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Autore: evelyn80    31/08/2015    6 recensioni
Dopo aver espresso il desiderio di poter salvare Boromir dalla sua triste fine, Marian si ritrova catapultata nella Terra di Mezzo grazie ad un gioiello magico che la sua famiglia si tramanda di generazione in generazione. Si unirà così alla Compagnia dell'Anello per poter portare a termine la sua missione. Scoprirà presto, però, che salvare Boromir non è l'unica prova che la attende.
Ispirata in parte al libro ed in parte al film, la mia prima fan fiction sul Signore Degli Anelli.
Genere: Avventura, Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boromir, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La mia Terra di Mezzo'
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Una nuova vita

 

Buio, il nero più assoluto, tutto intorno a me. Silenzio, caldo ed ovattato.
Poi, ad un tratto, una penetrante luce bianca mi ferì gli occhi, tanto da costringermi ad aprirli. Impiegai molto tempo a mettere a fuoco ciò che mi stava davanti: un viso senza età, coronato da una chioma e da una lunga barba, entrambe bianche come la neve. Due occhi, azzurri come il cielo di settembre e vispi come quelli di un bambino, ammiccarono.
"Mithrandir” mormorai, riconoscendo il volto dell’Istari. “Ma… allora… non sono morta…?"
"No. Hai ancora molto da fare. Non è ancora tempo di morire” sussurrò, con la sua voce profonda e roca.
"Dove sono…?" chiesi ancora, cercando di guardarmi intorno.
"Al sicuro. Ora riposati e pensa solo a recuperare le forze."
Mentre la mano dello stregone mi carezzava la guancia, richiusi lentamente le palpebre, cadendo di nuovo nell’oscurità.
Quando riaprii gli occhi, vidi una luce dorata sopra di me. Sbattei le palpebre più volte, fino a rendermi conto che non stavo sognando. Il soffitto della stanza in cui mi trovavo era fatto di foglie gialle come l’oro, sostenute dai grossi rami intrecciati di un albero. Mi appoggiai sui gomiti e mi guardai attorno: ero sdraiata in un morbido letto su un flet molto grande. Alla mia destra, su una poltrona di un bianco perlaceo, stava seduta una figura dai lunghi capelli biondi, che mi guardava sorridendo in silenzio.
"Dama Galadriel?!” dissi, incredula.
"Ben tornata, mia cara Tingilindë” rispose, con la sua profonda voce da contralto. “Sei nel mio palazzo di Caras Galadhon" aggiunse subito dopo, evidentemente prevedendo la mia domanda. “La barca, cui i tuoi compagni hanno affidato il tuo corpo, ti ha riportata qui."
"Ma… io dovrei essere morta… Le ferite erano così dolorose" balbettai, toccandomi il petto e sentendo un grosso bendaggio che mi attraversava il torace. "Perché sono ancora viva?"
"Perché, anche se oramai contaminato da lunghi anni di esilio, nelle tue vene scorre ancora sangue elfico” spiegò. “Tu sei l’ultima discendente di Fëanor. La tua parte Umana è perita, mentre la parte Elfica ha preso il sopravvento. Come ben sai, gli Elfi sono immortali."
"Ma anche gli Elfi, se feriti, possono morire" obiettai, cercando di capirci qualcosa. Era tutto molto confuso… Cosa voleva dire, dicendo che era perita la mia parte Umana? Che ero morta solo a metà?
"Tu non sei stata ferita. Ti sei sacrificata” riprese Galadriel, lentamente, “e questo sacrificio ha consentito alla tua metà Elfica, ormai latente in una remota parte del tuo corpo, di tornare alla sua antica gloria."
"Vuol dire che ora sono un’Elfa?!" chiesi, incredula.
"Non completamente” mi rispose, con un lieve sorriso, “sei una Mezzelfa, in cui ora la parte Elfica è dominante, mentre quella Umana è recessiva. Guarda tu stessa."
Ed, avvicinando il suo viso al mio, mi fece specchiare nei suoi occhi, limpidi come un lago d’alta montagna.
Non riuscii a trattenere un’esclamazione di stupore: ero ancora io ma, al contempo, non lo ero più. Forse solo mia madre avrebbe potuto riconoscermi. Il colore degli occhi e quello dei capelli era rimasto lo stesso, ma la fisionomia era completamente diversa. Il viso era divenuto più sottile, gli zigomi più alti, le orecchie a punta. Al collo non avevo più la “Stella di Fëanor”, ma una catena con una pietra bianca incastonata in oro. La riconobbi subito: era la collana di Boromir. Evidentemente doveva avermela donata in cambio della mia.
All’improvviso, ricordai quello che mi aveva detto mentre ero in fin di vita, tra le sue braccia. Anche lui mi amava e, finalmente, riusciva ad ammetterlo. Avrei fatto un salto di gioia, se non fossi stata così sconcertata dalla mia immagine.
