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Autore: SweetNemy    23/08/2015    1 recensioni
Cambiare, all'improvviso, continente, nazione, scuola, amici, tutto non dev'essere facile, ma si trova sempre qualcuno che incuriosisce e che ci fa dimenticare, anche solo per un secondo, di essere completamente soli in una città sconosciuta.
Così è cominciata l'avventura di Iris, una ragazza rivoluzionaria e intraprendente... :3
Genere: Commedia, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico
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CAPITOLO 3. LA FAMIGLIA STARLIGHT

-Beh, direi che abbiamo finito. – disse Arsène colorando l’ultima vignetta. Aveva davvero una bella mano, un controllo delle dita pazzesco, quasi lo invidiavo. –Iris...? – mi chiamò mentre stavo pensando a tutt’altro.
Scossi la testa e la alzai proiettando lo sguardo nel suo, nei suoi occhi tanto chiari quanto ignoti. –Dicevi? – in realtà furono le uniche parole che decisero di uscire.
-Direi che abbiamo finito. – ripeté il ragazzo, appagando la mia sbadataggine, se così poteva essere definita.
-Sì. – risposi con un’espressione da perfetta idiota. – Cosa si fa adesso? –
-Proporrei di accompagnarti a casa, si sta facendo tardi. – mi disse con finta premura. Sì, l’ho capito subito, mi nascondeva qualcosa. –Non fraintendere ma... non vorrei che girassi da sola per i vicoli bui di questo quartiere. -
-Non preoccuparti, la mia casa non dista molto da qui. Vado a piedi. – in realtà non avevo alcuna intenzione di andare a casa, volevo scoprire cosa mi nascondesse.
-Non sono un gentiluomo, ma non lascerei mai una ragazza camminare per strade scarsamente popolate a quest’ora. –
A un certo punto dovetti accettare, insisteva proprio tanto. –D’accordo. Se proprio insisti. –
Tirò un sospiro di sollievo, non di certo perché sarei arrivata a casa sana e salva. Ah, caro biondino, cosa mi nasconderai di tanto grave?
Per tutto il tragitto non dicemmo una parola, lui probabilmente per non tradirsi e io perché sapevo benissimo che qualsiasi riposta sarebbe stata una bugia.
Giungemmo a casa mia dopo circa dieci minuti, pensavo ci volesse di più ma Arsène conosceva bene le scorciatoie di quel quartiere di Arnavant e cercò di prendere la strada più breve.
-Beh, dovrebbe essere questa casa tua. – mi disse collegando l’indirizzo che gli avevo dato a quello che aveva davanti agli occhi.
-Sì, grazie mille. – lo salutai con un cenno della mano. –Passa buona serata. –
-Anche tu, ciao. – perché hai urlato così tanto, dannazione!
Questo ragazzino sembra stupido, ma ci sa fare! Non avevo alcuna intenzione di tornare a casa, avrei aspettato che girasse l’angolo per seguirlo e scoprire finalmente cosa nascondesse. Tuttavia, urlando, mio padre è riuscito a udire la sua voce e si è affacciato dalla finestra vedendomi nel cortile della mia nuova casa e ... addio pedinamento.
Volevo fare qualcosa di adrenalinico ma mi tocca rimandare, se non è oggi sarà domani.
-Iris? – mi chiamò mio padre distraendomi dai miei piani alquanto folli. –Vuoi entrare? –
Gli sorrisi e mi diressi verso la porta.
Entrai in casa e posai subito la cartella sulla prima sedia che trovai, mi diressi verso camera mia e di mio fratello e posai il cartellone.
Girai lo sguardo e lo vidi steso sul letto con le cuffie alle orecchie –Ciao, Lewis. – lo salutai, certa che però non avrei ricevuto risposta. Neanche mi degnò di uno sguardo.
Lewis era mio fratello gemello: gemello eterozigote eppure eravamo identici in tutto e per tutto, prima che succedesse l’incidente era il mio migliore amico.
Ogni oggetto che fissavo l’avevo condiviso con lui, a cominciare dalla playstation: mi batteva spesso, anzi, quasi sempre eppure mi divertivo un mondo a giocare con lui. Avevamo un rapporto invidiabile.
Di solito non ero una che si autocommiserava ma non potevo nascondere la malinconia che mi stringeva il cuore al ricordare quei momenti.
-Iris? Sei tornata? – la voce di mia madre mi fece tornare alla realtà.
-Sì, mamma. Da qualche minuto. –
-Quante volte ti ho detto di non lasciare la borsa sulle sedie in cucina? – aveva sempre da rimproverarmi e seppur avessi fatto tutto giusto avrebbe sempre trovato qualcosa che non le andasse. –Portala in camera tua e aiutami a preparare la cena. –
E se non le avessi obbedito, non oso immaginare cosa mi avrebbe fatto. Sospirai e le obbedii anche se non ne avevo alcuna voglia.
