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Autore: _Kurai_    10/08/2015    1 recensioni
La luna piena, un sakura ormai quasi del tutto sfiorito, e i passi leggeri di sandali di paglia sul tappeto di petali rosa e bianchi. Un fruscìo, poi un lieve sciabordìo d'acqua in una tinozza.
Anche stavolta, la missione di Arakita Yasutomo era conclusa. Alzò lo sguardo alla luna, mentre il suo corpo seminudo accoglieva la brezza notturna e le macchie di sangue sul kimono immerso nell'acqua andavano sbiadendo.
Imprecò piano, quando un rumore improvviso gli fece estrarre la spada.
Era solo un gatto.
Ripose la katana nel fodero, non senza aver accarezzato distrattamente l'incisione di un lupo alla base della lama, per poi abbassarsi a coccolare la piccola creatura nera come la notte.
Genere: Angst, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Team HakoGaku, Team Hiroshima Kureminami, Team Kyoto Fushimi, Team Souhoku
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Violenza
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Ok, giuro che dopo il terzo aggiornamento in tre giorni mi dò una calmata XD Sta fanfiction mi ha rubato l'anima, in una notte ho sfornato dal niente un altro capitolo owo Sapevo che la combo pedalari/samurai mi avrebbe causato grossi scompensi, e adesso non posso uscirne XD
Vi lascio alla lettura e me ne torno a tramare nell'ombra, sayonara!

_Kurai

III CAPITOLO

Rain and Poison

Il campo era piombato nel silenzio.

La nebbia si era dissolta del tutto, e i feriti erano stati trasportati all'interno del castello.

Di duecentocinquantadue uomini, ne erano rimasti poco più di centocinquanta, contando i feriti che potevano ancora combattere.

Tra questi c'era Touichiro Izumida, che si era ripreso mentre ancora fuori infuriava la battaglia ed era stato fermato a forza da quattro uomini per farsi medicare efficacemente la ferita, che sennò si sarebbe sicuramente riaperta e infettata. Alla fine si era comunque rialzato e aveva aiutato a curare gli altri feriti, senza concedersi un attimo di riposo, in preda alla preoccupazione per l'inferno che infuriava fuori dal castello. Gli girava ancora la testa per aver perso tanto sangue, ma tutto sommato stava bene.

Capì che doveva essere successo qualcosa quando smise di sentire il clangore del metallo, all'improvviso. Si affacciò fuori, e vide che entrambi gli eserciti si stavano ritirando. Sembrava si fosse giunti a un pareggio.

Aguzzò lo sguardo e vide un corpo a terra, e il daimyo sceso da cavallo inginocchiato al suo fianco, che non permetteva a nessun altro di avvicinarsi. Shinkai e Manami erano subito dietro di lui, lo sguardo basso che nascondeva turbolenti pensieri. Le membra di tutti erano stanche e pesanti, e giungere ad una situazione di relativa parità era costato tanto, anche troppo.

Arakita era fuori combattimento, e Toudou non si vedeva da nessuna parte. I suoi uomini l'avevano visto l'ultima volta in mezzo alla nebbia, e poi ne avevano perso le tracce nella foga della battaglia. Molti guerrieri erano debilitati dal veleno, che in alcuni punti aveva colpito più pesantemente, e il suo aiuto sarebbe stato estremamente prezioso.

Era chiaro che il nemico lo sapeva.

Toudou Jinpachi aveva la bocca impastata e un gran mal di testa. Per un attimo pensò di aver esagerato con il saké la sera precedente, poi fece per muovere gli arti intorpiditi e si accorse di essere immobilizzato.

Spalancò gli occhi nel buio, e ricordò tutto.

Una nube nera di vergogna e frustrazione si abbattè su di lui, non appena realizzò che era stato fatto prigioniero dal nemico. Prima il suo veleno era stato neutralizzato, e ora questo. Cercò con la lingua la familiare capsula che teneva celata in bocca per quel tipo di situazioni, ma al suo posto non sentì nulla. Quei bastardi dovevano averlo perquisito, togliendogli anche la consolazione di un onorevole suicidio.