Distolsi lo sguardo dagli occhi della Dama e guardai prima le mie mani – che ora erano lunghe ed affusolate – e poi il resto del mio corpo, che aveva perso in buona parte le rotondità che mi avevano sempre caratterizzato.
Rimasi in silenzio: non sapevo né cosa dire né cosa pensare. Galadriel si alzò e si avviò verso la porta della stanza, formata anch’essa da rami intrecciati come il soffitto.
"Non tormentarti, adesso” sussurrò. “Pensa solo a riposare. Sei ancora debole. Domani parleremo ancora" e, scivolando sul pavimento come se fosse stata un fantasma, mi lasciò da sola.
Rimasi a guardarmi le mani fino a che la stanchezza non ebbe di nuovo il sopravvento. Mi lasciai andare sul letto e dormii ancora saporitamente per diverse ore.
La terza volta, fui svegliata da un paio di mani che mi toccavano. Aprii gli occhi di soprassalto e, d’istinto, allungai le mani per cercare Hoskiart. Le mie dita si strinsero convulsamente sull’aria.
"Non avere paura, non ti farò del male” disse una voce calma e profonda. “Devo solo controllare le tue ferite."
Quelle parole mi rilassarono. Voltai la testa e scoprii che il mio guaritore era, nientemeno, Celeborn in persona.
Con abili movimenti, il Signore dei Galadhrim rimosse i tamponi di fibra vegetale che coprivano le mie piaghe. Con meraviglia, mi accorsi che erano guarite quasi del tutto.
"Da quanto tempo sono qui?" chiesi, incerta.
"Da tre giorni” mi rispose l’Elfo, “durante la maggior parte dei quali sei stata addormentata."
"Io… non ho sempre dormito” ricordai d’un tratto, “ho visto Gandalf…"
"Sì” confermò il mio guaritore. “Gwaihir lo ha portato qui, per essere curato, dopo il suo scontro con il Balrog. Prima di partire ha voluto vederti. Eri ritornata solo da poche ore."
Celeborn giudicò che le ferite non avevano più bisogno di medicazioni e mi disse che, se volevo, avrei potuto alzarmi e mangiare con loro. A quelle parole, il mio stomaco brontolò. Mi resi conto di avere una fame da lupo, così accettai il suo consiglio. Lui lasciò la stanza e mi mandò un’ancella, per aiutarmi a vestirmi ed a scendere a pranzo.
Grazie alle virtù del cibo elfico, riuscii in breve tempo a recuperare le forze. Dopo qualche giorno, fui di nuovo in grado di camminare senza l’aiuto di nessuno, tanto che riuscii perfino a scendere la lunga scalinata, anche se molto lentamente, ed a mettere di nuovo i piedi per terra.
Ovviamente, ero molto contenta di essere ancora viva, ma c’era qualcosa che non quadrava. Ero stata trasportata nella Terra di Mezzo perché avevo chiesto di poter salvare Boromir e, questo, l’avevo fatto. Quindi, perché non mi ero risvegliata a casa mia? Perché mi trovavo ancora in quel mondo? Avevo veramente ancora molto da fare, come aveva detto Gandalf la prima volta in cui avevo riaperto gli occhi?
Chiesi lumi a Galadriel e lei mi rispose che, se volevo, avrei potuto cercare le risposte alle mie domande nel suo specchio. Naturalmente accettai.
La Dama della Luce riempì il bacile d’argento con l’acqua della sua fontana e, dopo avermi raccomandato di non toccare la superficie liquida, si mise in piedi dall’altra parte della vasca.
All’inizio, potei vedere solo la mia nuova me stessa – che ancora faticavo a riconoscere – riflessa nella limpida acqua della sorgente. Poi, apparvero delle immagini.
Vidi un esercito di Uomini a cavallo diretti, in file compatte, verso una città dalle bianche torri. Sugli stendardi che svolazzavano al vento, campeggiava un cavallo bianco al galoppo su sfondo verde: lo stemma dei Rohirrim. L’immagine si avvicinò, in una specie di zoomata. Mi vidi, in groppa a Freccia, al fianco di un altro cavaliere che portava nascosto sotto il suo mantello una piccola figurina: Éowyn, vestita da uomo, con Merry. Quindi, ciò significava che avrei dovuto marciare con gli uomini del Mark verso Minas Tirith, al fianco di dama Éowyn.
L’immagine cambiò. Vidi il Monte Fato eruttare lava incandescente, ma la torre di Barad-Dûr era crollata al suolo: la visione si riferiva, quindi, ad un momento successivo alla distruzione dell’Anello del Potere. Mi vidi addentrarmi, a piedi, in quella landa desolata ed alzare al cielo la “Stella di Fëanor”. Mentre camminavo, la “Stella” emanava una fortissima luce e, dietro di me, la terra si risanava e tornava ad essere un giardino, come prima dell’arrivo di Sauron. Ecco quindi a cosa serviva il mio gioiello: a far tornare le cose a posto. D’istinto, portai la mano al collo e tastai la pietra di Boromir. Per compiere quell’ultima impresa, avrei dovuto quindi riavere il mio monile, che era ancora al collo del Gondoriano.
