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Autore: Florence    04/02/2009    2 recensioni
"Io, Carlisle Cullen, non avevo mai capito cosa significasse davvero cogliere un frutto proibito. Non fino a quando l'avevo incontrata di nuovo, dieci anni dopo e la dolcezza di quella mela mi aveva rapito. Quello che mi accadrà, sarà solo colpa mia, colpa dell'uomo che è sopravvissuto dentro al vampiro e di lei che, inaspettatamente, ha scaldato il mio cuore spezzato. Edward... perdonami..." E se a Volterra i Volturi si fossero comportati diversamente? Cosa è accaduto in dieci anni a Isabella Swan? E quale ruolo ha Carlisle in tutto questo? (What if... che prende l'avvio dalla fine di "New Moon" di S. Meyer)
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Carlisle Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Proibito' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Proibito-2

PROIBITO

 

2 - Isabella Swan-Black (part 1/2)

 

Sedevo al posto A32 di un Boeing 777 diretto verso est. Non ho mai capito come mai, ma ogni volta che volavo verso est, sentivo qualcosa che crepitava dentro il mio petto, come un flebile richiamo che non riuscivo ad interpretare. La mia meta era vicina: con me, nella stiva dell’aereo, portavo tutti i pezzi della mia vita, frammenti spezzati e gettati a forza in disordine dentro una valigia rossa troppo piccola per poterli accogliere con l’onore che meritavano.

Con la coda dell’occhio, mentre guardavo la terra imbiancata avvicinarsi sempre di più sotto la pancia metallica e fredda dell’aereo, scorsi il segnale che avvertiva di allacciare le cinture di sicurezza.

Sorrisi sbadatamente, ripensando alle volte che, invece, piuttosto che mettermi in sicurezza avrei preferito alzarmi, chiamare a gran voce l’attenzione di tutti i passeggeri, spalancare il portello e gettarmi nel vuoto. Solo così, pensavo, sarei riuscita a farla davvero finita.

Dubitavo che, nel mezzo del deserto, o sulla cima innevata delle Montagne Rocciose, o sopra le onde calme e scure dell’oceano, lui avrebbe potuto correre in mio aiuto, come aveva fatto a Tampa. Sarebbe stato veloce e indolore: solo un ultimo pensiero confuso ai frammenti di me che avrei lasciato in una valigia rossa, che nessuno avrebbe ritirato all’atterraggio.

Meccanicamente feci combaciare i due ganci metallici e la cintura di sicurezza si chiuse sul mio addome con un ‘clac’ familiare.

Portai la mano all’oblò appannato, per rimuovere la condensa che il mio respiro aveva formato e la osservai: dovevo decidermi a buttare via quell’anello, oppure mi sarei presto trasformata in una di quelle vecchie ex-mogli aggrappate al passato e ad un matrimonio che non esisteva più. Sfilai la sottile fede d’oro che pesava come un fardello.

Frodo Baggins: sì, in fondo quel viaggio poteva essere paragonato a quello di Frodo insieme al suo anello...

Scossi la testa: ma chi volevo ingannare? Il mio non era un viaggio, ma una fuga. Non avevo amici che mi accompagnassero, solo il mio cuore sezionato e ricomposto troppe volte, come un dipinto cubista. E l’anello era solo un peso di cui volevo disfarmi, senza attendere di trovare il mio personale Monte Fato.

Lo soppesai per un istante, poi lo lasciai cadere nella tasca elastica sul retro della poltrona avanti a me. Fu subito inghiottito dai cataloghi patinati con le immagini degli oggetti che era possibile acquistare in volo a prezzi convenienti.

Bella Marie Black era morta: avrei ricominciato da zero, in Europa, la mia vita da Isabella Swan.

Mentre aspettavo che dalla bocca metallica del rullo trasportatore facesse capolino la mia valigia, mi soffermai a riflettere sul gesto irrimediabile che avevo compiuto. Una piccola parte di me gridava vendetta alla mia impulsività per aver gettato via, senza rimpianti, quella fetta importantissima del mio passato.

In fondo io e Jacob ci eravano amati... Eravamo stati sposati più di cinque anni, dopo due di fidanzamento e altrettanti di separazione. Ricordo Bill e Charlie al settimo cielo, quando avevamo comunicato loro, abbracciati, che avevamo intenzione di sposarci.

