Capitolo
2
Quando
usciamo dal negozio il sole ha quasi raggiunto l'orizzonte ma,
nonostante stia
calando la sera, il caldo afoso è ancora insopportabile,
tanto che i vestiti si
appiccicano addosso come ventose. Così intontiti dalla
calura, vaghiamo per
qualche isolato finché non decidiamo di fermarci in un
locale, abbastanza
lontano dal rifugio, per mangiare un boccone e dopo filare a casa. La
locanda è
appostata in un vicolo buio e non molto pulito, e ci accorgiamo della
sua
presenza solo grazie ad una logora insegna di legno che pende
all’angolo della
strada. Guardo il mio amico perplessa perché non mi sembra
un posto affidabile.
Tutto l’insieme mi da l’idea di un covo di
ubriaconi, o delle vecchie taverne
in cui ci sono solo balordi che strillano par l’alcol e si
azzuffano.
<<
Non ti preoccupare, me l’ha consigliato mio
padre>> mi tranquillizza Kid
intuendo quello che mi passa per la mante. Ho sempre creduto a quello
che mi consigliava
Thomas, suo padre, poiché nutro nei suoi confronti una certa
fiducia, oltre al
fatto che non sia mai successo nulla che mi portasse a pensare il
contrario. Perciò
stando a quello che dice lui, è un posto sicuro. Mah!
Tuttavia nonostante i mie
seri dubbi, seguo i due che mi precedono.
Spingiamo
la pesante porta di legno ed entriamo in un pub semi-desolato. I tavoli
scuri,
sparsi qua e là come una manciata di pepe, sono occupati da
pochissimi
avventori silenziosi radunati sotto al solitario ventilatore al centro
della
sala, che con il lento moto delle sue pale, cerca di dispensare un
po’ di
refrigerio. Di fronte a noi invece si erge massiccio il bancone con la
cassa
automatica, dietro alla quale vi sono posizionate alcune mensole colme
di
bottiglie dai colori sgargianti e mezze vuote. Guardando la clientela,
optiamo
per prendere posto sugli alti sgabelli affiancati al bancone. La
cameriera, avvisata
dal trillo della porta al nostro ingresso, compare tutta trafelata da
una porta
dall’altro lato della sala e si posiziona davanti a noi
porgendoci tre menù.
<<
Non vi ho mai visti da queste parti, siete nuovi?>>
chiede curiosa
appoggiando una mano sul fianco. È una ragazza sulla
trentina, ma le occhiaie
sotto i limpidi occhi turchesi la fanno sembrare più
vecchia, alcuni ricci biondi
e ribelli, sfuggiti all’alta coda di cavallo, le incorniciano
il viso
tempestato di lentiggini mentre la divisa da lavoro che indossa
consiste in una
stretta maglietta bianca e leggermente sudata ed un grembiule nero.
<<
Sì, passeggiavamo da queste parti quando ci è
venuta fame>> risponde amichevolmente
Kid per tutti.
<<
Allora Benvenuti da Shaggy’s,
siete
fratelli?>> chiede per fare un po’ di
conversazione, mentre fa passare lo
sguardo da me a Kid a J. J.
Ma è
cieca?! Capirei se Kid e J venissero scambiati per parenti, in effetti
per il
loro sguardo intenso oltre che per il colore degli occhi, si
assomigliano molto,
anche fisicamente. Ma io che c’entro?! Non ho nulla in comune
con loro per via
dei miei capelli castani scuro e gli occhi color nocciola.
<<
No, siamo amici>> si affretta a precisare il mio amico,
vedendo il mio
sguardo sbigottito ed inceneritore. Trai
i miei altri difetti si conta anche quello di essere asociale e poco
incline ad
afferrare le battute degli estranei.
<<
Però vi assomigliate molto. Comunque cosa posso
portarvi?>> annuncia
estraendo dal taschino del grembiule un blocchetto per le nostre
ordinazioni.
OK! Ha
decisamente bisogno di una bel paio di occhiali sentenzio, commentando
a me
stessa.
Sanza
farcelo ripetere due volte, diamo una rapida occhiata alla lista e
optiamo per
tre panini ed una brocca d’acqua da un litro. Una volta persi
gli ordini e i
menù, la cameriera sparisce nuovamente dalla porticina che
suppongo porti alle cucine.
<<
Tu mia Sorella!!>>
scoppia a
ridere Kid, una volta sicuro che la ragazza non possa sentirci
<< Questa
è bella!>>
<<
Ha bisogno di un buon oculista!>> bofonchio.
<<
Allora posso chiamarti sorellona?>> chiede candidamente
J. sfoggiando un
sorriso angelico a cui manca qualche dentino.
