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Autore: afep    19/08/2015    3 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Il primo pasto mattutino alla tavola di Istlod era da tempo terminato, ma dalla sala con il lungo tavolo imbandito giungevano ancora le chiacchiere dei thane ed il tintinnio delle stoviglie.
Ulfric poteva sentirle persino dal punto in cui si trovava, al termine di una lunga galleria colonnata che conduceva ad una piccola terrazza affacciata sul porto sottostante.
Le mattine di Solitude erano fin troppo tranquille, per i suoi gusti, ma perlomeno i pasti erano abbondanti e gustosi. Istlod non si era ancora fatto vedere, e l'unica nota positiva era che la moglie di Torygg lo aveva imitato, mantenendo la parola data e togliendogli il saluto.
Ulfric sperava che si attenesse a quella decisione almeno fino al termine del suo soggiorno. Tra lui ed Elisif pendeva da anni una vecchia disputa mai appianata, e nessuno dei due sopportava la vista dell'altro.
“Jarl Ulfric.”
La voce di un servitore lo riscosse dai suoi pensieri, facendolo voltare proprio sotto l'arco che conduceva alla terrazza. L'uomo che lo aveva fermato era un Imperiale basso e stempiato, con un ampio camiciotto stretto in vita da una cintura che passava sotto il ventre prominente.
“Signore.” Lo salutò con un inchino frettoloso. “Jarl Istlod vi chiede di raggiungerlo nel suo studio, nell'ala nord.”
Ulfric storse la bocca, infastidito dall'idea di dover attraversare l'intero palazzo, ma ringraziò il servitore e lo congedò con un cenno della mano. Il Re dei Re si era finalmente degnato di riceverlo, perlomeno.
Lasciandosi sfuggire uno sbuffo seccato tornò sui propri passi, procedendo ad ampie falcate. Non aveva bisogno che gli venisse indicata la strada, perché durante i Concili che si erano tenuti nel corso degli anni aveva ormai imparato a muoversi nel Palazzo Blu quasi altrettanto bene che nel suo castello di Windhelm.
Ripercorse l'intera galleria colonnata, passò di nuovo davanti alla sala in cui i thane di Solitude stavano ancora consumando la colazione e scese due rampe di scale, solo per risalirne altrettante quattro stanze più in là.
Mentre raggiungeva lo studio di Istlod, cercò di richiamare alla mente i punti salienti che sospettava sarebbero stati toccati. Il Re dei Re avrebbe probabilmente puntato sulla solidità dei feudi uniti, per spingerlo a pagare; a suo avviso la solidità di Skyrim dipendeva dalla capacità degli Jarl di cooperare tra loro, ed Ulfric si trovava abbastanza d'accordo pur essendo, per usare le parole dello stesso Istlod, poco entusiasta di due tra loro.
Il Signore di Solitude aveva la rara capacità di sminuire la realtà delle cose a suo piacimento.
Poco entusiasta mal si adattava a descrivere una antipatia fortemente ricambiata.
Per accorciare la strada che lo separava dall'ala nord scese fino al primo livello del palazzo, per poter attraversare uno dei cortili interni. In particolare aveva scelto quello di maggiori dimensioni, situato accanto alle armerie ed usato solitamente dalle guardie per trascorrere il tempo libero tra i turni di ronda o addestrarsi all'arte della guerra.
Non fu affatto stupito quindi, nel vedere che i suoi guerrieri si erano ritirati in quello spiazzo per consumare il primo pasto della giornata. Coperti di pelli d'orso e di lupo e vestiti di maglia metallica e cuoio, gli uomini di Windhelm non passavano certo inosservati in mezzo ai soldati di Solitude.
Passandogli davanti Ulfric rivolse loro un cenno, ed i guerrieri risposero chinando rispettosamente il capo o salutandolo battendosi il pugno sul petto prima di tornare alle proprie occupazioni.
L'unico ad abbandonare la sua colazione di vino e pane nero fu Asbjorn, che con il passo lesto e silenzioso di un lupo della tundra si staccò dai suoi compagni e seguì il suo Jarl.
“Sire.” Lo chiamò per attirarne l'attenzione. Il Signore di Windhelm inclinò il capo, la fronte aggrottata, e mentre imboccava un nuovo corridoio che lo avrebbe riportato all'interno del palazzo rallentò il passo, per permettergli di raggiungerlo.
“Signore.” Esclamò il suo cupo Capitano quando lo ebbe raggiunto, ed affiancandoglisi continuò, in tono sommesso. “Voglio ringraziarvi per il dono che mi avete inviato la scorsa notte.”
Ulfric grugnì un assenso e volse leggermente il capo nella sua direzione, continuando a camminare.
“Spero ti abbia soddisfatto.” Commentò levando un sopracciglio. Sperava soprattutto che Eanfled non lo avesse ingannato, intascandosi l'oro e mostrandosi meno generosa di quanto avrebbe dovuto, ma Asbjorn annuì profondamente, fugando ogni dubbio.
“Molto, sire.” Il capo della sua scorta raddrizzò le spalle, storcendo la bocca per nascondere un sorriso compiaciuto. “Voi siete un uomo generoso.”
“Te lo sei meritato.”
“Grazie, Signore.”
“Adesso vai.” Gli ingiunse, facendo un cenno brusco con la mano. “Tieni gli uomini pronti: Istlod mi ha concesso udienza. Non temo conseguenze, ma preferisco che siano preparati.”
“Come ordinate.” Il suo cupo Capitano gli rivolse un brusco cenno con il capo e si allontanò a gran passi, facendo risuonare il tonfo dei suoi stivali di cuoio e pelliccia lungo tutto il corridoio.
Certo che Asbjorn avrebbe fatto quello che gli aveva chiesto, Ulfric riprese la sua marcia a passo sostenuto, e dopo aver superato numerose porte e gallerie ed essere salito di altri due piani, finalmente giunse alla sua destinazione.
Fermandosi davanti al battente di legno massello dello studio di Istlod, lo Jarl di Windhelm prese tempo per rassettarsi il lembo della casacca che sbucava da sotto la cintura e per ascoltare i rumori della stanza davanti a lui.
Attese qualche istante, e non sentendo nulla che gli facesse presagire una sortita armata sollevò il pugno e lo batté sulla porta.
Dall'altra parte giunse il soffocato invito a farsi avanti, ed Ulfric abbassò la maniglia e spinse il batte, entrando finalmente nello studio di Istlod.
La stanza era esattamente come l'aveva vista durante l'ultimo Concilio, con una grande scrivania al centro ed alle pareti scaffalature curve sotto il peso dei registri e delle suppellettili d'argento. Come tutti gli ambienti del Palazzo Blu conservava un'aura di eleganza, sottolineata dagli archi delle finestre e dalle linee fluide degli arredi, di chiara fattura Imperiale.
Lo Jarl di Windhelm fece scorrere lo sguardo lungo una cassapanca dall'aspetto esotico addossata alla parete, sotto una delle finestre, ed infine sollevò il capo per dedicarsi all'unico altro individuo presente nello studio.
L'uomo seduto dietro la scrivania aveva ancora le spalle ampie e la corporatura robusta del guerriero che era stato un tempo, sebbene avesse smesso ormai da tempo le vesti del combattente.
Rivestito di velluto e panni di lana finemente intessuti, il sovrano del fiorente feudo dello Haafingar aspettava il suo ospite con un ampio sorriso sul volto; entrambi i polsi erano cinti da bracciali in oro ed argento, ed attorno al collo robusto portava una pesante torque dorata spessa tanto quanto un pollice, ornata da due ruggenti teste di lupo.
Le guance ed il mento erano coperti da una folta barba che gli scendeva fin sul petto, ed i capelli ingrigiti, un tempo scuri come quelli di Torygg, gli ricadevano sulle spalle come un manto canuto.
“Ah, Ulfric!” Esclamò Jarl Istlod quando lo vide entrare, accarezzandosi la lunga barba intrecciata con cura. “Vieni avanti, siediti. Perdonami se non mi alzo, ma quest'oggi le mie gambe non vogliono collaborare."
Ulfric si fece avanti senza fare commenti, ed a gran passi girò intorno al tavolo che troneggiava in mezzo alla stanza per andare a stringere la mano al suo ospite.
“Istlod.” Lo salutò solamente, fingendo di non notare la coperta che copriva le gambe del sovrano ed il bastone con l'impugnatura di corno appoggiato allo scranno.
Lo Jarl di Solitude era da anni afflitto da un male oscuro, che talvolta gli causava acuti dolori agli arti inferiori e gli impediva di camminare agevolmente. La situazione e le sue condizioni di salute erano note in tutta Skyrim, e spesso si era sussurrato che non gli mancasse ancora molto da vivere. Ma contro ogni aspettativa, Istlod si era sempre ripreso dai suoi attacchi doloranti, e reggeva ancora il proprio feudo con la fermezza che lo aveva sempre contraddistinto.
“Accomodati, amico mio. Prego.” Con un sorriso il vecchio Jarl gli indicò uno degli scranni posti di fronte a sé, ed Ulfric prese posto sbuffando. “Vuoi del vino? Le spezie sono arrivate solo il mese scorso da Elseweyr.” Propose, e prima di ricevere risposta allungò un braccio e sollevò una brocca in argento cesellato, versando in un boccale una generosa dose di vino speziato.
“Ti ringrazio.” Ulfric annuì una sola volta in segno di ringraziamento, prendendo il calice dalle mani di Istlod. Quando se lo avvicinò al viso l'aroma pungente della bevanda gli fece pizzicare le narici, penetrandogli fino in gola.
“Bevi pure, Ulfric. La brocca è piena, e non ho paura di vuotarla.” Lo incoraggiò il vecchio Jarl. Ridacchiando tra sé si puntellò con le mani sui braccioli del suo scranno, spostandosi di peso con la sola forza delle braccia, in modo da assumere una posizione più comoda. “Sono stato sorpreso quando ho saputo del tuo arrivo. Non ti aspettavo così presto.”
“Ho preferito affrettare il viaggio.” Borbottò il sovrano di Windhelm, affondando il naso nel calice.
Il vino era ottimo, caldo e speziato al punto giusto, e mentre lo sorseggiava si godette la sensazione piacevole della bevanda che gli scorreva in gola.
Con la coda dell'occhio vide Istlod annuire e versare da bere anche per sé, appoggiandosi poi allo schienale con un sospiro sofferente.
“Non ho nulla in contrario, mio buon amico, ed io sono felice di averti qui. A tal proposito, ti trovo davvero bene.” Tra la folta barba del Signore di Solitude comparve un sorriso d'intesa, e nei suoi occhi brillò una luce divertita. “Deve essere l'effetto di quella giovane fanciulla che ti ha raggiunto a Windhelm. Dimmi, è la tua amante o la tua sposa?”
Ulfric abbassò lentamente il calice, asciugandosi i baffi con la nocca dell'indice. Aggrottò pericolosamente la fronte, chiedendosi se i due Altmer messaggeri non lo avessero preceduto e si fossero preparati a giocargli qualche brutto tiro per l'accoglienza che gli aveva riservato.
“Entrambe le cose. È mia moglie davanti ai Nove, ed è la mia amante tra le coltri del mio letto.” Rispose bruscamente, appoggiando il boccale sul ripiano della scrivania e spingendolo lontano dal bordo. “Non l'ho ancora presentata all'esterno del feudo. Come hai saputo di lei?”
Istlod doveva aver colto la punta di sospetto nella sua voce, perché raddrizzò le spalle infastidito e posò a propria volta il calice accanto alla brocca d'argento.
“Non ho spie entro i tuoi confini, se è questo che credi.” Disse, senza troppi giri di parole. “Ma una nave salpata da High Rock è approdata ai miei porti alcuni mesi fa, scaricando uomini, bauli e cavalli. Quando i miei marinai hanno domandato quali fossero i loro affari a Skyrim, è stato risposto che portavano la loro Dama nella sua nuova casa, a Windhelm, dall'uomo che poteva vantare i propri diritti. Ho subito pensato che fossi tu: sei l'unico tanto egocentrico da scegliersi una donna all'estero, invece che accontentarsi delle nostre bellezze Nord.”
La motivazione pareva reggersi a malapena, ma Ulfric decise di ignorarlo ed emise un basso grugnito.
“Hai visto bene.” Annuì, storcendo la bocca in una smorfia irritata. “Ma non sono qui per parlare del mio matrimonio.”
“Se non desideravi parlarne avresti dovuto portarla. Perché non è qui?”
“È indisposta. I guaritori le hanno comandato un periodo di riposo.”
“Oh!” A quella notizia Istlod si aprì in un ampio sorriso, e recuperato il calice lo sollevò nella sua direzione. “Le mie più vive congratulazioni, amico mio!”
“Non è incinta.”Tagliò corto lo Jarl di Windhelm, infastidito. “È solo indisposta. La vedrai il prossimo anno, durante il Concilio.”
Il sovrano di Solitude levò le sopracciglia ed abbassò il boccale, visibilmente stupito di essere incorso in un simile errore. Presto però scrollò le spalle robuste, battendo una mano sul piano di legno della sua scrivania.
“Attenderò con ansia quel momento, allora. Per averti spinto tanto lontano da Skyrim deve trattarsi di un autentico fiore.” Decretò con un sorriso bonario, riparando al proprio errore con quel galante complimento. “Ma ora torniamo a noi.”
In silenzio Ulfric lo osservò mentre allungava un braccio, sfilando un foglio di pergamena da sotto una piccola pila di carte che ingombravano la scrivania. Lo Jarl di Solitude prese tempo, lisciando la superficie ruvida con la punta delle dita; con estrema lentezza fece scorrere i suoi vecchi occhi chiari sulle parole vergate in inchiostro nero, aggrottò la fronte ed alla fine sollevò lo sguardo, scuotendo il capo.
“Ulfric.” Cominciò stancamente, come un padre che rimprovera il figlio per l'ennesima marachella. “Cosa diamine combini, per gli Dei?”
Il sovrano di Windhelm rimase in silenzio, stringendo i muscoli della mascella, ed Istlod esalò un sospiro esasperato.
“Comincio ad essere stanco delle tue dispute con Igmund.” Lo avvisò, stendendo la pergamena sul tavolo e posandovi sopra il palmo. “Non ho mai voluto intromettermi, perché pensavo aveste ancora un minimo di buonsenso per mettervi d'accordo. Ma all'inizio dello scorso mese ho ricevuto questa.” Il vecchio Jarl batté la mano sulla missiva, con tanta forza da far sobbalzare il suo calice. “Hai qualcosa da dirmi?”
“Ho molto da dire, ma nessuna parola è lusinghiera.” Sbottò Ulfric, cambiando posizione sul suo scranno.
“Allora è meglio se resti in silenzio.” Istlod sollevò nuovamente la pergamena tra le dita, rileggendo ostentatamente quello che vi era scritto. “Igmund chiede che tu ripaghi i danni che hai causato durante l'attacco a Markarth.”
“So cosa chiede, quel codardo.” Lo Jarl di Windhelm strinse i pugni sui braccioli dello scranno, raddrizzando le ampie spalle per l'indignazione. “Ma non ho intenzione di pagare. Non combatterono solo gli uomini dell'Eastmarch, e non intendo farmi carico di quello che non ho fatto.”
“Credi che non lo sappia? Anche l'Haafingar inviò i suoi soldati.” Gli ricordò Istlod; Ulfric annuì, rammentando gli stendardi del Lupo sventolare davanti alle porte di Markarth.
Il Re dei Re non aveva potuto restare insensibile alla richiesta di un sovrano di Skyrim, ma aveva inviato solo cinquanta uomini riluttanti, perché non intendeva scendere davvero in battaglia.
