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Autore: Helena Kanbara    08/08/2015    2 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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13. LIGHT ON
 
Sometimes, when your eyes see something that your heart can’t explain, your mind makes up a new history to make sense of it all.
You make a new story. One with the fairytale ending that you deserve.
Sit back, and you say to yourself:
“Once upon a time, I awoke… in a strange place.”
 
Ripresi conoscenza all’improvviso e capii subito ci fosse qualcosa che non andava: non avevo certo bisogno di chissà quali prove per capirlo, quella sensazione di pericolo ormai mi faceva compagnia sin dal mio primo momento sulla Terra e allora mi sembrò più opprimente che mai, come se avessi un pesante macigno posato proprio sul cuore che mi impediva di respirare regolarmente. Cercai di cambiare posizione, come se volessi scrollarmi di dosso quel peso, ma capii subito di non potermi muovere. Mi sentivo così debole e frastornata che subito non esclusi la possibilità di essere ferita e capii che l’unico modo per averne conferma fosse quello di aprire finalmente gli occhi e cercare di capire cosa diavolo stesse succedendo.
Mi sentivo le palpebre collose e pesanti, ma dopo qualche sforzo riuscii finalmente nel mio intento e subito le mie iridi verdissime si scontrarono con uno sfondo così tanto bianco da farle bruciare e lacrimare. Non ero mai stata in un posto tanto strano e capii subito fosse tutto frutto della mia mente stanca e danneggiata. Mi misi a sedere con non poca fatica, capendo sul serio cosa stesse succedendo nel momento in cui mia madre mi spuntò di fronte. Era tutto nella mia mente.
E lei era bella come sempre, coi lunghi capelli rossi che le svolazzavano intorno al viso pallidissimo dalle labbra rosee incurvate in un caldo sorriso. Mi presi tutto il tempo di cui avevo bisogno per osservarla da cima a fondo, sperando che – almeno quella volta – non ci avrebbero divise di nuovo. Non l’avevo mai vista sul serio, ma qualsiasi cosa di lei mi sembrava così familiare da non farmi avere il minimo dubbio: quella donna era mia madre. Quella donna era Alida O’Neil. Guardia dell’Arca, morta suicida, assassina.
Quell’ultimo aggettivo mi colpì la mente con una fitta fortissima, tanto che fui obbligata a chiudere gli occhi per il dolore mentre mi stringevo i capelli rossi tra le dita. Scoprii presto quanto mi sarei pentita di tutto quello: quando riaprii gli occhi, difatti, mia madre non era più di fronte a me. Ero di nuovo sola. Ma non ebbi tempo per rattristarmene, perché un paio di braccia forti mi strinsero contro un corpo che – nonostante tutto – conoscevo a memoria, e all’improvviso mi sentii come se quello fosse il mio posto. Ero di nuovo a casa.
“Papà”, boccheggiai quando capii sul serio, aggrappandomi alla sua solita giacca scura, quella che aveva indosso anche il giorno in cui mi ha lasciata andare per spedirmi qui sulla Terra.
Mi passò all’improvviso per la mente il pensiero che fossi morta. Come? Quando? Non ebbi il coraggio di chiederglielo. Non ce la feci a rovinare quel momento paradisiaco.
“Mi dispiace così tanto, bambina mia”, lo sentii dirmi, mentre si faceva lontano da me per cercare il mio viso.
Mi strinse le mani sulle guance che, inaspettatamente, avevo bagnato di lacrime sincere e in seguito a quelle sue parole non potei far altro che chiedermi cosa intendesse sul serio, mentre distoglievo gli occhi dai suoi e capivo di non aver il coraggio di chiedergli anche quello. Ma una domanda dovevo fargliela per forza.
“Era la mamma, quella?”, domandai, glissando ancora le sue iridi color nocciola per guardargli alle spalle, dove fino a pochi secondi prima se ne stava la figura quasi eterea di Alida.
Vidi Marcus annuire, poi riportai la mia attenzione sul suo viso.
“Parlami di lei”. Un sussurro, una preghiera. E la consapevolezza che stavolta non mi dirà di no. Non può, perché questo è il mio sogno. E nei sogni si sa, tutto è concesso.
“Si chiamava Alida, ma questo lo sai già. L’ho conosciuta durante i miei primi mesi nel Consiglio. Ero il membro più giovane, subentrato subito dopo la morte di mio padre. E Alida era la più piccola delle guardie, la migliore del proprio corso. Mi ha colpito fin da subito. E ho cominciato a corteggiarla”.
