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Autore: Katnip_GirlOnFire    13/08/2015    4 recensioni
Questo è il primo lavoro che pubblico in questo fandom.
Saranno una serie di OS ambientate dopo l'episodio 2x16, che mi ha lasciata così male che mi sarei messa a piangere.
Questa raccolta sarà pura Bellarke, tutti piccoli episodi che definiscono il loro rapporto.
Ci sarà un po' di angst, ma anche tanti bei momenti fluff.
Non so come descrivere questa cosa, se non come qualcosa uscito fuori dal mio povero cuore di shipper in subbuglio.
Dopo questa introduzione di schifo non credo di aver invogliato nessuno a leggere, ma per favore, date una letta.
E.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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È passato un mese.
Un mese da quando Clarke è tronata al campo.
Un mese che Bellamy praticamente non le rivolge la parola.
È tornato tutto come prima, lei in area medica, lui ai suoi soliti compiti.
La loro gente si rivolge a Clarke con lo stesso rispetto e ammirazione riverenziale con il quale le si rivolgevano prima che se ne andasse.
Ma i due leader non hanno ancora affrontato l’argomento più importante di tutti.
Bellamy si rifiuta categoricamente di parlare di quel giorno quando, davanti ai cancelli del Campo Jaha, con cuori pesanti e mani tremanti, si erano promessi di incontrarsi di nuovo.
E quanto lo aveva aspettato Bellamy, quell’incontro.
Ogni giorno si svegliava, pensando che avrebbe potuto essere quello il giorno in cui la principessa sarebbe tornata.
Ma non era così.
Non era successo ne quel giorno, ne il giorno dopo. Ne quello dopo ancora.
Modo di ricevere notizie non ce n’era.
Bellamy rischiava di impazzire: poteva essere prigioniera di qualche clan. Poteva essere morta di fame, di sete, di freddo.
Tutti i peggiori scenari avevano attraversato la sua mente.
Un paio di volte era anche andato a cercarla, ma senza risultato.
L’unico suo segno che avevano ricevuto, l’avevano trovato a Mount Weather.
Nonostante i sensi di colpa che ancora lo assillavano, Bellamy sapeva che un capo non poteva permettersi il lusso del lutto.
Una settimana dopo il loro ritorno aveva guidato una squadra nel luogo dove il delitto ogetto dei suoi incubi era stato consumato, per prendere dal monte disabitato ciò che poteva tornar loro utile.
Mentre entrava nelle stanze sotterranee prelevando coperte, vestiti e medicine, Bellamy chiedeva mentalmente perdono.
Chiedeva perdono davanti alle fotografie, davanti ai libri, davanti ai pupazzi che dovevano appartenere a qualcuno. A qualche innocente che non avrebbe mai più avuto la possibilità di far scorrere gli occhi su quelle piccole cose che rendevano quel posto la sua casa.
I morti sono morti, si ripeteva.
Ricordati: chi siamo, e chi dobbiamo essere per sopravvivere, sono due cose molto diverse.
Riemerso dalla montagna, Bellamy stava quasi per scoppiare a piangere come un bambino.
Perché ai piedi di quella montagna, sul lato opposto rispetto a quello dal quale loro avevano fatto irruzione, erano state scavate più di duecento fosse.
All’ombra degli alberi, dove il sole pomeridiano filtrava facendo timidamente capolino tra le fronde e creando giochi di luce sul terreno, riposavano in pace gli abitati del monte.
Quel monte che tanto strenuamente avevano difeso ora incombeva su di loro, proteggendo le loro tombe dalle intemperie.
E su ogni porzione di terra smossa era stao trapiantato un fiore, un fiore diverso per ogni anima, rendendo quella radura una distesa di colori.
Clarke.
Bellamy si era inginocchiato fra le fosse, con gli occhi spenti e la testa bassa, e aveva chiesto di nuovo perdono.
Mi dispiace, mi dispiace. Mi dispiace davvero.
Ma a rispondergli fu solo il fruscìo del vento.
 