In accordo con i suoi desideri, i Capitani di Solitude si erano inizialmente rifiutati di combattere, prendendo tempo durante i consigli di guerra e procrastinando le decisioni da prendere; dopo giorni di stallo, incapace di attendere oltre, Ulfric aveva comandato l'attacco. Era ancora giovane, ma sapeva come parlare agli uomini per accendere in loro il fuoco dello scontro, e la sua fama di eroe di guerra aveva spinto i guerrieri sul campo a seguirlo. Erano stati pochi coloro che si erano rifiutati, ma anche senza il loro aiuto le truppe avevano ripreso la città, come richiesto dal Signore di Markarth.
E dopo tutta la fatica ed il sangue versato, dunque era quello era il ringraziamento: farsi rimbrottare come un ragazzo da uno Jarl che era responsabile almeno quanto lui.
Quel verme di Igmund gliela avrebbe pagata, in qualche modo.
“Ho riflettuto a lungo sulla questione, Ulfric.” Sospirò Istlod, posando di nuovo la pergamena e piegandola con misurata attenzione. “Credo che tu debba risarcire Igmund per i danni che provocasti...”
“Non fui io, a provocarli!” Protestò lo Jarl di Windhelm, alzando la voce. “Eravamo in guerra. Non si richiede un intervento armato, se non si possono sopportarne le conseguenze.”
“Una guerra non giustifica le carneficine.” Replicò freddamente Istlod, facendogli montare la rabbia.
“È troppo facile addossarmi ogni colpa!” Spinto da un impeto rabbioso Ulfric si alzò in piedi, torreggiando sul suo ospite. “Per quanto mi riguarda ho già pagato. Ho passato mesi nelle sue luride prigioni, a spaccare pietre e farmi vessare come un qualunque prigioniero. Quel verme ha già avuto il mio sudore ed il mio sangue, e non avrà altro.”
“Ora siediti e modera i toni.” Lo redarguì Istlod in tono autoritario, levando una mano. “Sei nella mia casa, Ulfric. Non scordarlo.”
Soffocando un basso ringhio rabbioso il Signore dell'Eastmarch si sedette di nuovo, digrignando i denti come un animale. Era una fortuna che Igmund non fosse presente, o nulla avrebbe potuto impedirgli di dargli quel che si meritava.
“Tu sai che ho il potere di costringerti a pagare.” Continuò il vecchio Jarl, puntandogli in viso i suoi taglienti occhi chiari. “Potrei prenderti come ostaggio. Come mi hai confermato, ora hai una moglie, a Windhelm, e sono certo che lei pagherebbe per riaverti indietro.”
Ulfric grugnì infastidito ed aggrottò la fronte, senza replicare. Si era immaginato quel genere di soluzione, ed era pronto ad affrontarla. Ma non necessariamente ad accettarla.
“Tuttavia,” Riprese Istlod. “ Io ho un... vecchio debito d'onore con l'Eastmarch, se così possiamo chiamarlo, e credo che le lamentele di Igmund siano fin troppo fantasiose.” Il vecchio Jarl sollevò una mano per lisciarsi la grigia barba intrecciata, guardandolo con aria imperscrutabile. “Dice che hai scardinato le porte di Markarth con un solo grido. È vero?”
“Fu l'ariete a sfondare le porte. E comunque non le scardinammo: i perni dei cardini sono più saldi della montagna su cui sorge la città.” Rispose Ulfric, mantenendo un tono brusco e teso. “Di cosa mi accusa, ancora? Di aver spuntato gli spilli delle sue donne? Di aver bevuto l'acqua dei suoi fiumi ed aver respirato l'aria del Reach?”
A quelle parole Istlod sospirò stancamente, levando una mano. La sua fronte si spianò, facendo scomparire l'aria di vaga minaccia che aveva aleggiato sul suo volto, ed il suo sguardo tornò pacato ed amichevole.
“Non hai bisogno di usare questi toni con me. Sono girate molte voci sul tuo conto dopo quella brutta faccenda, ma credo che non tutte siano veritiere. Immaginavo che questa fosse una qualche sua fantasia.” Commentò, appoggiandosi allo schienale del suo scranno. “Igmund ha ragione a chiedere un risarcimento. Ma...” Esclamò, bloccando Ulfric che aveva schiuso le labbra per replicare. “... le sue richieste sono eccessive. Ho chiesto a mio figlio di recuperare i vecchi rapporti dei Capitani che parteciparono alla presa di Markarth, per confrontarli con la lettera di Igmund. Trovo che l'entità dei danni che professa sia esagerata.”
Ulfric faticò non poco a nascondere la sorpresa per quella svolta inaspettata. Aveva immaginato che sarebbe stato costretto a scontrarsi con Istlod, certo non che gli venisse data ragione, almeno in parte.
Di questo doveva senza dubbio ringraziare il fato, che diciassette anni prima aveva voluto i riluttanti Capitani di Solitude lontani dal cuore dell'azione, ed ignari della maggior parte dei fatti che erano accaduti durante la presa della città. Di sicuro avevano visto l'ariete portato a braccia dai soldati di Dawnstar, con la Stella argentata che campeggiava sui loro stendardi gialli, ma non sapevano cosa ne era stato, né come erano state forzate le porte.
Era anche una fortuna che i due altri sovrani che avevano risposto all'appello di Igmund fossero imparentati con lui o legati da giuramenti di fedeltà ed amicizia. Nè suo cugino Korir né Skald l'Anziano, il Signore della Stella, avrebbero mai osato togliergli il loro sostegno nella faccenda. E fortunatamente, parevano non essere stati interpellati.
Al suo ritorno a Windhelm avrebbe sicuramente dedicato un'offerta a Talos, in segno di ringraziamento.
“Cosa suggerisci, allora?” Domandò ad Istlod, appoggiando gli avambracci sui braccioli di legno del suo scranno e sporgendosi in avanti. “Immagino mi sia impedito di sfidare quell'inutile verme a duello, anche se lo meriterebbe.”
Il vecchio Jarl non rispose subito, ma lo scrutò a lungo con fare assorto. Per prendere tempo afferrò di nuovo il proprio calice, sorseggiando lentamente il vino speziato che andava raffreddandosi; tra le sue sopracciglia grigie erano comparse rughe profonde, ed Ulfric lo interpretò come un brutto segno. Qualcosa gli suggeriva che le notizie che stava per ricevere non lo avrebbero per niente soddisfatto.
“Preferirei che evitassi una simile idiozia.” Disse infine Istlod, sospirando stancamente e posando il calice davanti a sé. “Igmund non impugna un'arma da troppo tempo, e vorrei risolvere simili questioni senza inutili spargimenti di sangue. Tu pagherai il Reach...”
“Mi rifiuto di farlo!”
“... per la metà di quanto ti viene richiesto.” Il vecchio Jarl fu costretto ad alzare la voce per sovrastare le sue proteste, afferrando i braccioli del suo scranno e sporgendosi in avanti. “Le casse dell'Haafingar copriranno la metà restante.” Concluse, facendogli un cenno conciliante con la mano.
Il sovrano dell'Eastmarch strinse gli occhi, pallidi come i ghiacci delle sue terre, rivolgendo al Re dei Re uno sguardo assorto. Le implicazioni taciute di un simile prestito non gli piacevano affatto.
“Non pagherò ciò che non ho...”
“Ti consiglio di accettare la mia proposta.” Lo interruppe Istlod, con il tono d'avviso di un padre che si rivolge al figlio recalcitrante. “Perché questo è quanto intendo offrirti, e non mi spingerò oltre. Igmund va risarcito, e le tue truppe sono quelle che hanno causato i danni più ingenti. Ma anche l'Haafingar era presente, ed intendo fare la mia parte.”
“Ed io non intendo asservire il mio regno ad un altro feudo!” proruppe Ulfric, alzandosi in piedi in uno scatto d'ira. Acconsentire avrebbe significato porre l'Eastmarch in debito con l'Haafingar di Istlod, e lui non poteva accettare di sottomettersi ad un altro Jarl.
“Vedila come preferisci.” Ribatté il vecchio re, aggrottando pericolosamente la fronte ed assumendo il suo stesso tono alterato. “Ma questo non toglie che la mia sia una proposta generosa. Sei uno sciocco se la rifiuti, e doppiamente sciocco se non comprendi il suo reale significato.” Con un gesto iroso l'anziano sovrano puntò i palmi contro il solido piano della sua ampia scrivania, e con un terribile sforzo si issò in piedi, sostenendosi sulle braccia cinte d'oro ed argento. “Tu custodisci qualcosa di mio, Ulfric Ulrichsson.” Dichiarò con voce vibrante.
Nessuno aveva più usato il suo patronimico dopo la morte del vecchio Orso di Windhelm, e tanto bastò perché Ulfric, che al colmo della rabbia si era voltato per lasciare la stanza, stringesse i pugni e si voltasse di nuovo verso il suo ospite.
“Non lo custodisco.” Ribatté, con aria grave. “Non è un monile di cristallo.”
“No, certo.” Gli acuti occhi chiari di Istlod si velarono per un istante, e le braccia su cui si sosteneva tremarono brevemente. “Ma tu lo hai preso con te, rendendomi il più grande dei favori. Permettimi di coprire parte della somma, e ripagare così il mio debito nei tuoi confronti.”
Ulfric emise un brontolio frustrato, lanciando al vecchio sovrano un'occhiata carica di risentimento. Istlod desiderava passare i suoi ultimi anni senza imbarcarsi in altri conflitti. Così, invece di prenderlo in ostaggio per spingerlo a pagare, aveva fatto leva sull'unica cosa che aveva potere di convincerlo.
Non aveva alcuna intenzione di cedere alla richiesta del vecchio Jarl; quel debito d'onore mai saldato era un vantaggio a cui non era ancora disposto a rinunciare, e sprecarlo per Igmund gli pareva quasi un insulto. Ma allo stesso tempo, non poteva nemmeno rifiutare ad Istlod la possibilità di riscattarsi.
“Mi chiedi molto.” Gli disse gravemente, scegliendo con cura le parole.
Il signore di Solitude annuì, e con cautela si sedette nuovamente sul proprio scranno, sospirando per lo sforzo che gli era costato doversi alzare in quel modo.
“Me ne rendo conto. Per questo motivo non ti chiedo una risposta immediata.” Istlod fece una pausa, chinandosi oltre il bordo della sua scrivania per recuperare la coperta di lana che gli era scivolata dalle gambe. “Sei libero di pensarci quanto desideri. Ma ovviamente, questo non ti autorizza a procrastinare la decisione. Preferirei poter avere una risposta prima della tua partenza, amico mio.”
“Se vuoi una risposta per Igmund, potrei averla già pronta.”
“Ed io potrei non volerla sentire. Sai che non amo le volgarità.” Lo avvisò il vecchio sovrano, rassettando le pieghe della coperta che aveva nuovamente steso sugli arti inermi. “Pensaci, e fammi sapere cosa hai deciso prima di tornare a Windhelm.”
Grugnendo un assenso, Ulfric gli rivolse un brusco cenno con il capo e gli voltò le spalle, dirigendosi verso la porta. Ma aveva appena fatto in tempo ad attraversare la stanza, posando la mano sulla maniglia di ferro lavorato, che Istlod lo richiamò indietro.
“Perdonami se ti trattengo ancora, amico mio.” Esclamò con un sorriso di scusa, aprendo un grosso libro rilegato in pelle e cominciando a sfogliarne le spesse pagine di pergamena. “Ma ho ancora una piccola domanda da porti, puramente personale.”
Ulfric tornò sui propri passi, fermandosi ad una certa distanza dalla scrivania. Mentre il Re dei Re voltava i fogli scricchiolanti, riconobbe fugacemente le riproduzioni in inchiostro di alcuni vessilli di diversa provenienza.
“Sai quanto io mi interessi di araldica. Credevo che entro i miei confini non avrei mai visto uno stemma che mi fosse sconosciuto, ma poi è approdata la nave della tua fanciulla.” Sul volto del vecchio Jarl comparve un sorriso amichevole, ma nei suoi occhi brillava una luce scaltra. “Ho riconosciuto la Triquetra d'argento del Fljotmarch.” Disse, battendo un dito su un triplice simbolo argentato in campo azzurro, il vessillo delle terre portate in dote dalla sua giovane moglie. “Ma non riesco a riconoscere questa testa di verro in campo rosso.”
Ulfric posò lo sguardo sullo stemma indicato da Istlod, composto da una stilizzata testa di cinghiale su sfondo sanguigno, e che aveva tutta l'aria di essere stato riprodotto di recente.
“È il vessillo dei De Braose di Daggerfall.” Rispose in tono brusco, ricordando i drappi che avevano coperto i bauli della sua sposa quando era giunta a Windhelm.
“De Braose di Daggerfall.” Ripeté Istlod con un sorriso indecifrabile, mentre vergava quel nome sotto il nuovo stemma. Con il pollice della mano libera sfregò velocemente un appunto, segnato con il carboncino accanto alla riproduzione araldica, ma prima che lo cancellasse Ulfric riuscì a coglierne abbastanza per indovinare cosa vi fosse scritto.
High Rock.
Dunque, il vecchio re non aveva indovinato la destinazione di Lirael solo in base all'ego che gli attribuiva.
Aveva riconosciuto l'insegna azzurra e argento del piccolo regno che lei aveva portato in dote, e sapeva bene, come tutti i sovrani di Skyrim, che la famiglia che aveva regnato per secoli su quel minuscolo feudo chiamato Fljotmarch si era rifugiata in territorio Bretone in seguito all'esilio.
Non doveva averci messo molto, a quel punto, a ricordare che quelle terre erano state inglobate nei territori dell'Eastmarch dopo un'azione militare, e che da oltre dieci anni Ulfric aveva fatto dell'antico castello signorile un forte per le sue guarnigioni.
“Ti sei spinto ben lontano, per conquistare una manciata di campi e qualche fiume.” Commentò Istlod in tono distratto, stappando una minuscola boccetta d'inchiostro per intingervi il calamo. “Ma forse non erano soltanto quelli, l'oggetto della conquista. Gira voce che la fanciulla della nave fosse estremamente graziosa.”
“I campi del Fljotmarch sono sempre stati i più fertili, ed i loro fiumi i più ricchi di pesce.” Rispose Ulfric bruscamente, cercando di chiudere il discorso il prima possibile. Ignorò a bella posta la domanda implicita sull'aspetto della sua giovanissima moglie; se Istlod voleva sentirlo ridicolizzarsi lodando un bel viso, allora avrebbe atteso fino alla fine dei tempi.
Il vecchio Jarl terminò di vergare il nome dei De Braose con un elaborato svolazzo del calamo, ed alla fine tornò a sollevare lo sguardo su di lui con aria divertita.
“Vai pure, Ulfric.” Gli disse con fare bonario, lasciando che si voltasse e si allontanasse di nuovo verso l'uscio. “Sei sempre stato un uomo impaziente, ed immagino che tu ora abbia il desiderio di andare a sfogarti sul campo di allenamento. Non posso certo darti torto, sapendo che la scorsa notte hai rifiutato che una fanciulla alleviasse la tua tensione.”
Il sovrano di Windhelm aggrottò la fronte, lanciando al suo ospite un'occhiata diffidente da sopra la spalla.
“C'è altro che sai, sul mio conto?” Grugnì con fare seccato , allungando una mano per aprire la porta.
Istlod scoppiò in una breve risata allegra, allargando le braccia con fare teatrale.
“Io so tutto quello che accade sotto al mio tetto.” Dichiarò con un sorriso bonario, ed al colmo dell'irritazione Ulfric uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.

