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Autore: Kaleido_illusion    11/08/2015    1 recensioni
Benvenuti a Cardia-Y 311, una città stato post apocalittica.
Tra edifici crollati, piogge acide e severe leggi, si intrecciano le vicende di due giovani di realtà completamente diversi: lei, April, una ragazza disillusa e sospettosa con un caratterino da vendere, vive nei Sobborghi lottando ogni giorno per sopravvivere; lui, Nagìl, un curioso ragazzo privileggiato del Centro, che stufo dei favoreggiamenti riservatigli decide in un attimo di ribellione di visitare quei luoghi che la cupola di vetro gli impedisce di raggiungere. Il caso vorrà che i dui si incontrino e da quel momento in poi le loro vite cambino drasticamente ...
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2




Quando usciamo dal negozio il sole ha quasi raggiunto l'orizzonte ma, nonostante stia calando la sera, il caldo afoso è ancora insopportabile, tanto che i vestiti si appiccicano addosso come ventose. Così intontiti dalla calura, vaghiamo per qualche isolato finché non decidiamo di fermarci in un locale, abbastanza lontano dal rifugio, per mangiare un boccone e dopo filare a casa. La locanda è appostata in un vicolo buio e non molto pulito, e ci accorgiamo della sua presenza solo grazie ad una logora insegna di legno che pende all’angolo della strada. Guardo il mio amico perplessa perché non mi sembra un posto affidabile. Tutto l’insieme mi da l’idea di un covo di ubriaconi, o delle vecchie taverne in cui ci sono solo balordi che strillano par l’alcol e si azzuffano.
<< Non ti preoccupare, me l’ha consigliato mio padre>> mi tranquillizza Kid intuendo quello che mi passa per la mante. Ho sempre creduto a quello che mi consigliava Thomas, suo padre, poiché nutro nei suoi confronti una certa fiducia, oltre al fatto che non sia mai successo nulla che mi portasse a pensare il contrario. Perciò stando a quello che dice lui, è un posto sicuro. Mah! Tuttavia nonostante i mie seri dubbi, seguo i due che mi precedono.
Spingiamo la pesante porta di legno ed entriamo in un pub semi-desolato. I tavoli scuri, sparsi qua e là come una manciata di pepe, sono occupati da pochissimi avventori silenziosi radunati sotto al solitario ventilatore al centro della sala, che con il lento moto delle sue pale, cerca di dispensare un po’ di refrigerio. Di fronte a noi invece si erge massiccio il bancone con la cassa automatica, dietro alla quale vi sono posizionate alcune mensole colme di bottiglie dai colori sgargianti e mezze vuote. Guardando la clientela, optiamo per prendere posto sugli alti sgabelli affiancati al bancone. La cameriera, avvisata dal trillo della porta al nostro ingresso, compare tutta trafelata da una porta dall’altro lato della sala e si posiziona davanti a noi porgendoci tre menù.
<< Non vi ho mai visti da queste parti, siete nuovi?>> chiede curiosa appoggiando una mano sul fianco. È una ragazza sulla trentina, ma le occhiaie sotto i limpidi occhi turchesi la fanno sembrare più vecchia, alcuni ricci biondi e ribelli, sfuggiti all’alta coda di cavallo, le incorniciano il viso tempestato di lentiggini mentre la divisa da lavoro che indossa consiste in una stretta maglietta bianca e leggermente sudata ed un grembiule nero.
<< Sì, passeggiavamo da queste parti quando ci è venuta fame>> risponde amichevolmente Kid per tutti.
<< Allora Benvenuti da Shaggy’s, siete fratelli?>> chiede per fare un po’ di conversazione, mentre fa passare lo sguardo da me a Kid a J. J.
Ma è cieca?! Capirei se Kid e J venissero scambiati per parenti, in effetti per il loro sguardo intenso oltre che per il colore degli occhi, si assomigliano molto, anche fisicamente. Ma io che c’entro?! Non ho nulla in comune con loro per via dei miei capelli castani scuro e gli occhi color nocciola.
<< No, siamo amici>> si affretta a precisare il mio amico, vedendo il mio sguardo sbigottito ed inceneritore. Trai i miei altri difetti si conta anche quello di essere asociale e poco incline ad afferrare le battute degli estranei.
<< Però vi assomigliate molto. Comunque cosa posso portarvi?>> annuncia estraendo dal taschino del grembiule un blocchetto per le nostre ordinazioni.
OK! Ha decisamente bisogno di una bel paio di occhiali sentenzio, commentando a me stessa.
