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Autore: hiromi_chan    25/08/2015    12 recensioni
René, diciotto anni, ironico e distaccato, arranca in mezzo ai suoi problemi evitandoli abilmente.
Sarà proprio tra le mura della stessa scuola che lo fa sentire sempre inadatto che sboccerà il primo amore: un sentimento tenero e innocente, confusionario e doloroso come i migliori primi amori.
Dahlia, giovane professoressa luminosa ed entusiasta, sarà la guida che accompagnerà René alla scoperta di se stesso.
Così la vidi per la prima volta.
Dahlia.
“Signorina Raltique” lo divenne solo a partire dal settembre seguente. Durante quei due ultimi mesi estivi, per me fu solo Dahlia. In verità, anche nel corso del mio ultimo anno di liceo fu semplicemente Dahlia. E ancor adesso, ogni volta che penso a lei, è sempre Dahlia.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Chloe R Pendragon e Amahy P

che con il loro contest “V'è un piacere nello... scrivere” mi hanno dato il coraggio di tirare fuori dalla mia testa questi personaggi che mi chiamavano da troppo tempo... e che mi hanno dato anche qualche idea in più per dare forma alla storia grazie ai loro splendidi pacchetti.

 




 

 


Note:

-Age difference e teacher/student relationship. Non succede nulla di esplicito, e in ogni caso il protagonista è maggiorenne.

-La storia è ambientata a Parigi, ma nel testo sono presenti vie e luoghi di mia invenzione, come il liceo Saint Marguerite.

-Nei licei francesi i corsi di studio durano tre anni. L'ultimo anno si frequenta a diciassette/diciotto anni. La storia inizia con René, il protagonista, già bocciato una volta e in procinto di frequentare l'ultimo anno di liceo. Il ragazzo ha dunque diciotto anni e ne compie diciannove durante la vicenda.

-Nei licei francesi sono previsti diversi indirizzi o sezioni: Liceo Sezione S (matematica e scienze), sezione ES (matematica economia), sezione L (classico, letteratura).

-Non ho idea se davvero anche in Francia gli studenti frequentino corsi di riparazione estivi con esame di riparazione annesso come da noi. Purtroppo non ho trovato nulla in proposito, ma mi prendo questa libertà come esigenza di trama. In fondo, René frequenta un istituto privato, quindi può anche essere che organizzino corsi di recupero, con tutto quello che si paga per le rate (lol).

-L'incipit è un vago riferimento a un passaggio del racconto “Primo amore” di Ivan S. Turgenev (“Avevo allora sedici anni. La faccenda accadde durante l'estate del 1883.”). Anche lì un ragazzo si innamora per la prima volta di una ragazza più grande di lui.

-L'età di Dahlia è volutamente non specificata, ma mi piace pensare che abbia sei o sette anni più di René. Lascio al lettore l'interpretazione che preferisce.

 



 

 

Controcorrente

Capitolo 1: All comes down to you
 


 

But why do I feel so old?

'Cause I'm still so young

Kodaline – All comes down

 

 



 

Era l'estate dei miei diciotto anni.

La gente non aveva molti soldi e si muoveva inquieta nel mondo che andava a rotoli. Tra tutti, un padre, il mio, non ci degnava di una telefonata da tre mesi, e una madre, la mia, veniva riaccompagnata a casa alle quattro del mattino da un certo Chuchù. Mai capito come facesse a chiamarsi Chuchù un tizio formato armadio con i peli che gli uscivano dallo scollo a V della maglia.

In ogni caso, di ciò non c'è da stupirsi, perché le cose sono sempre state così e sempre lo saranno. L'umanità ha la capacità di trovare il modo per andare avanti nonostante tutto, ed era proprio quello che facevo anche io.

A quel tempo frequentavo svogliatamente la sezione L del liceo privato Saint Marguerite. Avevo evitato la mia seconda bocciatura cavandomela con una sola materia da recuperare: latino, il mio più grande supplizio già dal primo anno.

Non era l'idea di frequentare il corso di riparazione in sé a farmi venire voglia di rifugiarmi fino a settembre nella nostra casa al mare senza dirlo a nessuno; credetemi, starsene chiusi in un'aula del Saint Marguerite a luglio non è molto incoraggiante. Il sole scioglie le pareti di gesso dell'edificio come burro e nessuno si cura dei poveretti costretti a studiare lì quando gli altri se ne stanno con il sedere in ammollo o a fare le parole crociate in spiaggia.