Mi sentii una bambina nell’avvertire la smorfia che mi piegò il volto, ma mio padre non se ne fece un problema. Continuò a raccontare tranquillo, scostandomi i capelli lunghi dietro le orecchie e nascondendo un sorriso intenerito.
“Ci volevamo un sacco di bene, tesoro. Ma lei teneva alla sua carriera molto più che alla famiglia. E non ci sarebbe molto di male in questo, se non fosse che ha finito per rovinare tutto. Quand’è rimasta incinta per la prima volta era sconvolta, non riusciva ad accettarlo. Non ho mai visto una donna tanto infelice durante la propria gravidanza. Ma Alida era diversa. Lei si sentiva diversa. Non aveva più il controllo del proprio corpo e lo vedeva cambiare – crescere – senza che potesse far nulla per impedirlo. Andare al lavoro stava diventando impossibile, nonché difficilissimo. Ma fino all’ultimo giorno non rinunciò mai alla sua carica di Guardia. Era da poco entrata nel quinto mese quando venne coinvolta in una rissa con un delinquente. Cose che a quel tempo sull’Arca succedevano spesso. Rimase colpita gravemente dalla colluttazione e finì per perdere il bambino. Non riuscì mai a perdonarsi per questo. Era convinta che quella fosse l’ennesima dimostrazione del fatto che non era stata creata per essere una madre né per avere una famiglia. Doveva essere sempre e solo una Guardia. Perché era l’unica cosa nella quale fosse brava sul serio”.
Mi si mozzò il respiro in gola, a quella confessione. E sentii di nuovo un peso sul cuore all’improvvisa consapevolezza del fatto che, se le cose fossero state diverse – se Alida fosse stata diversa – avrei potuto avere un fratello maggiore, o magari una sorella. Non sarei stata figlia unica. E magari avrei sofferto di meno la dannata solitudine che, durante tutta la vita, mi aveva fatta stare male da morire.
“E poi sei arrivata tu. Sei arrivata quando ormai non ci speravamo più ed io mi sono illuso stupidamente che avresti cambiato tutto, compresa Alida. Ma lei – anche se a distanza di anni – era sempre la stessa. L’ho vista ricadere nel vortice di depressione acuta che aveva affrontato durante la sua prima gravidanza, l’ho vista afflitta e disperata. L’ho vista chiedere l’aborto senza consultarmi. E ho dovuto agire impulsivamente, lo capisci? Dovevo proteggerti. È questo che ho sempre fatto, fin dall’inizio. È per questo che non ti ho mai parlato di lei. Non volevo che tu sapessi. Non volevo che tu soffrissi. Ma ho capito presto quanto difficile sia essere un padre ordinario di una figlia tanto straordinaria”.
Quelle parole mi strapparono inaspettatamente un sorriso amaro. Le accolsi con gioia, anche se sapevo che fossero lì solo come un lenitivo alla mia sofferenza. Una sofferenza che, nonostante quanto Marcus non lo volesse, stavo sentendo più forte che mai. Mia madre non mi aveva mai voluta. Aveva richiesto l’aborto. Lo realizzai con gli occhi già lucidi e un groppo alla gola che m’impedì di parlare, almeno finché non riuscii a rispedirlo a fondo nel mio stomaco sottosopra e ricercai gli occhi scuri di mio padre.
“Che cosa hai fatto?”, gli chiesi in un soffio, con la voce ridotta quasi ad un incomprensibile lamento.
Stavo provando sulla mia pelle quanto alle volte la verità potesse far male, ma non potevo biasimare nessuno per quello: avevo voluto sapere tutto e dovevo affrontare le responsabilità di quella mia testardaggine.
“L’ho fatta mettere in isolamento, finché non è stata l’ora del parto. Vederla lì in cella mi uccideva, e finì per uccidere anche lei. Ma non avevo altra scelta, Brayden. Dovevo salvarti. Tu eri la mia vita! Pochi giorni dopo la tua nascita trovai Alida immersa in una pozza del proprio sangue; si era suicidata. Io l’ho uccisa”.
Scossi subito la testa violentemente, più e più volte, mentre strizzavo gli occhi nella speranza che quella visione e quelle parole orribili potessero sparire per sempre dalla mia mente. Ma quella volta i miei desideri non sarebbero stati esauditi: lo capii quando, riaprendo gli occhi, scoprii di come fosse sempre tutto uguale. Mio padre era ancora lì davanti a me, in quella stanza di un accecante bianco, ed io ancora soffrivo e piangevo tra le sue braccia, schiacciata sotto il peso di una verità che all’improvviso avrei preferito non sapere mai.
“Io l’ho uccisa”, lo corressi, con la voce ridotta ad un sussurro. Non era giusto che si accusasse di un omicidio che non aveva compiuto. “Ho ucciso mia madre”.
 