Sanza farcelo ripetere due volte, diamo una rapida occhiata alla lista e optiamo per tre panini ed una brocca d’acqua da un litro. Una volta persi gli ordini e i menù, la cameriera sparisce nuovamente dalla porticina che suppongo porti alle cucine.
<< Tu mia Sorella!!>> scoppia a ridere Kid, una volta sicuro che la ragazza non possa sentirci << Questa è bella!>>
<< Ha bisogno di un buon oculista!>> bofonchio.
<< Allora posso chiamarti sorellona?>> chiede candidamente J. sfoggiando un sorriso angelico a cui manca qualche dentino.
<< Certo che puoi!!>> rispondo al bimbo che vorrei soffocare di coccole. È troppo tenero!
<< Sì, sì anch’io ti prego>> si piega in due dalle risate il mio amico.
<< Te lo puoi scordare! Detto da te non suonerebbe altrettanto bene>> ribatto assestandogli una pacca sull’addome che, però, non riesce ad arrestare il suo attacco di ridarella.
La cameriera ritorna a grandi falcate nella sala per porgerci le cena e Kid cerca di recupera un minimo di contegno nonostante stia piangendo per il divertimento.
Senza troppe cerimonie, accecata dalla fame e con l’avidità di un lupo a digiuno, affondo i denti nel pane secco e insipido, fino al prosciutto gommoso che rimane incastrato in gola. Perciò ingollo avidamente un bel bicchiere d’acqua fresca che rinfranca anche il corpo spossato dalla calura. Tutto sommato non posso lamentarmi, è pur sempre cibo e lo sto pagando anche caro, quindi non si discute.
<< Kid?>> chiede tutto d’un tratto J. interrompendo il silenzio religioso che accompagna il pasto << posso venire a dormire da te stasera? … Credo che ci siano dei topi nel rifugio>> chiede con la vocina supplichevole, sgranando gli occhi per enfatizzare la sua recita.
Non posso fare a meno di soffocare un risolino. Ogni volta che il marmocchio non vuole dormire da solo al rifugio tira sempre fuori la scusa di aver sentito sgattaiolare nello scantinato dei roditori o qualsiasi bestia strana gli venga in mente.
<< Se vuoi venire a dormire da me basta chiederlo senza inventare scuse, ok?>> lo ammonisce affettuosamente il mio amico.
<< Evviva! ma li ho sentiti comunque i topi!>> si difende il bimbo finendo il suo panino. Sorridiamo comprensivi. Non è facile per gli adulti dormire da soli a quartieri di distanza da amici e persone care, figuriamoci per un bambino di otto anni.
<< Ragazzi, mi dispiace disturbarvi ma stiamo per chiudere>> ci coglie di sorpresa la cameriera comparendo dietro al bancone ed indicando l’orologio appeso sul muro alle sue spalle << È quasi ora per l’Erogazione>>.
L’erogazione?! Cavolo, certo che è volato il tempo!
<< Sì, ci scusi. Possiamo avere il conto?>> chiedo bruscamente.
La ragazza poggia con rapidità la carta sul banco. Kid ed io paghiamo la cena con la paga ricevuta oggi a lavoro, poi afferrato frettolosamente il resto e lo scontrino, ci fiondiamo fuori dal locale.
L’afa ci assale nuovamente come una morsa stritolandoci tra le sue dita aride, ma non abbiamo il tempo di curarcene, dobbiamo correre se vogliamo arrivare in tempo a casa! Perciò sfrecciamo a perdifiato per le vie deserte dove a farci compagnia c’è solo l’eco dei nostri passi. Ci dobbiamo fermare solo un’ attimo perché J. J non ce la fa più. Purtroppo non possiamo perdere neanche un altro minuto prezioso, allora Kid se lo carica in spalla e ripartiamo con maggior foga.
Dopo strade e vicoli che sembrano non finire mai raggiungiamo, finalmente, il nostro quartiere che ci accoglie con il solito cartello “ zona H_5”. E già, ogni quartiere ha una lettera e un numero che lo contraddistingue. Che fortuna! Si potrebbe benissimo pensare a Cardia come una gigantesca scacchiera. Tuttavia, tranne che per il nome, ogni settore non ha nulla di diverso dagli altri: stessi malandati palazzi residenziali almeno protetti dalla vernice anti acido (ah! Dimenticavo, da noi gli uffici sono assolutamente proibiti, tranne piccoli e controllatissimi esercizi commerciali); tanta polvere da far venire uno shock anafilattico ad un allergico; edifici scolastici, alcuni dei quali quasi inagibili a causa della maglia di crepe che li decora; fabbriche o una “stazione ecologica”, qualche negozietto e qualche spaccio di cianfrusaglie e cibarie che spuntano a casaccio, come i fughi dopo la pioggia.
