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Autore: DarkEvilStiles    31/08/2015    1 recensioni
Riccardo è un normalissimo sedicenne con molti amici di cui potersi fidare, una vita movimentata, ma soprattutto una bellissima ragazza: Anastasia. Lei è tutto per lui, ma non si può esattamente dire lo stesso di lei. C'è un segreto del quale il ragazzo non è a conoscenza, un segreto che cambierà totalmente il suo modo di vedere le cose, lo farà entrare in un periodo del tutto nuovo della sua vita e lo porterà a compiere nuove esperienze che prima non avrebbe mai sognato di fare.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Francesco's POV


 
Il giorno dopo, mi ero totalmente ripreso. Dato che i miei erano fuori (come tutte le sere oramai), decisi di uscire dalla finestra situata nella mia camera per andare a casa di Andrea. Erano pur sempre passati quattro giorni, magari era uscito dall'ospedale. E poi, mi mancava un sacco.
Mi vestii velocemente ed uscii. Controllai l'orologio: 21:20. Avevo più o meno due ore per andare da lui, raccontargli tutto, sapere cosa gli fosse accaduto e tornare.
Spensi le luci, uscii ed appannai la finestra. Essendo sul retro, nessuno dall'esterno ci avrebbe fatto caso.
 
Più o meno venti minuti dopo, arrivai a casa sua.
Suonai il campanello. Nessuna risposta.
Tamburellai con le dita sulla porta, nervoso.
Suonai una seconda volta.
Dopo una manciata di secondi, finalmente qualcuno aprì: era lui. Aveva indosso solo un asciugamano. Era bagnato.
— Francesco? — Sembrava stupito di vedermi, come se ormai si fosse rassegnato all'idea che non ci saremmo mai più incontrati. Mi abbracciò forte, e io ricambiai. Poi ci baciammo intensamente.
— Scusami, ero in doccia e all'inizio non avevo sentito suonare — disse.
— Mi sei mancato — risposi.
— Anche tu, non puoi capire quanto.
Mi invitò ad entrare. A quanto pareva, nemmeno i suoi genitori erano in casa.
Ci dirigemmo in bagno, dove tolse l'asciugamano e cominciò ad asciugarsi. Mi era mancato vedere il suo viso, il suo corpo.
— Allora — dicemmo entrambi all'unisono. Scoppiammo a ridere.
Presi la parola. — Allora, perché eri in ospedale? Quando sei tornato a casa?
— Mi hanno dimesso questa mattina. A quanto pare, quel giorno, mentre camminavamo mano nella mano, tre ragazzi ci hanno seguiti. Noi, ovviamente, non ci siamo accorti di nulla. Hanno aspettato che ci separassimo, per poi seguirmi e pestarmi. — Rimase in silenzio, come se stesse rivivendo la scena. Piegò e ripose l'asciugamano, mise i boxer, poi continuò: — Per fortuna, un tizio è corso in mio aiuto. Quelli si sono spaventati e sono fuggiti via. Ha chiamato il 118 e mi hanno portato al Policlinico. Avevo perso i sensi, dato che avevo battuto la testa. Quando mi sono svegliato, la prima cosa che ho pensato di fare è stata telefonarti. Tu hai detto "Arrivo subito". Ma non sei mai arrivato. E Francesco, non sono arrabbiato con te, perché deve esserti successo qualcosa nel frattempo. In ogni caso, i miei ora lo sanno, e sanno che sei il mio ragazzo, e mi supportano, anche se dopo ciò che è successo hanno un po' paura.