 
Ritornai alla realtà – e sapevo bene che allora si trattasse proprio di nient’altro che quella – con un sussulto, un urlo che mi rimase incastrato in gola quando un’intensa puzza di bruciato mi riempì le narici, lasciandomi senza respiro e con gli occhi lucidi. Tossii, portandomi una mano insanguinata alle labbra e cercando di riacquistare almeno metà di tutto l’ossigeno perso, ma non era facile. Mi sentivo ancora come se avessi un peso sul petto che mi impediva di respirare regolarmente e capii subito all’improvviso di dovermene liberare.
Mi guardai attorno, nella speranza di capire finalmente cosa diavolo stesse succedendo. Il verde della foresta attorno a me era sempre lo stesso, solo che era tutto troppo silenzioso perché potessi convincermi del fatto che andasse tutto bene. Sapevo che non fosse affatto così.
Ma lo capii solo quando, buttando un’occhiata al mio corpo, vidi una cosa che proprio avrei preferito non vedere. C’era qualcuno lì insieme a me. Un corpo – all’apparenza morto – che non conoscevo, che con la sua imponente stazza mi bloccava sul serio il respiro. Accecata da una paura improvvisa, mi misi a sedere sul terreno fangoso e mi scrollai quell’uomo di dosso, rivoltandolo sulla schiena perché volevo assolutamente poterne vedere il viso. E mi bastò nient’altro che quello per ricordare tutto, all’improvviso.
Osservai la pelle bruciata del Terrestre e la consapevolezza mista a ricordo mi colpì allo stomaco con la violenza di un pugno. Cominciai a vedermi scorrere davanti agli occhi lucidi tutti gli avvenimenti della giornata precedente, come se si trattasse della pellicola di un film che avrei preferito non esistesse. Ero ancora tramortita dalla fuga di Murphy, quando Bellamy mi aveva ordinato di unirmi alla trincea di tiratori per proteggere il campo dai Terrestri. Avevo guardato John mentre andava via – scappava – senza poter far nulla per fermarlo. Bellamy aveva detto che se ne sarebbero occupati i Terrestri, ed io ci avevo creduto. Non mi era stato dato tempo per urlare dalla rabbia o piangere dal dolore: c’era una guerra da combattere e l’avevo capito subito.
Bellamy mi era stato accanto fin quasi alla fine, o meglio… fino all’inizio della fine. Da quando i Terrestri avevano scavalcato le nostre difese, infatti, avevo completamente perso le sue tracce, troppo presa a sferrare colpi a destra e a manca nella speranza di sopravvivere. Le munizioni del mio fucile mi avevano abbandonata fin troppo presto ed ero stata obbligata ad usare il machete: davvero pochi Terrestri erano morti per mano mia, ma ne avevo feriti un sacco.
Arrestai il mio cammino nei pressi del campo, trattenendo un urlo per il dolore lancinante che mi colpì la spalla incrostata di sangue. La guardai e vidi la ferita che un Terrestre mi aveva inflitto con una freccia: era sanguinante e bruttissima da vedere, non avrei escluso che fosse avvelenata o comunque infetta. Ma ancora una volta non avevo tempo di pensarci. Continuai a zoppicare finché non raggiunsi la navicella, sentendo il cuore cedere ad ogni passo che muovevo sul terreno bruciato dall’esplosione. Alla fine i Cento ce l’avevano fatta sul serio: l’esplosione c’era stata e aveva portato tutto via con sé. Avrei dovuto mettermi a cercare i miei amici, ma non sapevo nemmeno da dove avrei dovuto cominciare. Non c’era nessuno lì. Erano spariti tutti. E l’improvviso pensiero che non li avrei rivisti mai più mi strappò l’ennesimo gemito.