 

******



La primavera si avvicinava, la morsa del gelo non accennava ad allentarsi, e la mia irritazione cresceva.
Dopo aver scoperto l'identità di Halfdan nelle umide gallerie delle prigioni, ero tornata nelle mie stanze quasi senza accorgermene. La notizia mi aveva colta così alla sprovvista che non avevo saputo come ribattere; davanti a quella rivelazione la mia mente si era svuotata, lasciandomi incapace di proferire una sola parola, ed in silenzio mi ero ritirata, camminando come in sogno.
Da quando ero giunta a Windhelm, vi erano state diverse occasioni in cui avevo creduto che non mi sarebbe stato possibile sentirmi più umiliata ed infastidita, ma in quel momento mi resi conto di quanto avessi sbagliato.
Nei giorni seguenti ero ricorsa nuovamente a Mirala, perché scoprisse il più possibile sui figli di mio marito. Io stessa avevo cercato le loro tracce nei registri contabili, sperando di trovare strani doni immotivati o indizi che mi illuminassero sulle loro identità, proprio come era accaduto per il misterioso carrettiere che si era rivelato il suo primogenito.
Sospettavo infatti che ce ne fossero altri, perché le parole della donna prigioniera mi avevano suggerito che Halfdan non fosse il solo.
Sapevo che non avrei dovuto stupirmi della loro esistenza.
Il mio sposo poteva considerarsi già un uomo quando io ero ancora nel grembo di mia madre, e non potevo certo pretendere che si preservasse per una donna di cui ancora ignorava l'esistenza.
Inoltre ero cresciuta a Daggerfall, dove Lord giovani ed anziani generavano figli illegittimi senza farne mistero, mandandoli poi come vassalli a servire in corti lontane, presso famiglie in cui venivano apprezzati per i loro valori.
Avevo visto dame presentarsi a testa alta accanto ai mariti fedifraghi, e durante i ricevimenti e le feste danzanti avevo scosso il capo al loro passaggio, insieme alle mie coetanee.
Eppure non avevo mai immaginato che, un giorno, mi sarei trovata al loro posto.
La mia prima reazione sdegnata era stata quella di farmi preparare i bauli ed allontanarmi da Windhelm, se non altro per il fatto di essere stata tenuta all'oscuro per tanto tempo.
Ma non avevo dove andare, e Mirala mi aveva discretamente ricordato le regole matrimoniali che vigevano a Skyrim.
Nessuno avrebbe avuto da ridire se avessi lasciato mio marito in seguito a una violenza o ad un palese tradimento, ma abbandonare il tetto coniugale senza quello che era ritenuto un valido motivo mi avrebbe chiuso le porte di ogni corte. Nessuno avrebbe voluto accogliere una donna che aveva rigettato i suoi doveri dando prova di codardia.
“Un figlio illegittimo è pur sempre tradimento.” Avevo cercato di difendermi una mattina, mentre la mia vecchia balia terminava di acconciarmi i capelli.
“Non se concepito prima del matrimonio.” Mi aveva ricordato Mirala, fissandomi una ciocca sopra la tempia con una forcina d'osso. “E tra i Nord, un'unione è legittima solo dopo la consumazione delle nozze.”
Per diversi giorni i nostri discorsi non furono che varianti di quello stesso tema, ed una sera, dopo aver congedato Galmar, ero sbottata con tutta l'amarezza che sentivo in petto.
“È ridicolo.” Mi ero sfogata, allargando le braccia per permettere alla mia balia di svestirmi. “Tanto sarebbe valso organizzare una farsa con dei figuranti, invece che mandarmi all'altare in fretta e furia. Ho passato otto anni a comportarmi come una donna sposata...”
“E continuerai a farlo.” Era stata la risposta lapidaria di Mirala, che con un ultimo strattone aveva sciolto i lacci del mio vestito. “A Daggerfall eri tenuta a seguire le regole di Daggerfall. Ora che sei a Skyrim, devi seguire le regole di Skyrim.”
“Anche se mi rendono infelice?”
“L'infelicità, Lirael, è ben altra cosa.” Mirala mi aveva fatto scivolare l'abito dalle spalle, e quando mi ero voltata avevo capito, dal modo in cui stirava le labbra in una linea sottile, che non avrebbe più acconsentito a riprendere quell'argomento.
Era frustrante dover accettare una simile situazione, e per giorni mi aggirai per il Palazzo dei Re in preda alla più grande irritazione che avessi mai provato.
Stranamente, per quanto fosse spiacevole vivere nel costante malumore, provavo un malsano piacere a crogiolarmi nel mio sconforto.
Ero sempre stata accondiscendente e pronta ad accettare il fato che altri mi avevano imposto, e quella era la prima volta in cui cercavo di ribellarmi.
In gran segreto dentro di me, avevo deciso che avrei affrontato mio marito al suo ritorno. Dopotutto era mio diritto sapere cosa accadeva all'interno del regno, e dei figli illegittimi potevano costituire una minaccia per quelli che io avrei dovuto partorire.
Forte di quella decisione, mi ci aggrappai con tutte le mie forze. Dovevo solo attendere che il mio sposo tornasse.
E speravo che lo facesse presto.
Prima che io perdessi il coraggio di affrontarlo.

 

******

 