— Dio... — Non sapevo cosa dire. Anche lui, come me, era stato picchiato. Ma la differenza stava nel fatto che almeno i genitori erano dalla sua parte. — Mi dispiace davvero tanto. — Non riuscii a dire molto altro, perché cominciai a piangere, pensando a ciò che invece avrei dovuto raccontare io. Mi si avvicinò, e mi abbracciò. Durò veramente tanto, quell'abbraccio, e sentii che attraverso quello tutto l'amore che lui provava si stesse incanalando dentro di me, e mi fece sentire meglio. Mentre ci stringevamo, cominciai, tra un singhiozzo ed un altro: — Stavo per dirlo ai miei parenti. Poi, è arrivata la tua telefonata. Sono corso alla porta e ho detto: "Il mio ragazzo è in ospedale". Mio padre mi ha costretto ad andare a casa, poi mi ha picchiato. Ha preso il cellulare e il computer e li ha sfasciati. Il tuo numero, come saprai, non lo so a memoria, e credo sia il momento di impararlo. Sono rimasto a letto qualche giorno. Solo oggi sono tornato del tutto in forze, e dato che il coglione non è in casa, ho deciso di venire qui a trovarti, perché mi ha vietato di uscire. Non so quante altre volte ci vedremo, Andrea. Non so nemmeno se ci rivedremo. Mio padre l'ha presa molto male. Mi terrà al guinzaglio, mi impedirà qualunque forma di contatto con te. — Lui rimaneva incollato a me, senza dire una parola, e a me andava bene così. A volte un gesto vale più di un milione di parole. Feci un bel respiro e dissi: — Ci trasferiamo.
Si staccò immediatamente e gridò: — COSA?!
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
— Non vuole che stiamo insieme. Vuole che andiamo lontano da qui. Forse in Centro o Sud Italia.
— No... — cominciò a dire. — No, no, no. Non puoi permetterglielo. Ma tua madre?
Sorrisi, sarcastico. — Mia madre... mia madre non fa un cazzo, perché ha paura. E subisce.
— Francesco, non voglio perderti.
— Neanche io, ma... — sospirai — non posso fare niente per impedirlo. Se ha deciso così, farà così.
— Ma possiamo far parlare i miei genitori con i tuoi, convincerli, far capire loro che sbagliano!
— Sarebbe del tutto inutile. Non capirebbero. Cioè, mia madre sì. Mio padre no.
— Non posso accettarlo. Non posso pensare al fatto che questa probabilmente sarà l'ultima volta in cui guarderò i tuoi bellissimi occhi e dirò: ti amo. Perché io ti amo, Francesco, ti amo più di ogni altra cosa.
Non smetteva di piangere, e io non potevo sopportarlo. Dovevo farlo smettere. Lo baciai appassionatamente. Gli accarezzai i capelli. Le sue mani attraversarono lentamente la schiena, per poi scendere più giù. Mi spogliai. Anch'io ero in boxer, ora. Senza accorgercene, ci ritrovammo davanti la cabina doccia, ed entrammo. Presi dal momento, aprimmo l'acqua per sbaglio, e ci bagnammo. Non ci preoccupammo di chiuderla. Ci sfilammo l'intimo, e facemmo l'amore, lì dentro, per la seconda volta. Fu un susseguirsi di "ti amo" sussurrati dolcemente, una dimostrazione assoluta d'amore, amore che provavamo l'uno per l'altro incondizionatamente.
Ironicamente, quando terminammo eravamo già in doccia, così ci lavammo. Due docce nel giro di un'ora dovevano essere state un record, per Andrea. Ci rivestimmo, e rimanemmo sul suo letto a coccolarci. Non dicemmo niente, perché il rumore dei nostri pensieri era assordante e chiaramente percepibile. Stavamo entrambi pensando a cosa ne sarebbe stato di noi, come la nostra sfortunata e proibita storia sarebbe giunta al termine. Godemmo ogni secondo di quella serata, fino a quando arrivarono le 23:10.
Andrea mi accompagnò alla porta, mi guardò tristemente e disse: — Questo è un addio, allora?
— Probabilmente, ma spero sul serio di no. Non posso sopportare l'idea di non... — Scoppiai a piangere, per l'ennesima volta, e ci abbracciammo.
— Oddio, aspetta! — Corse in camera. Pochi secondi dopo uscì con in mano un foglietto di carta. — Siamo due deficienti! Ecco il mio numero. Possiamo rimanere in contatto, ma soprattutto, imparalo a memoria per le prossime volte.
— Posso usare il cellulare di mia madre, solo. Proverò.
Sorrise. — Quindi non è un addio.
— Assolutamente no.
 
