì di passaggio, l’avesse persa per distrazione … egli avrebbe avuto il diritto di impossessarsene?”, continuò a scavare nonostante la pioggia continuava ad infrangersi sul suo volto che umido e bagnato era adesso irriconoscibile. Ma fu proprio sterrando che notò qualcosa che non aveva ancora riconosciuto, quello splendido artefatto era grande quanto masso rotondo, non era affatto delle dimensioni di un mero ciottolo fluviale, dunque non poteva essere appartenuto alla tiara di una dama, al ciondolo di una regina, né tantomeno all’amuleto di qualche anziana. “Lo porterò a mia madre, saprà sicuramente cosa farne” pensò nella sua testa, “Sì, farò così!”. Ora che la terra era stata scostata e scrostata dalla mistica pietra, Oswald la afferrò e la portò, con un gesto netto della mano, accanto alla casacca su cui scivolando vi entrò immediatamente. La casacca ora ancora più umida che mai, doveva sopportare anche il fastidioso peso del monile e traballava ciondolando dal petto di Oswald.
« Sono qui! » rispose Oswald alzando lo sguardo dal fradicio terreno molle, ma egli non vedeva bene l’amico un po’ perché, forse, lontano dalla sua traiettoria, un po’ perché meravigliato dallo splendore del gioiello ed ancora un po’ perché straziato ed inebetito dal frastuono generale che produceva il temporale all’orlo della sua potenza. Quando Oswald fu arrivato al portone notò che Alais lo stava attendendo sotto un arcata, al riparo dalla pioggia, quasi sotto il tetto in legno di una delle tante torrette di guardia.
« Dov’eri finito? » domandò curioso l’amico che lo accolse sotto l’arcata, facendosi spazio tra la fanghiglia.
Oswald stava per spiegare il vero motivo del suo ritardo, voleva tanto raccontargli della pietra che poco prima gli aveva fatto illuminare lo sguardo, voleva mostrargli il frutto di tanto splendore, ma preferì in quel momento non parlarne con l’amico, non perché non riponeva fiducia in lui ma perché non aveva voglia di duplicare la voglia di possedere quella meraviglia.
« Il temporale mi ha offuscato la vista, non riuscivo a trovare la via per la porta! » rispose Oswald insicuro di ciò che stava farneticando.
Tuttavia, Alais parve non riconoscere l’essenza di bugia che si celava all’interno di quelle povere parole e così non replicò ne chiese altre informazioni in riguardo.
« Zacharias! » chiamò tre volte Alais, ma nessuno rispose. Per qualche momento intorno ai due amici librava soltanto il silenzio infranto, periodicamente, dal frastuono dell’acqua che ricadeva sul terreno. Allora la sentinella che risiedeva nella prima torre della cinta muraria, all’udire delle urla, s’affacciò sporgendo il suo volto esile dal bastione.
« Cos’è che volete ragazzi? » chiese l’uomo irriconoscibile in volto a causa del burrascoso temporale.
« Potrebbe aprire il portone? Dovremo tornare a casa per cena … » spiegò Alais.
« Io no, ma … ZACHARIAS! » urlò poi « APRA LA CHIUSA! »
« Cosa!? Emh … io … umh » mormorò irrequieto Zacharias il nullafacente « Perdonatemi devo essermi assopito » La sentinella sbuffò e gemette forte, poi borbottò qualcosa e rientrò nella torre.
« Ah, come se non si potesse dormire tranquilli! » si lagnò Zacharias « Vorrei vedere se loro in quegli alti torrioni non dormono mai! Oh certo, tanto chi deve vederli là sopra!? ». Oswald notò del rossore nel volto umiliato del vecchio.
« Non si preoccupi … ma la prego, apra questa porta! » urlò Oswald che, insieme all’amico, si trovava proprio sotto la pioggia.