L'ascia descrisse un ampio arco nell'aria.
Per un istante, al culmine della sua parabola di morte, la lama ricurva scintillò al sole, cogliendo la luce di quella mattina inoltrata.
Poi continuò la sua corsa, sibilando minacciosa, e si schiantò con un tonfo sonoro contro lo scudo levato prontamente. L'acciaio affilato penetrò per una buona misura nel legno di tiglio, segnando una profonda spaccatura sul bordo.
Con un grugnito la lama venne liberata, e da dietro lo scudo rotondo comparve un volto allarmato.
“Quella poteva essere la mia testa!”
“Allora coprila meglio.”
Ulfric si allontanò di un passo dal suo avversario, girando in cerchio a gran passi per tirare il fiato, ma senza mai distogliere gli occhi. Con l'ascia in una mano e lo scudo al braccio, il volto arrossato e lo sguardo indurito dallo scontro, aveva l'aspetto del guerriero esperto e temuto che era divenuto nel corso degli anni.
Ampie macchie scure si allargavano sotto le sue braccia, sulla casacca di tela grezza, ed i capelli erano appiccicati al volto ed alla fronte in ciocche sudate.
Aveva il respiro pesante, eppure non si sentiva stanco. Non era mai stato agile e scattante, ma sapeva di essere resistente e forte; i suoi polmoni potevano tradirlo mozzandogli il fiato, ma i suoi muscoli non lo avrebbero mai abbandonato.
“Solleva la guardia.” Ringhiò al suo avversario. “Alto lo scudo. Non devi spingermi a colpirti la testa.”
“Non sarebbe un problema, se voi non cercaste di staccarmela.” Ribatté il giovane Principe di Solitude con voce affaticata. Il suo petto si alzava ed abbassava ritmicamente, e la giubba di cuoio imbottito era impolverata come se fosse caduto più volte.
“Faccio solo quello che è giusto... Alza la maledetta guardia!”
Con un balzo lo Jarl di Windhelm fu nuovamente di fronte al suo avversario, ma invece che brandire l'ascia vibrò un potente colpo con lo scudo, urtando quello di Torygg e spingendo con forza.
Dapprima il giovane incespicò, colto di sorpresa dall'attacco, e cercò di opporre resistenza. Ma era troppo sbilanciato per contrastare quell'urto, ed una seconda, poderosa spallata, gli fece perdere l'equilibrio gettandolo nuovamente nella polvere.
“Alzati.”
“Almeno aspettate che abbia finito di rotolare.” Ribatté Torygg, facendo una smorfia e ruotando cautamente una spalla. Il suo consueto buonumore cominciava ad essere scalfito da quel trattamento, e ad ogni colpo ricevuto l'aria bonaria svaniva gradualmente dai suoi tratti, lasciando spazio ad un'espressione determinata che lo rendeva più simile al padre.
“Se resti in terra sei morto. Alzati.”
“Per Talos! Lasciatemi il tempo di riprendere fiato.” Il giovane si alzò con un sospiro esausto, ravviandosi all'indietro le ciocche sudate che gli pendevano davanti al viso. C'era un nuovo segno rosso sul suo zigomo, la cui linea arcuata richiamava il bordo curvo dello scudo.
Nel notarlo Ulfric emise un breve sbuffo esasperato. Conosceva bene quel tipo di contraccolpo, perché era quello accusato più di frequente dai giovani che cominciavano ad essere addestrati all'uso delle armi. Un allenamento costante avrebbe irrobustito il braccio di Torygg e gli avrebbe insegnato ad evitare il rimbalzo del suo stesso scudo.
Ma il ragazzo viveva tra gli agi di Solitude, e probabilmente era abituato a duelli di ben altra entità.
“In battaglia nessuno aspetta i tuoi comodi.” Ulfric strisciò un piede in terra, saggiando la presa della suola sul terreno asciutto. “Fai qualcosa. Attaccami!”
Il giovane Principe per tutta risposta fece una smorfia e sputò in terra la polvere che aveva mangiato durante la caduta. Non sembrava affatto propenso ad attaccare.
Aveva bisogno di un incentivo.
“Il cucciolo di Lupo morde, ma non ha i denti.” Ringhiò, lasciando che la sua aspra cadenza dell'Eastmarch risuonasse in ogni parola. “Forse dovresti tornare a sederti con le donne, e lasciare le armi agli uomini.”
“Sento l'Orso ringhiare, ma ha troppa paura dei Lupi per uscire dalla foresta.” Ribatté Torygg, rispondendogli come era previsto che facesse.
Perlomeno il ragazzo sapeva come replicare ad un insulto formale, ma le chiacchiere non sempre appianavano le dispute.
Un'ascia, invece, poteva farlo egregiamente.
Ulfric mosse un passo avanti e sollevò lo scudo, nascondendo il corpo e l'arma che reggeva nella mano destra. Il figlio di Istlod poteva anche essere più giovane e lesto nei movimenti, ma non aveva alcuna reale esperienza di combattimento, e tutto ciò che sapeva sull'arte bellica era dovuto ai suoi precettori.
Quello che gli mancava, si disse lo Jarl di Windhelm mentre lo osservava oltre il bordo rotondo di legno di tiglio, era quella particolare malizia che poteva essere imparata solo sul campo di battaglia.
Nel vederlo tornare in posizione, Torygg lo imitò prontamente ed assunse una posa difensiva; questa volta si ricordò di tenere lo scudo alto, pronto a ripararsi la testa in caso di attacco. Perlomeno imparava in fretta.
Vedendolo prepararsi, Ulfric abbassò le spalle e cominciò ad avanzare lentamente verso il suo giovane avversario, un cauto passo alla volta. Se il ragazzo fosse stato abbastanza sveglio, avrebbe potuto approfittare di quell'attimo per studiarlo e prepararsi ad un contrattacco, oppure per coglierlo di sorpresa caricandolo per primo.
Ma Torygg non si mosse e rimase a l suo posto, così che, quando Ulfric roteò la sua ascia al di sotto del bordo dello scudo, se ne accorse a malapena.
Prima di vibrare il colpo lo Jarl dell'Eastmarch si era assicurato di ruotare l'arma nel palmo, in modo da colpire il suo giovane avversario con la costa rivestita di metallo del manico, invece che con la lama. Il suo accorgimento si rivelò provvidenziale, perché il Principe di Solitude si accorse del colpo in arrivo solo quando lo sentì andare violentemente a segno, poche dita sopra il ginocchio.
Colto di sorpresa si lasciò sfuggire un'imprecazione ed indietreggiò, proteggendosi dietro lo scudo e zoppicando leggermente con la gamba appena colpita.
"Non pensare solo alla testa.” Lo istruì Ulfric in tono brusco, ruotando il manico di legno dell'arma nel palmo per poterla impugnare nuovamente nel verso giusto. “In un muro di scudi il colpo peggiore è quello che ti morde le caviglie.”
“Quella era una coscia, per la precisione.” Grugnì Torygg, con una smorfia dolorante dipinta in volto. “O forse per voi vale come caviglia alta?”
Lo Jarl ringhiò e non rispose, irritato dalla propensione del ragazzo a distrarsi e chiacchierare nei momenti meno opportuni. Vagheggiare in quel modo poteva anche essere piacevole, nei salotti di Solitude, ma in battaglia poteva portare a morte certa.
“Concentrati.” Lo rimproverò aspramente, sentendo una goccia di sudore scivolargli lungo il collo. Era consapevole della casacca umida che gli aderiva alla pelle, dei calzoni bagnati attaccati alle cosce e del fiato che gli sfuggiva in brevi ansiti dalle labbra dischiuse; eppure continuava a tenere lo sguardo fisso sul suo avversario, pur sapendo che difficilmente gli avrebbe mosso un attacco.
Ulfric stava considerando il modo migliore per costringere Torygg a non abbassare la guardia, quando il giovane Principe, con uno scatto repentino, non gli si avventò addosso.
La sua ascia descrisse un breve arco sibilante, dall'alto verso il basso, e lo Jarl sollevò istintivamente lo scudo per ripararsi il capo.
La lama si schiantò contro il legno di tiglio, scalfendone la superficie e facendone schizzare via una grossa scheggia; Ulfric avvertì la forza del colpo riverberare attraverso il braccio che reggeva lo scudo, e si lasciò sfuggire un grugnito soddisfatto. Finalmente il ragazzo cominciava a fare sul serio.
Sentì Torygg ritirare l'ascia dal legno, pronto per indietreggiare, ed allora ne approfittò per sferrare il proprio contrattacco, contraendo i muscoli e vibrando un colpo all'altezza del fianco prima che il giovane potesse portarsi fuori portata.
Il Principe di Solitude colse il suo movimento troppo in ritardo, e sollevò d'istinto il braccio dello scudo nell'estremo tentativo di parare la lama affilata del suo avversario. L'arma cozzò contro il legno, strappando ad Ulfric uno sbuffo d'impazienza.
“State diventando vecchio.” Lo canzonò Torygg, con il fiato corto e la voce affaticata per lo sforzo.
Lo Jarl non si curò di ribattere, ed approfittando della relativa vicinanza caricò il suo giovane avversario con tutto l'impeto di cui era capace, spingendo con la spalla e facendo cozzare i due scudi.
Nel momento dello scontro sentì il fiato mozzo del giovane, ed il suo grugnito mentre cercava di opporre resistenza con tutto il proprio peso.
Ulfric spinse di rimando, senza cedere di un passo e bilanciandosi sulla gamba sinistra che fungeva da appoggio. Dette un'altra spallata allo scudo, assicurandosi di tenere sotto pressione il suo giovane avversario, ed all'improvviso mosse il piede destro, alleggerito in precedenza dal peso, e ruotò il corpo con un unico movimento fluido.
Senza più lo Jarl a contenerlo Torygg si ritrovò sbilanciato in avanti; troppo, perché potesse mantenere l'equilibrio, ed ancora una volta si ritrovò a dover allungare le mani nel tentativo di non crollare rovinosamente in terra.
“Presta attenzione. Non ti distrarre.” Lo rimbrottò Ulfric aspramente, osservandolo mentre evitava di rotolare nella polvere puntellandosi con il bordo dello scudo.
“Io ho...”
“Non ti distrarre!” Ruggì l'uomo di Windhelm, e con un calcio ben assestato spazzò l'appoggio del giovane Principe, che ebbe solo il tempo di allungare una mano per evitare una caduta ben più rovinosa.
Fermi!
Distratti dal loro duello, i due uomini sollevarono il capo, tornando improvvisamente consapevoli dello spiazzo d'armi in cui si trovavano; i guerrieri raccolti in capannelli per osservare il loro scontro si dispersero nervosamente, e solo le urla dell'addestratore degli arcieri, che risuonavano accanto all'alta cinta muraria, non si abbassarono di tono.
Torygg ed Ulfric si voltarono all'unisono verso la fonte di quel grido accorato, e lo Jarl di Windhelm represse una smorfia di fastidio.
Sull'ampia terrazza lastricata che si affacciava sul cortile era comparsa una donna, avvolta in raffinate stoffe e veli color zaffiro. Al suo fianco, imponente ed imperscrutabile come una vecchia statua intagliata nel legno di quercia, Jarl Istlod si ergeva appoggiato al suo bastone in rigoroso silenzio.
Non appena li vide abbassare le armi, la dama afferrò un lembo delle gonne e si affrettò con aria allarmata lungo la scalinata di pietra bianca, che conduceva dalla balconata al cortile sottostante.
“Torygg!” Chiamò in tono preoccupato, mentre si avvicinava a passo abbastanza svelto da esternare la sua agitazione, ma non tanto rapido da farle perdere quella sua particolare grazia nei movimenti. Nel vederla Ulfric voltò il capo e sputò in terra, cercando di nascondere il suo disgusto.
La donna, che già appariva affascinante dall'alto della terrazza, rivelava la sua bellezza sfolgorante mano a mano che si avvicinava.
La sua figura elegante, che ondeggiava ad ogni passo, sarebbe stata sufficiente a far voltare un uomo anche senza la presenza di quella pelle alabastrina e del bel collo cinto d'oro.
I capelli biondi, intrecciati con cura sotto al velo candido, rivaleggiavano in splendore con i suoi gioielli, e nel volto cesellato brillavano due occhi celesti limpidi come acqua sorgiva.
“Elisif, amor mio!” Declamò il giovane Principe, sollevandosi da terra e cercando di allontanare la brutalità dello scontro dai propri tratti per accogliere la moglie. “Sei arrivata giusto in tempo per vedermi dare il colpo di grazia a Lord Ulfric.”
A quelle parole Ulfric lanciò un'occhiata perplessa al Principe, ed il ragazzo rispose ammiccando nella sua direzione.
“Suvvia, datemi ragione.” Gli disse in un bisbiglio perfettamente udibile, e lo Jarl non poté fare a meno di emettere uno sbuffo esasperato. Se aveva ancora voglia di scherzare dopo il combattimento, significava che usato una mano troppo leggera; la volta successiva avrebbe usato le maniere forti.
Elisif si avvicinò di gran carriera per raggiungere il marito, e quando scorse il segno che lo scudo aveva lasciato sul suo zigomo emise un'esclamazione soffocata. Tese le dita inanellate, ma non appena fu sufficientemente vicina venne investita dal puzzo di sudore emanato dai due uomini, ed allora arricciò il naso e tirò indietro il capo, ritirando la mano.
“È messo così male?” Rise Torygg, tastandosi cautamente sotto l'occhio. “Lord Ulfric pensava che fossi un po' troppo affascinante, ed ha preferito ridimensionarmi.”
La donna si voltò verso lo Jarl di Windhelm con tutto lo sdegno permesso dai suoi splendidi tratti, socchiudendo gli occhi in una smorfia che era più adorabile che spaventosa.
“Siete un animale.” Gli sibilò con disgusto, lanciandogli un'occhiata carica di astio.
“Nemmeno io sono felice di vedervi.” Ribatté lui bruscamente, ed il bel volto di Elisif si colorì per l'indignazione.
“Pace!” Intervenne la voce di Istlod dietro di loro, e voltandosi Ulfric vide che il vecchio Jarl era riuscito a scendere indenne i gradini, ed ora si avvicinava zoppicando leggermente, aiutandosi con il suo bastone. “Non voglio litigi nella mia casa, e di certo non davanti a me.”
Elisif strinse le labbra fino a farle sbiancare, ma non replicò e gli rivolse una leggera riverenza.
“Torygg.” Continuò il Signore di Solitude fissando lo sguardo sul figlio, ed un ampio sorriso comparve in mezzo alla sua barba grigia. “Temo di doverti privare del tuo avversario. Ho bisogno di un accompagnatore per la mia passeggiata, ed ora che Elisif ti ha visto in questo stato, sono certo che preferirà occuparsi di te piuttosto che dar retta ad un inutile vecchio.”
“Non dite queste cose, Padre.” Rispose la donna con automatica cortesia, ma senza fare alcuno sforzo per negare le parole dello Jarl.
“Pensi che io non sappia cosa passa nella testa di voi giovani?” La disse bonariamente Istlod, appoggiandosi con entrambe le larghe mani sul pomolo dorato del suo bastone. “Torygg, ragazzo mio,dovresti migliorare la tua guardia. Ah, se solo avessi ancora le gambe buone per poter combattere!” Sospirò, ed il giovane Principe si affrettò a scuotere la testa.
“Mi daresti del filo da torcere, padre. E mi tratteresti peggio di Lord Ulfric.” Esclamò con un sorriso irresistibile, strappando una risata all'anziano genitore.
Il vecchio Jarl mosse qualche passo zoppicante ed allungò una mano, posando l'ampio palmo sul capo bruno del figlio in un gesto affettuoso.
“Lo farei sicuramente, se tu continuassi a muoverti in quel modo disastroso. Ma ne riparleremo più tardi. Andate pure, adesso.”
Congedato, Torygg raccolse ascia e scudo da terra e si avviò con la moglie verso l'armeria, lasciando Ulfric da solo con il vecchio Jarl.
Istlod attese di vederli scomparire sotto uno degli eleganti archi di pietra del palazzo, e dopo aver esalato un lento sospiro si voltò verso il Signore di Windhelm, che portava ancora lo scudo al braccio e stringeva l'arma in pugno.
“Spero non ti dispiaccia interromperti per qualche minuto. Vieni.” Disse con gentile fermezza, cominciando a muoversi lentamente verso il margine esterno del cortile. Dietro di lui, Ulfric chiamò con un cenno silenzioso uno dei soldati che ancora stazionavano nei paraggi e gli consegnò ascia e legno di tiglio prima di accodarsi al vecchio Jarl.
Cinque giorni erano troppo pochi per abituarsi al più mite clima di Solitude, ed ora che aveva smesso di combattere sentiva le gocce di sudore scorrergli fastidiosamente sul viso e lungo la schiena, sotto la casacca.
“Ti ringrazio per aver accettato di allenare Torygg, in questi giorni di permanenza.” Gli disse Istlod, quando il Signore dell'Eastmarch gli si affiancò. “Il tuo aiuto gli è molto utile.”
“Lo spero.” Borbottò Ulfric, sollevando un lembo ruvido del suo camiciotto per asciugarsi il volto. “Anche se avrebbe bisogno di un esercizio costante.”
“Mi sarebbe piaciuto poterlo inviare a Windhelm, una volta raggiunta la maggiore età. Ma come tu ben sai, non sarebbe stato saggio.”
L'Orso dell'Est annuì seccamente, senza aggiungere altro, limitandosi a seguire il vecchio Lupo zoppicante lungo uno dei sentieri lastricati che costeggiavano le mura ed i cortili del Palazzo Blu.
“Ho saputo che hai intenzione di partire domani.” Commentò ancora l'anziano sovrano, sollevando una mano per accarezzarsi la barba grigia. “Hai riflettuto sulle mie proposte?”
“Ho riflettuto.” Acconsentì Ulfric. “Ma non a sufficienza.”
“Non ho intenzione di svegliarmi all'alba per darti udienza. Se devo avere una risposta...”
“L'avrai stasera.” Lo interruppe lo Jarl di Windhelm, voltando il capo e fingendosi interessato ai tre soldati di ronda che procedevano in direzione opposta alla loro.
I due uomini procedettero in silenzio per un lungo tratto, fino a che non giunsero in prossimità di un piccolo spiazzo, fiancheggiato da un solido muro. Tra le pietre si apriva un cancello di ferro, ed Istlod piegò in quella direzione, sollevando la lunga chiave di ferro che portava legata alla cintura con una corda di seta.
Dietro quella porta anonima si aprivano i giardini privati del Signore di Solitude, un piccolo angolo di bosco in mezzo alla città, abitato da famiglie di scoiattoli e quaglie.
Ulfric li conosceva bene, poiché sin dal suo primo soggiorno a Palazzo, quando era ancora poco più che un ragazzo, aveva preso l'abitudine di entrare di straforo scavalcando la murata in un punto nascosto alla vista, per allontanarsi dalla confusione che si creava durante i Concili con i sovrani degli altri feudi.
Normalmente i giardini sarebbero stati destinati alla moglie dell'attuale Jarl, per permetterle di svagarsi passeggiando con le ancelle e le dame di compagnia, ma da quando era salito al trono, era stato Istlod ad utilizzarli. Isarma, la defunta madre di Torygg, aveva odiato con tutte le sue forze dover abbandonare le mura del palazzo, anche solo per uscire su una delle molte terrazze, e la sua avversione per gli spazi aperti era ben nota a chiunque. Non era stato un segreto che la Signora di Solitude preferisse la compagnia dei suoi libri e delle sue pergamene a quella di chiunque altro, ed infine si era creato un fragile equilibrio che permetteva ai due coniugi di convivere senza interferire l'uno con l'altra: Istlod all'esterno, ad occuparsi del regno e a passeggiare nei giardini fioriti per sfuggire al tagliente giudizio della moglie, ed Isarma all'interno, seppellita nelle austere profondità delle sue biblioteche.
Ulfric aveva avuto poche occasioni di parlare con la donna ma, forse complice la giovane età in cui l'aveva conosciuta, ne conservava il ricordo con una sorta di timore riverenziale. La sposa dello Jarl era stata una donna intelligente ed acuta, con uno spiccato cinismo che rendeva ogni sua parola simile ad una stilettata.
Se solo la sua giovanissima Lirael avesse avuto un pizzico della tempra di Isarma, la vita al suo fianco sarebbe stata estremamente più interessante.
“Vieni, Ulfric.” Lo invitò Istlod, inserendo la chiave nella vecchia serratura arrugginita e facendola girare con un sonoro clangore. “Uno dei miei giardinieri ha detto di aver avvistato alcuni scoiattoli grigi di Solstheim, insieme a quelli rossi che abitano qui. Devi aiutarmi a scovarli, perché io ancora non sono riuscito a vederli.”
Il cancello di ferro si aprì con un lamento acuto, ed il vecchio Jarl si assicurò di richiuderlo alle loro spalle prima di imboccare l'unico sentiero di terra battuta che si apriva tra i cespugli.
“Ho saputo che anche quest'anno l'Eastmarch non si è risparmiato, durante le celebrazioni di Talos.” Commentò il vecchio Jarl, volgendo il capo verso l'alto per osservare le fronde che si intrecciavano parecchi metri sopra la sua testa. “Non vorrei doverti raccomandare nuovamente di mantenere un basso profilo, amico mio.”
“Lo stai già facendo.” Brontolò Ulfric, strappando furtivamente la cima di uno stelo che sporgeva sul sentiero.
Su entrambi i lati, sotto i rami nodosi, crescevano rigogliosi cespugli e piccoli arbusti cosparsi di bacche tardive, alternati di tanto in tanto a piccole aree di terra brulla e scura, da cui spuntavano piccoli butti di un verde brillante. Con l'arrivo della primavera, quelle zone avrebbero rivelato una variegata quantità di corolle e petali di ogni colore.
“Lo faccio per il tuo interesse.” Istold si fermò davanti ad un cespuglio irto di spine e si chinò per osservarlo meglio. “Alcuni mesi fa ho ricevuto la visita di due portavoce del nuovo Ambasciatore Thalmor...”
“Quelle serpi che mi hanno portato il tuo messaggio?” Ringhiò Ulfric, stringendo i pugni.
“Furono loro ad insistere per farlo, e non avevo ragione di impedirglielo. Ti pare che questo biancospino possa dare qualche frutto, il prossimo anno? Sembra già pieno di boccioli.”
Spiazzato ed irritato per il cambio di argomento, lo Jarl di Windhelm rispose con un basso ringhio e staccò una foglia lucida da un rigoglioso albero agrifoglio.
“Ti prego di non rovinare il mio giardino. Mi ci sono voluti anni per eliminare la traccia delle padrone precedenti.”Lo rimbrottò Istlod in tono bonario, e dopo aver sfiorato con delicata premura le gemme appena spuntate, raddrizzò cautamente la schiena e riprese la sua passeggiata.
“Vorrei solo, Ulfric, amico mio,” Continuò dopo qualche istante, esalando un sospiro stanco. “Che tu agissi con più lungimiranza. Non è saggio adorare Talos così apertamente, di questi tempi.”
“Dovrei impedire alla mia gente di adorare il proprio dio, solo perché è il volere di una manciata di serpenti con le orecchie a punta?” Ringhiò Ulfric di rimando. “Noi non siamo ai loro ordini. Io non sono ai loro ordini.”
“Ma non siamo stati noi, a vincere la Guerra.” Gli ricordò il vecchio Jarl. “E di questi tempi ci sono cose che andrebbero celate ad occhi estranei.” Così dicendo inclinò il capo nella sua direzione e si batté leggermente una mano sul petto. Il Signore di Windhelm abbassò lo sguardo su di sé, e notò che l'amuleto di Talos che portava sempre al collo era scivolato fuori dallo scollo della casacca.
Doveva essere successo durante lo scontro con Torygg, si disse mentre lo sistemava di nuovo sotto al tessuto, accogliendo il tocco familiare del ferro contro la pelle.