Quando arrivai a casa, trovai le luci accese. Erano già tornati.
All'improvviso mi venne un dubbio: avevo chiuso la porta della mia camera a chiave? Se così non fosse stato, sarei finito in guai grossi.
La camera era buia. Sembrava non esserci nessuno. Entrai. La attraversai. Ci misi pochi, interminabili secondi. Accesi la luce: era deserta. Tirai un sospiro di sollievo. Controllai la chiave. Non avevo chiuso.
"Oh, cazzo..."
Mio padre irruppe in stanza. Feci due passi indietro, per evitare di essere colpito dalla porta, aperta violentemente.
— E così hai voluto giocare d'astuzia — disse. Si avvicinò velocemente e mi tirò un pugno. La storia si ripeté. Ma stavolta, mia madre non intervenne.
 
Non potendo più uscire di casa e avendo mio padre che mi controllava ogni cinque minuti, passai anche il Capodanno da solo, in stanza. Non entravo a contatto con nessuno, nemmeno con Andrea, date le circostanze. La sua mancanza si sentiva fin troppo. La solitudine era ormai diventata mia amica. Non potevo avere accanto la persona che amavo, quelli che credevo miei amici mi odiavano per il mio orientamento sessuale, mio padre era una merda e mia madre sottostava ai suoi ordini come un cagnolino. Ormai avevo sviluppato un senso di repulsione nei confronti di tutto il mondo, non volevo avere più niente a che fare con nessuno. L'unica cosa che mi teneva occupato era lo studio. Mi stavo dedicando interamente a quello, e per un po' mi aiutò a non pensare. Certo, avrei preferito ben altri passatempi, ma dovevo accontentarmi di quello. Era tutto ciò che potevo fare.
 
Le vacanze terminarono, e arrivò il momento di tornare a scuola. Un trauma, praticamente, per uno come me, che voleva estraniarsi da tutto e tutti.
Non fu facile riuscire a sopportare tutte le frecciatine, gli insulti, gli spintoni, anche da parte di quelli che credevo avrebbero capito. Stavo iniziando a pensare che il trasloco sarebbe stato il modo migliore di poter vivere una vita migliore, di ricominciare, ma questo valeva a dire niente più Andrea.
Mio padre mi accompagnava e mi veniva a prendere, per evitare che potessi correre al liceo scientifico da lui.
Non successe molto, in quel periodo. Ero quasi entrato in uno stato di apatia. Ormai, vivevo di studio. Mi ci ero totalmente immerso. La mia media aumentò vertiginosamente, ma poco contava, perché me ne sarei andato molto presto di lì.
 
A metà febbraio, il trasloco non fu più solo un'idea, ma qualcosa di concreto. Non vedevo Andrea da quasi due mesi, e non potevo fare niente per cambiare le cose. Mio padre aveva trovato una casa, e a fine mese ci saremmo trasferiti. Non ero pronto. Non volevo lasciare il mio ragazzo per colpa di una famiglia bigotta.
In preda alla disperazione, provai ad evadere nuovamente, sempre dalla finestra. Mio padre, però, fu più veloce di me, e le presi ancora.
Era la fine, per me e per Andrea. C'era così tanta sofferenza, nel mio cuore. Ero così maledettamente felice, con il mio ragazzo, e PUFF, era finito tutto. Per sempre.
"Quindi non è un addio" aveva detto, sorridendo. "Assolutamente no", gli avevo risposto.
"Assolutamente sì, invece" pensai.
 