C'è anche da dire che la presenza del professor Blanchette, l'uomo più antipatico sulla faccia della Terra, non aiutava affatto. Aveva quell'orribile verruca, Blanchette, posizionata strategicamente al lato della bocca, che distraeva chiunque tentasse anche solo di stare a sentire le sue sbrodolanti tirate su chissà quale grande anima del mondo latino. Avevo dovuto sorbirmelo tutto l'anno e ora il mio destino dipendeva proprio da lui – lui, che l'ultimo giorno di scuola avevo incrociato in corridoio e avevo sentito mormorare alla mia volta un “dannato piccolo demonio”. Può darsi c'entrasse il fatto che gli avevo suggerito caldamente di mettere una buona parola in consiglio affinché non mi bocciassero, facendogli presente che Lenore, la sua giovane amante, mandava tanti saluti.

Non che venire promosso mi importasse più di tanto. No, non avrebbe fatto alcuna differenza per me.

Mia madre però ci teneva.

Mia madre. La mattina che iniziò la storia che sto per raccontarvi, aprii con attenzione la porta della sua stanza senza sapere se l'avrei trovata dentro. La vidi distesa a pancia in giù sul letto, scoperta e nuda. I suoi capelli erano una massa informe biondo paglierino e sul cuscino era ben visibile una grossa sbavatura del rossetto che non si era tolta.

La coprii, appuntando con cura il lenzuolo al materasso.

Lei gorgogliò qualcosa di indistinto e le accarezzai la nuca.

«René» mormorò con voce impastata, aprendo gli occhi appiccicati dal trucco solo per assottigliarli alla mia volta. «Non guardarmi così. Mi fai sentire giudicata.»

«Non ti sto giudicando» dissi.

Poi uscii e, mentre socchiudevo la porta, la sentii brontolare qualcosa di simile a “oddio, la mia testa... Tesoro, prima di andare preparami la colazione”.

Tornai silenziosamente in camera mia, buttando uno sguardo allo zaino che giaceva sul pavimento come un animale sventrato, un quaderno rosso che ne usciva fuori quasi fosse stato la sua lingua.

Quella mattina sarebbe iniziato il corso di recupero.

Mi misi le cuffie alle orecchie, gettai via il quaderno e infilai la mia vecchia Nikon nello zaino. In cucina preparai un paio di toast bruciacchiati, uno per me e uno per mia madre, e uscii.

 

*

 

Vivevamo in un appartamento nel quartiere Marais, a un passo da rues de Rosiers. Ebrei con volti incorniciati da barbe grigie e signore con chihuahua in borsetta si mischiavano ai gay che il sabato sera cantavano nel locale lgbt di fronte al nostro palazzo.

Ma Parigi a quell'ora di una mattinata estiva era qualcosa di diverso, decisamente più sobrio e meno esaltante: era la calca pigra della gente che andava a lavorare; era l'insieme delle facce istupidite e smarrite dei turisti; era l'odore dei croissant che usciva dalle vetrate dei bar e ti si insinuava nelle narici; era il sole cocente sulle cosce scoperte delle donne.

Era questo ed era mia e, allo stesso tempo, non lo era affatto.

Anziché prendere la scorciatoia a destra che mi avrebbe portato alla fermata dell'autobus per il Saint Marguerite, svoltai dalla parte opposta, imboccando rue Ivanoe.

Le gambe percorrevano il marciapiede per conto loro, memori di tutte le volte in cui avevo saltato la scuola e avevo camminato su quella stessa strada, su e giù, senza meta.

Freddie mi cantava nelle orecchie “I want to break free”. Per un attimo chiusi gli occhi; fu come galleggiare. Uno, due, tre, dieci, quindici passi. Qualcuno sbottava («Diamine, ragazzo, guarda dove vai!»), qualcosa sbatteva contro la mia spalla, ma la voce di Freddie volava alta e tutto andava bene.

Venti passi. Sollevai le palpebre, scorgendo in lontananza la facciata del piccolo museo di arte contemporanea della Rochelle. Anche da lì si vedeva lo striscione che annunciava la mostra fotografica di Steve McCurry.