-Gentile quel ragazzino, a riaccompagnarti a casa. – spuntò dal nulla mio padre mentre portavo la tracolla in camera mia.
Gli sorrisi e accennai solo un –Già. – dirigendomi verso la porta interessata.
-Cos’è questa storia? – chiese mia madre.
-Il compagno di classe da cui è andata oggi, l’ha riaccompagnata fin sotto casa. Molto premuroso visto che neanche la conosce. –
-E tu le hai dato il permesso di andare a casa di uno sconosciuto? E se l’avesse violentata? Sei uno sconsiderato! – proferì mia madre arrabbiata.
-Ti ricordo che ha alle spalle ben cinque anni di arti marziali. Sa cavarsela da sola. –
-Scusa ma dopo un figlio che mi è diventato rimbambito non voglio proprio una figlia che mi diventi incinta. –
-Ha subito un trauma, dannazione. – cercò di controllare il tono di voce mio padre ma riuscivo a sentire comunque e rimanevo in stanza guardando mio fratello aggrottare le sopracciglia e sperando che quell’mp3 fosse acceso.
Presi un respiro e andai in cucina –E non lo supererà mai se continuerete a comportarvi come due bambini. La smettete di litigare? - ritornai poi in camera e chiusi la porta avvicinandomi a mio fratello.
Gli tolsi le cuffie e cominciai a parlare –Ti avrò fatto questa domanda almeno cento volte, ma non mi hai mai risposto. Ad essere sinceri non hai risposto a nessun’altra domanda. Dimmi, cos’è successo quella notte? – mi fissò con i suoi occhi scuri, uguali ai miei. Il suo sguardo supplicava di non parlarne, ma di parole non ne disse.
Guardai la libreria di ciliegio di fronte a me e vidi appoggiato alla base destra dell’oggetto una lavagnetta metallica, una di quelle che usano il meccanismo a calamita. La presi e scrissi sopra un semplice “COME STAI?”, poi la porsi a mio fratello. Cancellò quello che c’era scritto subito dopo averlo letto trascinando verso sinistra la levetta sulla lavagna. Poi prese la penna e iniziò a scrivere.
“MORTO.”, scrisse. Il cuore mi si strinse in una morsa. Era il suo modo di rispondere quando qualcosa non andava, era un ragazzo di poche parole. Anche se adesso erano decisamente troppo poche.
Gli accarezzai la fronte sforzando gli angoli della bocca in su per fingere un sorriso, avevo il viso terribilmente teso, stavo cercando di trattenere le lacrime.
Chiuse gli occhi girando leggermente la testa verso di me, poi li riaprì e mi fissò, aprì la bocca ma quel che ne uscì fu solo aria, respiri deboli.
Forse davvero non riusciva più a parlare ma in realtà avrebbe voluto.
-Ho capito. – lo rassicurai, anche se in realtà non avevo capito nulla.
Dopo, quella parola sulla lavagnetta “MORTO”, mi si presenta ancora davanti agli occhi e la associo al sangue: mi si chiuse lo stomaco.
Annunciai di non avere più fame e andai a letto, sperando di addormentarmi presto, ma ogni volta che si spera di anticipare la fase REM, ci si ritrova imbattuti in diecimila pensieri impossibili da concepire di giorno che ti portano a non addormentarti affatto.
O, nel mio caso, ad addormentarsi alle quattro del mattino e a fare quindi solo tre ore di sonno.
La sveglia suonò come preimpostata sempre allo stesso orario, ma avevo talmente tanto sonno che richiusi gli occhi come se non avesse mai suonato. Fu lì che, con un urlo dalla cucina sobbalzai quasi cadendo giù dal letto: la delicatezza di mia madre! Pover uomo mio padre...
Fortuna che avrei dovuto mettere la tuta visto che avevamo educazione fisica quel giorno e non persi tempo a scegliere i vestiti: probabilmente sarei stata l’unica ragazza a venire direttamente in tuta ma era l’unica possibilità visto che ero decisamente in ritardo!
Mi preparai in fretta e furia con l’idea che mio padre sarebbe stato fuori ad aspettarmi per darmi un passaggio, mia unica salvezza: tuttavia mia madre mi riferì che quella mattina aveva un colloquio di lavoro e che sarei dovuta andare a scuola a piedi da sola.
CAZZO! L’unica parola che mi passava per la mente. Inoltre, tanto perché le cose non vengono mai da sole: c’era un cielo grigio che non prometteva nulla di buono! Presi la cartella e l’ombrello e mi incamminai, fortuna che ricordavo la scorciatoia che mi aveva mostrato Arsène, in questo modo in dieci minuti dovrei essere a scuola; peccato che la campanella fosse suonata dieci minuti fa!
Corsi a perdifiato ma arrivai a scuola alle 8.15, con un quarto d’ora di ritardo, per fortuna non aveva piovuto ed ero, almeno, asciutta.
Mi avvicinai alla porta della classe intenta ad aprirla, ma una voce acuta e stridula mi fermò.
  
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