Il cinque marzo, arrivai a Roma.
La nuova casa era poco più grande della precedente, a due piani, ma di certo non più bella. Ci misi un bel po' ad adattarmi. Con la scuola, invece, fu un casino: persi l'anno scolastico, quindi dovetti iscrivermi nuovamente per il quarto anno, sempre al liceo scientifico. Tutto per colpa di quella testa di cazzo di mio padre.
Cominciarono le sedute dallo psicologo: era, sì, una valvola di sfogo per raccontare i miei problemi, ma di certo non aveva una "cura" per l'omosessualità. Semplicemente non esisteva, dato che non ero malato, amavo solo persone del mio stesso sesso. E allora, il problema dove stava? Lo psicologo sembrò molto comprensivo a riguardo, ed il più del tempo parlammo proprio di questo.
Sostanzialmente, passai il tempo in casa. Di tanto in tanto uscivo da solo, e passeggiavo per le vie di Roma. Era davvero una bella città, ma Milano mi mancava. E mi mancava Andrea. Chissà cosa stava combinando. Forse si era trovato un altro ragazzo, forse mi aveva dimenticato. Meglio per lui. Non sopportavo l'idea che soffrisse senza di me. Doveva andare avanti.
Passai anche il compleanno da solo. L'unica cosa positiva fu che mia madre mi regalò un cellulare nuovo. Wow, compivo diciotto anni e non avevo nemmeno una persona accanto a me. E pensare che prima avevo tutto. O forse, era solo un'illusione. Ma quell'illusione mi faceva stare bene.
Mi ricordai, tutt'a un tratto, di avere ancora con me il bigliettino che Andrea mi aveva dato prima di andarmene da casa sua, quando ancora non sapevamo che quella sarebbe stata la nostra ultima volta insieme. C'era scritto il suo numero di telefono. Passai qualche giorno a pensare se contattarlo oppure no, ma alla fine decisi di non farlo. Avrei portato avanti una relazione a dir poco impossibile, ostacolata, oltre che da mio padre, anche e soprattutto dalla distanza. Ma anche se fossimo stati vicini, ci sarebbe stato mio padre a rendere tutto maledettamente difficile.
Inaspettatamente, col passare del tempo si ammorbidì. Io, chiaramente, lo odiavo comunque, ma il fatto che non avessi amici quasi lo cullava, era sicuro che io non frequentassi nessun ragazzo, e quindi era tranquillo. Anzi, credeva addirittura che fossi tornato etero, che fossi "guarito". Ogni tanto cercava di intrattenere una conversazione, ma io lo ignoravo totalmente. Non lo consideravo più nemmeno mio padre. Mi vergognavo di portare il suo cognome, di avere il suo stesso sangue nelle vene.
In tutto ciò, l'unica cosa che mi teneva impegnato era lo studio per l'esame per ottenere la patente di guida. Poi, con tutti i miei risparmi, avrei comprato finalmente un'auto tutta per me. Beh, oddio, non ci sarebbe mai entrato nessuno, ci avrei fatto solo tanti giri da solo, ma per il momento mi dovevo accontentare.
 
L'estate fu noiosissima. La solitudine mi soffocava, il caldo ancor di più. Uscii molto più del normale, ascoltando musica e stando seduto nei bar da solo. Era diventata un'abitudine, ormai. Mi ero arreso alla solitudine.
Un punto a favore di quella stagione fu solo il fatto che comprai l'auto, dopo aver brillantemente superato l'esame. Mi concessi qualche giorno di felicità ed euforia, perché mi ero posto un obiettivo e l'avevo raggiunto. Una piccola soddisfazione nella mia vomitevole vita.
 
E poi cominciò la scuola. Una grande opportunità per risollevare le sorti della mia triste vita, voi direte, ma no, non fu così. In primis, mi accorsi di essere cambiato. Passare tutto quel tempo da solo mi aveva reso più acido, più scontroso con gli altri. Così, tra l'essere silenzioso e il fare continue battute sarcastiche e cattive appena qualcuno mi si avvicinava per parlare, tutti impararono ad evitarmi, e mi andava bene così. Mi immersi nuovamente nello studio, che riempì i miei giorni altrimenti vuoti. Un'altra soddisfazione sarebbe stata vedere la mia media scolastica alzarsi. Cominciai ad uscire tutte le sere, per prendere una boccata d'aria e distrarmi.
 