« Sì » rispose nervoso Zacharias, come fosse indaffarato nel sistemare o cercare qualcosa all’interno del suo piccolo capanno. Qualche secondo dopo Oswald si ritrovò a correre lungo il viale buio e inumidito a ritroso, lungo la rotta per la sua casa. Aveva lasciato Alais al secondo livello ed ora, rapido sugli scalini di marmo, percorreva il lucido scalone in direzione del terzo. Era esilarato, vagabondava nella sua mente in cerca di un’idea su qualcosa da dire o fare per mostrare, in un modo migliore, il gioiello alla madre, cui Oswald non sapeva se avesse approvato a pieno. Era immerso in un indescrivibile e meraviglioso pensiero quando, fermato da un cruento colpo al petto, rantolò sul lastricato stroncato al suolo, il viso sgocciolante e i pensieri che vagavano nell’aria e s’infrangevano come rugiada che straborda dalle foglie durante una fresca mattinata grigia. Tutto quel che conteneva la casacca, e perfino questa, era sparso per terra e canna da pesca stava ancora vorticando sul viale buio.
« Mio caro ragazzo! Stupido cerebroleso, dove corri a quest’ora? » chiese una voce gelida di fronte a lui. Oswald non riuscì a riconoscere la voce fredda del suo accusatore né l’aspetto o il volto curvilineo. Ma quando questi si fu spostato abbastanza dall’oscurità che lo imprigionava, e si posizionò accanto alla luce proveniente dalla vetrata di una casa, Oswald riconobbe il viso corrucciato dell’uomo. E ora che lo aveva ben inquadrato, se non lo avesse riconosciuto al momento gli sarebbe parso un mostro o qualcosa di simile. Aveva il volto rigido e squadrato, la fronte bassa e schiacciata, i capelli neri e unti e gli occhi grigi ridotti a fessure, colmati di un enorme espressione cupa e severa. L’uomo basso e tozzo, indossava una sgargiante e luccicante veste smeraldo che gli copriva i piedi e rendeva il suo passo altezzoso, ma allo stesso tempo gli intralciava il cammino. Fissava il corpo annichilito di Oswald con un’aria tremendamente irata Vintarige lo sciocco, sovrintendente al trono di Darlas.
« Mi perdoni Sire, io non volevo … devo non averla vista! » spiegò Oswald nel frattempo che il temporalesco acquazzone incombeva su di lui.
« Devi non avermi visto? » fece lui imitando la voce di Oswald « Lo splendore del Re è come un faro nel regno! Non mentire, povero Oswald figlio di Jorin! »
Il sovrano, da tempo ormai, si era montato la testa; credeva di essere un dio e pertanto come tale voleva essere venerato dai suoi cittadini. Ma non riusciva a vedere che in città gli unici che lo appoggiavano erano i suoi due guardiani, cieco per com’era pensava solo a sottomettere il regno alla sua indiscutibile volontà. Il popolo dunque non poteva far altro che augurarli la morte, il trono era suo di dovere, spettava a lui per eredità. Ma egli era tremendamente fissato con le lusinghe e l’ammirazione che credeva ricevere da ogni poro di qualsivoglia cittadino, ma che certamente nessuno gli avrebbe mai potuto o voluto donare. La sua voce odiosa aleggiava nell’aria e pareva lo squittio di un topo dolorante.
« Mi perdoni … » enunciò Oswald spazientito cercando di mettere un punto a questa discussione, senza capo né piedi, utile esclusivamente a fargli perdere ulteriore tempo.
« Mi perdoni!? » squittì Vintarige come se stesse imitando il verso di un roditore « Stai cercando di abbindolarmi forse? Non lo trovo affatto divertente sai? » Oswald finì per non rispondergli, era stanco e scocciato. Odiava tanto Vintarige, il cui aspetto fisico gli lasciava pensare ad uomo del quale potersi fidare assolutamente ed il suo carattere; avido e spietato, ingordo ed egoista, non era certamente da meno. Oswald ansimò come una vaporiera in fuga.
« Non sbuffare ragazzino! » lo sgridò Vintarige « Vi conosco fin troppo bene Polfinger! »
« Stupido verme » mormorò Oswald, ma Vintarige probabilmente non lo sentì. Il temporale s’intensificava sempre più.