Era attanagliato dal sudore freddo, e la testa minacciava di scoppiargli. Voleva di nuovo chiudere gli occhi e ripiombare nell'oblìo, ma doveva rimanere lucido. Non si sarebbe arreso per così poco, e poteva ancora riuscire a salvarsi. Se solo avesse avuto con sé i suoi veleni e le sue armi...

Sarebbe stato molto, molto difficile, tanto più che non era sicuro di potersi reggere in piedi una volta libero, ma non era impossibile.

Una cosa era chiara e lampante come il sole: se l'avevano lasciato in vita, avevano sicuramente dei progetti per lui. Quindi, doveva solo essere più furbo di loro.

Non dovette aspettare molto per sapere quello che lo attendeva, e forse avrebbe preferito non venirne mai a conoscenza. Forse avrebbe dovuto mordersi la lingua a sangue e farla finita subito.

“Questo è quello che succede quando la tua fama ti precede, Toudou Jinpachi. E quando sei troppo sicuro dell'efficacia delle tue mosse, tanto dal fossilizzarti sulla tua presunta perfezione” era una voce leggermente stridula, che tuttavia aveva una strana musicalità, come una cantilena.

“Tuttavia, Midousuji-sama ha deciso di tenerti in vita, per farti assistere alla vostra sconfitta. A poco a poco, per assaporare l'aroma dolce e pungente del terrore che trasfigura il volto dell'avversario, finchè non diventa l'ombra di sé stesso... fare a pezzi lentamente, demolendo le certezze del nemico una dopo l'altra, ecco come Midousuji-sama otterrà il potere su tutto il Giappone! Con il mio prezioso aiuto, ovviamente.” Il proprietario della voce, che non doveva avere più di vent'anni, teneva in mano una lanterna, che illuminò fiocamente la tenda in cui Toudou era prigioniero. La prima cosa che notò furono i suoi occhi, di un azzurro non umano, sottili come quelli di una volpe. La seconda fu la scarsella che teneva in mano. La sua scarsella.

“Ti starai chiedendo come abbiamo fatto a diventare immuni al tuo veleno perfetto, vero? Lo leggo nei tuoi occhi... Ti starai chiedendo come abbiamo fatto a creare un antidoto tanto complesso, che tu hai sintetizzato dopo più di dieci anni di ricerche, vero? La risposta è molto semplice. Non l'abbiamo fatto.”

Negli occhi di Toudou si dipinse un'espressione di incredulità.

“Gli uomini dell'esercito di Fushimi vengono scelti tra i migliori e temprati da anni di addestramento a rischio della vita: essi sono selezionati fin da piccoli e abituati a stare ogni giorno sul filo tra la vita e la morte. Ogni giorno della loro vita sono obbligati a bere piccolissime dosi di numerosi tipi di veleno, per diventarne immuni. Alcuni muoiono, ma è per un bene superiore... vanno avanti solo i migliori, e molte pedine sono sacrificabili: i più deboli vengono mandati avanti per fornire materiale di ricerca per rinforzare gli altri. Abbiamo provocato piccoli disordini nel vostro feudo per studiare le vostre tecniche e raccogliere campioni del tuo celebre veleno, e devo dire che la cosa ha funzionato, come sempre. Midousuji-sama non sbaglia mai.

Inoltre, non ti farà piacere sapere che in questo momento nelle tue vene – e in quelle di chiunque sia stato a contatto diretto abbastanza a lungo con la mia nebbia - sta circolando una piccola dose proprio della tua miscela perfetta, ma con una piccola modifica fatta dal sottoscritto... spero che apprezzerai l'impegno che ci ho messo nell'imitare il tuo lavoro, maestro” pronunciò l'ultima parola con una nota di scherno, sorridendo.

“Entro tre giorni comunque sarà tutto finito. Sayonara!” sussurrò, agitando una mano in segno di saluto.

Dopo aver girato le spalle parlò ancora, sogghignando “Ah, complimenti per l'ottimo arsenale che ti portavi dietro. Ho dovuto cercare bene e a fondo, è stato davvero mooooolto istruttivo”.

Perlomeno, ora la situazione era molto più chiara.