Auguro velocemente ai ragazzi una buona serata, oltre ad un implicito buona fortuna per arrivare in orario a destinazione, e le nostre strade si dividono con le sirene che urlano il momento più atteso della giornata.
Dopo altri dieci minuti abbondanti di maratona tra le ormai note strade, appare un edificio bellissimo. Ecco come mi sembra, nel delirio per eccesso di acido lattico e mancanza di ossigeno al cervello, il condominio-catapecchia dove abito. Senza rallentare la corsa varco il portone, ci manca poco che non travolga una signora con il suo cesto di panni, e sfruttando lo slancio delle poche energie che mi rimangono salgo in volata le rampe di scale neanche fossi il pugile visto in un vecchissimo film.
Finalmente arrivo alla porta e con il fiato corto picchio sull’uscio.
<< Sky, apri sono io!!>> riesco a dire tra i rantoli e aspettando attimi che sembrano eterni, la mia cuginetta finalmente mi fa entrare.
<< Sei tornata!>> esulta la bambina saltellandomi intorno e scuotendo i folti ricci neri.
Vivo con loro da quando sia suo padre, mio zio, che il mio e mia madre sono stati selezionati per fare da aiutanti alle squadre di ricerca mandate in esplorazione al di fuori della città. Da allora non abbiamo più avuto notizie da nessuno dei tre.
<< Dov’è la zia?>>
<< Mamma è in cucina>> infatti trovo Catherine al lavello, intenta a riempire più taniche e bottiglie d’acqua possibili.
La saluto affettuosamente mentre mi chiede dove sia stata.
<< Vai a farti il bagno, l’erogazione è appena iniziata. L’acqua dovrebbe essere ancora calda>> mi esorta prima di concentrare nuovamente la sua attenzione sulle bottiglie. Seguendo il suo consiglio, vado in bagno e carico una bacinella con asciugamani, tutto l’occorrente per la doccia e la biancheria pulita con i vestiti appena tolti dal bucato ed aggiungo anche un panetto di sapone per i panni. Preso tutto il necessario dovrei raggiungere l’ingresso, ma non voglio passare di nuovo davanti alla cucina, mi è già andata bene che mia zia non si sia accorta in che stato sono ridotti i vestiti. Sfortunatamente non ci sono strade alternative per poter evadere senza essere vista e facendomi coraggio, oltre ad affidarmi ad una buona stella, sfido la mia fortuna.
<< Allora vado e torno>> annuncio di fretta, cercando di defilarmi il prima possibile per quanto le mie gambe stanche me lo permettano.
Proprio quando penso di avercela fatta << April! Cos’hai combinato alla gamba?!>>.
Beccata, accidenti! La sorte non è minimante dalla mia parte oggi.
<< Non so di cosa parli. Vado, a dopo!>> mi affetto a ribattere e mi defilo attraverso il pianerottolo del quinto piano.
Per tutto il corridoio arrivano gli schiamazzi dei vicini, intenti ad accalcarsi ai bagni comuni posti ogni due piani. Sinceramente, e credo chiunque sarebbe d’accordo con me, non mi piace neanche un po’ l’idea di condividere il mio momento privato al bagno con degli sconosciuti. Per fortuna, da qualche tempo ho trovato all’ultimo e abbandonato ottavo piano, delle docce ancora funzionanti di cui nessun’altro è a conoscenza, tranne la mia famiglia, che dopo una bella disinfettata da cima a fondo, sono perfettamente utilizzabili. Perciò, guardandomi attorno con circospezione e sperando che nessuno mi veda, sgattaiolo verso le scale d’emergenza, anch’esse inutilizzate, che mi portano dritta dritta alla meta.
L’ampio spazio e la quiete del posto sono un invito al relax non indifferente, ma prima di svuotare la mente e pensare un po’ a me, prendo la bacinella e, riempitala con un pezzetto di sapone ed acqua, ci lascio in ammollo i panni che mi tolgo di dosso. Invece più ostiche da staccare sono le bende ormai diventate un tutt’uno con le ferite che dovevano solamente coprire. Cercando inutilmente di tirarle via dopo averle bagnate, son costretta alla fine a strapparle di forza con un colpo secco, come si fa con i cerotti, procurandomi un male atroce e qualche goccia di sangue. Leggermente seccata, getto in malo modo il tutto nella bacinella insieme al resto e finalmente posso lasciarmi andare sotto il getto d’acqua calda.