<<
Certo che puoi!!>> rispondo al bimbo che vorrei soffocare
di coccole. È
troppo tenero!
<<
Sì, sì anch’io ti prego>>
si piega in due dalle risate il mio amico.
<<
Te lo puoi scordare! Detto da te non suonerebbe altrettanto
bene>> ribatto
assestandogli una pacca sull’addome che, però, non
riesce ad arrestare il suo
attacco di ridarella.
La
cameriera ritorna a grandi falcate nella sala per porgerci le cena e
Kid cerca
di recupera un minimo di contegno nonostante stia piangendo per il
divertimento.
Senza
troppe cerimonie, accecata dalla fame e con
l’avidità di un lupo a digiuno,
affondo i denti nel pane secco e insipido, fino al prosciutto gommoso
che
rimane incastrato in gola. Perciò ingollo avidamente un bel
bicchiere d’acqua
fresca che rinfranca anche il corpo spossato dalla calura. Tutto
sommato non
posso lamentarmi, è pur sempre cibo e lo sto pagando anche
caro, quindi non si
discute.
<<
Kid?>> chiede tutto d’un tratto J.
interrompendo il silenzio religioso
che accompagna il pasto << posso venire a dormire da te
stasera? … Credo
che ci siano dei topi nel rifugio>> chiede con la vocina
supplichevole,
sgranando gli occhi per enfatizzare la sua recita.
Non
posso fare a meno di soffocare un risolino. Ogni volta che il
marmocchio non
vuole dormire da solo al rifugio tira sempre fuori la scusa di aver
sentito
sgattaiolare nello scantinato dei roditori o qualsiasi bestia strana
gli venga
in mente.
<<
Se vuoi venire a dormire da me basta chiederlo senza inventare scuse,
ok?>> lo ammonisce affettuosamente il mio amico.
<<
Evviva! ma li ho sentiti comunque i topi!>> si difende il
bimbo finendo
il suo panino. Sorridiamo comprensivi. Non è facile per gli
adulti dormire da
soli a quartieri di distanza da amici e persone care, figuriamoci per
un
bambino di otto anni.
<<
Ragazzi, mi dispiace disturbarvi ma stiamo per chiudere>>
ci coglie di
sorpresa la cameriera comparendo dietro al bancone ed indicando
l’orologio
appeso sul muro alle sue spalle << È quasi ora
per l’Erogazione>>.
L’erogazione?!
Cavolo, certo che è volato il tempo!
<<
Sì, ci scusi. Possiamo avere il conto?>>
chiedo bruscamente.
La ragazza
poggia con rapidità la carta sul banco. Kid ed io paghiamo
la cena con la paga
ricevuta oggi a lavoro, poi afferrato frettolosamente il resto e lo
scontrino,
ci fiondiamo fuori dal locale.
L’afa
ci assale nuovamente come una morsa stritolandoci tra le sue dita
aride, ma non
abbiamo il tempo di curarcene, dobbiamo correre se vogliamo arrivare in
tempo a
casa! Perciò sfrecciamo a perdifiato per le vie deserte dove
a farci compagnia
c’è solo l’eco dei nostri passi. Ci
dobbiamo fermare solo un’ attimo perché J.
J non ce la fa più. Purtroppo non possiamo perdere neanche
un altro minuto
prezioso, allora Kid se lo carica in spalla e ripartiamo con maggior
foga.
Dopo
strade e vicoli che sembrano non finire mai raggiungiamo, finalmente,
il nostro
quartiere che ci accoglie con il solito cartello “ zona
H_5”. E già, ogni
quartiere ha una lettera e un numero che lo contraddistingue. Che
fortuna! Si
potrebbe benissimo pensare a Cardia come una gigantesca scacchiera.
Tuttavia,
tranne che per il nome, ogni settore non ha nulla di diverso dagli
altri:
stessi malandati palazzi residenziali almeno protetti dalla vernice
anti acido
(ah! Dimenticavo, da noi gli uffici sono assolutamente proibiti, tranne
piccoli
e controllatissimi esercizi commerciali); tanta polvere da far venire
uno shock
anafilattico ad un allergico; edifici scolastici, alcuni dei quali
quasi
inagibili a causa della maglia di crepe che li decora; fabbriche o una
“stazione ecologica”, qualche negozietto e qualche
spaccio di cianfrusaglie e
cibarie che spuntano a casaccio, come i fughi dopo la pioggia.
Auguro velocemente
ai ragazzi una
buona serata, oltre ad un
implicito buona fortuna per arrivare in orario a destinazione, e le
nostre strade
si dividono con le sirene che urlano il momento più atteso
della giornata.