Continuai a camminare finché non raggiunsi l'ingresso; poggiai la mano sulla porta di vetro e allora sgranai gli occhi: un viso lungo dall'aria impassibile su cui spiccavano due lievi occhiaie, capelli castani e cuffie alle orecchie... Ero io.

Non vi è mai successo di scorgere il vostro riflesso per caso, proprio quando non ve lo aspettate? Non è qualcosa di incredibilmente straniante? C'era questo ragazzo davanti a me, e chiaramente ero io, ma ricordo di essere rimasto lì a fissarlo per qualche secondo, chiedendomi: «Come?»

Il mio riflesso si confuse con la forma sbiadita di una donna tarchiata con i capelli legati in una crocchia, e quando aprì la porta spingendo dalla parte opposta alla mia, mi risvegliai dal mio torpore e sgattaiolai dentro al museo.

Superata a testa bassa la signora che borbottava qualcosa a proposito della dilagante maleducazione giovanile, tirai fuori dieci euro dalla tasca. Schiaffai la banconota sopra la superficie di legno della reception. Dietro di essa stava una ragazza con la bocca larga come quella di una rana e l'aria di chi è abituato a spiegare in automatico come funzionano le cose lì.

La bloccai con un cenno quando la vidi prendere aria per iniziare a parlare.

«Lo so già» la informai, «e metta pure via l'audioguida, grazie. Non ne ho bisogno.»

Svoltai a sinistra verso le scalette, e gradino dopo gradino mi sentivo un po' meglio. A mano a mano che la luce si offuscava, la mia testa si alleggeriva. L'ultimo passo mi condusse nel luogo del sogno.

Il piano inferiore del museo si snodava in una serie di lunghi corridoi che sfociavano in sale più o meno ampie; le conoscevo bene, avrei potuto recitare a memoria la disposizione delle fotografie appese sulle tele di stoffa bianca. Eppure, il fiato mi si mozzava sempre quando ero lì, e tutt'ora non mi viene in mente un luogo in cui io mi sia sentito più a mio agio in vita mia.

Forse c'era qualcosa nell'atmosfera, qualcosa nella maniera elegante e pensosa in cui i pochi presenti (sicuramente tutti turisti) si portavano, spostandosi di ritratto in ritratto. Eravamo viaggiatori, lì, e il pavimento oscuro e le tele bianche e le facce sconosciute eppure familiari, tutte uguali, erano il nostro limbo. Uno spicchio di tempo e di spazio in cui ero lieto di perdermi e di muovermi.

Mi aggiustai le cuffiette alle orecchie, perché un viaggiatore deve avere sempre in sottofondo una colonna sonora che si rispetti, e mi avviai lentamente, scrutando le fotografie.

Superai la foto della bambina seria con il viso rotondo e una macchia rossa al centro della fronte, poi i monaci buddisti avvolti negli abiti arancioni e ocra, infine lo stormo di aironi che si alzava in volo nel cielo screziato di giallo.

Pensai di continuare in quella direzione, ma all'ultimo secondo cambiai idea; scartando un paio di giapponesi, mi infilai tra la combriccola che occupava una saletta laterale.

Così la vidi per la prima volta.

Dahlia.

“Signorina Raltique” lo divenne solo a partire dal settembre seguente. Durante quei due ultimi mesi estivi, per me fu solo Dahlia. In verità, anche nel corso del mio ultimo anno di liceo fu semplicemente Dahlia. E ancor adesso, ogni volta che penso a lei, è sempre Dahlia.

Catturò la mia attenzione per lo stesso misterioso motivo per cui ci salta all'occhio un singolo dettaglio in mezzo a una folla – qualcosa che non puoi capire ma che ti accompagnerà per sempre, qualcosa di dolce che potrebbe essere insignificante e invece ti fa sentire un piccolo dolore nello sterno.

Credo sia stata quella sua espressione un po' vaga che in futuro avrei amato tanto, ma che in quel momento trovai solo bizzarra: le labbra in un broncio da far invidia a un lattante, le sopracciglia corrugate da un pensiero che occupava tutta la sua mente, tutta la sua essenza.

A cosa starà pensando?

Presi atto con una lunga occhiata della sua forma, piccola e morbida. Mi fissai come un'idiota sulle scarpe azzurre con la zeppa alta, rimuginando su quanto senza sarebbe stata bassina.

D'istinto, mi avvicinai.