La piacevolissima sensazione delle gocce che picchiettano sulle spalle, il vapore che si insinua nei polmoni fino alla viscere, mi scrollano di dosso la pesante giornata insieme a tutti i pensieri negativi ad essa collegati, facendomi sentire come rinata. Decisa ad assaporare il più a lungo possibile quel momento di pace, che ci viene concesso appena due volte al giorno, mi accovaccio sulla ceramica fredda del piato doccia e lì rimango, lasciando che la mia mente vada alla deriva verso il nulla.
Non so di preciso quanto tempo sia rimasta a crogiolarmi, ma le dita raggrinzite mi dicono che ci sia rimasta molto, anche troppo, e forse è ora di uscire.
Mi do una rapida insaponata completa di shampoo, l’ultimo risciacquo per eliminare le bollicine ostinate ed infine mi avvolgo nel morbido abbraccio del telo da bagno.
Indosso abiti puliti e, mentre i capelli si asciugano all’aria, finisco di lavare i panni per poi stenderli sul filo metallico teso tra due docce opposte, che funge da stendino.
Anche questa volta, come capita sempre quando mi ritrovo in quel luogo da sola, la mia attenzione viene catturata dalla vista che viene offerta dalle finestre del bagno e mi ritrovo a guardare la cupola del Centro che si staglia dietro ai palazzoni. Quel occhio di cristallo che si erge immacolato contro il tramonto, mentre tutto intorno si inginocchia una distesa di case ed edifici sottomessi dalle intemperie e dalla miseria. Rancore e rabbia sono i sentimenti che rivolgo quotidianamente a quella maledetta architettura che salvaguarda, come una comoda gabbia di vetro, delle bestie preziose, cioè gli altri nostri “concittadini”. Loro sono relegati a vita in un bello ed effimero sogno di sicurezza e protezione; la loro esistenza viene scandita dalla tecnologia (da quel che ci hanno riferito alcune fonti certe) dal lavoro e dagli agi. Paragonata alla nostra loro vivono nel lusso sfrenato. Tuttavia, il mio risentimento è dovuto al fatto che i “Centriani” abbiano considerato chiunque non fosse di alto lignaggio o avesse un lavoro “importante”, sacrificabile e per questo, potesse essere giustamente escluso dal progresso ed abbandonato con il minimo indispensabile che gli permettesse di essere produttivo e utile, in qualche maniera, al sostentamento di Cardia.
È proprio questo che non capisco! Come, o in base a cosa stabiliscono che un individuo sia più importante di un altro e perciò avente diritto ad un trattamento diverso? E per quale assurdo motivo si avvalgono della facoltà di “prelevare individui promettenti”, per usare il loro gergo, e trasferirli al Centro dove potranno essere più utili, separandoli per sempre dalle loro famiglie?
Eppure la cosa veramente triste e che noi reietti dall’alta società, abbiamo perso la capacità di opporci a certi eventi; sia perché siamo ormai abituati a vivere in questa realtà dei fatti, sia perché molti si sono lasciati abbindolare dalle belle parole e dalle generose donazioni periodicamente elargite a grandi mani in onore delle feste dello Stato, che abbiamo perso la capacità far sentire la nostra voce e reclamare i nostri diritti. L’unica cosa che c’è rimasta è l’odio e la diffidenza, e se ci va bene qualche piccola rappresaglia.
Ed io odio il Centro e disprezzo i suoi abitanti, per questi e per mille altri motivi, tra i quali l’impossibilità che le cosa cambino. Per questo ho appoggiato in parte il piano di Kid di recuperare vecchi computer. Questo è in parte il mio modo per sfogare tutte le cose negative che costellano la mia vita e rappresenta il mio seppur debole tentativo di ribellione.
Stizzita, arraffo le mie cose e, lasciando che la porta richiudendosi alle mie spalle, sigilli i miei pensieri severamente punibili dalla legge, torno a preoccuparmi del mio piccolo presente e della ramanzina che di sicuro mi aspetta alla fine di queste tre rampe di scale.
Che bella serata mi aspetta…Uffa.

***

Bibibip Bibibip Alzati sono le 7:30 | Bibibip Bibibip Alzati sono le 7:30

Gracchia la sveglia strappandomi dal sogno che stavo facendo. Pigramente tiro fuori dalle coperte il braccio e lo lascio ricadere sull'aggeggio, poi torno ad avvolgermi nelle lenzuola, sprofondando nel sonno.

Bibibip Bibibip Alzati sono le 7:40 | Bibibip Bibibip Alzati sono le 7:40

Prima o poi lo rompo quel dannato affare! Perché li hanno costruiti così assillanti? Per farti saltare i nervi fin dalle prime ore del mattino?!