“Non lascerò che siano i Thalmor a dettare legge nella mia terra.” Disse severamente.
“Ed io non ti lascerò sollevare un conflitto con loro, almeno finché sarò in vita.” Istlod cominciò a marciare ad un'andatura insospettabilmente spedita per un uomo costretto ad appoggiarsi a un bastone, ed Ulfric dovette allungare il passo per stargli dietro. “Perché è questo che accadrà, se continuerai ad attirare l'attenzione con fuochi e cerimonie pubbliche. Vuoi vedere i Giudici Thalmor battere le tue terre?”
“Che vengano!” Replicò Ulfric, alzando rabbiosamente i toni. “Troveranno i miei uomini ad attenderli.”
“Questo è esattamente quello che non deve accadere.” Istlod si fermò di botto, massaggiandosi un punto all'altezza dell'anca. La sua chioma grigia, sotto la luce che filtrava tra i rami, aveva assunto le stesse sfumature argentee dei ricami che ornavano i suoi indumenti. “Io non ho alcun potere sui Giudici. Se dovessero ritenere di arrestare uno qualunque dei tuoi cittadini, non potrei oppormi. E tu neppure.”
Ulfric strinse i pugni e digrignò i denti, cercando di contenere la rabbia che sentiva montare. Nel frattempo il Re dei Re si era voltato, osservando distrattamente un roseto spoglio per prendere tempo; i rami verdi, dalle lucide spine scure, sembravano lunghe dita sgraziate che si levavano dal terreno.
“Noi non avremo vinto la Guerra.” Disse il Signore dell'Eastmarch con un basso ringhio. “Ma Skyrim resta la nostra terra, e le nostre radici...”
“Non ti sto chiedendo di rinunciare alla tua fede, amico mio.” Lo interruppe Istlod in un tono accondiscendente, levando una mano per invitare alla calma. “Ti domando solo di preservare le apparenze, e di non dare motivo ai Thalmor di attaccare la nostra gente. L'Eastmarch non è l'unica terra a seguire le antiche vie.” E con tali parole fece scivolare una mano sotto lo scollo del suo elegante abito, estraendone un prezioso amuleto di Talos appeso ad una elaborata catena d'oro.
Ulfric non replicò e strinse i muscoli della mascella, incrociando le braccia al petto. Il ruvido tessuto della casacca gli grattò la pelle, ed il movimento permise ad un refolo d'aria fredda di insinuarsi sotto l'orlo dell'indumento e risalirgli lungo la schiena sudata.
Stava faticando non poco a trattenere i commenti che sentiva salirgli alle labbra, e cominciava a pentirsi di non aver portato con sé Galmar, o perlomeno di non aver chiamato Asbjorn prima di allontanarsi nei giardini, quando il Re dei Re gli rivolse un cenno con la mano e lo invitò ad avvicinarsi.
“Suvvia, ora non mettermi il broncio. Quella è una specialità della mia adorabile nuora... ah, ma guarda: pare che quest'anno le mia erica sia particolarmente rigogliosa. Accompagnami, voglio osservarla più da vicino.” Con quell'ordine mascherato da richiesta, Istlod si avviò zoppicando verso i colorati cespugli d'erica, e ad Ulfric non rimase che seguirlo.
Si sentiva di pessimo umore, ma il suo soggiorno volgeva al termine, e presto non avrebbe più dovuto sopportare le bizze del vecchio Jarl.
La Vigdis era già in porto, pronta a salpare.
E lui sarebbe tornato a Windhelm, a qualunque costo.