Forse perché i miei pensieri corsero a lui, l’immagine cambiò per la terza volta. Lo specchio mi mostrò la sala di un palazzo, piena di gente festante che mangiava e beveva. Riuscii a scorgere Aragorn e Gandalf che guardavano divertiti Merry e Pipino ballare su di un tavolo, applauditi da tutti. Legolas e Gimli erano seduti ad un altro desco, intenti a bere birra: davanti a loro c’erano già diversi boccali vuoti. Infine, la visione si focalizzò su Boromir. Era seduto su di una panca – con lo sguardo perso nel vuoto – mentre giocherellava distrattamente con la “Stella”, rigirandosela nella mano destra. Al suo fianco era seduta una donna e, dal suo abbigliamento, potei riconoscere in lei una concubina. Si appoggiava lascivamente al suo braccio sinistro, sussurrandogli parole all’orecchio. Rimasi ad osservare, immobile, mentre Boromir si voltava verso di lei e la guardava con uno strano sguardo, carico di desideri repressi. Lo vidi alzarsi in piedi, afferrarla per un polso e farla alzare a sua volta, attirandola contro di sé, parlandole ad un centimetro dalla bocca, sfiorandole il naso con il suo. Poi, lo vidi allontanarsi dalla sala tirandosela dietro, diretto evidentemente alla sua stanza.
In quel momento, una goccia cadde sulla superficie dell’acqua, facendo sparire la visione. Si trattava di una grossa lacrima che era scesa silenziosamente dai miei occhi fino alla punta del mio naso, staccandosi poi e finendo nel bacile.
Il mio cuore si spezzò. Ma come… mentre mi teneva stretta a sé, mentre ero in punto di morte, mi diceva di amarmi, e poi? Dopo neanche una settimana, si avventurava con la prima che gli capitava? Bel modo di amare era, quello…
"Il cuore degli Uomini è molto volubile" disse Galadriel, con la sua voce grave, facendomi alzare gli occhi. "So quello che hai visto, perché è anche nella mia mente."
"Ha detto di amarmi… Perché si comporta così?" le chiesi, la voce rotta dalle lacrime che riuscivo a trattenere a stento.
"Io non posso aiutarti in questo. Dovrai scoprirlo da sola” mi rispose, seria. “Ma” aggiunse, “ricordati che lo specchio mostra anche cose che devono ancora accadere, e che possono ancora essere cambiate."
Mi asciugai gli occhi e raddrizzai le spalle. Dovevo partire, ed anche alla svelta, se volevo unirmi alla cavalcata dei Rohirrim e cambiare l’ultima visione che avevo appena avuto. Se i miei calcoli erano esatti, in quel preciso momento Merry e Pipino stavano partecipando alla distruzione di Isengard in compagnia degli Ent, mentre gli altri erano impegnati nella battaglia al Fosso di Helm. Dovevo sbrigarmi, se volevo arrivare in tempo. L’unico problema era il fatto che ero a piedi.
"Non sei a piedi” disse Galadriel, rispondendo alle mie riflessioni. “Se non sbaglio, sei giunta qui con un cavallo."
"Freccia?!” chiesi, incredula, alzando lo sguardo su di lei. “Sì, l’ho vista anche nello specchio, ma… lei è a Gran Burrone! Non posso tornare lassù a prenderla."
"No, ma puoi chiamarla."
"Chiamarla?! E come potrà sentirmi, da quella distanza?" domandai, ancora più stupita, le sopracciglia inarcate.
"Dimentichi che qui, nella Terra di Mezzo, la tua cavalcatura è una Mearas" mi ricordò la Dama.
"Ma… allora… volete dirmi che, se la chiamo da qui, lei mi sentirà?" balbettai.
Galadriel annuì ed io, benché ancora incredula e stupefatta, cominciai a chiamare a gran voce la mia macchina – o meglio, la mia cavalla – correndo, al contempo, verso la scala che si arrampicava fino in cima all’albero su cui si trovava il palazzo di Celeborn.
"Freccia… Freccia… Freccia!" ripetevo, mentre salivo le scale di corsa con una grazia ed una leggerezza che non avevo mai avuto prima. Gli Elfi che mi incrociarono lungo la salita mi guardarono stupiti, alcuni sorridendo ed altri con disappunto, ma non badai a nessuno di loro. Mi premeva solamente di poter farmi sentire dalla mia amica.
"Freccia! Freccia!! FREEECCIAAAAAAAAAAAA!!!" gridai a squarciagola una volta arrivata in cima alla scala, tanto da far volare via, in un turbine di penne e piume, gli uccelli posati sui rami all’intorno.