Verso la fine di settembre, accadde una cosa strana. Quella notte feci molto tardi. Non mi ero accorto dell'orario. Ma a mio padre non importava poi molto, mentre mia madre aveva imparato a concedermi l'autonomia che mi spettava.
Sulla strada del ritorno, notai che qualcuno era sdraiato sull'erba del piccolo parco che attraversavo ogni volta che dovevo tornare a casa.
Mi avvicinai, e mi accorsi che stava dormendo beatamente. Era un ragazzo, doveva avere sedici o diciassette anni, ed era veramente carino.
Lo strattonai. — Hey!
Quello, noncurante, si girò dall'altra parte, così gridai: — HEY IMBECILLE, TI VUOI ALZARE O NO?
Si alzò immediatamente, strofinò gli occhi e mi guardò.
Sospirai. — Alla buonora! Ma lo sai che ore sono?
Nessuna risposta.
— Ma ti hanno mozzato la lingua? Hai perso la memoria?
— N-No... — rispose.
— Bene, allora immagino dovrai usare la lingua per bene per spiegare ai tuoi genitori il fatto che alle due e mezza del mattino tu non sia ancora tornato a casa.
Spalancò gli occhi. — Oh, merda. Senti, devo andare.
Si alzò e si diresse verso una delle vie principali.
— Grazie, eh! — esclamai. — Imbecille.
Si voltò. — Grazie, perfetto sconosciuto.
— Gli amici mi chiamano Francesco.
"Quali amici?", pensai.
— Allora grazie, Francesco!
— Di niente, imbecille.
Pochi secondi dopo, si dileguò.
Ripresi a camminare. Speravo di incontrarlo nuovamente, perché sembrava un tipo simpatico e a posto. Mi accorsi che non avevo avuto una conversazione decente con qualcuno al di fuori di mia madre da mesi, e per un verso era triste, per un altro ciò poteva forse segnare l'inizio di un cambiamento. "Poche palle", pensai.
Arrivai a casa. Tirai fuori le chiavi dalla tasca dei jeans (perché sì, dopo diciotto anni si erano degnati di darmi le chiavi di casa), aprii la porta ed entrai. Stavano dormendo entrambi, come previsto. Mi diressi in camera, ripassai il capitolo uno di storia e andai a dormire.
 
Ottobre fu un mese piuttosto vuoto (tanto per cambiare), ma fu movimentato dalla notizia del Ballo di Halloween. Dapprima mi sembrò una stupidaggine, poi pensai che magari avrei ricevuto un miracolo divino, avrei conosciuto qualcuno. Anche se il mio obiettivo principale era rivedere quel ragazzo. Così, comprai il biglietto. Mia madre credeva che mi fossi fatto degli amici. Illusa. Mio padre non disse nulla a riguardo, ma non gli avrei dato retta se si fosse opposto, a rischio di essere picchiato per l'ennesima volta.
 