Clarke non è guarita, sente ancora gravare sulle sue spalle il peso delle proprie colpe.
Ma in quei mesi di lontananza aveva capito cosa voleva e cosa era giusto.
Le era servito del tempo da sola, per riflettere, ma alla fine era giunta alla conclusione che non poteva scappare, che doveva tornare a casa.
Dalla sua gente.
Dalle persone che amava.
Aveva maturato quella conclusione attraverso la solitudine e la sofferenza, e le sembrava giusto che la sua gente conoscesse le motivazioni.
Non era servito granchè, nessuno era rimasto ad ascoltare le sue motivazioni: Raven le si è lanciata addosso piangendo, ridendo e insultandola allo stesso tempo.
Monty l’aveva abbracciata con forza e le era rimasto incollato al fiaco tutto il giorno per avere notizie su ciò che aveva passato e per informarla sulle novita del Campo 42.
Tutti l’avevano accolta e celebrata.
Persino Jasper aveva accantonato i suoi rancori, aiutato da un’ingente dose giornaliera di alcohol.
Gli ci era voluto tempo per piangere il suo amore perduto, la sua amata Maya.
La giovane, bellissima ragazza che aveva dato la vita nel tentativo di salvare quella dei quarantadue.
Così pura, così giusta. Così innocente.
Non aveva perdonato Clarke, non ancora, ma aveva capito che qualunque decisione avesse preso quel giorno in quel monte, sarebbe stata comunque sbagliata.
Aveva fatto del suo meglio per proteggere la sua gente.
Quindi quando era uscito dalla tenda per vedere cosa causasse tutto il trambusto e aveva visto Clarke, all’inizio era rimasto fermo, indeciso su cosa fare.
Anche Clarke lo aveva guardato, gli occhi pieni di scuse e di rimorso.
Jasper aveva fatto qualche passo nella sua direzione, sorriso incerto e aveva teso la mano.
La tensione nelle spalle della ragazza si era allentata mentre gli aveva stretto la mano, producendosi in ciò che più vicino a un sorriso era capace di fare.
Magari non sarebbero diventati di nuovo amici.
Ma quello era un inizio.
Bellamy l’aveva guardata da lontano per tutto il giorno. L’aveva vista interagire di nuovo con la gente a cui aveva salvato la vita e poi abbandonato, e familiarizzare con il nuovo campo, con Monty e Raven sempre vicini.
Non poteva crederci.
Era tornata.
Dopo un anno la sua principessa – la principessa, si era corretto, dandosi uno schiaffo mentale – era tornata a casa.
Non sapeva cosa pensare, non sapeva come comportarsi.
Più volte, il giorno del suo ritorno, lei lo aveva cercato con lo sguardo, ma lui l’aveva evitata.
Si era ritirato nella sua tenda, in compagnia del Moonshine gentilmente fornito da Monty.
Per quel giorno, aveva deciso, il campo poteva prendersi cura di se stesso.
Clarke fece la sua comparsa nella tenda quando il falò era stato acceso, e tutti stavano mangiando e chiacchierando allegramente.
Le sembrava così strano, così bello vederli tutti tranquilli, tutti felici.
A quanto pare, in sua assenza, i guai si erano tenuti lontani dai quarantadue, concedendo loro un po’ di serenità.
Aveva sentito molte parole, e visto molti sorrisi, quella sera. Ma mancava qualcosa.
Mancava lui.
Aveva vagato per il campo, cercando la sua tenda.
Raven le aveva detto che era la più grande dopo l’infermeria. Le ha raccontato come avessero organizzato il nuovo campo, di come Bellamy fosse stato un leader impeccabile.
La prima tenda che avevano tirato su, le aveva raccontato il meccanico, era stata quella di Bellamy.
Una degna dimora per un degno capo, così Monty l’aveva presentata a Bellamy.
Ma lui si  era rifiutato categoricamente di dormirci finchè tutti avessero avuto la propria tenda.
Aveva dormito fuori, accanto alle braci morenti del falò, e aveva lasciato la sua nuova abitazione a cinque più giovani membri del campo.
Tipico di Bellamy, aveva pensato Clarke con tenerezza durante il racconto di Raven.
Era entarta silenziosamente, trovandolo in un degno stato di ebbrezza.
Non era ubriaco, non ancora, ma non era neanche sobrio.