« Cos’è questa? » chiese ad Oswald afferrando la pietra caduta dal suo fardello e mostrandola al ragazzo. Oswald notò le tozze dita del Re reggere il sasso ed indietreggiò quando questi gli avvicinò con violenza la mano al volto. A cavalcioni ancora sdraiato per terra, con l’acqua che ormai gli colava ovunque, rispose: « Non tocchi quella pietra! »
« Oh … per caso non dovrei? E per quale motivo? »
« E’ un vecchio talismano di mia nonna; ci sono affezionato! » buttò lì Oswald, che adesso pareva terrorizzato.
« Umh, sarebbe proprio una grave perdita se questo talismano » pronunciò con veemenza « per errore cadesse in mani sbagliate, non trovi?»
Oswald ritornò impassibile e muto come una foglia. Poi Vintarige scagliò la pietra con noncuranza per terra, voltò le spalle e agitando la rilucente veste s’allontanò inghiottito dall’oscurità. Oswald racimolò ogni sua cosa, poi si alzò e riprese a correre lungo il viale in direzione, ormai certa, della sua casa. “Quanto allegra è la città di giorno! Quanto triste è, ahimé, la notte!” rifletté Oswald. Effettivamente non gli capitava tanto spesso di tornare a casa così tardi, quando il cielo era così buio e la tempesta così attanagliante. In quel silenzioso attimo, ricoperto dalla notte, scrutava ogni cosa; le case stagliate contro il cielo nero, vuote e zitte. La strada su cui correva non sembrava essere terra, ma scura macchia nera ed oleosa che fluiva sotto i suoi piedi. Non si vedeva nulla di ciò che poteva capitargli sotto i piedi, qualsiasi misero oggetto più comune avrebbe potuto farlo inciampare da un momento all’altro; il regno tanto bello di giorno, era squallido ed agghiacciante la notte. Quando Oswald arrivò a casa si sentì risollevato e rassicurato, era sfuggito finalmente al temporale. La madre lo accolse lieta e, con un pizzico di ira sul volto, lo fece accomodare in una sedia accanto alle fiamme brulicanti che scoppiettavano dentro il caminetto.
« Oswald … saresti dovuto entrare prima! » gli ripeteva Iranis.
« Mi sono fermato sotto il temporale per una buona causa, madre, aspettate di vedere e ci crederete! »
« Nessuna causa è buona, così tanto, da farmi cambiare idea! Non avresti dovuto attendere che il temporale ti riducesse in queste condizioni! » sbraitò la madre. « Aspetta e vedrai! »
« Quale sarebbe questa buona causa? » domandò curiosa.
Oswald tirò a sé la casacca fradicia e ne estrasse il meraviglioso tesoro luccicante che abbagliò ancora una volta i suoi occhi.
« Ecco qui madre! Un gioiello di tanto valore adesso è nelle nostre mani! Cosa potremo farcene? » chiese con non poca ilarità sulla punta della lingua. Iranis non parlava, i suoi occhi non erano dilatati e grandi come globi vitrei, al pari del figlio, ella era allibita quasi spaventata e sembrava aver appena visto un morto parlare, un oggetto muoversi o il sole tramontare per sempre.
« Dove hai preso quella? » domandò con gli occhi vuoti e neri.
« L’ho trovata all’Aranel »
« Gettala via! » mormorò « Gettala via, Oswald! »
« Prego? »
« Quella non è una semplice pietra Oswald … »
« Infatti, proprio per questo motivo l’ho portata qui! » spiegò lui.
« No Oswald, quella lì è probabilmente la causa della morte di tuo padre! »
Oswald gemette e sobbalzò dalla sedia.
« Che significa? » domandò intimorito. « Più volte ti ho raccontato come morì tuo padre … Oswald! Ma ora che ti ho qui davanti, ora che tu mi hai presa impreparata, io non riesco a continuare a mentirti »
« Madre!? Garmagan uccise mio padre, egli era un guerriero valoroso e andò fino a Neralguna per combatterlo! Non è forse così? »
« Quasi per poco » rispose Iranis.
