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Autore: Lodd Fantasy Factory    19/08/2015    0 recensioni
*Storia interattiva*
Il 2016 è stato un anno difficile per l'umanità: il mondo è stato devastato da un'ultima e cruenta Guerra Mondiale. Gli uomini, però, non sono l'unica causa della cessazione degli scontri, così come della distruzione che ha piegato l'intero pianeta. Sono trascorsi degli anni da quel tragico momento, eppure niente è cambiato: l'umanità lotta per la propria sopravvivenza, contro l'estinzione.
- Scopriamo insieme cosa è accaduto! -
Genere: Azione, Dark, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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LAST HOPE - II - NESSUNA VIA DI FUGA (PDF)
(Clicca sopra per leggere)

 

Caro lettore, benvenuto.

 

Questo è il secondo episodio di “Last Hope”.
L'introduzione ha lo scopo di segnalarti il tuo potere in questa storia. I lettori, quando arrivano a fine capitolo, traggono sempre delle conclusioni – spesso non rispecchiate nelle vicende successive – e s'immaginano cosa potrebbe accadere in seguito. Ora, hai il potere di correggere il corso di questa narrazione, esprimendo il tuo parere (in aggiunta alla recensione) su cosa potrebbe o dovrebbe accadere nel prossimo capitolo. Ovviamente, occorre rimanere legati al filo narrativo degli avvenimenti.

Questa vuole essere una sfida, ed un modo divertente per modificare un'avventura che ha già un percorso prestabilito dall'autore, ma che con il tuo intervento potrebbe subire delle deviazioni interessanti.

Buona lettura.

 

Lodd Fantasy Factory.



 

 

 

- Nessuna via di fuga -

 

 

 

La notte aveva inghiottito ogni cosa, asservendo il mondo sotto il suo impenetrabile manto. Non una stella, o la luna stessa avevano il coraggio di aprirsi un varco fra le dense coltri cariche di pioggia. Neanche i fulmini osavano opporsi all'imperante volontà delle tenebre, mentre i tuoni componevano un sottofondo incalzante, come una marcia di guerra.

Dwayne si muoveva mnemonicamente, sfruttando una delle estremità dell'arco per tastare la via davanti a sé. Conosceva bene il territorio circostante: aveva avuto modo d'ispezionarlo qualche giorno prima, con la truppa d'esplorazione, proprio insieme a Luna. Sfruttava gli alberi, le pareti rocciose ed i campi aperti per determinare – in realtà, ipotizzare – la propria posizione, benché il maltempo rendesse quel lavoro maledettamente difficile.

Poi, sulla sommità di una collina, individuò l'immensa sagoma della rovere che si avvitava su se stessa, inchinandosi verso sud all'impeto degli aridi venti. Quell'albero non fioriva più da anni.

«Lo spaventapasseri...», rifletté in poco più che un sussurro, sovrappensiero.

Era stata Luna ad affibbiargli quel nome, sin dal primo momento in cui l'aveva visto. Scosse il capo, in collera con se stesso.

Lo stava facendo di nuovo: rimuginava sui propri compagni come se fossero già parte dei ricordi, e non come reali persone con le quali condividere il presente, o magari l'incerto futuro. Dentro, si era già rassegnato all'idea di ritrovarsi davanti ad una bolgia di cadaveri, all'ennesimo massacro senza via di fuga.

Uno più, uno meno: che differenza fa?”.

Era divenuto il suo macabro mantra. L'aveva portato a chiudersi in un irritante cinismo, trasformandolo in un uomo scrupoloso, quando si trattava di decidere dalla propria sorte. Troppi erano stati gli amici abbandonati alle spalle, il sangue visto scorrere sotto i suoi occhi, le cocenti volte in cui non era intervenuto, pari almeno a quelle in cui gli era stato impedito di farlo.

Raggiunse l'albero cautamente, con piccoli passi, tendendo gli orecchi a captare il minimo rumore. Tutto appariva lugubremente tranquillo. Una volta guadagnata la vetta, si sporse per guardare di sotto: un ponticello ferroviario ancora intatto, segnalato da una manciata di faretti rossi ad energia solare, collegava due profonde ma minuscole gallerie. Era difficile da sentire, con i tuoni e la pioggia, ma sotto di esso, sul fondo del burrone, doveva scorrere un fiumiciattolo.

Non distinse alcun dettaglio utile, e nemmeno il calore di una luce: se da una parte lo reputò un fattore positivo, in grado di esaltare la capacità di mimetizzazione dei loro, dall'altra poteva significare che l'illuminazione non fosse più necessaria a nessun uomo.