Ormai sveglio mi alzo di malavoglia dal letto. La stanza immersa nella penombra mi invita a tuffarmi ancora sul materasso a poltrire e perciò, per non cedere alla tentazione, spalanco le tende della finestra lasciando filtrare la calda luce del sole. I raggi pizzicano sulla faccia e sul torso nudo, tanto che sono costretto a scostarmi per evitare quel contatto, poi lanciando i pantaloni del pigiama sul materasso, mi avvio in bagno per ficcarmi sotto la doccia. Non mi va di sembrare uno zombie già di prima mattina. Lascio che l'acqua fredda mi risvegli completamente e a contato con pelle, mi restituisca le facoltà di intendere e volere prima inebetite dal sonno. Mentre mi asciugo i capelli con l'accappatoio ancora addosso e non curante di bagnare tutto la moquette, essendo a piedi nudi, entro nella cabina armadio.

| Buon giorno signore, cosa indosserete oggi?|

Annuncia al mio ingresso la voce metallica del computer installato nel muro. Stamattina non sopporto neanche lui, perciò premo il pulsante di spegnimento del pannello centrale e la spia a led rossa sbiadisce fino a diventare nera. Che sollievo non sentire più tutte queste voci robotiche.
Finalmente nel silenzio, rovisto nei cassetti estraendo biancheria e calzini puliti, poi dalle grucce ordinatamente posizionate sulle aste di metallo che fungono da sostegno, tolgo la divisa universitaria di un indicibile e metallico colore verde scuro con rifiniture in oro sulle maniche corte e sui bordi. Ho quasi finito di cambiarmi quando Ed, il maggiordomo di famiglia, mi annuncia che la colazione è pronta. Un'ultima controllata allo specchio e scendo i gradini fino all'ampia sala da pranzo. È una stanza rettangolare, con esattamente al centro un vasto tavolo di marmo nero circondato da sedie altrettanto scure, mentre anonimi quadri decorano i muri bianchi. C’è un solo posto apparecchiato a spezzare la desolazione della sala.
<< Dove sono tutti Ed?>> chiedo al maggiordomo che mi attende sulla soglia. Edward è un uomo dalla corporatura minuta, dal carattere tranquillo e pacato. È estremamente saggio e comprensivo, tutte caratteristiche comuni per i suoi settant'anni, eppure da quando gli è stato affidato quest'incarico, svolge il suo lavoro ancora con impeccabile precisione e serietà e mai una volta si è preso la libertà di fare a meno delle formalità e delle etichette. È in servizio presso la nostra famiglia da ormai ventisei anni, esattamente un anno prima della mia nascita. Per me è come un padre, una figura insostituibile. In effetti possiamo dire che sia stato lui a crescermi e per questo motivo è una delle poche persone di cui possa fidarmi ciecamente e a cui affiderei i miei segreti più intimi.
<< Il signore è uscito presto stamattina, dicendo di avere affari urgenti in ufficio, vostra madre invece non si è ancora alzata>> risponde immediatamente.
C'era da immaginarselo. Tutte le mattine la stessa storia, ma non ha più importanza ormai ci ho fatto l'abitudine, tuttavia la sala vuota fa sempre impressione.
<< Hai già fatto colazione Ed?>>
<< No, signorino>> esita prima di rispondere, sapendo già cosa ho in mente.
<< In questo caso, mangeremo insieme!>> annuncio andando in cucina a prendere un altro coperto per apparecchiare la tavola, sotto lo sguardo contrariato del maggiordomo. Ed non è ben disposto a farsi preparare il posto da me, poiché è fermamente convinto che il figlio del padrone di casa, nonché suo datore di lavoro, non dovrebbe scomodarsi per simili cose etc etc. ma diversamente dalle prime volte in cui mi rimproverava per ciò, adesso si limita solamente a guardarmi con disappunto, perché sa che lo farei comunque, a discapito di qualsiasi cosa possa dire per farmi desistere. L'unico aspetto su cui non sono riuscito a fargli cambiare idea è il fatto, che almeno quando siamo solamente io e lui, mi possa chiamare per nome senza tutte le formalità che, secondo lui, la sua posizione gli impone.
Finalmente seduti a tavola, non ho neanche il tempo addentare un boccone che un individuo molesto entra rumorosamente nella sala.
<< Buon giorno cugino!!!!>> urla sprizzando energia da tutti i pori.
Lo ignoro sperando che il mio malaugurato parente se ne vada, così com'è venuto.
<< Cuginooooo! … cuginettooooooooooo!>> cinguetta apposta per innervosirmi il bastardo.