 

******

 

La temperatura era calata ancora, quasi come se l'inverno si rifiutasse di allentare la sua morsa, e la neve accumulata ai lati delle strade aveva sviluppato una spessa crosta di ghiaccio.
Le pietre che lastricavano le vie della città erano invece ricoperte da una fanghiglia scivolosa, prodotta dal continuo passaggio dei cittadini, che si attaccava agli orli delle gonne e rovinava irreparabilmente il tessuto delle calzature.
“Da questa parte, Signora.”
Ignorando la voce di Galmar continuai imperterrita a camminare cautamente sulle pietre sdrucciolevoli, stringendomi nel mantello foderato di volpe per far fronte al freddo che sentivo penetrarmi fin nelle ossa.
“Signora.” Sentii i passi del guerriero alle mie spalle, e poco dopo la sua mano si serrò con gentile fermezza poco sopra il mio gomito, obbligandomi a cambiare strada.
Con un sospiro lo lasciai guidare i miei passi lontano dalla scalinata sconnessa che scendeva un livello più sotto, verso la zona della città che ancora non ero stata in grado di visitare.
Lanciai un'ultima occhiata contrita al piccolo scorcio che potevo intravedere dall'alto della scala, con le finestre serrate e gli stendardi scoloriti e stracciati dalle intemperie, e tornai a voltarmi verso il capannello di guardie che mi attendeva a pochi passi di distanza.
“La neve deve avervi confusa. Stavate per sbagliare strada.” Proclamò allegramente la forte voce di Galmar, mentre mi sistemava di nuovo tra Yrsarald e Ioreth.
Mormorai un assenso, stringendo le labbra. Il quartiere abitato dai Dunmer mi era interdetto, ma avevo sperato di poter fuggire alla vigilanza del vecchio guerriero, quel tanto che mi bastava per poterlo visitare.
Il piccolo gruppo che mi accompagnava si volse come un unico uomo verso il palazzo, decretando così terminata la mia passeggiata pomeridiana. Da poco più di una settimana avevo preso l'abitudine di visitare la città, adducendo la scusa il desiderio di conoscere la mia gente.
Il mio intento era in realtà scrutare i volti dei ragazzi e dei fanciulli, cercando tratti che si avvicinassero a quelli di mio marito. Lo studio dei registri non mi aveva affatto aiutato ad individuare i suoi figli illegittimi, ma speravo che almeno uno di loro gli somigliasse quanto Halfdan, in modo da avere le prove di quanto aveva insinuato la prigioniera.
Non avevo ancora abbandonato l'idea di affrontarlo, sebbene col passare dei giorni stesse diventando più una gradevole fantasia, che un reale intento.
Mentre procedevamo verso il palazzo Yrsarald mi offrì il braccio, per aiutarmi a camminare sulle pietre scivolose, ed io lo accettai di buon grado.
Il giovane Capitano di mio marito pareva essere l'unico, oltre a Mirala, ad essersi accorto del mio malumore, eppure non mi aveva mai chiesto nulla. Si era limitato a parlare ancora meno, a ridurre le sue battute salaci ed a mostrarsi più solerte.
“Appoggiatevi a me, Milady.” Mi disse all'improvviso in tono confidenziale, indicandomi con la mano libera una lastra di ghiaccio, prima di afferrare le dita che avevo appoggiato sul suo braccio.
Mi lasciai guidare fiduciosa, sentendo il suo ampio palmo posarsi all'altezza dei miei lombi mentre mi guidava con attenzione per evitare che scivolassi.
Dietro di me Ioreth emise un basso mormorio di disapprovazione, e non appena ebbi superato la lastra si insinuò tra me ed il Capitano, allontanandolo e prendendomi a braccetto come se fosse la mia dama di compagnia.
“Siete fredda anche attraverso gli abiti.” Mi rimbrottò la mia cameriera in tono secco. “Volete che faccia portare altra legna nelle vostre stanze?”
“Oh, sì!” Esclamai, forse con un po' troppa enfasi. A Windhelm avevo imparato che la legna era un bene inestimabile durante il lungo inverno, e mio marito mi aveva già rimbrottata per averne usata troppa, durante la sua ultima assenza.
Mi schiarii la voce, a causa del leggero mal di gola che mi affliggeva in quei giorni, e cercai di esprimermi in modo più aggraziato, come mi aveva insegnato Mirala.
Alle mie spalle sentivo Galmar e Yrsarald parlottare tra loro, a voce così bassa da essermi impossibile distinguere le parole. Pareva che il vecchio guerriero fosse contrariato da qualcosa, ed immaginai che stessero discutendo del mio piccolo tentativo di fuga verso il quartiere abitato dai Dunmer.
Oh, non importa.” Mi dissi, mentre risalivo la scala di pietra che conduceva al Palazzo dei Re. “Domattina proverò a convincerlo a lasciarmi passeggiare con Mirala. Lei non mi dirà di no, se le chiederò di accompagnarmi...
Ero ancora immersa nelle mie fantasticherie, quando una folata di vento non mi portò le parole dei due uomini dietro di me, insieme allo scricchiolio degli stivali della scorta.
“Mani a posto, soldato.” Stava borbottando la voce di Galmar, in tono di avvertimento.
“Conosco quel che mi è proibito.” Mormorò di rimando Yrsarald, e la risposta che seguì mi fece per un istante balzare il cuore in gola.
“Lo spero, ragazzo mio. Non vorrei essere costretto a staccarti la testa.”



La Sala del Trono risplendeva come un gioiello grezzo.
Le luci delle candele guizzavano sulle pareti di pietra rese lustre dal tempo, e le fiamme che bruciavano nei corni riempiti di grasso si riflettevano sulle suppellettili d'argento, che adornavano la tavola imbandita.
L'intero salone risuonava del brusio di voci dei commensali, intervallato dal tintinnio delle posate e dall'uggiolio dei cani.
Mi infilai tra le labbra un boccone di arrosto, facendo scorrere distrattamente lo sguardo sugli uomini e le donne seduti sulle panche, ai due lati del lungo tavolo di legno. Come accadeva quasi ogni sera, stavo dividendo la mia cena con gli uomini ed i thane di mio marito, insieme alle famiglie più influenti della città.
Al cospetto dello scranno vuoto del mio sposo avevo radunato i Mare-Crudele ed i Frantuma Scudi, che costituivano la maggior parte dei miei commensali, e le loro allegre chiacchiere e le dispute urlate tra un boccone e l'altro mi aiutavano a distrarmi, sebbene fossero ben lontane dalle discussioni pacate ed eleganti che avevo conosciuto alle tavole della corte di Daggerfall.
Strappai con le dita un pezzo di pane scuro, infilandolo sui rebbi della forchetta per poter assorbire il sugo di cottura dell'arrosto. Un colpetto all'altezza del ginocchio mi fece abbassare gli occhi, e con un certo imbarazzo allontanai il muso di uno dei segugi di mio marito. Non mi ero ancora abituata alla presenza dei cani durante i pasti, ma pareva che nessuno vi facesse caso; anzi, uomini e donne sembravano considerare la loro presenza assolutamente naturale, e spesso lanciavano pezzi di cibo in terra, o lasciavano che gli animali leccassero il grasso della carne dalle loro mani.
Avevo passato diversi mesi a Windhelm, eppure faticavo ancora ad abituarmici.
“Altra zuppa di cavolo, Milady?” Mi domandò la voce biascicante di Sifnar, il vecchio servitore dai capelli candidi, porgendo verso di me una pesante pentola di ghisa da cui spuntava il manico di un mestolo. Rifiutai con un cenno della mano, ma accanto a me Jorleif si fece servire una seconda porzione.
Sifnar si chinò, rimestando nel suo paiolo, e versò una mestolata di sostanziosa zuppa nella scodella che gli era stata porta. Mentre si allontanava, zoppicando a causa del peso della pentola, notai con la coda dell'occhio il Sovrintendente togliere dalla propria ciotola un grosso pezzo di cotenna di maiale, usata per insaporire la sostanziosa zuppa, e passarla ad uno dei cani appostato sotto al tavolo. Con un sospiro mi infilai in bocca il mio pezzetto di pane, con cui avevo ormai raccolto tutto il sugo rimasto all'interno del mio piatto.
“Che brutta smorfia, Milady.” Rise Galmar, seduto di fronte a me, quando mi vide storcere il naso nel sentire sotto i denti qualcosa di duro. “Il nostro pane non è più di vostro gradimento?”
Tenendo una mano davanti al viso mi tolsi di bocca una scheggia di pietra, che doveva essersi staccata dalla macina, e mi affrettai ad assicurargli che non era mai stato più buono.
Yrsarald, al fianco del vecchio guerriero, sollevò appena lo sguardo dallo stinco di maiale che reggeva con entrambe le mani; lo stava spolpandolo direttamente con i denti, e dal bordo del tavolo sbucavano i musi ansimanti di due segugi, che uggiolavano mentre lui li ignorava e seguitava a mangiare. Aveva il volto lucido di grasso, e la barba era costellata di frammenti di carne.
Alla mia destra il Sovrintendente cominciò a discutere con una Frantuma Scudi della primavera incombente, ed io mi ritrovai ad ascoltarli distrattamente, mentre cercavo di richiamare alla mente le cene ben più eleganti a cui avevo partecipato alla corte di Daggerfall, o ancora nella tenuta dei De Braose, che avevo potuto visitare una sola volta nella mia vita.
Ero così immersa nelle mie reminiscenze che quasi sobbalzai, quando sentii la voce di una guardia richiamare la mia attenzione. Mi voltai, cercando di mantenere un certo contegno, e notai che l'uomo era affiancato da un ragazzino che aveva tutta l'aria del monello di strada; i suoi abiti cenciosi erano sdruciti in più punti, e da sotto il berretto di panno sbucavano luride ciocche di capelli biondi.
“Signora.” Mi salutò, con una voce roca che faceva uno strano effetto su un ragazzo così giovane. Mi rivolse un inchino appena accennato, e i suoi occhi vispi saettarono rapidamente lungo la tavola imbandita con fare smanioso.
Cercando di mostrarmi degna del mio ruolo gli risposi con un cenno del capo, invitandolo a parlare, e per tutta risposta lui si soffiò il naso nelle dita.
“La Vigdis è appena arrivata in porto.” Mi comunicò, strofinandosi la mano sporca sulla giubba rovinata. “Jarl Ulfric mi ha detto che vi devo avvisare che lui è tornato, e che ci ha fame.” Disse, con una scelta di parole tanto rozza che avrebbe fatto impallidire i miei vecchi precettori.
A quella notizia sentii il mio cuore saltare un battito, e per un istante mi parve che la mia mente si fosse svuotata di ogni pensiero, ad eccezione di uno soltanto.
Mio marito era tornato.
E presto sarebbe giunto a palazzo.
Mi lascia sfuggire un'esclamazione soffocata. Non poteva essere già di ritorno.
Non ero stata avvisata, avevo la gonna macchiata dai nasi umidi dei suoi cani, non avevo fatto preparare alcun cibo particolare e, prima di ogni altra cosa, non mi sentivo affatto pronta ad affrontarlo.
“Sifnar?” Chiamai, con una voce così sottile da sembrare quella di una bambina spaventata. Mi schiarii la voce, e cercando di mantenere la calma mi imposi di fare un lungo respiro. “Fai portare altri piatti. E delle brocche di vino.” Chiesi al vecchio servitore, quando lo vidi avvicinarsi con la sua pentola di ghisa al braccio ed il mestolo levato che sgocciolava in terra.
“Vorranno birra ed idromele.” Si intromise Ioreth, che per tutta la durata del pasto era rimasta ai margini della sala, silenziosa e quasi invisibile, pronta ad intervenire nel caso la sua presenza fosse stata necessaria. “Avviserò le cucine di mettere qualcosa sul fuoco.” Decretò con fermezza, allontanandosi rapidamente.
Avevo sperato a lungo di potermi liberare di lei per qualche attimo, eppure quando finalmente accadde mi sentii cogliere dal panico.
Mio marito sarebbe arrivato a minuti, la mia cameriera era scomparsa nelle cucine, Mirala era da qualche parte nel palazzo ed io non sapevo cosa fare.
Cercai di concentrarmi su un compito alla volta, per evitare di mostrare la mia confusione agli ospiti seduti nella Sala del Trono.
Inviai il giovane messaggero a rifocillarsi alla tavola della servitù, mi affrettai attorno alle cameriere che disponevano dei nuovi piatti tentando di indovinare quanti uomini avessero accompagnato il mio sposo, mi rassettai la gonna, allontanai i cani ed ebbi appena il tempo di sollevare lo sguardo che, con mia somma costernazione, vidi le porte in fondo al salone aprirsi per far passare lo Jarl.
I soldati al suo seguito erano molti meno di quello che avevo immaginato, ma né io né le ragazze inviate dalle cucine ci saremmo più azzardate a togliere anche solo una posata dal tavolo, ora che lui era presente.
Mio marito procedeva in testa al suo piccolo drappello, e la forza della sua presenza era tale da farmi apparire l'ampia sala dagli alti soffitti improvvisamente più piccola e soffocante.
Il viaggio via mare aveva indurito i suoi tratti e scurito la sua pelle, al punto che ora le cicatrici sulla guancia spiccavano più evidenti di prima, simili a due pallide tracce della violenza che aveva affrontato in passato. I capelli già biondi si erano invece schiariti ulteriormente, e numerose ciocche avevano assunto un colore paglierino che pareva quasi sfumare nel bianco.
I suoi vestiti erano stazzonati, rigidi per la salsedine, ed il mantello in disordine. Nel notarlo, per un istante mi chiesi come dovessi invece apparirgli io, con le trecce avvolte intorno al capo che non venivano ravviate dall'ora di pranzo e la gonna che recava le tracce della bava dei suoi segugi.
Gli invitati alla sua tavola si alzarono in piedi per rendergli omaggio, e proprio in quel momento Ioreth mi si accostò con un vassoio d'argento tra le braccia, porgendomi una pesante brocca ricolma di idromele ed un largo calice lavorato.
Obbedendo alle usanze in cui ero stata istruita, attesi che si avvicinasse e versai una buona dose della bevanda nel prezioso boccale, porgendoglielo poi con entrambe le mani.
“Bentornato, Marito.” Lo salutai, così come era previsto e come non avevo fatto per il suo ritorno da Winterhold.
Il mio sposo afferrò la coppa, posando le sue mani sulle mie e portandosela alle labbra. Sentii il tocco ruvido dei suoi palmi graffiarmi la pelle, e quando si chinò per prendere i tre sorsi cerimoniali venni investita da un acre puzzo di sudore e salsedine.
“Ti ringrazio, Moglie.” Rispose mio marito con una voce più roca di quanto non ricordassi, forse a causa del freddo e del vento che aveva dovuto patire, e mentre abbassavo le braccia, voltandomi per appoggiare il calice sul vassoio retto da Ioreth, colsi il suo sguardo seguire i miei movimenti e rabbrividii.
Conoscevo quel genere di occhiate, e sapevo cosa avrebbe preteso da me una volta che ci fossimo ritrovati da soli nella nostra stanza. Mentre gli indicavo il suo scranno e gli versavo da bere, cercai di aggrapparmi alla rivelazione ricevuta dalla donna prigioniera, e lentamente sentii l'indignazione che mi aveva colta durante i giorni precedenti tornare a far capolino.
Mio marito parve non accorgersi del modo secco in cui riappoggiai la brocca sul tavolo, e dopo aver preso posto sullo scranno a capotavola con un sospiro esausto levò una mano.
“Seduti.” Ordinò, e tanto i suoi thane quanto i segugi che erano tornati nella sala obbedirono al suo comando, sedendosi all'unisono o prendendo nuovamente posto al tavolo.
Per tutta la durata della cena non disse altro, limitandosi a grugnire di tanto in tanto in risposta alle chiacchiere di Galmar. Dal fondo del tavolo giungevano le risate dei guerrieri che lo avevano accompagnato, e presto la Sala del Trono tornò a risuonare del chiacchiericcio dei commensali.
Strinsi le labbra, cercando di comportarmi con sussiego ed evitando il più possibile di voltarmi nella direzione di mio marito, aggrappandomi alla mia vecchia rabbia e cercando sicurezza nelle mie decisioni ribelli.
Ora che era tornato, era giunto per me il momento di affrontarlo.
Dovevo solo ritrovare il coraggio che mi aveva fatto prendere quella folle decisione.