Arrivai lì per primo. Dopo una ventina di minuti passati a sentire il deejay e gli organizzatori dell'evento litigare ("LE CASSE VANNO QUI!", "NO, IO VOGLIO CHE VADANO QUI!"), lo vidi: era il ragazzo di cui non sapevo il nome, quello che avevo trovato sdraiato a terra a dormire nel parco vicino casa. Era in compagnia di due amici. Era vestito molto bene.
Sentii uno dei suoi due compagni dire: — Ma è una cosa fantastica essere i primi! Vedremo questo luogo affollarsi pian piano, fino a riempirsi! Ah, e vi ho già detto che saremo gli ultimi ad andarcene? No? Bene, SAREMO GLI ULTIMI AD ANDARCENE!
Così, decisi di intervenire.
— Certo che tu sarai anche un imbecille, ma i tuoi amici non sono da meno!
Si voltarono a guardarmi.
— E tu saresti? — domandò il ragazzo senza nome.
Mi aveva già dimenticato. O forse ero io il maniaco che ormai, pur di far amicizia, avrebbe persino seguito la gente fino a casa per poi sbarrarle la strada e dire "HEY, MI CHIAMO FRANCESCO, E ADESSO IO E TE SIAMO AMICI DEL CUORE!". Tuttavia, cercai di contenermi, e risposi: — Ma come, ti sei già dimenticato di me? Ti illumino: sono il tizio che ti ha salvato il culo quando eri disteso a terra a dormire come un ghiro in un parchetto che non si incula praticamente nessuno, solo perché passo di lì ogni maledetta sera per andare a casa! E mi ripaghi dimenticandomi?
Aggrottò la fronte. Poi, disse: — Aspetta, sei Francesco, giusto?
— Già, e tu sei un imbecille.
— Scusami, sul serio, è che quella notte ero assonnato ed erano successe delle cose. Il mio ultimo pensiero era guardarti attentamente.
— Ma la conosci la parola "ironia"? — domandai. — Ti farò fare dei corsi di potenziamento, per quella.
I suoi due amici si guardavano di tanto in tanto, perplessi. Lui, però, continuò a parlarmi, noncurante di ciò.
— Come hai fatto a riconoscermi subito? Insomma, è passato più di un mese da quella notte, io l'avevo totalmente cancellata dalla mente.
— Un bel faccino come il tuo non si dimentica — risposi, poi gli sorrisi.
"WOAH, UN PUNTO PER ME!" pensai.
— Oh, ehm...
Si grattò la testa. Tipico atteggiamento di chi si trova in una situazione imbarazzante.
Cominciarono ad arrivare molte auto e persone, e lui sviò il complimento approfittando del baccano che si era creato.
Fece per salutarmi, ma uno dei due amici, lo stesso che aveva detto che sarebbero stati gli ultimi ad andarsene, lo prese per un braccio e disse: — Senti, è stato un piacere, ma noi entriamo dentro.
Simpaticone.
Così, mi diressi dentro. La musica e l'ambiente erano invitanti, ma da solo non avrei ballato. Mi guardai intorno. Volevo parlare con qualcuno, ma il panico prese il sopravvento. Uscii fuori di corsa. Vidi una panchina nei pressi dei bagni, e andai a sedermi.
Inevitabilmente, il mio pensiero passò ad Andrea. Era ormai passato quasi un anno dall'ultima volta che ci eravamo visti, che ci eravamo amati.
 
Dopo un po', sentii dei passi. Qualcuno si stava avvicinando.
Si sedette accanto a me: era il Ragazzo Senza Nome.
— Hey — disse.
— Hey — risposi.
— Come mai sei seduto qui da solo, invece di divertirti come tutti? — domandò.
— Semplicemente perché non ho nessuno con cui divertirmi.
— Mi stai dicendo che sei venuto qui senza i tuoi amici?
— No, è diverso: io non ho amici. — Strinsi i pugni.
— E io cosa sarei, scusa?
Alzai la testa e lo guardai. — Un imbecille.
In realtà, ero felice che mi considerasse tale. Un suo amico. Quella parola mi sembrava estranea, ormai.
Scoppiò a ridere, ed io con lui.
— Se posso chiedere... perché non hai amici?
Decisi di raccontargli come stavano le cose. Alla fine, non avevo niente da perdere. — Sai, prima ne avevo molti. Ma, evidentemente, mi apprezzavano solo per ciò che fingevo di essere. Non stavo bene con me stesso, e quando ho deciso di fare coming out ci sono rimasti tutti di merda e mi hanno voltato le spalle, partendo dalla mia famiglia e finendo con i miei amici. Quindi, non ho niente da perdere se mi presento ad un ballo da solo. Pensavo che sarebbe successo qualcosa, un miracolo. — Risi, sarcastico. — Così eccomi qui, a deprimermi, mentre bevo una Piña Colada. Alla salute. — Feci un altro sorso.
Riccardo sgranò gli occhi. — Oh... quindi sei gay.
Ed ecco l'ennesima persona che sembrava avesse saputo che avessi un cancro terminale. — Non va bene nemmeno a te? Sei omofobo anche tu? Molto bene, ci vediamo.
Feci per alzarmi, ma lui mi bloccò. — Senti, non è che sono omofobo, ma...
— Tutte le frasi che iniziano così contengono una affermazione omofoba dopo il "ma", quindi risparmiatelo, per favore.
Cercai di non piangere. Capitava molte volte, quando ero arrabbiato, ma provavo a nasconderlo sempre. Lui, però, sembrò notarlo, e rispose: — Volevo solo dire che non ho mai avuto a che fare con un omosessuale, e non so come comportarmi.
— Mmm... — Aggrottai la fronte. — Voglio crederti.
In realtà, non gli credevo poi molto.
Dopo qualche secondo, chiesi: — Aspetta, ma dove sono i tuoi amici?
Sospirò. — A rimorchiare. Porca miseria, dovrei provarci anch'io, ma...
— Ma...?
— Tutti credono che non mi freghi niente della mia ex ragazza, che mi ha tradito col ragazzo che odio e l'ha messa incinta, e che poi si è suicidata, ma non-
— CHE?! — esclamai. Quello sì che era un colpo di scena.
Fece spallucce. — Lunga storia.
Mi ricomposi subito e lo fissai per pochi secondi. Non sapevo se credere o no a ciò che stesse raccontando, non sapevo se potermi fidare di lui, se mi stava solo prendendo in giro. Ma alla fine, preferii farlo continuare a parlare.
— Dicevo, pensano tutti che non mi interessi, ma non è così. All'inizio ero incazzato, l'ho insultata anche davanti alla sua tomba e ci sputato sopra, ma più passano i giorni e più sento che c'è un vuoto dentro di me. Mi manca, capisci?
Lo capivo fin troppo bene, a dire il vero.
Cominciò a tremare. Posai lentamente la mia mano sulla sua. — Hey, è tutto okay?
— Sì, è solo che... non ci devo pensare, davvero. Non devo. Mi passerà, tranquillo. Anzi, sono venuto qui per consolarti ed invece mi ritrovo a parlare dei miei problemi. Sono davvero egoista.
Continuai ad accarezzargli la mano. — No, non lo sei. Ti sei solo sfogato, come ho fatto io.
— Sì, ma non concludo niente dicendolo agli altri! Non tornerà in vita, capisci?!
Cominciò a piangere.
Lo guardai, e lo implorai: — Non piangere, ti prego...
— Scusa, ma non ci riesco... davvero. Ci ho provato a non piangere, ma fa tutto schifo, e...
 