<< Non chiamarmi a quel modo Spike>> dico reprimendo il senso di irritazione e la voglia di picchiarlo. Ho un trauma legato a quel appellativo. Quando eravamo bambini ogni volta che Spike pronunciava quella parola per me significava sempre e solo guai!
<< Siamo di cattivo umore? >> domanda prendendo posto sulla sedia accanto alla mia.
Tengo a precisare che Spike non è proprio mio cugino in direttissima, ma è il figlio della cugina di nostro padre o qualcosa del genere, non mi sono mai cimentato nell'approfondimento dell'albero genealogico di famiglia. Tanto meno vorrei essere imparentato con un individuo egocentrico, spara-scemenze e farfallone come lui. Ma è quanto di meglio offre il convento perciò mi tocca sopportalo tutti i giorni. Incomincio a credere che non abbia una casa, visto che ogni due per tre è sempre nel mio salotto o in camera mia. A proposito di questo.
<< Cosa ti porta oggi da noi? >> chiedo a Spike che rigira tra le dita una galletta compressata di riso come se fosse un oggetto astruso e non identificato.
<< Volevo proporti una cosuccia>> butta lì in modo innocente.
<< Sarebbe??>> lo incalzo incuriosito.
<< Una scommessa! Chi prende il voto più alto nell'esame di rilevazione microscopica III, si becca la chiave per gli spogliatoi dell'ala ovest per tutto l'anno>> dice sventolando sotto il naso la tessera magnetica che ha ricevuto quando è diventato il capo della squadra di kick-box. Non è un cattivo offerta. Avere tra le mani la chiave di uno spogliatoio quasi inutilizzato mi permetterebbe di saltare le lezioni ed avere un posto tranquillo in cui sonnecchiare, senza dovermi preoccupare dell'eventualità di essere scoperto, cosa che in più di un occasione non mi ha fatto rilassare quanto avrei voluto.
Dopo averci riflettuto un po' mentre sgranocchio gallette e marmellata, finalmente do la mia risposta.
<< Ci sto! Ma la posta in palio per chi perde? >> chiedo sapendo che Spike non da nulla a gratis.
<< Non preoccuparti lo saprai a tempo debito>> esordisce maliziosamente, e non gli chiedo nulla sul presunto pagamento della posta in gioco, tanto non me lo direbbe mai.
Approvata la scommessa, non ci resta altro che finire la colazione e prepararci ad uscire. Prendo con tutta calma la cintura con tutto il materiale necessario per la giornata di oggi e mi avvio con Spike in strada. Un’esile figura fasciata si verde metallizzato ci sta aspettando oltre il cancello.
<< Buon giorno Ragazzi!!>> saluta Chanel con un sorriso smagliante.
Chanel Moores, oltre ad essere una nostra cara amica, è la mia compagna di classe. È estremamente intelligente, caratteristica che le ha permesso di iscriversi alla nostra sede con un anno di anticipo, superando brillantemente tutti i test. Inizialmente sembra posata e tranquilla, ma l'apparenza inganna. Ha un caratterino difficile da gestire se le cose non vanno come aveva pianificato ed in quei casi è meglio restarle alla larga finché non si calma, altrimenti la sua voce, che raggiunge i toni striduli del cicaleccio, rischia di perforati i timpani. Tutto sommato è abbastanza simpatica, ma cosa più importante, è una delle poche ragazza che conosco, che riesce a tenere testa e sopportare Spike o che non gli sbava dietro come una lumaca, ed è assicurato che anche mio cugino è difficile da gestire per certi versi. Comunque tornando a Chanel, fisicamente non sarà una top model ma rientra nel gruppo delle ragazze più carine della scuola con i suoi capelli color biondo platino acconciati in un pettinatura corta e voluminosa, viso a forma di cuore, occhi uno lilla e l'altro verde giada, snella e con le curve giuste. Unica pecca non è altissima, appena un metro e cinquantacinque.
<< Come stai Nagìl?>> mi chiede spostandosi al mio fianco.
<< Come al solito direi>>
<< Anch'io sto bene! Grazie per l'interessamento>> esordisce Spike, mentre ci lasciamo casa mai alle spalle.
<< Ah! È vero, ci sei anche tu... >> lo punzecchia, rivolgendogli uno sguardo di sufficienza.
Così tra una chiacchiera e l'altra attraversiamo il Centro costantemente ingombrato dal via vai di gente sempre di fretta, mentre le automobili ad energia elettrica o solare sfrecciano silenziosamente per le strade. Le alte abitazioni e gli uffici, oscurano parzialmente i raggi del sole che attraversano la cupola e, nonostante tutto, il caldo si sente abbastanza. Meno male che gli impianti di ventilazione sono attivi tutto il giorno, altrimenti saremmo già morti asfissiati.