Eravamo solo io, Jacob e il vuoto che lambiva la mia memoria e che lui aveva colmato con pazienza e infinito amore.

Al mio ritorno dall’Italia la vita a Forks mi era sembrata più aliena di quella di un personaggio di un telefilm che si inizia a seguire solo dalla terza serie. Vecchi amici dai volti sconosciuti mi salutavano timidamente, le giornate si spegnevano in notti insonni o costellate da sprazzi di incubi senza forma, che al mattino si dileguavano dalla mia mente lasciando solo una profonda sensazione di oppressione. Un macigno sul petto, il respiro affannato e la sottile, strisciante consapevolezza che stavo impazzendo.

Avevo terminato il terzo anno, chiedendomi come la mia memoria ridotta ad un colabrodo fosse stata in grado di conservare le nozioni studiate nei mesi precedenti. Non ero viva, sopravvivevo soltanto. E questo era stato sufficiente per scavallare l’anno scolastico e arrivare alla fine del liceo. Poi, dopo l’estate, me ne sarei andata per sempre.

Qualcosa che mi sfuggiva, un pensiero che non riuscivo ad acchiappare, come una farfalla dal volo discontinuo che si muoveva danzando davanti ai miei occhi, mi aveva condotta a ricercare qualcosa di certo a cui aggrapparmi. Era stata la sensazione di pace e fiducia di quel giovane, Jacob, che mi aveva spinto a frequentarlo. Ben presto avevo compreso che, prima che la mia mente andasse in tilt, lui ed io eravamo stati buoni amici, forse, mi lasciava intendere Jacob con i suoi sguardi dolci e le parole attente, anche qualcosa di più. Sembrava contento che fossi tornata con il cervello a tabula rasa, “felice di non vedermi più star male”, mi aveva detto una volta, durante una delle nostre camminate sulla spiaggia della Riserva di La Push.

“Era stata più male di così?”, gli avevo domandato, ma lui non aveva risposto e mi aveva semplicemente abbracciato. Credo che era stato quello il momento in cui per la prima volta il mio cuore aveva sussultato per lui. Dunque avevo ancora un cuore! Ed era perfino capace di battere e riscaldarmi un petto che credevo immobile per l’eternità!

Non persi tempo ad aggrapparmi a quella debole speranza, quella illusione di normalità e pace che la vicinanza di Jacob suscitava in me.

Jacob era costante: la sua presenza non mi abbandonava mai. L’estate con lui a La Push era stata sensazionale, considerando lo stato precario da cui provenivo. Jacob mi adorava ed io adoravo lui: era il mio sole personale che brillava anche quando le nubi grigie si addensavano sulla spiaggia d’agosto. Ci avevo messo poco ad infatuarmi incondizionatamente di lui, della sua pelle ambrata e liscia, dei suoi occhi così profondi e limpidi, del suo abbraccio forte e delicato.

Dei suoi baci, dapprima timidi, quasi colpevoli, poi sempre più appassionati, che avevano rapito la mia fantasia e l’avevano imprigionata in un respiro. Un solo suo respiro mi riportava al mondo, se mi capitava ancora di sprofondare nella voragine che il vuoto degli ultimi due anni aveva lasciato in me.

Poi erano arrivati i problemi, camuffati da un gruppo di amici di Jacob, che fino ad allora si erano tenuti in disparte, osservandoci in silenzio. Ad un certo punto si erano fatti avanti e me lo avevano portato via.

Le sere che Jacob non veniva a casa mia, annunciandosi col colpetto di un sassolino lanciato contro la mia finestra e un sorriso adorabile, sapevo che era con loro. Aveva iniziato ad accadere sempre più frequentemente, iniziando una in cui sera avevo captato poche parole bisbigliate al suo orecchio da Quil, uno dei suoi amici. “Uno di loro è tornato”, aveva detto Quil e da allora era cresciuto il fermento nel loro gruppo.