Dopo
altri dieci minuti abbondanti di maratona tra le ormai note strade,
appare un
edificio bellissimo. Ecco come mi sembra, nel delirio per eccesso di
acido
lattico e mancanza di ossigeno al cervello, il condominio-catapecchia
dove
abito. Senza rallentare la corsa varco il portone, ci manca poco che
non
travolga una signora con il suo cesto di panni, e sfruttando lo slancio
delle
poche energie che mi rimangono salgo in volata le rampe di scale
neanche fossi
il pugile visto in un vecchissimo film.
Finalmente
arrivo alla porta e con il fiato corto picchio sull’uscio.
<<
Sky, apri sono io!!>> riesco a dire tra i rantoli e
aspettando attimi che
sembrano eterni, la mia cuginetta finalmente mi fa entrare.
<<
Sei tornata!>> esulta la bambina saltellandomi intorno e
scuotendo i
folti ricci neri.
Vivo
con loro da quando sia suo padre, mio zio, che il mio e mia madre sono
stati
selezionati per fare da aiutanti alle squadre di ricerca mandate in
esplorazione al di fuori della città. Da allora non abbiamo
più avuto notizie
da nessuno dei tre.
<<
Dov’è la zia?>>
<<
Mamma è in cucina>> infatti trovo Catherine al
lavello, intenta a
riempire più taniche e bottiglie d’acqua
possibili.
La
saluto affettuosamente mentre mi chiede dove sia stata.
<<
Vai a farti il bagno, l’erogazione è appena
iniziata. L’acqua dovrebbe essere
ancora calda>> mi esorta prima di concentrare nuovamente
la sua
attenzione sulle bottiglie. Seguendo il suo consiglio, vado in bagno e
carico
una bacinella con asciugamani, tutto l’occorrente per la
doccia e la biancheria
pulita con i vestiti appena tolti dal bucato ed aggiungo anche un
panetto di
sapone per i panni. Preso
tutto il
necessario dovrei raggiungere l’ingresso, ma non voglio
passare di nuovo
davanti alla cucina, mi è già andata bene che mia
zia non si sia accorta in che
stato sono ridotti i vestiti. Sfortunatamente non ci sono strade
alternative
per poter evadere senza essere vista e facendomi coraggio, oltre ad
affidarmi
ad una buona stella, sfido la mia fortuna.
<<
Allora vado e torno>> annuncio di fretta, cercando di
defilarmi il prima
possibile per quanto le mie gambe stanche me lo permettano.
Proprio
quando penso di avercela fatta << April!
Cos’hai combinato alla gamba?!>>.
Beccata,
accidenti! La sorte non è minimante dalla mia parte oggi.
<<
Non so di cosa parli. Vado, a dopo!>> mi affetto a
ribattere e mi defilo
attraverso il pianerottolo del quinto piano.
Per
tutto il corridoio arrivano gli schiamazzi dei vicini, intenti ad
accalcarsi ai
bagni comuni posti ogni due piani. Sinceramente, e credo chiunque
sarebbe
d’accordo con me, non mi piace neanche un po’
l’idea di condividere il mio
momento privato al bagno con degli sconosciuti. Per fortuna, da qualche
tempo
ho trovato all’ultimo e abbandonato ottavo piano, delle docce
ancora
funzionanti di cui nessun’altro è a conoscenza,
tranne la mia famiglia, che
dopo una bella disinfettata da cima a fondo, sono perfettamente
utilizzabili. Perciò,
guardandomi attorno con circospezione e sperando che nessuno mi veda,
sgattaiolo verso le scale d’emergenza, anch’esse
inutilizzate, che mi portano
dritta dritta alla meta.
L’ampio
spazio e la quiete del posto sono un invito al relax non indifferente,
ma prima
di svuotare la mente e pensare un po’ a me, prendo la
bacinella e, riempitala
con un pezzetto di sapone ed acqua, ci lascio in ammollo i panni che mi
tolgo
di dosso. Invece più ostiche da staccare sono le bende ormai
diventate un
tutt’uno con le ferite che dovevano solamente coprire.
Cercando inutilmente di
tirarle via dopo averle bagnate, son costretta alla fine a strapparle
di forza
con un colpo secco, come si fa con i cerotti, procurandomi un male
atroce e
qualche goccia di sangue. Leggermente seccata, getto in malo modo il
tutto nella
bacinella insieme al resto e finalmente posso lasciarmi andare sotto il
getto
d’acqua calda.