Attraverso le strade, i marciapiedi puliti, le poche aiuole sintetiche senza uno stelo fuori posto, mi convinco di quanto sia inquadrata e rigida la nostra società. Neanche ai bambini è concesso di schiamazzare ai giardini pubblici o giocare a palla per paura che disturbino la quiete pubblica. Eppure sotto la crosta di indifferenza che provo si agita da diverso tempo anche qualcos’altro. È difficile descriverlo a parole perché non ha ancora assunto una propria forma definita.
Mentre rimugino e scambio ancora qualche battuta distratta con Spike e Chanel, raggiungiamo l'Istituto di Istruzione, così i professori vogliono che chiamiamo il liceo-universitario. Si tratta si un edificio immenso, poiché deve ospitare tutti i giovani studenti del Centro, dalla imponente facciata di pietra bianca dove è collocata in bella mostra la targa dorata che riporta il nome, l'anno di fondazione e lo stemma scolastico riportato anche sulle nostre divise: una rosa dei venti all’interno di un quattro dalle estremità allungate che intersecano il cerchio in cui è racchiuso. L'intero stabile è percorso da lunghe finestre a nastro in corrispondenza dei diversi piani, conferendogli un aspetto regolare e accademico. La pianta è a ferro di cavallo con un ampio cortile interno e diverse sezioni distaccate, adibite per le palestre e le svariate attività, mentre alcune ospitano le più moderne aule di simulazione.
Finalmente raggiungiamo l'ingresso rientrante nell'edificio, mentre le due guardie poste ai lati delle porte di vetro scorrevoli, ci osservano impassibili. Nell'atrio un'altra guardia seduta dietro la scrivania circolare ci invita ad avvicinarci.
<< I vostri badge prego>> ordina autoritario.
Porgiamo all'uomo i tesserini di plastica che vengono strisciati in un lettore. Un bip di assenso, seguito da una lucina verde, poi i nostri nomi, codici di identificazione e sezione di appartenenza, appaiono sullo schermo piatto alle spalle della guardia, e solo dopo ci è consentito l’accesso alla struttura. Dagli altri schermi a cristalli liquidi nell'atrio, la segreteria annuncia le aule assegnate alle classi per gli ultimi esami di fine semestre e veniamo a sapere dalla voce sintetica che la classe del sesto anno V-A
3, cioè la mia e di Chanel, si trova al terzo piano della parte secondaria dell'edificio, mentre la classe sesta V-B1, quella di Spike è dall'altra parte.
<< Non dimenticarti quello che siamo detti!>> dice prima di allontanarsi per arrivare in tempo all'esame, visto che la camminata che deve fare è piuttosto lunga. Non lo invidio.
<< Di che si tratta?>> chiede Chanel morendo di curiosità.
<< Niente di che, solo una piccola scommessa>> rimango sul vago, se Spike non ha detto nulla di preciso vuol dire che la cosa non deve sapersi.
<< Sempre a sfidarvi vuoi due!>> mormora contrariata.
In effetti io e Spike, fin da piccoli ci siamo sfidati più o meno su tutto, dagli stupidi giochini di abilità, a vere e proprie gare fisiche o scolastiche. Il perché mi sfugge tutt'ora, è come una sorta di routine, tanto che è diventato automatico proporre sempre nuove sfide. Forse per sfuggire alla monotonia che accompagna ogni nostro giorno? Probabile.
Saliamo gli scalini che portano al piano che ci interessa tra il vociare giulivo dei nostri compagni di istituto. Tutti i corridoi, le rampe, le aule asettiche, sono maledettamente uguali. Non un colore, né una qualsiasi cosa che li renda diversi tra di loro. Un senso di insofferenza si insinua lentamente in me, strisciando come un serpente velenoso. Mi è già passata la voglia di stare in classe e la tentazione di marinare è forte, purtroppo ho accattato la scommessa e non voglio dover fare qualcosa per Spike senza aver provato a batterlo, perciò mi impongo di presentarmi all’esame. La stanza non è nulla di particolare: circolare, spoglia e con una gradinata di ferro da cinque file che corre lungo i muri, interrotta qua e la da piccole scalinate per accedere ai vari posti. Io e Chanel ci accomodiamo in terza fila il più lontano possibile dall'ingresso, poi mi prendo del tempo per osservare il centro della sala dove è posizionata la pedana di simulazione virtuale. La piastra ottagonale, cha fa da base alla pedana, è alta almeno cinquanta centimetri e larga sette metri, ed esattamente al centro vi è un disco metallico, leggermente rialzato, da cui partono otto raggi, che dividono la pedana in altrettanti spicchi. Questi, a loro volta, sono formati da un’intricata ragnatela di dischetti ottagonali fatti di silicio e altre leghe altamente conducibili. Dalla parte bassa della pedana, escono numerosi cavi di colori e misure diverse che terminano in un’ enorme scatola nera, il motore e processore di dati, dalla cui griglia posteriore scoperta, è possibile vedere le ventole e le altre componenti da cui è costituita. Non male come pedana di simulazione, speriamo che le immagini siano di buona qualità, siccome già è difficile scovare quei minuscoli microorganismi, figurati se non si vede un accidente! La mia attenzione però viene attirata da un carrellino metallico addossato alla gradinata opposta e coperto da oggetti neri. Oh, no! Caschi di simulazione! Sono arnesi claustrofobici e non molto puliti che vengono usati nei vecchi sistemi di simulazione. E io che avevo sparato di capitare in un’aula dove non ce ne fosse bisogno.