— Non posso accettarlo. Non posso pensare al fatto che questa probabilmente sarà l'ultima volta in cui guarderò i tuoi bellissimi occhi e dirò: ti amo. Perché io ti amo, Francesco, ti amo più di ogni altra cosa.
Non smetteva di piangere, e io non potevo sopportarlo. Dovevo farlo smettere.
 
E in quel momento, lo baciai. Mi mancava da morire sentire le labbra di qualcuno sulle mie. Fu salato, a causa delle lacrime che gli rigavano il viso, ma comunque bello.
Dopo qualche secondo, si staccò dal bacio, e realizzai di aver fatto una gran cavolata, ma ero stato preso dal momento, e il suo modo di comportarsi, il suo nervosismo, mi ricordavano troppo Andrea.
— Mi dispiace... — cominciai.
Si alzò di scatto, e senza dire niente si allontanò.
— Ti prego, dì qualcosa almeno! — gridai.
Non rispose, anzi, affrettò il passo. Nel giro di pochi secondi, uscì dal mio campo visivo.
Sì, era stata davvero una cavolata. Non mi avrebbe più rivolto la parola, non mi si sarebbe più avvicinato. Avevo rovinato tutto, come al solito. Credevo di aver trovato un amico, una volta tanto. Invece l'avevo perso prima di cominciare, in pratica.
 