Sedeva su uno sgabello, piegato sul piccolo tavolino di legno che Monroe era riuscito a intagliare grossolanamente per lui, rigirandosi la bottiglia semivuota tra le mani.
«Dovresti mangiare» aveva sussurrato Clarke poggiando sul tavolo uuna piastra di metallo con sopra della carne alla griglia.
Bellamy non aveva alzato la testa, e Clarke avrebbe disperatamente voluto vedere i suoi occhi, avrebbe voluto parlare, sapere come si sentiva.
Si era dondolata imbarazzata da un piede all’altro.
Non era mai stata così difficile, la comunicazione tra loro.
Si erano sempre scambiati opinioni, urlati contro, rassicurati a vicenda.
Le parole non li avevano mai spaventati.
«Wow, ti sei sistemato bene» aveva detto la prima cosa che le era passata per la testa, nel disperato tentativo di sollecitare una sua reazione.
Bellamy aveva alzato lentamente la testa.
«Cosa vuoi, Clarke?» aveva sputato con rancore, l’alcohol a renderlo più aggressivo del solito.
«Parlare»
La risata amara uscita dalla bocca di lui non era durata molto.
«E di cosa?» aveva chiesto alzandosi lentamente e guardandola sprezzante. «Di cosa vorresti parlare
Clarke non si era mai sentita così piccola al suo cospetto, sotto lo sguardo pungente dei suoi occhi scuri.
«Di tutto. Di quello che è successo, di - »
«Non c’è niente di cui parlare» aveva tagliato corto lui, scostando con una mano un lembo della tenda e facendole un cenno brusco con la testa, invitandola esplicitamente ad uscire.
Ma Clarke era rimasta al centro della tenda, a braccia conserte e labbra serrate.
Vedendo che non era intenzionata a lasciarlo in pace, Bellamy decise che allora sarebbe uscito lui.
L’alcohol lo aveva reso però, molto più lento della ragazza che, capite le sue intenzioni, si era subito interposta tra lui e l’uscita con uno sgrado deciso.
«No, tu non te ne vai» aveva detto, e a Bellamy era sembrato di sentire una nota di disperazione nella sua voce. «Non finchè non avremo parlato»
La distanza tra loro si era notevolmente ridotta, e gli occhi scuri di Bellamy facevano sentire Clarke irrequieta. Tuttavia non meno testarda.
Era rimasta al suo posto, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi, finchè non era stato lui a parlare, alzando la voce esasperato.
«Cosa vuoi che dica?» aveva detto duramente cercando di scostarla. «Cosa vuoi che faccia?»
Clarke non sapeva più che fare, ma stava cominciando ad arrabbiarsi.
Era lì per lui, perché teneva a lui. Non si meritava quella durezza.
E poi aveva perso le staffe.
«Vorrei che reagissi!» aveva alzato la voce a sua volta poggiandogli le mani sul petto muscoloso e spintonandolo con forza. Bellamy era inciampato indietreggando verso il centro della tenda, colto alla sprovvista.
Aveva riaquistato l’equilibrio solo per essere attaccato di nuovo.
«Vorrei che urlassi, che mi insultassi» Clarke lo aveva spintonato, ancora e ancora. Non le importava che tutto il campo sentisse: voleva che Bellamy percepisse la sua frustrazione.
«Vorrei che facessi qualcosa, qualunque cosa» Bellamy le aveva afferrato i polsi, tenendola ferma e impedendole di continuare a spingerlo.
Voleva che facesse qualcosa. Voleva che facesse qualcosa.
Con i freni inibitori pressochè nulli e il giudizio obnubilato dall’alcohol, Bellamy aveva dato sfogo a tutta la sua ira, il suo dolore, la sua frustrazione. Tutto quello che per un anno si era tenuto dentro era uscito fuori come un uragano impossibile da controllare.
Di certo gli abitati del campo avrebbero avuto qualcosa su cui spettegolare, il giorno dopo.
«Cosa pensavi, principessa, che sarebbe tornato tutto come prima?» aveva stretto la presa sui polsi di Clarke, strattonandola.
Clarke non aveva mai avuto paura di Bellamy, non veramente. I primi giorni che avevano passato sulla terra, anche allora sapeva che quella di Bellamy era una facciata.
Ma questo Bellamy la stava terrorizzando.
Si stava muovendo come un animale ferito, e Clarke sapeva che stava per sputarle addosso un sacco di cose che lei non si sarebbe mai voluta sentir dire.