La
piacevolissima sensazione delle gocce che picchiettano sulle spalle, il
vapore
che si insinua nei polmoni fino alla viscere, mi scrollano di dosso la
pesante
giornata insieme a tutti i pensieri negativi ad essa collegati,
facendomi
sentire come rinata. Decisa ad assaporare il più a lungo
possibile quel momento
di pace, che ci viene concesso appena due volte al giorno, mi
accovaccio sulla
ceramica fredda del piato doccia e lì rimango, lasciando che
la mia mente vada
alla deriva verso il nulla.
Non so
di preciso quanto tempo sia rimasta a crogiolarmi, ma le dita
raggrinzite mi
dicono che ci sia rimasta molto, anche troppo, e forse è ora
di uscire.
Mi do
una rapida insaponata completa di shampoo, l’ultimo
risciacquo per eliminare le
bollicine ostinate ed infine mi avvolgo nel morbido abbraccio del telo
da
bagno.
Indosso
abiti puliti e, mentre i capelli si asciugano all’aria,
finisco di lavare i
panni per poi stenderli sul filo metallico teso tra due docce opposte,
che
funge da stendino.
Anche
questa volta, come capita sempre quando mi ritrovo in quel luogo da
sola, la
mia attenzione viene catturata dalla vista che viene offerta dalle
finestre del
bagno e mi ritrovo a guardare
la cupola
del Centro che si staglia dietro ai palazzoni. Quel occhio di cristallo
che si
erge immacolato contro il tramonto, mentre tutto intorno si inginocchia
una distesa
di case ed edifici sottomessi dalle intemperie e dalla miseria. Rancore
e
rabbia sono i sentimenti che rivolgo quotidianamente a quella maledetta
architettura che salvaguarda, come una comoda gabbia di vetro, delle
bestie
preziose, cioè gli altri nostri
“concittadini”. Loro sono relegati a vita in un
bello ed effimero sogno di sicurezza e protezione; la loro esistenza
viene
scandita dalla tecnologia (da quel che ci hanno riferito alcune fonti
certe)
dal lavoro e dagli agi. Paragonata alla nostra loro vivono nel lusso
sfrenato. Tuttavia,
il mio risentimento è dovuto al fatto che i “Centriani” abbiano considerato
chiunque non fosse di alto lignaggio
o avesse un lavoro “importante”, sacrificabile e
per questo, potesse essere
giustamente escluso dal progresso ed abbandonato con il minimo
indispensabile che
gli permettesse di essere produttivo e utile, in qualche maniera, al
sostentamento di Cardia.
È proprio
questo che non capisco! Come, o in base a cosa stabiliscono che un
individuo
sia più importante di un altro e perciò avente
diritto ad un trattamento
diverso? E per quale assurdo motivo si avvalgono della
facoltà di “prelevare individui
promettenti”, per usare il loro gergo, e trasferirli al
Centro dove potranno
essere più utili, separandoli per sempre dalle loro
famiglie?
Eppure
la cosa veramente triste e che noi reietti dall’alta
società, abbiamo perso la capacità
di opporci a certi eventi; sia perché siamo ormai abituati a
vivere in questa
realtà dei fatti, sia perché molti si sono
lasciati abbindolare dalle belle parole
e dalle generose donazioni periodicamente elargite a grandi mani in
onore delle
feste dello Stato, che abbiamo perso la capacità far sentire
la nostra voce e
reclamare i nostri diritti. L’unica cosa che
c’è rimasta è l’odio e la
diffidenza, e se ci va bene qualche piccola rappresaglia.
Ed io
odio il Centro e disprezzo i suoi abitanti, per questi e per mille
altri motivi,
tra i quali l’impossibilità che le cosa cambino.
Per questo ho appoggiato in
parte il piano di Kid di recuperare vecchi computer. Questo
è in parte il mio
modo per sfogare tutte le cose negative che costellano la mia vita e
rappresenta il mio seppur debole tentativo di ribellione.
Stizzita,
arraffo le mie cose e, lasciando che la porta richiudendosi alle mie
spalle, sigilli
i miei pensieri severamente punibili dalla legge, torno a preoccuparmi
del mio
piccolo presente e della ramanzina che di sicuro mi aspetta alla fine
di queste
tre rampe di scale.
Che
bella serata mi aspetta…Uffa.
***
Bibibip
Bibibip Alzati sono le 7:30 | Bibibip
Bibibip Alzati sono le 7:30
Ormai sveglio mi
alzo di malavoglia dal letto. La stanza immersa nella penombra mi
invita a
tuffarmi ancora sul materasso a poltrire e perciò, per non
cedere alla
tentazione, spalanco le tende della finestra lasciando filtrare la
calda luce
del sole. I raggi pizzicano sulla faccia e sul torso nudo, tanto che
sono
costretto a scostarmi per evitare quel contatto, poi lanciando i
pantaloni del
pigiama sul materasso, mi avvio in bagno per ficcarmi sotto la doccia.