Sbam! Il professore entra nell’aula sbattendosi alle spalle la porta e facendoci sobbalzare. Il professor Ferruro, assomiglia ad un ratto con i piccoli occhietti neri, una vistosa pelata con qualche ciuffo di capelli superstiti (ma ancora per poco), viso giallognolo con una bocca dagli incisivi sporgenti, magrissimo e con le dita delle mani lunghe e affusolate. Abbiamo certi soggetti nel nostro istituto!
Ferruro trascina una sedia fino al motore d’accensione della pedana, e ci si siede, poi estrae dalla sua ventiquattrore consumata il tablet in dotazione ai professori. Accende quindi il suo computer piatto, avvia il motore della piattaforma e infine collega i due apparecchi con un cavo USB.
<< Tirate fuori i vostri palmari e metteteli difronte a voi in modalità ricezione esterna. Confermate il messaggio di connessione al server.2xf.dek>> afferma lapidario.
Obbediamo all’istante, battendo intimiditi i tasti virtuali. I palmari fornitici sono un incrocio tra un cellulare allungato e un microscopico computer, in cui sono raccolti i dati anagrafici e scolastici del possessore per sostenere gli esami e varie cose burocratiche, oltre a numerose applicazioni tra cui mappa satellitare, lettore mp3, calcolatrice e molto altro. È dotato inoltre di un sensore magnetico, che permette rapidi passaggi di dati in caso di necessità.
Finite le operazioni tecniche, il professore inizia a chiamare i candidati in ordine alfabetico, così decido di schiacciare un pisolino, mentre Chanel preferisce ripassare un altro po’ tramite gli appunti sul palmare.


<< Nagìl! Andiamo Nagìl svegliati!>>
<< Mmh>> biascico con la voce impastata di sonno.
<< È già la terza volta che il professore ti chiama>> insiste continuando a scuotermi.
<< Ho capito>> mi alzo sbadigliando vistosamente.
<< Signor Sunders finalmente ha deciso di unirsi a noi!>> afferma irritato il professore, appena lo raggiungo << sappia che anche se è il figlio del Governatore, non si fanno sconti di favore. Deve sudare per guadagnarsi la promozione nella mio corso come tutti gli atri studenti chiaro?! Adesso si prepari>> aggiunge stizzito picchiettando con le dita ossute sul tablet e facendo apparire accanto al mio fascicolo scolastico una serie di cartelle e programmi di simulazione.
Ancora con la solita solfa! Sono il figlio del governatore e allora?! Ho mai chiesto di chiudere un occhio o facilitarmi lo studio? Non mi pare. Comunque per chiarire la situazione, lo rassicuro sul fatto di non volere aiuti, poi indosso l’attrezzatura necessaria, i guanti di simulazione e il casco integrale che ha un gradevolissimo odore di sudore e polvere. Come ultima cosa, prima di posizionarmi sul disco metallico al centro della pedana di simulazione, inserisco il jek del casco al mio palmare appeso alla cintura e attendo istruzioni. Speriamo che finisca presto, questo è quello che mi passa per la mente, mentre dall’altoparlante nel casco irrompe la voce distorta del sistema: <<
Inizio sequenza di rilevazione microscopica III
>>
A questo punto la pedana si attiva con un ronzio sommesso ed inizia ad illuminarsi, mentre le luci dell’aula si abbassano, poi un fascio opaco all’estremità della pedana mi separa dal resto.
Svuoto la mente concentrandomi sul mio obbiettivo.
Che il gioco abbia inizio Spike!

   
 
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