«Tu te ne sei andata» le aveva urlato contro.
«Mi hai abbandonato perché eri troppo codarda per fare i conti con quello che avevi fatto. Quello che avevamo fatto»
Appunto, aveva pensato Clarke.
La presa sulle sue mani era forte, ma non abbastanza. Non avrebbe piagnucolato come una bambina davanti a lui.
«Ero pronto a starti accanto. Volevo starti accanto, avremmo superato la cosa insieme, come abbiamo sempre fatto. Insieme, ricordi?»
L’immagine delle loro mani su quella leva, come l’avevano tirata, le ritornò alla mente. Insieme.
Clarke aveva deglutito a fatica, cercando di non far prevalere le emozioni.
«E invece hai preferito abbandonarmi, come se io non dovessi convivere coi tuoi stessi demoni. Non sei l’unica assassina qui»
Le parole dure di Bellamy la avevano colpita come un pugno.
«L'ho fatto per la nostra gente, perché non portassero quel peso che era mio dovere portare»
«Stronzate»
«Bellamy -»
«Tutte stronzate!»
La sua voce era rauca. «Non era solo tuo»
La sua stretta era diventata ancora più ferrea.
«Bellamy, lasciami andare». Clarke aveva tentato di imprimere un tono autorevole e minaccioso.
«Era anche mio»
«Bellamy»
«Puoi anche mentire a te stessa fino a credere alle tue stesse bugie, ma io so la verità.
Non l’hai fatto per nessuno, se non per te stessa»
«Mi fai male» aveva sussurrato alla fine Clarke con voce tremante, perdendo il suo rigido autocontrollo.
Bellamy si era reso conto solo in quel momento della sua stretta e l’aveva subito lasciata, allontanandosi da lei.
Si era voltato dandole le spalle, passandosi le mani tra i capelli, cercando di controllare il loro tremito.
Dopo lunghi secondi di silenzio, era stato lui a parlare di nuovo, con voce sommessa.
«Non ho contestato la tua decisione. Ti ho lasciata andare, nonostante la cosa mi distruggesse. Capivo la tua paura e il tuo dolore ed ero disposto a darti dello spazio.
Capivo e rispettavo ciò che avevi deciso. E in quest’anno che sono rimasto solo ho continuato a capire e rispettare. Forse troppo. L’ho fatto per te, ma ciò non vuol dire che condivida la tua decisione di abbandonarci tutti»
Finalmente si era voltato a guardarla. E forse Clarke avrebbe preferito se non l’avesse fatto, perché il suo sguardo l’aveva ferita come una lama.
«Le cose possono tornare come prima, se lo desideri» le aveva detto guardandole un punto indefinito dietro di lei, come se le stesse guardando attraverso.
«Potrai prenderti cura della tua gente, e io farò finta che niente sia mai successo. Insieme funzioniamo bene. Tu tornerai a essere la principessa, tornerai in infermeria e gestiremo il campo fianco a fianco come abbiamo sempre fatto»
Clarke alzò lo sguardo, trattenendo le lacrime.
Una transizione politica, è questo che vuole da me.
«Ma tra me e te non cambierà niente. Il tuo ritorno non cambia niente. Non ti ho perdonata»
Clarke era giunta al limite, stava per crollare, ma voleva che Bellamy concludesse. Voleva che la torturasse fino alla fine, dicendole tutto ciò che aveva da dire.
«Tutto questo solo se sei qui per restare. Questi ragazzi sono felici. Abbiamo costruito una nuova vita e stiamo bene. Sono ancora più felici ora che sei tornata. Hanno bisogno di te»
Io ho bisogno di te.
«Ma non ho intenzione di illuderli per poi dover dare loro la notizia di un altro abbandono da parte tua»
Abbandono. Continuava a usare quella parola, e Clarke la odiava.
«Quindi te lo chiedo ora. Resterai?»
Con quel poco di voce che aveva la forza di tirar fuori, Clarke sussurrò un si.
«Mi devi dare la tua parola, Clarke» Bellamy l’aveva guardata con intensità e lei aveva annuito.
Si, aveva intenzione di restare.
Il ragazzo le aveva fatto un cenno con la testa, aveva recuperato la sua bottiglia e l’aveva superata, uscendo dalla tenda.
Clarke era rimasta immobile, in piedi, finchè una scossa di singhiozzi non le aveva dilaniato il corpo facendola cadere sulle ginocchia.
Pianse sommessamente per un tempo infinito.
Forse si meritava la durezza di Bellamy, dopotutto.
 