Non molto tempo dopo, sentii qualcuno che correva verso i bagni. Mi voltai. Era lui. Stava digitando qualcosa al telefono. Poi, cadde in ginocchio, poggiò le mani a terra e cominciò a vomitare.
Corsi verso di lui, per aiutarlo.
Cercò di liberarsi, quando gli presi la testa fra le mani. — Cosa c'è, vuoi che ti faccia un pompino? — Vomitò ancora. — Carpe diem, eh?
Stava delirando.
In qualche modo, riuscì a liberarsi e si alzò per andarsene, ma barcollò. Lo presi giusto in tempo, ma mi vomitò addosso. Entrambi, ora, avevamo gli indumenti sporchi. Lo caricai sulle spalle e mi diressi verso la mia auto, situata subito alla destra dell'ingresso. In molti si voltarono a guardarci, ma non mi importava.
Udii qualcuno gridare: — RICCARDO!
Il suo amico rompipalle. Tempismo perfetto.
Venne velocemente verso di noi, mi fulminò con lo sguardo e disse, a denti stretti: — Ma bravo, l'hai fatto ubriacare! Il prossimo step è quello di buttarlo sul tuo letto e scoparlo?
Riccardo vomitò ancora. Lo feci scendere e lo aiutai a tenersi in equilibrio. Ci stavano guardando tutti, ed erano silenziosi. La musica era l'unica cosa che ormai si sentiva, oltre alle urla dentro.
— Senti, non sono stato io — risposi. — Mi trovavo vicino ai bagni, l'ho visto che vomitava e avevo pensato di farlo andare via di qui.
— Tu adesso lo lasci e lo fai venire con me.
— Ah, sì? Voglio proprio vedere cosa diranno i suoi genitori, quando lo vedranno rientrare ubriaco fradicio. E non credo che i tuoi saranno entusiasti di vedere il tuo amico in queste condizioni. Che idea si faranno di lui?
— Non sono cazzi tuoi, lasciamelo portare a casa e smettila di fare il frocio, perché a lui non piacciono i ragazzi!
Gli tirai un pugno. Conteneva tutto l'odio che provavo per gli omofobi come lui, quelli che trovavano perverso ogni gesto che un omosessuale compiva.
Cadde a terra. Bestemmiò.
— Tu dirai ai suoi genitori che ha dormito da te, che non si è ubriacato. Domani ti farò chiamare da lui. I miei non sono in casa, starà da me. Intesi?
— Vai al diavolo — rispose.
Sempre sotto gli occhi di tutti, caricai Riccardo in macchina, entrai, misi in moto e ci dirigemmo a casa.
I miei genitori non erano in casa, dato che erano andati a Milano, e ci sarebbero rimasti ancora qualche giorno.
Salii al piano di sopra, entrai in bagno e poggiai il ragazzo a terra (a quanto pare, si chiamava Riccardo). Si era addormentato.
Mi abbassai e cominciai a sbottonargli la camicia. Con delicatezza, gliela tolsi e la poggiai a terra. Feci lo stesso con le scarpe, i pantaloni ed i calzini. Era solo in boxer. Puzzava da morire.
"Tu guarda cosa mi tocca fare" pensai.
Glieli sfilai, lo presi in braccio e lo poggiai nella vasca da bagno. Aprii l'acqua e cominciai a lavarlo. Giuro che non guardai le parti basse. Okay, solo una sbirciatina, ma era lecita. E me la meritavo, per quello che stavo facendo per lui.
"Dio, sono davvero un maniaco. Forse avrei dovuto lasciarlo dormire con il puzzo di vomito."
Chiusi il rubinetto, presi un asciugamano pulito e tentai di asciugarlo. Non conclusi molto, ma bastava. Lo presi nuovamente in braccio, mi diressi in camera e lo feci sdraiare sul letto. Presi dei miei boxer puliti e glieli misi. Dei panni sporchi non sapevo che farmene. Ero stanchissimo. Feci una doccia veloce e mi cambiai. Chiusi la porta del bagno e mi sdraiai a fianco a lui. Era la seconda volta che lo guardavo dormire, ed era ancora più carino di quanto ricordassi. Non riuscii a resistere quando si girò dall'altra parte. Lo abbracciai. Era una sensazione bellissima. Pochi secondi dopo, chiusi gli occhi e sprofondai in un sonno profondo.
Per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, avevo mostrato nuovamente segni di umanità. Segni che provavano che forse non ero diventato davvero acido e cattivo, non ero realmente cambiato, ma ero sempre un essere umano che aveva bisogno di affetto ed attenzioni, e si comportava male perché entrambi quei sentimenti erano carenti nella propria vita. Un essere umano che aveva bisogno d'amore.

  
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