Il rifugio si trovava venti metri sotto l'ingresso del tunnel, raggiungibile unicamente per mezzo di uno stretto e scosceso sentiero. Poteva passare una persona alla volta, una coppia al massimo, in caso di arrampicatori esperti dotati di poco carico.

Sino a qualche giorno prima, lo aveva definito un luogo indubbiamente sicuro, e così ancora gli pareva: si trovava al chiuso, e ciò consentiva di usufruire delle luci, qualora si fossero tappati gli ingressi; ed inoltre al suo interno scorreva un avaro rivolo d'acqua incontaminata che, non avendo apparentemente contatti con l'ambiente esterno, preservava la sua originaria purezza. Con un buon numero di soldati, era un posto semplice da presidiare. Aveva solo due punti di accesso, parecchio distanti l'uno dall'altro.

Ma con pochi uomini ed un pugno di civili, per quanto più semplici da nascondere, quell'improvvisata trincea non appariva più tanto affidabile, bensì un fin troppo facile bersaglio. Se solo il nemico ne avesse captato l'odore, o udito i movimenti, Luna ed i suoi non avrebbero avuto scampo.

«Una trappola per topi...», mormorò Dwayne, strizzando gli occhi. Per quanto si sforzasse, gli era impossibile distinguere qualcosa di concreto, senza avvicinarsi.

Il peso dell'intera giornata, aggravato dall'estenuante marcia forzata, ed il suo stomaco vuoto, si fecero sentire quando ebbe occasione di fermarsi. Represse col dorso della mano un largo sbadiglio, tanto da lacrimare. Era stata una delle decisioni più sciocche che avesse mai preso in vita sua; rispose alle autocritiche appellandosi al suo stesso mantra. Dopotutto, la vita era breve, e la morte poteva effettivamente essere la via più rapida ed efficace per raggiungere al più presto la pace, o perlomeno un luogo più ospitale.

Amava credere che, alla fine di tutto, quando il gelo avrebbe intorpidito i suoi muscoli, spezzato il suo fiato e compromesso la lucidità mentale, si sarebbe ritrovato sulla riva di un immenso oceano di smeraldo, con i piedi a mollo sotto la fresca sabbia bianca. Una birra gelata nella mano, e sigarette a non finire.

Non c'era niente di religioso nella sua banale visione: detestava l'idea che quell'unico, celebre Dio avesse potuto scegliere un modo tanto cruento per porre fine alla vita sul pianeta. Gli piaceva credere che quelle bestie fossero venute fuori da sotto terra, o che si trattasse di qualche stramba razza aliena. Degna delle migliori pellicole cinematografiche. Era più logico, e forse meno drammatico.

Era una magra consolazione.

Poi, un tonfo sordo lo richiamò alla sua putrida realtà. Ne seguì un altro, ed uno ancora. Qualcosa si agitava goffamente alle sue spalle, oltre il grande rovere. Dal suono, pareva che sbattesse contro il tronco del moribondo albero.

Deglutì.

Si volse lentamente.

La mano destra era già corsa ad una delle rudimentali frecce che aveva sul fianco, afferrandola come fosse un pugnale. Era pronto per un silenzioso scontro ravvicinato, così come ad una rapida fuga: se il nemico era già sulle tracce, l'avrebbe perlomeno condotto sulla via errata, sacrificandosi per i suoi compagni.

Lloyd avrebbe avuto tutto il tempo di rimettersi in marcia, e portare il resto del gruppo a destinazione.

Protetto parzialmente dalla pioggia dai robusti rami, Dwayne indagò con lo sguardo fra le tenebre per pochi secondi ancora, rimanendo ad ascoltare l'irregolare picchiettio. Pareva giungere sempre dallo stesso punto.

Avvertì poi degli sbuffi ferini, dei passetti.

Prese coraggio e, con l'arco posto a guardia del corpo, si sporse abbastanza da intravedere cosa si trovasse dall'altra parte: due feroci occhi selvaggi scintillarono per un attimo nell'oscurità, prima che la creatura arretrasse, dando prova di averlo individuato. Fra le fauci stringeva affannatamente uno stivale, che era riuscita a sfilare con poca fatica dal corpo che oscillava contro la base del rovere.

Era un uomo impiccato.

Dal suo penzolante piede nudo gocciolava un rivolo di sangue. L'odore della carcassa era stato coperto da quello della pioggia, benché la creatura fosse riuscita a scovarla ugualmente. Ciò stava a significare che presto anche loro sarebbero stati in grado di avvertirlo.