Tuttavia non riconosceva i sintomi da avvelenamento che gli erano familiari, e iniziò a valutare la possibilità che si trattasse di un bluff, per fargli perdere le speranze e demolirlo più profondamente. Se si fosse trattato solo di salvarsi in effetti mantenere la lucidità sarebbe stato più semplice, ma se anche i suoi compagni e i suoi uomini erano in pericolo e non lo sapevano, allora la situazione era di gran lunga peggiore di quanto pensasse.

Si sforzò di pensare più lucidamente possibile, nonostante il dolore alla base della nuca. Nell'insieme stava bene, anche il formicolìo agli arti era passato... solo la botta alla testa gli dava noia, e quell'assenza di sintomi lo preoccupava più che tranquillizzarlo. Era possibile che il ragazzo dagli occhi di kitsune avesse trasformato il suo veleno da una miscela istantaneamente letale ad una lenta condanna a morte? Tre giorni, aveva detto. Tre giorni e, in un modo o nell'altro, sarebbe tutto finito.

Doveva fuggire da lì, il più rapidamente possibile.

Pioveva.

Poco distante da lì, nella grande tenda del daimyo di Fushimi, aleggiavano nubi nere di rabbia, più minacciose di quelle del temporale incombente. Midousuji camminava avanti e indietro in quello spazio limitato, mentre il suo luogotenente lo seguiva con una mano cosparsa di uno strano unguento dall'odore pungente con l'intento di spalmarglielo sul taglio sul viso, senza ottenere risultati. Il comandante lo ignorava, perso nel suo malumore.

In passato aveva ucciso sottoposti per molto meno, ma Ishigaki non lo temeva. Sapeva quali tasti toccare, anche se era consapevole che, come qualsiasi altra cosa al mondo che non fosse la vittoria, per il daimyo sarebbe sempre stato disgustoso. Sarebbe sempre stato una pedina, esattamente come tutti quelli di cui si circondava. Semplici pedine, sacrificabili in qualsiasi momento. Sapeva di non essere insostituibile. Sapeva che era tutta un'ingiustizia, e quel posto spettava a lui. Ma il feudo di Fushimi dalla salita al potere di Midousuji aveva compiuto una scalata vertiginosa, e partendo da un minuscolo villaggio era giunto ormai a battersi ad armi pari con i grandi feudi di Hakone e Sohoku. In fondo, tra il timore reverenziale e l'obbedienza dovuta al rango, Ishigaki provava una sincera ammirazione. In poco tempo Midousuji aveva costruito qualcosa di grande, qualcosa in cui lui non sarebbe mai riuscito ad eguagliarlo, nemmeno in un'altra vita. Però avrebbe potuto sostenerlo e stare al suo fianco, proteggendolo e permettendogli di proseguire nei suoi successi.

Era stata la sua mossa disperata a scongiurare una sconfitta, quel giorno. Ishigaki ne era orgoglioso, ma Midousuji non sembrava averla presa troppo bene.

Sapeva anche come sarebbe finita: dopo aver definito la sua azione come inutile e superflua, il daimyo gli avrebbe fatto l'enorme favore di lasciargli medicare la sua ferita, con lo sguardo impassibile e una smorfia di fastidio. Poi, per punirlo per essersi immischiato nella sua battaglia, lo avrebbe rimesso al suo posto prima a parole e poi nel futon, godendo nell'infliggergli dolore fisico e continuando a dirgli che era disgustoso, disgustoso, disgustoso.

Sapeva come sarebbe finita, e nonostante tutto lo accettava.

Ashikiba Takuto e Kuroda Yukinari, prima e seconda squadra, erano immobili in piedi sotto la pioggia, davanti alla stanza del daimyo. Gli era stato ordinato tassativamente di non lasciar passare nessuno che non fosse il medico, il quale in quel momento era all'interno con Fukutomi e sussurrava piano, per non turbare il sonno del luogotenente gravemente ferito. La freccia sembrava di un materiale mai visto prima, e aveva trapassato l'armatura come fosse burro. Arakita aveva aperto gli occhi per qualche minuto mentre il dottore estraeva la punta dalle sue carni, aveva bofonchiato qualcosa sull'espressione cupa e spaventosa del daimyo ed era ripiombato nell'oblìo, galleggiando oltre il dolore insopportabile. Perlomeno, i sintomi dell'avvelenamento erano spariti.