 

 

“Chi è che è tornato?”, avevo domandato qualche tempo dopo a Jacob, dopo che, nel mio letto, ci eravamo ricoperti di baci e carezze che ci avevano infiammato e messo a dura prova la promessa di non cedere troppo presto al desiderio della carne. Più che altro, sapevamo entrambi, era la necessità a fermarci: una necessità che aveva l’aspetto di mio padre Charlie, addormentato a pochi metri da noi, che non avrebbe gradito trovare la sua bambina nuda in atteggiamenti troppo intimi con il suo fidanzato, nella sua casa.

In realtà avevo sempre sospettato che a mio padre, quella storia con Jacob, fosse sempre andata a genio: forse avrebbe anche accettato di alzare il volume della partita per lasciarci fare il nostro comodo. Un’idea simile mi aveva sempre agghiacciata e smontata: non sarebbe avvenuto come nei telefilm. Io e Jacob potevamo trovare qualcosa di meglio per completarci l’un l’altro.

“Nessuno”, mi aveva risposto evasivo e aveva ripreso a baciare le mie labbra arrossate.

“Ovviamente...”, il sarcasmo nella mia voce aveva richiamato la sua attenzione: si era sollevato su un gomito. I suoi capelli lunghi e corvini solleticavano la pelle della mia spalla, scoperta nella canottiera che indossavo. Mi ero voltata dall’altra parte, perché non volevo che mi guardasse. E poi era troppo caldo. Non era normale tutto quel caldo a Forks, anche se era agosto.

Quando Jacob si era stretto a me, abbracciandomi da dietro e aveva di nuovo toccato la mia pelle, avevo sentito una vampata. Era lui ad essere spaventosamente caldo. Come avevo fatto a non capirlo subito?

Mi ero voltata di scatto: qualcosa nella mia mente aveva fatto click. Era da quando aveva iniziato a frequentare di nuovo i suoi amici, da quando “uno di loro” era tornato, da quando ci vedevamo molto meno di prima, che Jacob aveva iniziato a scottare.

Avevo pensato che con i suoi amichetti avesse iniziato a fare uso di chissà quale sostanza.

“Che ti prende, Jake?”, gli avevo domandato, sfiorando con la punta delle dita il suo torace ampio e caldissimo.

Lo avevo sentito rabbrividire, forse più per quello che stava per dirmi, che per il tocco freddo della mia mano.

“C’è qualcosa che devi sapere... qualcosa che sapevi già e che hai dimenticato...”, mi ero sentita trascinare rabbiosamente di nuovo verso il fondo del baratro che stavo iniziando a ricolmare di nuovi ricordi.

“Ci sono delle leggende, tra noi Quileute che... sono più reali di quanto possano apparire...”, e poi aveva continuato tutta la notte raccontandomi la sua storia, rassicurandomi sulla sua condizione, svelandomi segreti che non volevo conoscere. Mi ero sentita travolta dal fiume delle sue confessioni che aveva sgretolato il precario strato di sabbia su cui stavo cercando di riedificare la mia vita. Mi aveva mostrato mondi e storie così assurde che all’inizio non avevo creduto a tutte le sue parole.

Era stato quando si era spogliato sotto ai miei occhi, suscitando in me non poco imbarazzo (non pensavo che sarebbe accaduto così...) e aveva iniziato a tremare come se fosse un geiser sul punto di esplodere, che la verità delle sue parole mi era apparsa ovvia.

Se fosse entrato Charlie in quel momento, probabilmente avrebbe preso la doppietta e impallinato il grosso lupo rossiccio che mi guardava con gli occhi di Jacob. Io, invece, non mi ero ricordata di respirare ed ero praticamente svenuta per la mancanza di ossigeno davanti all’enorme creatura.

Era una cosa che mi capitava spesso, dimenticarmi di essere viva.

Mi ero risvegliata tra le sue braccia. I suoi occhi ansiosi sfioravano il mio volto, troppo preoccupati per soffermarsi sui miei. Le sue braccia mi stringevano delicatamente e il suo profumo era tornato quello che amavo.

Mi ero trovata di fronte ad un bivio, per la prima volta in vita mia, anche se l’oppressione che provavo nel profondo mi era parsa una sensazione troppo familiare.

Dovevo scegliere se scappare o continuare a fidarmi dell’enorme uomo-lupo con il quale avevo diviso giorni e notti e sogni da ormai tre mesi della mia nuova vita.

 

FINE PRIMA PARTE


***

 ... to be continued...

 

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

***

Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

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