 

******

 

“Allora?”
Ulfric sollevò lo sguardo, smettendo per un attimo di massaggiarsi le guance barbute con la mano.
“Allora cosa?” Rispose bruscamente verso Galmar, che appoggiato al banco addossato alla parete lo osservava, in attesa.
Al termine della cena, lui ed il suo secondo si erano spostati nella Sala Tattica, seguiti presto da Yrsarald e dal Sovrintendente. Lì lo Jarl aveva preso del tempo per discutere di alcune piccolezze, dando disposizioni sulla ricompensa che spettava ad Asbjorn e agli uomini che avevano costituito la sua scorta, al mercante proprietario della Vigdis, e persino al giovane mozzo che aveva interrotto il proprio lavoro al molo per correre a dare la notizia del suo arrivo.
Jorleif aveva preso mentalmente nota di tutto, sfruttando la sua proverbiale memoria, e con ogni probabilità avrebbe trascritto le sue istruzioni solo al termine della serata.
“Allora, come è andato il tuo incontro con Istlod?” Lo incalzò Galmar, incrociando le braccia al petto e flettendo i muscoli poderosi
“L'Eastmarch pagherà metà della somma richiesta da quel verme di Igmund.” Rispose Ulfric, scoprendo i denti in una smorfia disgustata. “La metà restante sarà saldata dall'Haafingar.”
“Stai scherzando!” Esclamò il vecchio guerriero, aggrottando le folte sopracciglia e sobbalzando per la sorpresa.
“Questo gli farà credere di avere ragione.” Commentò invece Yrsarald nel medesimo istante, scrollando il capo.
Lo Jarl emise un brontolio irritato, e prese tempo affondando il naso in un boccale colmo di birra.
“Istlod mi ha chiesto di saldare un vecchio debito d'onore.” Disse aspramente, rivolto al suo giovane Capitano. “Non potevo negarglielo, anche se avrei preferito farlo. Jorleif, voglio le casse con l'oro del riscatto in viaggio verso il Reach il prima possibile. Non ho intenzione di tirare ancora per le lunghe questa situazione.”
“Come desiderate, Sire.” Il Sovrintendente accennò ad un inchino, mentre Yrsarald annuiva impercettibilmente e si trincerava dietro un cupo silenzio.
“Galmar.” Continuò lo Jarl, voltandosi verso il suo secondo. “C'è qualcosa che devo sapere, prima di ritirarmi?”
Alle sue parole, sulla piccola sala calò un velo di muto imbarazzo, mentre i suoi tre sottoposti si scambiavano occhiate incerte. Nessuno di loro pareva intenzionato a parlare, ed Ulfric trattenne a stento un moto di impazienza. Se proprio doveva perdere tempo, preferiva farlo nel proprio letto in compagnia di quella sua ragazzina altezzosa; ormai il periodo di riposo ordinato dai guaritori era terminato, e lui bramava l'attimo in cui avrebbe potuto abbracciarla nuovamente sotto le coltri del talamo.
“Allora?” Ringhiò irritato, sbattendo il boccale sul ripiano del tavolo. “Parlate. Non ho intenzione di perdere tempo.”
I tre uomini si scambiarono delle occhiate incerte, ed alla fine Jorleif mosse un passo avanti.
“In realtà, Signore, qualcosa ci sarebbe.” Cominciò, togliendosi dal capo il suo berretto rotondo orlato di pelliccia. “Lady Lirael ha sedato la disputa del confine tra Torsten, dei Mare Crudele, e Belyn Hlaalu.”
“Sul serio?” Ulfric inarcò le sopracciglia, stupito. Non pensava che la ragazza potesse rivelarsi utile fino a quel punto. “Come?”
Il Sovrintendente storse le labbra e si lanciò in un breve resoconto a suo beneficio, descrivendogli con un certo tentennamento come la giovane avesse ordinato lo spostamento di uno dei confini più esterni, per adeguare l'area dei due fondi alle descrizioni dei proprietari.
“Ha fatto cosa?” Grugnì lo Jarl, sentendo la soluzione adottata a discapito dei territori dell'Eastmarch, ma prima che potesse esplodere Galmar si staccò dal tavolo al quale era appoggiato, raggiungendolo con una mano levata.
“Oh, coraggio. Non è il momento di discutere della terra, mi pare.” Con un cenno indicò la porta a Jorleif ed Yrsarald, ed i due uomini furono ben felici di allontanarsi in silenzio. “Siamo tutti stanchi, e la ragazza se l'è cavata bene. Hai fatto un buon viaggio?”
“Non vedo come un viaggio fatto per colpa di Igmund possa essere buono. Quanto terreno ha regalato a Torsten?”
“Meno di quanto immagini.”
“Devo vedere i registri. Non posso permettermi di perdere del denaro proprio ora che devo pagare il Reach.” Ribatté Ulfric bruscamente. Preso da un moto di stizza afferrò di nuovo il boccale, ma dopo averci scrutato all'interno lo lasciò cadere di nuovo sul ripiano del tavolo con fare irritato.
“Li vedrai domani.” Lo rassicurò Galmar, parlando in tono pacato. “Sei troppo stanco ed irritabile per pensarci ora. Hai dormito, almeno, su quella barca?”
Lo Jarl fulminò il suo secondo con lo sguardo, e quello scoppiò in una risata roboante.
“Non a sufficienza, a quanto pare.” Ghignò cercando di ricomporsi, e dopo averlo raggiunto gli passò un braccio sulle spalle in modo cameratesco. “Adesso, amico mio, ecco cosa devi fare.” Gli disse in tono confidenziale. “Dimenticati degli affari del regno e vai dalla tua ragazzina. Cerca di essere gentile, falle un complimento... dille qualcosa di carino e cerca di passare un bel momento, se capisci cosa intendo. Ma prima, fatti un bel bagno e regolati la barba.”
“A che scopo?” Sbottò Ulfric, vagamente innervosito da quell'intrusione nella sua vita più privata.
“A che scopo?” Ripeté ridendo il suo vecchio il suo vecchio amico. “Puzzi come un caprone che è stato a mollo nell'acqua di mare, ed hai il coraggio di chiedermelo? Le dame hanno un nasino sensibile, vecchio mio. Inoltre, non vorrai rovinare quel bel musino che si ritrova la tua sposa con quella specie di groviglio di rovi che ti spunta dalle guance.”
“Non ne vedo l'utilità. Io non ho mai baciato mia moglie.” Ribatté Ulfric, cogliendo solo l'ultima parte di quel discorso dai toni irriverenti.
“Ed è un vero peccato. Quella ragazzina ha un gran bisogno di essere baciata, credimi.”
“Ti stai offrendo volontario, per caso?”
“Nemmeno per sogno. Ci tengo ai miei attributi, io.” Ghignò ancora il vecchio guerriero. “Ma non puoi pensare che quella bambina possa girare per il palazzo senza che gli uomini fantastichino un po' su di lei. Quindi...” Concluse, battendogli la mano libera sullo stomaco con fare cameratesco. “... datti da fare. Lavati, va' da lei, e cerca di far attecchire il tuo seme nel suo ventre.”
Ulfric brontolò tra i denti, sciogliendosi dall'abbraccio amichevole del suo secondo.
“So cosa fare, senza bisogno che tu me lo dica.” Replicò scontrosamente, rassettandosi la casacca ed allontanandosi. "Fammi preparare la tinozza.” Gli ingiunse, una volta sulla soglia. “E guai a te se fai altri commenti.”

 

******

 