Il medico aveva lasciato la stanza dopo più di tre ore, a notte fonda, accigliato e silenzioso. Yukinari, vicecomandante della seconda squadra, gli rivolse uno sguardo interrogativo: il suo punto di riferimento, il suo maestro, colui che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva, non poteva morire per una banale freccia, ed era ansioso di sapere qualcosa. “Sarà il tempo a decidere” borbottò l'uomo, prima di tornare alla grande stanza comune dov'erano stati sistemati gli altri feriti.

La situazione stava precipitando, e la soluzione era una sola. Non poteva permettersi di richiamare le truppe lontane, che avrebbero comunque impiegato troppo tempo a tornare, ma avrebbe sicuramente dovuto chiamare rinforzi. Centocinquanta uomini in quelle condizioni contro cinquecento sarebbe stata davvero una mossa suicida. Ammetteva di aver sottovalutato il nemico, che in poco tempo aveva neutralizzato tutte le tecniche migliori dell'elìte di Hakone e aveva gettato i suoi uomini nello sconforto, anche se cercavano di non darlo a vedere. Lui stesso si sorprese più volte a indugiare con lo sguardo sul suo tantō, l'estrema soluzione in caso di sconfitta. Ma non tutto era perduto, e Arakita sarebbe stato forte. Tutti loro erano forti.

Prese il pennello, sfregò una barretta d'inchiostro e iniziò a scrivere in fretta con tratti aguzzi e decisi, poi fece chiamare un messaggero in grado di percorrere durante la notte tutta la strada fino al feudo di Sohoku, al fine di persuaderne il daimyo e convincerlo a inviare rinforzi. I due feudi avevano un passato di violenta rivalità, ma grazie ad una politica lungimirante avevano stretto da poco un patto di mutua alleanza: in fondo, sarebbero stati l'obiettivo successivo dei famigerati samurai di Fushimi, e unire le forze doveva essere anche nel loro interesse. Non amava dover chiedere aiuto, ma talvolta era necessario. Inoltre, il feudo di Sohoku era rinomato anche per la presenza di un esperto di veleni la cui fama era pari a quella di Toudou, che avrebbe potuto aiutarli a fronteggiare la minaccia e a risolvere il mistero della sua scomparsa.

Izumida si offrì volontario per consegnare il messaggio; alle obiezioni del daimyo, che gli ricordava che era stato ferito poche ore prima e non avrebbe nemmeno dovuto muoversi, si rabbuiò per un'istante e poi ribadì la sua decisione: “Andrò a cavallo, e domani sarò già di ritorno. Lasci che mi renda utile, mio signore, più di quanto in queste condizioni lo sarei in battaglia. Ne va del mio onore, e non la deluderò!”.

Alla fine Fukutomi acconsentì con un sospiro, e guardò il suo sottoposto allontanarsi al galoppo sotto la pioggia, con la loro ultima speranza tra le mani.

Uscito dalla stanza per controllare lo stato dei suoi uomini, il daimyo entrò nella sala comune. Nessuno riusciva a chiudere occhio, chi per il dolore delle ferite e chi per l'attesa spasmodica del giorno seguente. L'umore non era dei migliori, e dovette sforzarsi ad elargire parole d'incoraggiamento per infiammare gli animi, nella speranza che la lotta non si rivelasse vana.

Tornando indietro verso la sua stanza per vegliare Yasutomo indugiò passando di fianco a Shinkai, seduto sul tatami e appoggiato alla parete, sul cui viso stanco gli sembrò di intravedere l'ombra di un sorriso. Rivolse lo sguardo nella stessa direzione in cui guardava il comandante della quarta squadra e sospirò. Dall'interno dell'elmo di Hayato, appoggiato a terra tra le sue gambe incrociate, un minuscolo coniglietto dagli occhi vispi lo stava fissando.

Non appena il daimyo fu rientrato nella sua stanza, un'ombra sgattaiolò fuori dal castello, diretta all'accampamento nemico. Manami sapeva di correre un rischio, ma qualcosa gli diceva che era necessario. Prima di quel momento le sue frecce non avevano mai fallito, e doveva scoprire il segreto di quella kitsune. Come sempre, avrebbe seguito il suo istinto.

   
 
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