Non mi
va di sembrare uno zombie già di prima mattina. Lascio che
l'acqua fredda mi
risvegli completamente e a contato con pelle, mi restituisca le
facoltà di
intendere e volere prima inebetite dal sonno. Mentre mi asciugo i
capelli con
l'accappatoio ancora addosso e non curante di bagnare tutto la
moquette,
essendo a piedi nudi, entro nella cabina armadio.
Finalmente nel
silenzio, rovisto nei cassetti estraendo biancheria e calzini puliti,
poi dalle
grucce ordinatamente posizionate sulle aste di metallo che fungono da
sostegno,
tolgo la divisa universitaria di un indicibile e metallico colore verde
scuro
con rifiniture in oro sulle maniche corte e sui bordi. Ho quasi finito
di
cambiarmi quando Ed, il maggiordomo di famiglia, mi annuncia che la
colazione è
pronta. Un'ultima controllata allo specchio e scendo i gradini fino
all'ampia
sala da pranzo. È una stanza rettangolare, con esattamente
al centro un vasto
tavolo di marmo nero circondato da sedie altrettanto scure, mentre
anonimi
quadri decorano i muri bianchi. C’è un solo posto
apparecchiato a spezzare la desolazione
della sala.
<< Dove
sono tutti Ed?>> chiedo al maggiordomo che mi attende
sulla soglia. Edward
è un uomo dalla corporatura minuta, dal carattere tranquillo
e pacato. È estremamente
saggio e comprensivo, tutte caratteristiche comuni per i suoi
settant'anni, eppure
da quando gli è stato affidato quest'incarico, svolge il suo
lavoro ancora con
impeccabile precisione e serietà e mai una volta si
è preso la libertà di fare
a meno delle formalità e delle etichette. È in
servizio presso la nostra
famiglia da ormai ventisei anni, esattamente un anno prima della mia
nascita.
Per me è come un padre, una figura insostituibile. In
effetti possiamo dire che
sia stato lui a crescermi e per questo motivo è una delle
poche persone di cui
possa fidarmi ciecamente e a cui affiderei i miei segreti
più intimi.
<< Il
signore è uscito presto stamattina, dicendo di avere affari
urgenti in ufficio,
vostra madre invece non si è ancora alzata>>
risponde immediatamente.
C'era da
immaginarselo. Tutte le mattine la stessa storia, ma non ha
più importanza
ormai ci ho fatto l'abitudine, tuttavia la sala vuota fa sempre
impressione.
<< Hai già
fatto colazione Ed?>>
<< No,
signorino>> esita prima di rispondere, sapendo
già cosa ho in mente.
<< In
questo caso, mangeremo insieme!>> annuncio andando in
cucina a prendere
un altro coperto per apparecchiare la tavola, sotto lo sguardo
contrariato del
maggiordomo. Ed non è ben disposto a farsi preparare il
posto da me, poiché è
fermamente convinto che il figlio del padrone di casa,
nonché suo datore di
lavoro, non dovrebbe scomodarsi per simili cose etc etc. ma diversamente dalle
prime volte in cui mi
rimproverava per ciò, adesso si limita solamente a guardarmi
con disappunto,
perché sa che lo farei comunque, a discapito di qualsiasi
cosa possa dire per farmi
desistere. L'unico aspetto su cui non sono riuscito a fargli cambiare
idea è il
fatto, che almeno quando siamo solamente io e lui, mi possa chiamare
per nome
senza tutte le formalità che, secondo lui, la sua posizione
gli impone.
Finalmente seduti
a tavola, non ho neanche il tempo addentare un boccone che un individuo
molesto
entra rumorosamente nella sala.
<< Buon
giorno cugino!!!!>> urla sprizzando energia da tutti i
pori.
Lo ignoro
sperando che il mio malaugurato parente se ne vada, così
com'è venuto.
<< Cuginooooo!
… cuginettooooooooooo!>> cinguetta apposta per
innervosirmi il bastardo.
<< Non
chiamarmi a quel modo Spike>> dico reprimendo il senso di
irritazione e
la voglia di picchiarlo. Ho un trauma legato a quel appellativo. Quando
eravamo
bambini ogni volta che Spike pronunciava quella parola per me
significava
sempre e solo guai!
<< Siamo di
cattivo umore? >> domanda prendendo posto sulla sedia
accanto alla mia.