Trovai curioso che tra tutte le foto ne stesse guardando proprio una niente affatto appariscente. A pochi passi di distanza c'erano primi piani di indù con le teste fasciate in cappelli fiammeggianti su sfondi blu pervinca, meravigliose città nel deserto color paglia, fuochi accesi sui tetti di case rustiche di fango e mattoni. C'era tanta vita. Ma no, lei guardava la foto di un vecchio coi capelli bianchi, immerso in una vestaglia bianca davanti a una parete bianca. Gli occhi del vecchio erano acquosi, assenti, quasi fosse stato cieco. L'unica nota di colore era la sua pelle incartapecorita.

Era la foto che mi piaceva di meno dell'intera mostra, quella che avevo sempre liquidato con una certa sufficienza.

«Quale sarà la sua storia?» mormorò lei.

Prima di rendermene conto, borbottai tra me una risposta: «Qualcosa di non particolarmente interessante.»

Mi sentì.

Si girò dalla mia parte, piano, le labbra appena schiuse a scoprire la fila di denti superiori. Me ne accorsi con la coda dell'occhio, iniziai a girarmi e poi mi bloccai e infine la guardai ancora sbattendo le palpebre, sorpreso – perché mi aveva sentito.

«Tutti abbiamo una storia interessante da raccontare» disse.

Un braccio di distanza tra noi, i busti davanti alla foto, i colli piegati l'uno verso l'altra.

Lei stringeva nella destra la fibbia della sua borsa a tracolla, una borsa marrone di cuoio. (Ho sempre avuto la tendenza a fissarmi sui dettagli, ma con lei succedeva molto più spesso del normale.)

«Ah, sì?» dissi. «E quello? Anche quello ha una storia interessante?» Indicai col mento la foto di un uomo dalla faccia quadrata. Avevi i capelli nascosti da un turbante. Sulla pelle scura spiccavano due magnetici occhi marroni, grandi come mandorle.

Lei sorrise. Gli angoli delle labbra si arricciarono verso l'alto, la pelle si tese in due fossette, e ora vedevo che la bocca era colorata da una sfumatura di rosa opaco – dio, che sorriso.

«Quello è un principe indiano delle favole» disse con semplicità.

Alzai un sopracciglio, per niente convinto della sua supposizione. Pensai che mi stesse prendendo in giro perché continuava a guardarmi con quell'espressione sicura e tranquilla, e le donne più grandi a volte provano piacere a prendersi gioco dei ragazzi più giovani, si sa – oh, sì, aveva l'aria di essere un po' più grande di me.

Ma poi proseguì, indicando la fotografia a lato di una donna con una cesta sulla testa e le orecchie deformate da due giganteschi orecchini. «Quella è una sacerdotessa azteca di ritorno dalle sue preghiere al tempio. Lo si vede dal portamento, dai!» esclamò, e mi diede un buffetto con la punta delle dita sulla spalla.

Strabuzzai gli occhi, ma lei parve non accorgersene.

«E quel bambino, poverino...» disse con rammarico alla volta della foto di un bimbo nudo con lo sguardo in tempesta. «Quante ne ha viste. Ha l'orrore della guerra tatuato addosso.»

«Ma quello, allora?» Stetti al gioco e tornai a indicare il nostro amico vecchietto.

Ci pensò un po' su, socchiudendo le palpebre e spingendo fuori il labbro.

Sorrisi, piegando la testa senza accorgermene per poterla guardare meglio.

«Senso di vuoto» disse dopo un po'. La sua voce era adombrata da qualcosa che non capivo. «E rimorso. Probabilmente si sente un fallito. Vorrei sapere perché.»

Mi infilai le mani in tasca. «Non servono tanti perché per sentirsi falliti» commentai.

«Ma serve chiedersi perché, quando non c'è motivo per sentirsi falliti» replicò subito.

La sua risposta pronta mi stupì e di colpo percepii la stranezza della conversazione. La sensazione surreale di parlare di qualcosa del genere con una sconosciuta mi fece aggrottare le sopracciglia; arretrai di mezzo passo.

Lei dovette aver interpretato la mia reazione come semplice confusione, perché si adoperò subito per spiegarsi meglio, muovendo le mani in aria. «Voglio dire, guardalo, è ovvio! Il fotografo ha colto il suo malessere ma anche tutta la sua forza. Guarda i suoi occhi: sono lucidi, eppure così duri. Come si fa ad avere tanta forza anche quando si affoga nella debolezza? Dev'essere un uomo molto singolare.»