La belva ringhiò, mostrando i denti per far intendere a Dwayne che si stava ponendo fra lei e la sua preda. Sollevò le lunghe e scure orecchie, rizzò la coda e si acquattò per studiarlo meglio; quindi avanzò minacciosa, prendendo a girargli attorno in cerca del momento propizio per assalirlo.

Entrambi, in realtà, avvertivano una discreta paura: erano consapevoli che nessuno di loro poteva definirsi peggiore di quelle entità che si aggiravano per il mondo, giustiziando qualsiasi cosa avesse vita. Più stavano allo scoperto, fermi a guardarsi, più aumentavano le possibilità di essere individuati e sterminati.

Loro, gli Dei della Decadenza, non dormivano mai: si fermavano unicamente per contare i cadaveri e rinforzare le proprie fila. Sembrava quasi che depennassero i nomi di tutti gli esseri viventi da un'infinita lista. Cosa sarebbe accaduto, qualora non vi fosse più stato nessuno da eliminare? Nel caso in cui ogni essere umano si fosse arreso al tragico destino dell'estinzione?

Dwayne aveva intenzione di scoprirlo a distanza di qualche annetto, quando non sarebbe più stato in grado di sostenere quella ripugnante vita, se vivere poteva essere ancora definito. Solo allora avrebbe gettato la spugna. Non era neanche disposto a lasciarsi portare via il cadavere da sotto il naso; o perlomeno, non prima di averlo ispezionato.

Balzò verso il coyote con le braccia aperte, per apparire più grande, ringhiando a sua volta. Pestò i piedi a terra per infastidire l'animale, agitando gli arti, la testa e l'arco in modo convulso ed innaturale.

Sarebbe indubbiamente parso un idiota agli occhi di un essere umano; ma, per sua fortuna, l'unico presente nelle vicinanze sembrava essere trapassato da qualche ora. La stramba tattica, però, funzionò: la belva arretrò, sino a svanire nell'ombra.

Sarebbe tornata, ed avrebbe avuto ciò che stava cercando.

Certo, se solo ne avesse avuto il tempo, Dwayne avrebbe teso un agguato al coyote, e poi l'avrebbe portato dal resto del gruppo: il cibo scarseggiava, e bisognava accontentarsi di quel poco che il mondo poteva ancora offrire.

Era almeno da due settimane che non mangiava della carne.

Dopo essersi assicurato che attorno non vi fosse nessuno, si accostò all'impiccato. Lo tirò giù facilmente: pesava una cinquantina di chili, nonostante avesse un'altezza media. Riconobbe da subito che non si trattasse di uno dei suoi, poiché era sprovvisto della consueta fascia nera che tenevano legata al polso.

Chi era allora?

La domanda aveva iniziato a tormentarlo, da quando si era reso chiaro che fosse semplicemente un ragazzo. I vestiti erano laceri, luridi di sangue e troppo larghi per la sua corporatura. Il fetore che emanava, che Dwayne avvertì solo quando gli fu a pochi centimetri, sembrava non gli appartenesse, ma che fosse anzitempo sui suoi abiti. Sembrava una tenuta militare.

La morte era sopraggiunta probabilmente per il collo spezzato, ma la natura non lo aveva di certo risparmiato. I corvi si erano cibati di lui, strappando avidamente la carne dalle ossa.

«Un monito...», mormorò facendo scorrere le dita sul corpo del defunto, avvertendo con i polpastrelli il sottile incavo lasciato delle incisioni apposte sul suo petto, proprio nel punto dove la maglia presentava un grosso squarcio.

Non sembrava un semplice sfogo di rabbia, e tanto meno opera degli animali. Senza luce, gli ci volle qualche minuto per comprendere appieno il senso del messaggio lasciato sul cadavere: “Traditori”, recitava.

Un brivido gli corse lungo la schiena.

Frugò in fretta e furia le sue tasche, ritrovandovi solo tre proiettili calibro 22 Magnum. L'ultima volta che ne aveva visti di simili, circa due anni prima, metà della resistenza venne massacrata, e la restante si ritrovò costretta a dividersi, per salvarsi la pelle.

Non c'era la minima traccia dell'arma nei dintorni, dunque Dwayne si infilò le cartucce in un taschino interno del cappotto.

Recuperò l'arco, la freccia e tutte le sue crescenti congetture, e si precipitò giù per la collina. Il suo passo non era più cauto, bensì svelto ed avventato. Scivolò più di una volta, inzuppandosi di acqua e di fango, pur di raggiungere al più presto il sentiero che conduceva all'ingresso.

La strettoia era diventata impervia, ora che le precipitazioni si erano fatte più insistenti sul già precario terreno battuto. Dwayne si aggrappò alla roccia come se stesse attraversando un fiume contro corrente, sinché riuscì a raggiungere la grotta; lì, la pioggia era meno forte, ed il silenzio assordante.