Continuai ad avanzare verso la navicella come capii avrei dovuto fare la sera prima, quando Clarke aveva urlato il mio nome affinché la raggiungessi lì dentro e mi mettessi al sicuro. Aveva fatto altrettanto sia con Finn che con Bellamy, ma nessuno di noi l’aveva raggiunta. L’avevamo lasciata sola. Avevamo abbandonato i delinquenti.
Mi ritornò subito alla mente il perché di quella mia scelta. Avevo preferito fingere allora che fosse per via delle mie ferite, che il dolore non mi permettesse più di camminare e che fosse colpa di un Terrestre che mi aveva trattenuta lì fuori fino all’ultimo momento, tirandomi i capelli così forte da farmi urlare di dolore. In realtà avevo deciso spontaneamente di non unirmi ai Cento. Ancora una volta non erano stati loro la mia scelta. Né lo era stata John Murphy. Piuttosto avevo scelto me stessa. E capito all’improvviso, nell’impeto della guerra, di come il mio posto non fosse lì. Perciò avevo tentato di andar via – ancora non sapevo dove, ma contavo di scoprirlo presto – poco prima che tutto diventasse fuoco e luce e poi buio, giusto un attimo dopo l’esplosione dalla quale ero uscita indenne chissà come. Credevo di essere l’unica.
Ma scoprii ben presto di sbagliarmi. Qualcosa di pesante e appuntito s’infranse contro la mia testa e il dolore mi rimbombò fortissimo nel cervello, mentre trattenevo uno strillo e cadevo al suolo, priva di forze. Prima che potessi perdere completamente conoscenza, comunque, un paio di mani grandi mi furono addosso e mi sollevarono prima che cadessi svenuta. Vidi la mia visuale roteare vorticosamente e avvertii un violento conato di vomito scuotermi nel momento in cui mi resi conto di essere sulle spalle di qualcuno. Non ero sola.
Mi sforzai per restare cosciente quanto bastava a capire cosa stesse succedendo sul serio e realizzai che un Terrestre mi avesse presa nel riconoscere gli abiti tipici del clan, fatti di pelliccia e rigorosamente scuri. Provai l’improvviso impulso di piangere mentre lo sentivo dirmi: “Tu vieni con me” e realizzavo si trattasse dello stesso uomo che la sera prima mi aveva fermata prima che potessi raggiungere Clarke. Era anche lo stesso che mi ero ritrovata addosso quella mattina stessa.
Realizzai tutto mentre provavo a dimenarmi e a combattere come al solito, fallendo però miseramente. Ero debole e sentivo la ferita alla testa sanguinare copiosamente: avrei voluto solo chiudere gli occhi e dormire per sempre, scappare da quella realtà così tanto diversa dal sogno che fino a pochi giorni prima mi era sembrato di vivere. Un sogno nel quale io ero una ragazzina tradita da tutte le persone alle quali voleva bene, che riusciva però a trovare qualcuno di così importante da farle dimenticare tutto il dolore del passato. Almeno finché anche questo qualcuno non la tradiva.
Prima che potessi perdere del tutto conoscenza, il mio pensiero corse a John. Ancora una volta. Rividi nella mia mente tutti i momenti che ci avevano legati, belli o brutti che fossero. E capii che non avremmo avuto altre occasioni per essere insieme, per chiarire, per continuare a costruire ciò che avevamo cominciato. Insieme. Riflettei su quanto male mi aveva fatto e capii che, nonostante tutto, non ce l’avrei mai avuta con lui sul serio.
Ma scacciai quell’improvviso pensiero con vergogna, passando a mio padre. Poi a mia nonna. A Callie. Ai Cento. E a tutti coloro che, lo sapevo già, non avrei rivisto mai più.
 