Tengo a precisare
che Spike non è proprio mio cugino in direttissima, ma
è il figlio della cugina
di nostro padre o qualcosa del genere, non mi sono mai cimentato
nell'approfondimento dell'albero genealogico di famiglia. Tanto meno
vorrei
essere imparentato con un individuo egocentrico, spara-scemenze e
farfallone
come lui. Ma è quanto di meglio offre il convento
perciò mi tocca sopportalo
tutti i giorni. Incomincio a credere che non abbia una casa, visto che
ogni due
per tre è sempre nel mio salotto o in camera mia. A
proposito di questo.
<< Cosa ti
porta oggi da noi? >> chiedo a Spike che rigira tra le
dita una galletta
compressata di riso come se fosse un oggetto astruso e non identificato.
<< Volevo
proporti una cosuccia>> butta lì in modo
innocente.
<< Sarebbe??>>
lo incalzo incuriosito.
<< Una
scommessa! Chi prende il voto più alto nell'esame di rilevazione microscopica
III, si becca la
chiave per gli spogliatoi dell'ala ovest per tutto
l'anno>> dice
sventolando sotto il naso la tessera magnetica che ha ricevuto quando
è
diventato il capo della squadra di kick-box. Non è un
cattivo offerta. Avere
tra le mani la chiave di uno spogliatoio quasi inutilizzato mi
permetterebbe di
saltare le lezioni ed avere un posto tranquillo in cui sonnecchiare,
senza
dovermi preoccupare dell'eventualità di essere scoperto,
cosa che in più di un
occasione non mi ha fatto rilassare quanto avrei voluto.
Dopo averci
riflettuto un po' mentre sgranocchio gallette e marmellata, finalmente
do la
mia risposta.
<< Ci sto!
Ma la posta in palio per chi perde? >> chiedo sapendo che
Spike non da
nulla a gratis.
<< Non
preoccuparti lo saprai a tempo debito>> esordisce
maliziosamente, e non
gli chiedo nulla sul presunto pagamento della posta in gioco, tanto non
me lo
direbbe mai.
Approvata la
scommessa, non ci resta altro che finire la colazione e prepararci ad
uscire.
Prendo con tutta calma la cintura con tutto il materiale necessario per
la
giornata di oggi e mi avvio con Spike in strada. Un’esile
figura fasciata si
verde metallizzato ci sta aspettando oltre il cancello.
<< Buon
giorno Ragazzi!!>> saluta Chanel con un sorriso
smagliante.
Chanel Moores,
oltre ad essere una nostra cara amica, è la mia compagna di
classe. È
estremamente intelligente, caratteristica
che le ha permesso di iscriversi alla nostra sede con un anno di
anticipo,
superando brillantemente tutti i test. Inizialmente sembra posata e
tranquilla,
ma l'apparenza inganna. Ha un caratterino difficile da gestire se le
cose non
vanno come aveva pianificato ed in quei casi è meglio
restarle alla larga
finché non si calma, altrimenti la sua voce, che raggiunge i
toni striduli del
cicaleccio, rischia di perforati i timpani. Tutto sommato è
abbastanza
simpatica, ma cosa più importante, è una delle
poche ragazza che conosco, che
riesce a tenere testa e sopportare Spike o che non gli sbava dietro
come una
lumaca, ed è assicurato che anche mio cugino è
difficile da gestire per certi
versi. Comunque tornando a Chanel, fisicamente non sarà una
top model ma rientra
nel gruppo delle ragazze più carine della scuola con i suoi
capelli color
biondo platino acconciati in un pettinatura corta e voluminosa, viso a
forma di
cuore, occhi uno lilla e l'altro verde giada, snella e con le curve
giuste.
Unica pecca non è altissima, appena un metro e
cinquantacinque.
<< Come
stai Nagìl?>> mi chiede spostandosi al mio
fianco.
<< Come al
solito direi>>
<< Anch'io
sto bene! Grazie per l'interessamento>> esordisce Spike,
mentre ci lasciamo
casa mai alle spalle.
<< Ah! È
vero, ci sei anche tu... >> lo punzecchia, rivolgendogli
uno sguardo di
sufficienza.
Così tra una
chiacchiera e l'altra attraversiamo il Centro costantemente ingombrato
dal via
vai di gente sempre di fretta, mentre le automobili ad energia
elettrica o
solare sfrecciano silenziosamente per le strade. Le alte abitazioni e
gli
uffici, oscurano parzialmente i raggi del sole che attraversano la
cupola e, nonostante
tutto, il caldo si sente abbastanza. Meno male che gli impianti di
ventilazione
sono attivi tutto il giorno, altrimenti saremmo già morti
asfissiati.