Ma io non guardavo il vecchio.

Lei era così... luminosa. Avvolta nelle luci scure e soffuse del museo, con le ombre che scavavano il viso ovale, sembrava far parte lei stessa della mostra. Una fotografia vivente.

«Sei così convinta che tutti abbiamo una storia interessante» mormorai sovrappensiero, studiando i suoi lineamenti. In quel momento mi sarebbe piaciuto poterla fotografare, lei e il suo viso ovale e la borsa di pelle e le scarpe azzurre.

«Non stai ascoltando la tua audioguida» disse, indicandosi le orecchie.

Ricordai in quel momento di avere ancora le cuffiette e le toccai distrattamente. Annuii.

«Lo vedi che tutti hanno una storia interessante?» disse sorridendo con aria di vittoria, come se quello confermasse le sue teorie. «Un ragazzo a una mostra con le cuffie alle orecchie che ascolta della musica invece che l'audioguida. È interessante. Molto.»

Quello che avrei voluto dire era: “Mi sono informato bene prima di venire alla mostra. Ho fatto tante ricerche, sono consapevole di cosa sto ammirando e sono venuto qui talmente tante volte che conosco il posto meglio del custode. Mi piace molto di più avere la voce di Freddie Mercury che mi gorgheggia nelle orecchie piuttosto che quella metallica di una guida. Mi accompagna passo dopo passo e mi fa pensare”. Invece dissi solo, stringendomi nelle spalle:

«Mi piace così.»

«Molto interessante» ripeté assorta. Poi si voltò e andò avanti.

Visto che avrei solo potuto proseguire anche io o tornare indietro, la seguii.

Camminava piano; i passi la metà dei miei e pensai che fosse perché aveva le gambe corte. Mi accorsi che la svettavo di tutta la testa e questo parve bastarmi per sbuffare un sorriso.

Lei si voltò di scatto e credetti che mi avrebbe detto di sparire, che l'avevo turbata o qualcosa del genere. «Quelli invece sono apprendisti monaci» disse, indicando l'immagine di un gruppo di ragazzini con la testa rasata e i sorrisi sdentati. «Voglio informarmi meglio sulle religioni e i culti orientali, mi sento un po' ignorante in proposito e la cosa non mi piace. Dev'essere una materia interessantissima da approfondire. Non che ci tenga a stare al posto di quei bambini, eh. Ma non si può mai sapere, non è detto che la loro vita di studio e preghiera non sia in realtà più felice della mia. Penso che...»

Non riuscivo a smettere di sorridere; mi sentivo vagamente idiota e allo stesso tempo non ce la facevo a controllarmi. Ascoltai i commenti che aveva da fare a proposito di questo o quello scatto, trovandoli il più delle volte sconclusionati e un po' ridicoli, altre volte sorprendentemente illuminanti. Di tanto in tanto lei si voltava, un sorriso a trentadue denti che non sapevo come interpretare se non attribuendogli qualcosa di crudele – non potevo evitarlo, ero naturalmente portato a diffidare della gente. Non riuscivo ancora a scrollarmi di dosso l'idea che la mia nuova conoscenza mi stesse prendendo in giro, ma per un breve attimo, stupendo me stesso, mi passò per la testa che invece volesse solo farmi sorridere.

Ma no, non era possibile. Era semplicemente una persona molto estroversa e un po' tra le nuvole. Doveva essere questo. Un paio di volte si fece prendere dall'entusiasmo delle sue ricostruzioni biografiche così tanto che ci guadagnammo dei rimproveri da parte di altri visitatori. Lei arricciò il labbro, mortificata per aver parlato a voce troppo alta, ma le sue scuse erano indebolite dalla mia espressione allibita e divertita.

Proseguimmo insieme fino alla fine e raggiungemmo l'uscita.

«Fantastico, davvero» ripeteva tutta assorta mentre io, dietro, allungavo il braccio per spingere la porta. «Questa mostra mi ha veramente elettrizzato. Mi sento ispirata! Se fossi un'artista, adesso mi metterei immediatamente al lavoro per produrre qualcosa.»

Strinsi la bocca, affiancandomi a lei per scendere i gradini.