(Lui era ancora fuori dalla tenda.
Rimase lì finchè Clarke non smise di piangere)
 

 
 
 
Bellamy vaga per il campo rabbrividendo. Dove diavolo si è cacciata Clarke?
Alla ragazza in infermeria, Christina, è salita la febbre. Ancora.
Poco più di un mese da quando la principessa è tornata, e già l’infermeria è in fermento.
Siamo a Gennaio, si dice Bellamy.
L’inverno è quasi finito. Sa bene che farà freddo fino a Marzo, ma mentire a se stesso è l'unica cosa che gli rimane.
È stata dura sopravvivere all’inverno, soprattutto prima che arrivasse Clarke.
Harper se l’era cavata, non avevano perso nessuno per via delle temperature rigide, ma avevano avuto moltissimi ammalati, tanto che Harper aveva dovuto reclutare persone che si improvvisassero infermieri, per poter aiutare tutti.
Con la presenza della principessa, il numero delle presenze in infermeria era notevolmente ridotto, ora che aveva anche Harper come aiutante.
Ma questa ragazza era in infermeria da una settimana, e la febbre non sembrava scendere.
Potrebbe prendersi una polmonite, aveva detto Clarke a Bellamy, e allora sarebbero guai grossi.
Tra lui e Clarke le cose funzionavano bene. Avevano subito ritrovato la coordinazione e la complicità nel comando di un tempo.
Ma non erano mai andati oltre quello, non dopo il litigio quella sera del giorno del ritorno di Clarke.
 
(«Mi dispiace per ieri, ero ubriaco» aveva detto Bellamy mentre Clarke cercava di nascondere il livido che le aveva lasciato sul polso.
«Già» aveva detto lei. )

 
A volte Clarke cercava di riaffrontare l’argomento, ma lui trovava sempre qualche dovere irrimandabile che richiedeva la sua presenza e si allontanava subito da lei.
Entra nella tenda dedicata alla meccanica e elettronica.
«Wick» fa un cenno del capo all’ingeniere che lavora con Raven. «Hai visto Clarke?»
Wick distoglie l’attenzione dall’affarino che sta studiando curvo sul tavolo.
«Credo si sia presa un po’ di gente, tra cui Monroe, che l’accompagnassero a trovare una qualche alga» risponde dopo aver fatto un attimo di mente locale. «ha detto qualcosa riguardo la febbre di qualcuno che stava peggiornado»
Bellamy stringe i pugni.
È uscita per una spedizione.
Senza dirglielo.
Meraviglioso.
«Grazie amico»
Wick gli fa un debole cenno della testa prima di totnare al suo lavoro.
 
(Due ore dopo non sono ancora tornati.
Il sole sta calando. )
 
Bellamy cammina avanti e indietro nella tenda di Raven.
«Clarke ha il secondo walkie talkie» afferma esaminando nervosamente il suo.
«Se fosse successo qualcosa mi avrebbe avvertito»
«Immagino di si» risponde Raven.
«E smettila, stai scavando un fosso nella mia tenda» aggiunge irritata.
Bellamy la guarda di traverso. Dovrebbe essere un’occhiata minacciosa, ma la sua preoccupazione è così evidente da non lasciar spazio per altro.
«Ei» Raven gli poggia una mano sulla spalla. «Se non tornano entro un’ora mandiamo una squadra a cercarli»
Bellamy annuisce e fa per uscire dalla tenda, quando la voce di Raven lo blocca. «Tornerà. Andrà tutto bene»
 
(La prima previsione di Raven era giusta.
La seconda no. )
 