Attraverso le
strade, i marciapiedi puliti, le poche aiuole sintetiche senza uno
stelo fuori
posto, mi convinco di quanto sia inquadrata e rigida la nostra
società. Neanche
ai bambini è concesso di schiamazzare ai giardini pubblici o
giocare a palla
per paura che disturbino la quiete pubblica. Eppure sotto la crosta di
indifferenza che provo si agita da diverso tempo anche
qualcos’altro. È
difficile descriverlo a parole perché non ha ancora assunto
una propria forma
definita.
Mentre rimugino e
scambio ancora qualche battuta distratta con Spike e Chanel,
raggiungiamo
l'Istituto di Istruzione, così i professori vogliono che
chiamiamo il
liceo-universitario. Si tratta si un edificio immenso,
poiché deve ospitare
tutti i giovani studenti del Centro, dalla imponente facciata di pietra
bianca
dove è collocata in bella mostra la targa dorata che riporta
il nome, l'anno di
fondazione e lo stemma scolastico riportato anche sulle nostre divise:
una rosa
dei venti all’interno di un quattro dalle
estremità allungate che intersecano
il cerchio in cui è racchiuso.
L'intero
stabile è percorso da lunghe finestre a nastro in
corrispondenza dei diversi
piani, conferendogli un aspetto regolare e accademico. La pianta
è a ferro di
cavallo con un ampio cortile interno e diverse sezioni distaccate,
adibite per
le palestre e le svariate attività, mentre alcune ospitano
le più moderne aule
di simulazione.
Finalmente
raggiungiamo l'ingresso rientrante nell'edificio, mentre le due guardie
poste
ai lati delle porte di vetro scorrevoli, ci osservano impassibili.
Nell'atrio
un'altra guardia seduta dietro la scrivania circolare ci invita ad
avvicinarci.
<< I vostri
badge prego>> ordina autoritario.
Porgiamo all'uomo
i tesserini di plastica che vengono strisciati in un lettore. Un bip di
assenso, seguito da una lucina verde, poi i nostri nomi, codici di
identificazione e sezione di appartenenza, appaiono sullo schermo
piatto alle
spalle della guardia, e solo dopo ci è consentito
l’accesso alla struttura. Dagli
altri schermi a cristalli liquidi nell'atrio, la segreteria annuncia le
aule
assegnate alle classi per gli ultimi esami di fine semestre e veniamo a
sapere
dalla voce sintetica che la classe del sesto anno V-A3, cioè la
mia e di Chanel, si trova al
terzo piano della parte secondaria dell'edificio, mentre la classe
sesta V-B1,
quella di Spike è dall'altra parte.
<< Non
dimenticarti quello che siamo detti!>> dice prima di
allontanarsi per
arrivare in tempo all'esame, visto che la camminata che deve fare
è piuttosto
lunga. Non lo invidio.
<< Di che
si tratta?>> chiede Chanel morendo di
curiosità.
<< Niente
di che, solo una piccola scommessa>> rimango sul vago, se
Spike non ha
detto nulla di preciso vuol dire che la cosa non deve sapersi.
<< Sempre a
sfidarvi vuoi due!>> mormora contrariata.
In effetti io e
Spike, fin da piccoli ci siamo sfidati più o meno su tutto,
dagli stupidi
giochini di abilità, a vere e proprie gare fisiche o
scolastiche. Il perché mi
sfugge tutt'ora, è come una sorta di routine, tanto che
è diventato automatico
proporre sempre nuove sfide. Forse per sfuggire alla
monotonia che accompagna ogni nostro giorno?
Probabile.
Saliamo gli
scalini che portano al piano che ci interessa tra il vociare giulivo
dei nostri
compagni di istituto. Tutti i corridoi, le rampe, le aule asettiche,
sono
maledettamente uguali. Non un colore, né una qualsiasi cosa
che li renda
diversi tra di loro. Un senso di insofferenza si insinua lentamente in
me,
strisciando come un serpente velenoso. Mi è già
passata la voglia di stare in
classe e la tentazione di marinare è forte, purtroppo ho
accattato la scommessa
e non voglio dover fare qualcosa per Spike senza aver provato a
batterlo,
perciò mi impongo di presentarmi all’esame. La
stanza non è nulla di
particolare: circolare, spoglia e con una gradinata di ferro da cinque
file che
corre lungo i muri, interrotta qua e la da piccole scalinate per
accedere ai
vari posti. Io e Chanel ci accomodiamo in terza fila il più
lontano possibile
dall'ingresso, poi mi prendo del tempo per osservare il centro della
sala dove
è posizionata la pedana di simulazione virtuale. La piastra
ottagonale, cha fa
da base alla pedana, è alta almeno cinquanta centimetri e
larga sette metri, ed
esattamente al centro vi è un disco metallico, leggermente
rialzato, da cui
partono otto raggi, che dividono la pedana in altrettanti spicchi.