Oswald era sconcertato, aveva sempre pensato a suo padre come un eroe, sacrificatosi per concedere una vita migliore a suo figlio, vincitore su Garmagan, paladino di Darlas sconfitto dal male.
Eppure, adesso, ogni sua ipotetica identificazione del padre stava crollando, non riusciva in quel momento a stereotiparlo nella figura di un guerriero; nella figura di un valoroso campione.
« Vedi Oswald, correva il Quarto Eplogo quando tutto ciò che sto per rivelarti, accadeva. Anvea, il nostro tanto splendido continente Prima del Mare, era invaso e finanche devastato dalle oscure forze di Neralguna. In quel tempo era il solo Garmagan l’Invincibile a dettare il Fato; a proclamare il Destino della nostra terra. I suoi invincibili Gurak – creature dal tenebroso animo ed aspetto – assediavano ogni regno e ne scandivano il susseguirsi dei giorni … questo probabilmente è un piccolo particolare che non ti ho mai rivelato, senza il quale non hai mai potuto comprendere a pieno quel che avevi pensato di sapere » Oswald, però, al momento non riusciva a capire. Egli era ancora posizionato davanti al fuoco, che scoppiettava e si legava al rumore della pioggia che ticchettava sui vetri. Le fiamme stringevano la stanza contornandola di sfumature rossastre.
« Morgael era una giovane donna in quel tempo. Ti starai sicuramente chiedendo perché mai questa sconosciuta debba essere menzionata all’interno del racconto della gloria di tuo padre, posso risponderti che è, probabilmente, la protagonista più importante dopo Jorin.
« Ella era una viaggiatrice errante, le piaceva molto scoprire nuovi luoghi sui quali stanziare o mettere in pratica le sue ricerche; ma non sapeva, quel giorno di mezz’estate, d’essersi inoltrata in un territorio a lei piuttosto sconosciuto; superate le intemperie del viaggio, non credeva di essersi spinta fin troppo oltre, all’interno di Neralguna. Come ben sai, Neralguna non era e non è un regno conosciuto per il suo splendore … bensì per il male che da tempo produceva e continua a sfornare. Dopo la sconfitta di Alcazar, signore dei tempi, nel Terzo Eplogo, Anvea conobbe lo sviluppo; per anni, per un eplogo intero la terra non venne più cosparsa di sangue umano, per tantissimo tempo Anvea non vide il male incombere sui suoi domini. Ma poi, come un fiore sbucato dal terreno, l’oscurità tornò a gravare sul continente; questa volta dominata da qualcuno di più forte, Garmagan il Magnifico »
Per un attimo nella stanza non si udirono altre voci, né altri rumori fastidiosi, la tempesta parve per un misero secondo aver smesso di ticchettare sulla vetrata poi, come se chiamata, riprese il suo monotono andamento.
« Morgael, figlia di Tamandie, dominava l’aria come un aquila. Difatti, conosceva ogni segreto del cielo e, come un vero e proprio rondone, sorvolava i regni su una nuvola di vapore. Questa è forse una sciocchezza, ma è anche per ciò che si era aggiudicata la sua notorietà in ogni zona di Anvea. Dopo essere giunta ai confini di Neralguna, Morgael vi si addentrò completamente ignara di ciò che l’attendeva. Quando vi fu uscita, illesa probabilmente come se fosse appena nata, portava in mano una grande sfera luminescente, a cui affidò il nome di Qesitay. Ecco ciò che recita il manuale de “ Il Male confinato a Neralguna” - “Or che giungendo sta Morgael, signora dei fumi, sguainando il monile del Magnifico, le fiamme alle sue spalle richiamano l’agonia del Signore che ha perduto il suo ultimo gingillo, or che emanando giustizia incosciente ella risplende di luce impropria, il chiaro del bianco riacquista la purezza della luce e le fiamme sembrano buio al suo cospetto. Ma ella non è a conoscenza del fervido aspetto che nasconde la gemma, Qesitay lo han chiamato – Qesi; luce di Anvea, prima Stella della luna calante, ne sarà ammaliato – allietante è divenuto il suo nome in terra. Così ora i giustizieri del potere svanito sapranno ancora una volta riconoscere ciò che hanno perduto, ciò che è sfuggito al loro tatto, ciò che Garmagan Signore dei Sire ha smarrito lungo il percorso dalla sua misera vita” »
Oswald non pareva ancora del tutto consapevole ci ciò che le sue orecchie stavano ascoltando, ma continuava ad annuire. « Il tempo, che tutto divora, passò in fretta per Morgael. La donna venne richiamata nel Sesto Eplogo, dopo lunghi anni di assenza dalla vita da telanor, a protezione del regno di Darlas. Ma benché gli anni fossero passati da quel fatidico giorno, Morgael continuò a custodire con gelosia la sua preziosa gemma e la portò con sé quando promise di difendere il nostro regno.