Mezz’ora dopo i cancelli vengono aperti, e il nome di Bellamy chiamato a gran voce.
Sono tornati. È tornata.
Corre verso i cancelli.
La prima persona che vede è Monroe, una sacca piena di alghe marroni a tracolla, una mano stretta sull’avambraccio.
È ferita.
E poi è come se tutti i suoi incubi siano diventati realtà.
Clarke trascinata da due ragazzi. Ha i capelli bagnati, è avvolta con due giacche ed è blu. E incosciente.
«Cosa è successo?» grida agitato.
«Non so che le è preso, non poteva aspettarci per prendere quelle cazzo di alghe» inveisce uno dei due ragazzi che la tiene. «Un secondo prima era a riva, un secondo dopo era caduta nel fiume ghiacciato. La corrente la stava portando via e Monroe si è - »
Bellamy non ha neanche interesse ad ascoltare il resto della storia.
Prende Clarke tra le braccia, esaminando il suo colorito. Da vicino è anche peggio.
«Portate Monroe in infermeria» ordina correndo verso l’area medica.
Entra come un fulmine nella tenda gridando il nome di Harper.
La ragazza arriva subito e si copre la bocca con le mani. «Dio, che è successo?»
«È caduta nel fiume ghiacciato, e ci è rimasta un po’, credo. Monroe è ferita»
Harper le sente il polso.
«Mettila sul tavolo» gli ordina, poi si rivolge a Monroe.
«La tua ferita non è grave, a te penso dopo. Resta seduta, potresti perdere altro sangue e avere dei giramenti, è normale però»
Rivolge la sua attenzione nuovamente a Clarke.
«Devi portarmi dell’alochol. Il Moonshine di Monty, il wiskey di Miller, qualcunque cosa» lo istruisce mentre libera Clarke dalle giacche aggiuntive.
«Che succede?» chiede Bellamy agitato.
«Shock termico» spiega Harper con voce piatta. «Bisogna asciugarla e riscaldarla in fretta, dobbiamo fermare l’ipotermia»
«Cioè?»
«Ti ho appena dett - »
«Starà bene, Harper?»
Nonostante la domanda fatta, Bellamy non è sicuro di voler conoscere la risposta.
Harper esita un attimo.
«Non lo so» ammette.
Non può star succedendo.
«Che devo fare?» il panico di Bellamy viene sostituito da determinazione.
Non ti azzardare a morire.
Spera che Clarke senta i suoi pensieri.
«Chiama Colin e  Alec, dì loro di portare tutte le coperte più calde che abbiamo»
Bellamy obbedisce velocemente.
I due assistenti arrivano in un lampo, radunandosi intorno al tavolo.
Harper estrae un coltello dalla tasca dei pantaloni e comincia dilaniare i vestiti di Clarke, esponendo porzioni sempre più ingenti di pelle dal colorito bluastro. Non c’è tempo per spogliarla, bisogna fare in fretta.
Sta per tagliarle via il regiseno quando Bellamy la ferma. «Harper, che cazzo fai?»
«Devo toglierle i vestiti bagnati»
Bellamy si volta paonazzo verso i due assistenti.
«Uscite» ordina loro.
I due fanno per obbedire, ma Harper li blocca. «No, mi servono»
«Ti basto io» afferma Bellamy stringendo i pugni. Non permetterebbe mai che qualcuno la veda nuda.
Harper sta per perdere la pazienza.
«Non me ne frega un cazzo se coprono o no i loro occhiucci innocenti, Bellamy, sto cercando di non farla morire di ipotermia, cristo santo!»
Bellamy non l’ha mai vista così fuori di se.
«Bene, siamo in due» afferma poi deciso.
Si rivolge subito dopo verso i due assistenti, indecisi sul da farsi, ordinando a uno di andare a rimediare l'alcohol e all'altro di riempire un pentolone con le braci ddel falò.
I due escono velocemente, felici di non trovarsi più in quella situazione compreomettente.
Harper procede a tagliare gli indumenti di Clarke. «Adesso devi seguire quello che ti dico parola per parola, o ti caccio fuori immediatamente, chiaro?»
Bellamy annuisce vigorosamente.
«Togliti la giacca» È il primo ordine che arriva.
Harper si sta sfilando la sua.
«Dobbiamo asciugarla completamente prima di coprirla di nuovo»
Bellamy esegue scrupolosamente, usando la sua giacca per strofinare con forza i capelli gocciolanti e cercando di  asciugare ogni goccia sul suo corpo.
Arriva il pentolone colmo di brace bollente e l’alcohol, e poco dopo le coperte.
Non morire.
Resta con me.