Questi, a
loro volta, sono formati da un’intricata ragnatela di
dischetti ottagonali
fatti di silicio e altre leghe altamente conducibili. Dalla parte bassa
della
pedana, escono numerosi cavi di colori e misure diverse che terminano
in un’
enorme scatola nera, il motore e processore di dati, dalla cui griglia
posteriore scoperta, è possibile vedere le ventole e le
altre componenti da cui
è costituita. Non male come pedana di simulazione, speriamo
che le immagini
siano di buona qualità, siccome già è
difficile scovare quei minuscoli microorganismi,
figurati se non si vede un accidente! La mia attenzione però
viene attirata da
un carrellino metallico addossato alla gradinata opposta e coperto da
oggetti
neri. Oh, no! Caschi di simulazione! Sono arnesi claustrofobici e non
molto
puliti che vengono usati nei vecchi sistemi di simulazione. E io che
avevo
sparato di capitare in un’aula dove non ce ne fosse bisogno.
Sbam!
Il professore entra nell’aula sbattendosi alle spalle la
porta e facendoci
sobbalzare. Il professor Ferruro, assomiglia ad un ratto con i piccoli
occhietti neri, una vistosa pelata con qualche ciuffo di capelli
superstiti (ma
ancora per poco), viso giallognolo con una bocca dagli incisivi
sporgenti,
magrissimo e con le dita delle mani lunghe e affusolate. Abbiamo certi
soggetti
nel nostro istituto!
Ferruro trascina
una sedia fino al motore d’accensione della pedana, e ci si
siede, poi estrae
dalla sua ventiquattrore consumata il tablet in dotazione ai
professori.
Accende quindi il suo computer piatto, avvia il motore della
piattaforma e
infine collega i due apparecchi con un cavo USB.
<< Tirate
fuori i vostri palmari e metteteli difronte a voi in
modalità ricezione
esterna. Confermate il messaggio di connessione al server.2xf.dek>>
afferma lapidario.
Obbediamo
all’istante, battendo intimiditi i tasti virtuali. I palmari
fornitici sono un
incrocio tra un cellulare allungato e un microscopico computer, in cui
sono raccolti
i dati anagrafici e scolastici del possessore per sostenere gli esami e
varie
cose burocratiche, oltre a numerose applicazioni tra cui mappa
satellitare,
lettore mp3, calcolatrice e molto altro. È dotato inoltre di
un sensore
magnetico, che permette rapidi passaggi di dati in caso di
necessità.
Finite le
operazioni tecniche, il professore inizia a chiamare i candidati in
ordine
alfabetico, così decido di schiacciare un pisolino, mentre
Chanel preferisce
ripassare un altro po’ tramite gli appunti sul palmare.
<< Mmh>>
biascico con la voce impastata di sonno.
<< È già la
terza volta che il professore ti chiama>> insiste
continuando a scuotermi.
<< Ho
capito>> mi alzo sbadigliando vistosamente.
<< Signor
Sunders finalmente ha deciso di unirsi a noi!>> afferma
irritato il
professore, appena lo raggiungo << sappia che anche se
è il figlio del
Governatore, non si fanno sconti di favore.
Deve
sudare per guadagnarsi la promozione
nella mio corso come tutti gli atri studenti chiaro?! Adesso si
prepari>>
aggiunge stizzito picchiettando con le dita ossute sul tablet e facendo
apparire
accanto al mio fascicolo scolastico una serie di cartelle e programmi
di
simulazione.
Ancora con la
solita solfa! Sono il figlio del governatore e allora?! Ho mai chiesto
di
chiudere un occhio o facilitarmi lo studio? Non mi pare. Comunque per
chiarire
la situazione, lo rassicuro sul fatto di non volere aiuti, poi indosso
l’attrezzatura necessaria, i guanti di simulazione e il casco
integrale che ha
un gradevolissimo odore di sudore e polvere. Come ultima cosa, prima di
posizionarmi sul disco metallico al centro della pedana di simulazione,
inserisco il jek del casco al mio palmare appeso alla cintura e attendo
istruzioni. Speriamo che finisca presto,
questo è quello che mi passa per la mente, mentre
dall’altoparlante nel casco
irrompe la voce distorta del sistema: << Inizio
sequenza di rilevazione microscopica III>>
A questo
punto la
pedana si attiva con un ronzio sommesso ed inizia ad illuminarsi,
mentre le
luci dell’aula si abbassano, poi un fascio opaco
all’estremità della pedana mi
separa dal resto.
Svuoto la mente
concentrandomi sul mio obbiettivo.
Che il gioco
abbia inizio Spike!