« Ma lei non era più giovane come una volta, non sapeva bene cosa poteva scatenare il suo ritorno alla vita. Garmagan era ancora vivo e cercava disperatamente il suo gioiello, così dopo anni di preparazione decise di affrontare Morgael con il suo esercito oscuro. La donna non poteva vincere, era certo questo; lei era sola, loro molto più di mille. Così quando il giorno della grande guerra per il Qesitay arrivò, Morgael condusse inconsapevolmente la furia del Signore sul regno di Darlas. L’imponente fortezza, costruita dai giganti, fu nuovamente scenario di battaglia ed il suo fertile terreno venne ancora innaffiato con del sangue impuro. Tutto ciò ebbe ripercussioni sui suoi abitanti e sulla stessa roccaforte. La battaglia ebbe inizio quel secondo anno del sesto eplogo, qui a Darlas. Per ben tre giorni le armate oscure di Garmagan combatterono con fragore, spazzando via ogni cosa, spezzando lance e scudi come argilla. I paladini di Darlas opponevano resistenza, insieme ai loro alleati provenienti da Arsalan. Durante quel tempo Aglarend sovrano di Darlas – padre di Vintarige - venne sconfitto, così come Morgael che fu spazzata via dall’ira di Garmagan stesso. Ma ella era tanto astuta e non lasciò il Qesitay allo scoperto, anche se di questo nessuno ne seppe più nulla, se oggi non fosse giunto nelle tue mani aggiungerei » « Ma Garmagan fu poi sconfitto? E’ forse esatto il contrario? » domandò Oswald terrorizzato.
« Certo che sì, Garmagan fu sconfitto, e fu tuo padre a sconfiggerlo »
Gli occhi di Oswald s’illuminarono come se stesse tornando a guardare il Qesitay.
« Devi sapere che Garmagan non attaccò Darlas soltanto con la potenza dalla maestosa armata di Gurak, portava con sé un grande alleato; una bestia sputa fuoco, poco diversa dai draghi ma non uguale, perché tante volte peggio. Kairos si chiamava, ed era feroce tanto quanto il suo padrone. Io ti portavo in grembo da pochissimi mesi, tuo padre non avrebbe permesso a Garmagan, né ai suoi Gurak o al suo animale, di spazzarci via come foglie al vento, pertanto osò preservare la nostra incolumità abbandonandoci nel forte accanto al palazzo d’oro. Poi corse fuori dalle mura con in mano la sua spada, e nel petto il suo docile cuore che batteva al ritmo del suo nobile valoroso coraggio.