“... Silenziosa e accorta sia di un capo la schiatta, e audace in battaglia...”
“Spalle dritte, Lirael.”
Ripresa da Mirala interruppi la mia lettura e raddrizzai la schiena, levando il mento. Seduta su un poggiapiedi imbottito, la mia vecchia balia annuì soddisfatta e chinò di nuovo il capo verso il merletto che stava aggiustando, alla calda luce del fuoco.
“... Lieto e sorridente sia ciascun uomo, finché non verrà ucciso...” Ripresi a leggere ad alta voce, in piedi accanto al camino. Il vecchio volume che reggevo tra le mani odorava di polvere, e le pagine di vecchia pergamena ingiallita scricchiolavano ogni volta che venivano voltate. La rilegatura in pelle era divenuta lucida e scura col passare degli anni, ed aveva una strana e piacevole consistenza sotto le dita.
“... L'uomo vile crede che vivrà per sempre, se evita le battaglie...” Continuai, inclinando leggermente il libro verso la luce delle fiamme. Una ciocca mi scivolò sulla spalla e si adagiò sulle pagine, ed io la allontanai gettandomela di nuovo dietro la schiena. “... ma la vecchiaia non porta a lui nessuna pace, anche se gliela portano le armi...”
Un gran trambusto dietro la porta interruppe nuovamente la mia lettura. Sollevai il capo giusto in tempo per vedere l'uscio spalancarsi, e mio marito fare il suo ingresso nella stanza.
Sapevo che aveva richiesto che gli venisse scaldata l'acqua per la tinozza, per cui non mi stupii quando notai che si era cambiato d'abito e che i suoi capelli erano ancora inumiditi.
Il suo sguardo mi scivolò addosso, passando rapidamente in rassegna la mia veste da notte ed i miei capelli sciolti prima di abbassarsi su Mirala.
“Fuori.” Le ordinò seccamente, tenendo aperta la porta. La mia balia si alzò silenziosa, ci rivolse una riverenza e si allontanò tenendo il merletto da riparare sotto il braccio.
Immobile accanto al camino, rimasi a guardare mentre mio marito le chiudeva la porta alle spalle e si voltava ancora verso di me. Non sopportavo di sentirmi il suo sguardo addosso, così tornai a prestare la mia attenzione al vecchio tomo che reggevo e ripresi a seguire silenziosamente le antiche parole vergate su pergamena.
“Quale libro stai leggendo?” Mi domandò, dopo qualche istante.
“I Discorsi del Saggio.” Ribattei, cercando di mantenere un tono neutro. Non si era mai interessato dei miei passatempi, ed il fatto che lo facesse ora non me lo rendeva certo più gradito. Non dopo quello che avevo scoperto.
Sentii il frusciare della sua cappa di pelliccia ed il tintinnio delle spille che gliela fissavano alle spalle, seguiti poco dopo dal tonfo della pelle d'orso che veniva appoggiata su uno dei cassettoni.
“Ti stanno bene i capelli, in quella maniera.” Riprese mio marito, in tono incerto.
Quel commento impacciato ebbe la forza di farmi sollevare sospettosamente gli occhi. Non mi aveva mai fatto complimenti, prima di allora.
“Sono semplicemente sciolti. Li porto sempre così, quando intendo andare a dormire.”
Lo sentii grugnire in risposta, e con la coda dell'occhio lo vidi avanzare lentamente verso il letto.
“Posa il tuo libro. Potrai leggerlo ancora domani.” Mi suggerì, cercando di apparire meno scontroso. “Vieni. È stato un viaggio lungo, e voglio godere della tua compagnia.”
“No.”
La mia risposta lo lasciò interdetto, bloccandolo nell'atto di slacciarsi i calzoni. Anche senza vederlo sapevo che la sua fronte si era aggrottata pericolosamente, e mi costrinsi a fissare le pagine del libro.
“È forse il periodo sbagliato della luna?”
“Quel periodo è giunto e svanito durante la tua assenza.” Replicai, voltando con affettazione una pagina senza averla letta.
“Dunque non vedo il motivo per cui tu debba rifiutarti.” Fece lui, e dal lento respiro che lo sentii esalare capii che stava cominciando ad innervosirsi. “Lascia il tuo libro e raggiungimi. Riesco a vederti tremare anche da qui. Sotto le coperte starai più al caldo.”
“Preferisco restare accanto al fuoco.”
“Moglie, posa quel maledetto libro e fai quello che ti dico. Non amo ripetermi.”
“No.”
Il basso ringhio che giunse dalla sua direzione non aveva nulla di rassicurante, e mi chiesi fino a che punto sarei riuscita a negarmi. Strinsi il libro tra le mani, serrando la mascella. Sentivo la sua rabbia montare, e non mi piaceva affatto.
“Dannatissima donna.” Sbottò mio marito con impazienza. “Vieni qui immediatamente.”
“No.” Ripetei per la terza volta, chiudendo il libro di scatto. “E chiedermelo ancora non sortirà risposte diverse.”
Trovai il coraggio di sollevare lo sguardo, e strinsi con forza il vecchio volume tra le dita quando incrociai i suoi occhi severi, chiari come i cieli ghiacciati delle sue terre.
Era giunto il momento di affrontarlo, e mi sentivo molto meno decisa di quanto avrei voluto. Ma non avevo alcuna intenzione di mostrargli la mia insicurezza, ed allo stesso modo ero ben risoluta a non concedermi, almeno per quella sera.
Rinunciare agli obblighi coniugali era, in fondo, la giusta punizione per un uomo che aveva generato dei figli tenendoli nascosti alla legittima sposa.
“Moglie...” Riprese, in un tono basso e per niente rassicurante, ma io non gli detti il tempo di continuare.
“No! Non intendo giacere con te, questa sera.” Dissi, accorgendomi troppo tardi di aver alzato la voce.
“Che tu sia dannata. Ti ricordo che hai degli obblighi, nei miei confronti!” Tuonò mio marito, esplodendo in un eccesso di collera ed ergendosi in tutta la sua statura.
“Ti sei già preso il mio denaro e le mie terre.” Esclamai indispettita, ormai certa che nulla di quello che avrei potuto dire avrebbe migliorato la situazione. “Che altro pretendi, da me?”
“Mi devi un erede.” Mi ricordò lui. “E che io sia dannato, se non l’avrò.”
Quel commento mi fece andare fuori dai gangheri, e piantandomi i pugni sui fianchi gli lanciai l’occhiata più altezzosa di cui ero capace, levando il mento.
“Perché non legittimi uno dei tuoi bastardi, allora?” Dissi malignamente, cogliendo di sorpresa persino me stessa. “Gli Dei sanno se non ne hai a sufficienza per garantirti la discendenza che desideri.”
Le mie parole lo lasciarono interdetto. Lo vidi gonfiare il petto e serrare le labbra, ma fu solo per un istante, perché tornò subito all'attacco.
“Potrei farlo.” Disse, con una voce pericolosamente calma e profonda che mi fece rabbrividire. “E potrei anche ripudiarti. È questo che vuoi?”
Quella nuova prospettiva mi raggelò.
Se lui mi avesse ripudiata sarei stata rinchiusa a Forte Amol, o in qualunque altra tenuta dell'Eastmarch abbastanza decorosa per una donna del mio lignaggio; laggiù avrei condotto una vita casta e ritirata, in compagnia della vergogna di essere stata giudicata inadeguata al mio compito, mentre il mio sposo avrebbe potuto tranquillamente riprendere moglie ed andare avanti con la sua vita.
Mentre io contemplavo atterrita quella possibilità, mio marito mi raggiunse con due ampie falcate e mi afferrò per un braccio, tirandomi a sé. Emisi un'esclamazione soffocata, ed il libro che stringevo tra le mani mi sfuggì e cadde in terra.
Non gli ero mai stata tanto vicina al di fuori del talamo, e quando si chinò su di me, sfiorando quasi il mio naso con il suo, non nascondo che provai un certo timore. I suoi occhi erano duri e freddi come i ghiacci perenni di Atmora, e mandavano lampi di collera. Pensai che fosse sul punto di colpirmi, e presi un profondo respiro in attesa del colpo.
E poi, senza alcun preavviso, mi baciò.
Mai prima di allora un uomo aveva osato tanto. Nel corso degli anni Mirala aveva vegliato attentamente su di me, facendo attenzione che nessun giovanotto mi si avvicinasse mai a sufficienza, e da quando vivevo con mio marito le sue labbra non mi avevano mai sfiorata.
Ma ora era tutto cambiato.
La sua lingua si insinuò nella mia bocca con violenza, mentre la sua barba mi graffiava il viso; per la foga mi morse un labbro, facendo sbattere i suoi denti contro i miei, e lo sentii stringere la presa sul mio braccio.
Ed improvvisamente come aveva iniziato si staccò da me, restando ad un soffio dal mio viso, lasciandomi senza fiato per la sorpresa.
“Tu non vuoi che io ti ripudi.” Commentò con voce vibrante, scandendo con forza ogni parola, e dopo avermi lanciato un'ultima occhiata di fuoco mi lasciò andare, voltandomi le spalle.
“Sei un animale!” Gli sibilai rabbiosa, stringendo i pugni tra le pieghe delle gonna per trattenere le lacrime che sentivo incombere.
“Meno di quanto credi.” Ribatté amaramente il mio sposo, abbassando il capo.
Lo osservai raccogliere la sua cappa di pelliccia dal cassettone su cui l’aveva lasciata e mettersela sulle spalle, come se si preparasse ad uscire.
“Dove vai?” Gli domandai, irritata. Non aveva alcun diritto di lasciarmi così, come se niente fosse.
“Questi sono affari miei, Moglie.” Disse lui, infastidito. Con gesti misurati raccolse dal ripiano del tavolo le spille di ferro che usava per fermare la cappa, fissandosele nuovamente sulle spalle; si muoveva come se l'intera discussione lo avesse lasciato esausto, ed ogni gesto era accompagnato da uno sbuffo o da un sospiro.
Lo vidi ravviarsi i capelli ancora umidi con le dita, e fu allora che mi colse un terribile dubbio.
“Non starai andando da una di quelle… donnacce da taverna, spero.” Dissi, stringendo le labbra.
Il mio commento gli fece solo sollevare un sopracciglio, rendendomi ancora più furiosa e disgustata. Con quale coraggio avrebbe osato tornare da me, dopo essersi rivolto ad una sgualdrina per soddisfare le proprie voglie?
“Se è quello che intendi fare.” Cominciai, con il tono meno minaccioso . “Non ti permetterò più toccarmi, dopo che avrai posato le mani su una di quelle donne.”
Non so se fu la rabbia nella mia voce, o semplicemente il fatto che, per la prima volta, mettevo il naso nei suoi affari, ma avevo appena finito di pronunciare quelle parole che mio marito si volse verso di me, osservandomi con occhio critico.
“Tu sei gelosa.” Decretò con voce piatta, ed io arrossii.
“Non dire assurdità.” Lo rimbeccai, ma lui scosse la testa, riducendo i suoi occhi chiari in due strette fessure.
“Non di me, ma della tua posizione.” Specificò. Con passo lento tornò ad avvicinarsi, e quando mi afferrò di nuovo per un braccio temetti che avesse ancora intenzione di baciarmi. Ma non lo fece, e si limitò a fissarmi in volto con aria amareggiata.
“Tu hai paura che io possa trovarmi un’altra donna e che ti rinchiuda in qualche torre. Non è così?”
Sì, in parte era proprio così.
Non volevo trascorrere il resto della mia vita segregata in una fortezza, né volevo perdere i privilegi che avevo acquisito con il mio matrimonio.
Ma volevo ancora meno dargli la soddisfazione di aver indovinato le mie paure, così serrai le labbra e ricambiai il suo sguardo, senza dire una parola e pregando che non cercasse di baciarmi di nuovo.
“Sei una tale bambina!” Sospirò mio marito all’improvviso, lasciandomi andare ed avviandosi verso la porta.
“Dove stai andando?” Gli chiesi di nuovo, tornando conscia del calore emanato dal fuoco che mi accarezzava la schiena.
“Dove vado sono affari miei, Moglie. E dal momento che hai deciso di negarmi quel che è mio di diritto, non ho motivo di trattenermi oltre quando ho altro da fare.” Mi rispose lui, degnandomi appena di uno sguardo. Rimase per qualche istante in silenzio, bloccato con una mano sulla maniglia di ferro come se fosse stato colto da un pensiero improvviso, ed infine voltò il capo verso di me, lanciandomi un'occhiata da sopra la spalla. “Non ho intenzione di andare da nessuna donna, se è questo che temi.” Aggiunse, in tono meno burbero.
Non sapevo cosa rispondere, così rimasi ad osservarlo varcare la porta e chiudersi il battente alle spalle. La sua rassicurazione, se questo aveva voluto essere quell'ultima frase, non mi aiutava certo a considerarlo diverso dall'animale di cui indossava le pelli.
Il rumore dei suoi passi rimbombò su ogni singolo gradino della scalina che dalla nostra camera scendeva nel corridoio sottostante, e poco dopo udii tre pesanti colpi risuonare, simili a tuoni, lungo i passaggi di pietra.
Ancora risentita mi strinsi nella mia vestaglia, e con cautela mi avvicinai all’uscio per origliare quanto stava accadendo.
Sentii un cigolio di cardini, a cui si aggiunse poco dopo un gridolino femminile e la roboante voce di Galmar, che rimbombò con chiarezza fino a me.
“Che diamine ci fai in giro a quest’ora?” Tuonò il vecchio guerriero. “Cos'è che non è chiaro, nelle istruzioni che ti ho dato?”
“Smettila di dire idiozie. Vestiti e renditi presentabile.” Gli rispose con irritazione la voce di mio marito. “Ho bisogno di parlarti. Ti aspetto nella Sala Tattica.”
Galmar protestò, ma non avrebbe mai osato disobbedire al suo Jarl; dopo pochi minuti udii difatti i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio di pietra, accompagnati dal tintinnio delle cinghie allentate dei suoi abiti.
Rimasi con l'orecchio premuto contro la porta, fino a che non sentii svanire anche l'ultima eco dei loro passi, e fu solo quando l'intera ala del palazzo piombo nel suo consueto silenzio notturno che mi accorsi di star tremando per il nervosismo.
Scossa, attraversai di nuovo la stanza e raccolsi il libro che mi era caduto di mano. Una pagina si era piegata malamente, e cercai di spianare la piega con le dita.
Avevo perso il punto in cui avevo interrotto la lettura. Sfogliai distrattamente il volume, ma il mio sguardo vagava sulle parole senza riuscire a soffermarsi, ed allora lo chiusi e mi sedetti accanto al fuoco, tenendolo sulle ginocchia.
Sentivo il cuore battermi in petto tanto con tanta forza che vi posai sopra una mano, cercando di riprendere il controllo.
Fu solo molto dopo, quando ero ormai riuscita a calmarmi e mi stavo apprestando ad infilarmi sotto le coperte, che mi resi conto che mio marito era riuscito ad evitare di discutere dei propri figli.
E che non mi aveva chiesto come ne fossi venuta a conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Finalmente sono riuscita a terminare il capitolo.

Rispetto ai precedenti,questo è stato particolarmente complicato. Per prima cosa perché è principalmente un episodio quasi totalmente Ulfric-centrico. Lo Jarl di Windhelm è un personaggio difficile da gestire, ed ho faticato per riuscire ad inserirlo in un contesto per lui snervante senza il conforto di una spalla come Galmar.
Ho poi dovuto dare vita a Torygg, che nel videogioco conosciamo solo grazie alle chiacchiere dei personaggi e ad una sua comparsata a Sovngarde, anche se la prova più dura è stata far vivere Istlod; ho cercato di renderlo un degno Re dei Re, un uomo che Ulfric potesse comunque rispettare nonostante la sua apertura verso l'Impero e la sua tolleranza nei confronti dei Thalmor e del Trattato Oro Bianco.
Ho dovuto inventare infine un nome per il minuscolo regno della famiglia di Lirael; le ho attribuito la proprietà di quello che nel videogioco conosciamo come Forte Amol, che appare circondato da fiumi, e proprio per quei corsi d'acqua ho deciso di chiamarlo Fljotmarch, dove Fljòth indica “fiume” in lingua norrena.
Ho solo accennato ad Elisif, perché le darò più spazio più avanti, ed ho azzardato ad inventarmi persino la defunta madre di Torygg.
Passando a Lirael, i brani letti in questo capitolo sono passi dell'Hàvàmal, che ho voluto inserire poiché trovo sia una composizione adatta all'ambientazione di Skyrim.
 

  
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