The saddest word in the whole wide world is the word “almost”.
She was almost in love. He was almost good for her.
She almost stopped him. He almost waited.
They almost made it.



 

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Ringraziamenti
A Josh Ramsay, che è tipo t u t t o e mi ispira sempre un sacco sia con le sue canzoni che coi suoi monologhi. Quello citato ad inizio capitolo è proprio uno di questi e lo potete trovare nel video ufficiale di 
By now.
A tutte le persone che, dall'inizio fino alla fine, mi hanno supportata nella stesura di questa cosa. A chi c'è stato fin dall'inizio, a chi è arrivato a metà, a chi ha fatto solo una capatina e poi è sparito... A tutti GRAZIE allo stesso modo. Se oggi riesco a mettere fine alla mia seconda long su EFP è anche per merito vostro.
Le parole a fine capitolo sono tristi as fuck e penso proprio che non ci fosse niente di più azzeccato da inserire, quindi ecco qua. Ginger e Muffin sono proprio il perfetto almost. Non conosco l'autore, ergo non posso rilasciare i crediti dovuti. Pazienza.

Note
Spero non mi odierete poi troppo per questo "finale aperto", anche se ne dubito (LOL). Il punto è che sapevo che Love is a losing game sarebbe finita così fin dal primo capitolo e, da come avrete capito, non sono per il fanservice. Non credete che non mi sarebbe piaciuto cambiare idea e dare ai miei due bimbi belli l'happy ending che tutte volevate, ma sarebbe stata una cosa così assurda e schifosamente romantica che mi sarebbe sembrato quasi di fare un torto ai personaggi. Dopo tutto ciò che hanno passato, dopo tutto il male che si sono fatti a vicenda, non hanno "diritto" ad un happy ending (Murphy soprattutto). Almeno per ora. Ne dovrà passare di tempo prima che le cose tra questi due si risolvano, semmai una cosa del genere succederà, ma per adesso il finale è questo. Murphy è disperso chissà dove insieme al resto dei Cento e Brayden, che finisce "rapita" da un Terrestre, pensa che non rivedrà mai più nessuno di loro (né la gente dell'Arca). Ho voluto a tutti i costi questo finale aperto anche per darvi l'opportunità di immaginare il continuo come più vi piace: potete pensare a Brayden insieme ai Terrestri, oppure insieme a suo padre o (come credo piacerà un po' a tutte) insieme a Murphy, in un futuro in cui hanno chiarito e sono felici, insieme, come penso vogliano entrambi (anche se ammetterlo è durissimo). In caso non si fosse capito, amo i finali aperti proprio per questo. Il potere è tutto vostro, ppl.
Come già detto, non scriverò un sequel. Ma sto lavorando ad un'AU a tema high school sempre con Ginger e Muffin (i miei bimbi non li abbandono!) e prima o poi mi rivedrete qui a rompere le balls, che sia con questa oppure con la werewolf!AU alla quale conto di iniziare a lavorare il più presto possibile. Insomma, non vi libererete della sottoscritta né tantomeno di Brayden.
Ora non posso far altro che darvi appuntamento alla prossima, spero presto. 

   
 
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