« Così Jorin Polfinger iniziò a demolire armate di Gurak, accanto ai voraci paladini di Darlas ed al suo ormai certo amico Eriglion, re di Arsalan. Combattevano come se non ci fosse un domani, perché sapevano entrambi che questo non ci sarebbe stato, sfidavano le fiamme di Kairos e respingevano il potere oscuro di Garmagan. Prima che il sole del quarto giorno tramontasse Eriglion di Arsalan, fu divorato ed inghiottito da Kairos. Jorin non resistette, aveva la bestia di fronte al suo corpo, così si lanciò verso il mostro e, con una forza pari a quella di un potente animale, mozzò con destrezza la coda di Kairos. Furia e fiamme presero il sopravvento, la creatura moribonda riversò il suo alito cocente su tutta la piana, ed espulse la sua agonia sfracellando incontrollatamente, per gli ultimi attimi di vita, ogni cosa. La vampata di fuoco avvolse una miriade di Gurak, cui fuggirono lungo la rotta per Calengol, divampò su Garmagan e ne lasciò solo la cenere. Ma, ahimè, questi non fu l’unico a lasciare Anvea per sempre. Jorin Polfinger, ormai divenuto paladino di Darlas, venne schiantato al suo e ricoperto dalle macerie che crollavano dalle mura di Darlas, poi Kairos la bestia vi si accasciò di sopra stecchito e rattrappito come un sasso rimasto troppo a lungo sotto il sole e gettato di colpo in uno stagno » Oswald era ora sbalordito, sua madre non aveva mai osato spingersi fin oltre, non aveva mai raccontato così in fondo la vera storia di suo padre, che egli aveva sempre ritenuto un eroe. Ma adesso che conosceva il vero significato ed il vero valore della guerra di Darlas, riconsiderò l’idea che si era fatta di suo padre e lo osannò come fosse quasi un dio.
« Cosa ne fu del Qesitay, madre? »
« Ottima domanda questa, Oswald » bisbigliò la madre « Posso ben affermarti che del Qesitay nessuno seppe più nulla! Qualcuno pensa che la gemma venne sconfitta con Morgael, il cimelio venne divorato da Kairos il malvagio. Altri sostengono, invece, che la gemma venne rubata da un Gurak prima di fuggire via dal campo di battaglia. Pertanto, sono molte le voci che si sentono in riguardo al monile, tutte potrebbero essere vere quanto potrebbero essere false. Il fatto che davvero conta, è che il Qesitay si sia ripresentato, ancora una volta, a Darlas, ancora una volta, tra le mani di un innocente Polfinger » « Che possiamo farcene allora? » domandò irrequieto Oswald « Non penso sia il caso di abbandonarlo … potrebbe capitare in mani sbagliate »
« Ritieni che le tue mani siano quelle esatte invece? »
« No, certo che no. Ma possiamo comunque tenerlo qui, al sicuro, nessuno saprà nulla di questo … "ritrovamento"»
« Il suo arrivo qui non è affatto gradito, Oswald, liberatene! »
« Ma madre … »
« Quel piccolo gingillo ha causato troppo dolore nel regno, infinito nel mio cuore. Davvero pensi che tenerlo qui, nascosto, sarebbe qualcosa allietante? »
« No, affatto. Ma sempre e comunque tante volte meglio che lasciarlo in mani sprovviste di un certo criterio »
« Se pensi che poterlo tenere ti conferisca criterio … stai sbagliando di grosso! Liberatene Oswald! » urlò irata Iranis.
« A proposito madre, che ne fu del male; davvero venne sconfitto? » tagliò corto Oswald, in cerca di una frase su cui poter ribattere per convincere la madre.
« Il male? Ah, ti sbagli se pensi che il male sia stato sconfitto! Garmagan probabilmente lasciò la terra, ma prima che questi divenisse polvere qualcosa di strano avvenne nell’aria. Coloro che riuscirono a vedere questo strano avvenimento osano ricordarlo come ascesa del male … una nube nera s’accostò dinanzi al defunto Signore, il suo voltò si deteriorò e il nugolo nero venuta dall’alto si mischiò al tenue velo, grigio, fuoriuscito dal corpo dell’Invincibile. Poi il fumo sparì, e spazzato si trasmutò in buio, successivamente disintegrato dal bene, trasfigurato in luce. Ahimè, non è nella natura del male accettare la sconfitta, egli avrà sempre a che vedere con i mortali, sempre a che fare con la terra; non muore, si rigenera ovviamente, senza dover mai lasciare veramente il mondo »
« Quindi, come possiamo permetterci di abbandonare la gemma!? »
Iranis si fermò a riflettere, avviluppata nel suo scialle rosso accanto al fuoco.