Non sembravano esserci segni di scontro.

Avrebbe voluto gridare il nome di Luna, e rassicurarsi nel sentire la sua voce in risposta; ma sapeva che sarebbe stata una pessima strategia. Aveva già provocato parecchio rumore e, chiunque si fosse trovato dentro al rifugio, si doveva essere già accorto della sua presenza.

Incoccò una freccia, tendendo sofficemente la corda. A tale distanza, la lieve pressione esercitata sarebbe stata sufficiente a perforare il torace di un uomo, pur risparmiandogli la più classica posa da tiro.

Come aveva sospettato, un blando ma pesante groviglio di teli componeva una sorta di porta d'ingresso. Dovette infilarci prima le braccia, quindi fare forza con la spalla per riuscire ad entrare.

Dentro regnava l'oscurità più assoluta.

Il tambureggiare della pioggia all'esterno generava strani echi. In un mondo tanto crudele, la paura del buio poteva dirsi più che giustificata.

Frugò alla cieca sulla sua sinistra, dove trovò esattamente quel che stava cercando: una lanterna.

Sono ancora qui!”, pensò, riuscendo ad accendere l'arnese: l'energia solare doveva aver ricaricato le batterie. La sollevò alta per esaminare meglio la grotta. Sgranò gli occhi.

In una pozza di sangue, giacevano almeno dieci individui, tutti rigorosamente in tenuta mimetica. I loro abiti erano crivellati di fori di proiettile, ed alcuni presentavano profonde escoriazioni o mutilazioni causate dal taglio di un'arma bianca. I pezzi di carne parevano quasi galleggiare in quel liquido grumoso. Avrebbe voluto gettarsi subito sui corpi ma, dopo aver constatato che non si trattasse dei suoi, passò oltre. L'acqua era stata contaminata dal sangue.

Ritrovò buona parte dei membri della squadra di Luna parecchi metri più avanti, accasciati contro le pareti rocciose, abbattuti singolarmente o a coppie, collegati per mezzo di una scia di sangue che proseguiva sin verso il fondo della galleria, rendendo evidente che qualcuno fosse stato trascinato. Erano morti in seguito ad uno scontro corpo a corpo, segno che le munizioni si fossero esaurite nel bel mezzo del fuoco incrociato. La sparatoria era cessata una manciata di ore prima del suo arrivo.

I passi di Dwayne rimbombarono nel silenzio, mentre la lanterna gli mostrava la via, sino a rivelargli l'accesso posteriore.

«Luna!», chiamò a gran voce, più volte.

Non giunse risposta.

I teli, però, vennero scossi all'improvviso; ma, prima che chiunque vi fosse dietro si rendesse visibile, Dwayne menò l'arco all'altezza della testa, tramortendolo. Tirandosi dietro la copertura, collassò ai suoi piedi un tizio di media statura, con indosso un'orribile maschera caprina. Gli abiti militari misero subito in chiaro a quale fazione appartenesse. Un grosso machete insanguinato rotolò sino agli stivali fangosi del sopravvissuto.

«Che disdetta...», disse una voce rauca alle sue spalle.

Dwayne non fece in tempo a voltarsi, che avvertì un forte dolore alla testa e, sbandando, non poté far altro che lasciarsi cadere. Qualcuno stava entrando dal foro nella roccia.

«Sembra che tu sia rimasto da solo...», lo stuzzicò, divertito.

La vista gli si annebbiò, e ciò gli impedì d'identificare colui che aveva preso parola, benché la lanterna lo illuminasse distintamente. Riuscì a scorgere solo un lungo cappotto di pelle, dei larghi anfibi, ed una sagoma indefinita. Presto, mise a fuoco un mucchio di altri stivali insanguinati, ed udì i loro passi alle sue spalle, e tutto attorno.

Poi, gli pizzicò il naso un odore che non avrebbe mai dimenticato: era la più nauseante acqua di colonia al mondo; eppure, l'unica capace di far passare inosservato un uomo ai sensi degli Dei della Decadenza. Conosceva solo una persona che sapeva distillarla; e da quel che sapeva, doveva essere bella che morta da due annetti buoni, in quello stesso maledetto giorno in cui Dwayne aveva perso parecchi amici.

«Dragomir...? Gran figlio di puttana...», mugolò a denti stretti prima di svenire.

«Anche per me è un piacere rivederti, Dwayne...»

 

 

 

 

Continua...


Ringrazio l'utente:
Koishan Sakural
Il suo commento ha deviato il corso della narrazione!


 

 
   
 
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