Fece l'ultimo scalino con aria improvvisamente incerta, come fosse stata colta da una folgorazione. Io restai fermo a guardarla darmi le spalle per qualche momento, poi lei si voltò di botto, l'espressione stretta nel dubbio. «Ma insomma, a te è piaciuta?»

Posai gli occhi a terra e mi strinsi nelle spalle.

«È un sì, quello?»

«Lo è» annuii. Feci per imboccare la strada che portava verso casa e stavolta fu lei a seguire me.

«Non l'avrei detto che ti era piaciuta, sai» disse. «Non hai sferrato mezza parola su cosa pensavi delle foto. Non parli tanto, tu, mh?»

«Già.»

Passeggiammo per un po' in silenzio. Io mi tenevo a sinistra, camminando sul bordo del marciapiedi mettendo con attenzione una scarpa avanti all'altra per non perdere l'equilibrio.

«Sono tutte molto belle» dissi poi. «Le foto. Si vede che sono scatti d'autore.» Visto che lei non sembrava soddisfatta, aggiunsi in fretta: «Oh, anche quella del vecchio in bianco non era male, dopotutto.»

Scoppiò a ridere, un tintinnio di campanelli, e, girando su se stessa, evitò un uomo massiccio come un orso che le venne incontro dal lato opposto. «Siamo ironici!» disse tutta contenta, come se avesse fatto una scoperta davvero degna di nota.

«Non più di tanto» dissi, fissandomi sulla vetrina di un bar dall'altra parte della strada. «In realtà...»

Si voltò subito, le sopraccigli alte.

Le parole mi morirono in bocca. «In... in realtà non era la prima volta che venivo» balbettai.

«Oh? Allora sei un intenditore?»

Intenditore. «Non proprio. Mi interessa la fotografia e basta.»

«E sei anche tu un fotografo?» Sembrava sinceramente curiosa di saperlo.

La cosa mi spiazzava. Non ero abituato a vedermi diretto contro un fuoco di fila di domande, per quanto innocenti fossero; nemmeno i professori durante le interrogazioni mi chiedevano così tante cose. Avevano capito che non serviva a nulla; avrei parlato solo se ne avessi avuto voglia o se avessi avuto qualcosa di significativo da dire. Avevano perso la speranza con me, i professori. Non pensavano ci fosse molta sostanza da riportare alla luce, quindi ritenevano che scavare fosse del tutto inutile.

Nemmeno mia madre mi chiedeva mai molte cose.

Mi toccai il collo, tamburellando l'indice contro la pelle. «Fotografo? No, non davvero, no.»

«Perché no?» Socchiuse le palpebre.

«Perché...» Tentai di trovare una spiegazione che potesse esprimere in modo efficace l'impossibilità che quell'idea fosse di più che... un'idea. Insomma, fotografo, io? La ritenevo una pretesa. Era assurdo, giusto? Era assurdo solo pensarlo per davvero. Semplicemente impossibile. «... Perché no.»

Lei ridacchiò tra sé, come se avesse ottenuto la risposta che voleva. «Al mondo non esiste perché no

«Nel mio esiste» ribattei.

«È un mondo troppo piccolo, il tuo.»

Non seppi negarlo. Annuendo, mi aggrappai a un palo della luce e lo usai come perno per farci mezzo giro intorno, il braccio teso. «Un mondo piccolo e confortevole» aggiunsi, più beffardo di quanto non avessi voluto suonare.

«Sei strano» disse, arricciando il naso. Tornò a muovere le mani in ampi cerchi, e dedussi che faceva così ogni volta che si animava. «Voglio dire, mi sembri un ragazzo decisamente arrendevole, eppure sei così giovane. Dio, adesso dovresti star tentando di scalare una montagna, altro che piccolo mondo confortevole

«Anche tu sei giovane» rimbeccai. Con la coda dell'occhio, mi accorsi che avevamo deviato da un pezzo dalla strada verso casa mia. Avevo imboccato una via parallela senza rendermene conto, guidato da lei.

«Sono più vecchia di quello che sembro» disse con un certa soddisfazione, come se dimostrare meno anni di quelli che aveva fosse merito suo.

«Avrai... quanti, ventun anni?» domandai.

Sorrise, ammiccando.

«Quanti? Ventidue?» chiesi incredulo, sporgendomi un po' verso il suo viso alla ricerca di qualche indizio. Una piega intorno agli occhi di troppo, una linea d'esperienza sulla fronte... Niente. «Cosa, ne hai di più?»