« Promettimi di non mostrarlo a nessuno! Di non proferire mai parola con altrettanti! Oswald, un solo mero passo errato potrebbe causare distruzione! »
« Madre … non dubitare, lo terrò al sicuro, qui in casa, nessuno ne saprà nulla »
« Questa è una promessa, Oswald? »
« Certo che sì! »
Oswald decise di tenere per sé il Qesitay, adesso poteva con esattezza affermare di conoscere la storia di ciò che aveva tra le mani, ma soprattutto di quel che il suo eroico padre aveva combattuto con onore per lui.
« Madre … per quale motivo adesso pensi che io abbia trovato il Qesitay lungo l’Aranel? » domandò Oswald non avendo ancora capito in fondo per quale motivo la gemma si trovasse ancora tra i confini di Darlas, lungo il perimetro del rilucente Aranel. Era entrambi seduti, accostati al tavolo, e mangiavano con vigore. Iranis non fiatò; per qualche secondo parve non aver sentito la domanda del figlio, per un attimo nella sala da pranzo s’avvertirono soltanto gli scricchioli delle mandibole che masticavano il cibo.
« Non ho alcuna idea sul come questo artefatto » pronunciò indicando la gemma posizionata sul tavolo « … possa essere giunto qui … »

« E se non se ne fosse mai andato? »
« Deliri, in quel caso Oswald. Pensi davvero che tutti se lo siano fatto sfuggire avendolo sotto il naso? Ritieni che nessuno abbia osato mettere mani sulla pietra, che così splendente e rilucente avrebbe potuto abbagliare qualsiasi tortuoso cammino? »
« No, è vero! »
« In tal caso, naturalmente, non doveva essere da molto al fiume! » Oswald annuì, era certo che la gemma non poteva essere lì da tanto, effettivamente, la sua fortuna sfacciata era frutto meticoloso del destino, null’altro. Chiunque fosse passato di lì, quel giorno, avrebbe potuto afferrare il gioiello.
« Lascia chi chiarisca una cosa Oswald » mormorò Iranis alla vista dello sguardo vuoto e vacuo del figlio « E’ inutile rammentare i fantasmi del passato! Quel che conta, figliolo, non è tanto ciò che è stato … bensì ciò che sarà. Pertanto ricorda; forgia e preserva il presente »
La madre mai gli aveva raccontato fino in fondo le peripezie di Darlas, l’arrivo del flagello, la guerra e la morte del padre. Sicuramente non lo riteneva pronto per poter ascoltare tali racconti, ma adesso che finalmente gli aveva rivelato tutto ciò, Oswald si sentì molto fiero di sé. Finalmente, allora, lo aveva considerato abbastanza maturo da comprendere a pieno. Toccò per tutta la serata la gemma, la girò e rigirò tra le mani, ma oltre al freddo che questa emanava, al vorticare dei colori sgargianti nel suo nucleo marmoreo, egli non notò alcun potere. Perché un grande come Garmagan, Signore dei Sire, avrebbe mai voluto così tanto il Qesitay?
Questa fu la domanda cruciale che tormentò Oswald per tutta l’oscura notte ed anche il giorno successivo, quando il burrascoso temporale cessò di perseguitare i cittadini del regno, quando il sole, luccicante, tornò a rischiarire la facciata di Darlas e l’aura mattutina si levò ad ovest. Tutto era tornato come sempre; ancora una volta.


-- Angolo d'autore -- Ecco il primo capitolo della storia "Le cronache della Luce". Per prima cosa, ringrazio chi ha letto fino in fondo questo primo capitolo che, comprendo pienamente, è stato sicuramente difficile da leggere. Volevo, dunque, rendere limpido il significato di alcune particolari parole: -Eplogo/ghi: terminate utilizzato per indicare il tempo - c'è una leggenda particolare in riguardo che pubblicherò successivamente. -Telanor: uomo/donna che riesce ad utilizzare e sfruttare i poteri degli elementi principali della natura; fuoco, acqua, aria, terra. Ancora grazie per aver letto il mio primo capitolo, spero solo che siate così buoni da lasciare una recensione o una critica [purché costruttiva], sotto.
   
 
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