Harper comincia ad avvolgerla con le coperte. «Falla bere»
Bellamy le alza la testa delicatamente, inclinando la bottiglia di moonshine verso le sue labbra.
Un rivoletto di alcohol le scivola sulla guancia, e lui è quasi sicuro che non ne abbia ingerito neanche un po’.
Le mette un dito sotto il naso. Respira ancora.
«Ricordi quando hai detto che non potevi perdermi?» le dice piano, ignorando la presenza di Harper. «La cosa vale anche per te, non ti azzardare a lasciarmi»
Prova di nuovo a farla bere, questa volta tappandole il naso e costringendola a ingoiare il liquido.
Clarke tossisce.
Bellamy sospira di sollievo e Harper si avvicina.
La ragazza apre un poco gli occhi, guardandosi intorno.
«Bell?»
Bellamy le stringe la mano. «Sono qui»
«Fai un infuso con le alghe e fallo bere a Christina»
Bellamy ride, sollevato. La sua voce non è altro che un sussurro, ma almeno è cosciente.
«Certo, principessa»
Poi Clarke chiude di nuovo gli occhi.
 
Si sveglia un giorno e mezzo dopo, completamente inconsapevole di dove si trovi e perché.
L’unica cosa che sa è che c’è una testa riccioluta appoggiata al tavolo, accanto al suo fianco, e che una mano forte sta stringendo la sua.
Sorride dolcemente.
Bellamy. Ha dormito lì.
Il suo movimento lo sveglia subito.
«Ei» sussurra Clarke passandogli una mano tra i capelli disordinati.
«Ei a te, Principessa» risponde lui con aria assonnata, felicissimo di sentirla parlare di nuovo. «Come ti senti?»
Clarke cerca di mettersi un po’ più dritta.
«Bene. Un po’ indolenzita» stiracchia le gambe.
«Certo, avreste potuto mettermi su un letto» cerca di usare un tono canzonatorio.
Un angolo della bocca di Bellamy si alza leggermente.
«Avevamo paura ti fossi rotta qualcosa, non volevano spostarti finchè non fossi stata cosciente» torna subito serio.
«Non azzardarti mai più a farmi una cosa del genere, a rischiare la vita per una tale stupidaggine» le dice, la voce più roca del solito.
«Ho perso dieci anni di vita»
Clarke tossicchia. «Mi dispiace».
Prende un respiro profondo. «Non solo per questo. Per tutto»
Bellamy si alza lentamente, dandole un bacio sulla fronte.
«Lo so» dice semplicemente, un mezzo sorriso sulle labbra. «Vado a chiamare Harper»
Fa per uscire dalla tenda quando la voce di Clarke lo ferma.
«Questo vuol dire che mi perdoni?»
Bellamy ridacchia. «Non è molto corretto chiedermelo dopo che sei quasi morta, sai?»
Clarke fa spallucce risoluta.
«Può essere» risponde alla fine Bellamy uscendo dall’infermeria.
 
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Questa non è un OS. È un libro a se.
Perdonate il flashback di proporzioni cosmiche all’inizio, ma ho deciso che queste OS saranno collegate, quindi ci sarà sempre una specie di salto indietro per far capire come si è arrivati al punto attuale. È poi dovevo scrivere il litigio. Sorry not sorry, è stata la parte più bella.
Comunque il “salto indietro” sarà più breve nelle prossime, lo prometto.
Sono una frana a scrivere Flashback, che però non sono a se stanti, ma sono inseriti in una storia coi tempi verbali al presente. Avrò sicuramente fatto un sacco di errori che vi invito a segnalarmi.
Perdonate se sono andata un po’ OOC.
E…basta.
Ciaoooooone :)
E.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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