Lei rizzò la schiena e disse, in tono esageratamente pomposo: «Non si chiede l'età a una signora, non sta bene.»

Stavo per ribattere qualcosa per il puro piacere di proseguire il botta e risposta con lei, quando la vidi bloccarsi e guardarsi intorno con l'aria smarrita.

La sua bocca si aprì in una piccola “o”. «Non mi ero accorta che...» mormorò. Poi si rivolse a me, allargando il palmo verso l'alto per indicare il palo che avevamo appena superato. «Qui. Prendo l'autobus qui. Vedi, che ti avevo detto? L'età gioca brutti scherzi.»

«Oh.» Sentii distintamente il cuore affondare nello stomaco e rimasi di stucco alla mia tessa reazione. Mi accorsi che non volevo dirle addio. Stare in sua compagnia era stato così semplice, quasi un gioco. Quasi un sogno.

Tornò indietro di qualche passo e si mise in attesa, dritta contro il palo. «È stato... istruttivo» disse, sistemandosi la tracolla sulla spalla.

Risposi con un verso compiacente. Le mani in tasca pizzicavano e rilasciavano la stoffa. Cosa potevo fare, cosa potevo dirle? «Come ti chiami?» chiesi di slancio.

«Dahlia» disse, e potei percepire l'invisibile punto fermo dopo il nome. Mi stava dando il suo arrivederci, ma io non ero pronto a salutare quella sconosciuta, e la consapevolezza di ciò mi metteva a disagio.

Era raro che mi sentissi a disagio. Generalmente ero sempre tranquillo – completamente distaccato e disinteressato, quasi, amava dire quell'asino di Blanchette.

«Mi hai chiesto di tutto... ora non mi chiedi come mi chiamo io?» dissi, ritrovandomi in quel momento a sperare, in modo egoistico e stupido, che Dahlia volesse ricordare almeno il mio nome.

«Non pensavo volessi farmelo sapere» disse.

«Ma voglio rivederti» dissi, scoprendo che lo desideravo per davvero. «Per rivederci, abbiamo almeno bisogno di conoscere i nostri nomi, quindi... Dahlia» iniziai, e mi persi per una frazione di secondo nel piacere di pronunciare per la prima volta il suo nome. Le lettere sbattevano come piccole onde sui miei denti... Spinte dalla lingua, rotolavano dolcemente sulle mia labbra. «Dahlia...» ed era quasi troppo, quel nome, era quasi qualcosa di intimo, e io mi sentii come se a chiamarlo mi fossi spinto al di là di un confine. «... Ti posso rivedere?»

Labbra tirate verso l'alto in una piega un po' incrinata. «Potresti» disse, e mi sembrò chiaramente suggerire che era meglio se nessuno dei due si impegnasse a realizzare la cosa.

Per qualche motivo, era una possibilità che Dahlia preferiva non si ripresentasse.

Ingoiai il senso di delusione che mi attorcigliò lo stomaco; sapevo farlo, avevo testato la mia capacità di ripresa molte volte. Inspirai piano e mi fissai le cuffiette alle orecchie, riattivando la riproduzione casuale che avevo spento prima al museo.

Ecco, così. Questo andava bene.

Dahlia mi guardò ancora, e per un attimo ebbi l'impressione di scorgere qualcosa di duro e di fin troppo attento nelle sue iridi.

Le feci un cenno con il capo e le diedi le spalle, affrettandomi a tornare per la mia strada.

Non era niente.

«Va bene. Va bene, va bene, va bene» mi ripetevo, cercando di perdermi nella voce di Freddie. Ma pareva che non riuscissi a riconoscere le canzoni... Non ricordavo più le parole, quasi che le ascoltassi allora per la prima volta.

 

*

 

Tesoro,

farò tardi. Non aspettarmi alzato.

Mamma~

x

 

 

Come mi succedeva quando in cielo si ammassavano stretti nuvoloni grigi ma il primo lampo del temporale tardava ad arrivare, sentii la gola occlusa da un pesante ostacolo.

Non appoggiai nemmeno lo zaino a terra. Misi in tasca il biglietto di mia madre, sfilai il pacchetto di sigarette che teneva nel cassetto del mobile all'ingresso e uscii di nuovo.



 

   
 
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