 
* * *

 

A Gran Burrone, tutti gli stallieri furono costretti a recarsi nelle scuderie. Freccia d’Argento, la giumenta di Dama Tingilindë – che era rimasta affidata alle loro cure dopo la sua partenza – sembrava completamente impazzita. Scalciava la porta della sua stalla con tutta la forza che aveva, nitriva e si impennava spingendo via, con le zampe anteriori, chiunque provasse ad avvicinarsi per legarla. Ogni tentativo di calmarla fu vano perciò, alla fine, Amdir, il responsabile delle scuderie, fu costretto a recarsi da Elrond. Il signore di Imladris si trovava nella Stanza del Fuoco, intento nella lettura di un grosso tomo, in compagnia di Arwen che ricamava il vessillo per Aragorn.
"Sire Elrond, abbiamo un grave problema!” esordì Amdir, dopo un breve inchino. “La giumenta di Dama Tingilindë è come impazzita! Scalcia, morde… Non riusciamo a trattenerla!” continuò, concitato. “Ha quasi sfondato il suo cubicolo a suon di calci!"
Elrond alzò lo sguardo dal libro, fissando accigliato il suo interlocutore, ma non fece in tempo a dire nulla che sua figlia intervenne.
"È stata chiamata dalla sua amica e compagna" disse, alzando gli occhi dal ricamo. "Dama Tingilindë ha bisogno di lei, e lei deve raggiungerla. Lasciatela andare."
L’Elfo si inchinò ancora e tornò alle scuderie dove, per mezzo di un lungo bastone – dato che non voleva avvicinarsi a quella satanassa più del necessario – aprì la porta della stalla. Immediatamente, la giumenta dette in un lungo nitrito liberatorio e partì al galoppo ma, invece di lanciarsi subito verso il passo delle Montagne Nebbiose, si diresse alla Stanza del Fuoco. Elrond inarcò le sopracciglia quando la vide entrare, ma Arwen posò nuovamente il suo vessillo e si alzò.
"Fai buon viaggio Freccia, e salutami tanto Marian" le disse, carezzandole il collo. La giumenta annuì, strofinandole delicatamente il naso contro la guancia in segno di saluto. Poi, fece dietro front e questa volta sì, galoppò come un fulmine verso Lothlòrien.
Arwen si rimise seduta e suo padre la fissò.
"Come facevi a sapere che quella giumenta voleva andarsene?" le chiese, stupito.
"Perché ho sentito Marian che la chiamava" gli rispose semplicemente la figlia.
Il Mezzelfo inarcò ancora di più le sopracciglia, e lei si spiegò.
"Io e Dama Marian abbiamo molto in comune. Siamo entrambe Mezzelfe, ed entrambe siamo innamorate di un mortale. Questo, in un certo qual modo, ci unisce…"
Si interruppe, nel vedere la faccia scandalizzata del genitore. La sua espressione la fece scoppiare a ridere.
"Ma cosa avete capito, padre? Lei non è innamorata di Aragorn, ma del Capitano Boromir!"

 
* * *

 

Per quanto Freccia fosse veloce – ed, essendo una macchina, nel mio mondo arrivava a più di 150 chilometri orari – la distanza tra Gran Burrone e Lothlòrien era comunque troppo vasta perché potesse percorrerla in poche ore, senza contare che avrebbe dovuto superare anche il passo di Carahdras. Gli Elfi trascorsero il tempo dell’attesa preparandosi per la mia partenza. Hoskiart fu affilata da uno dei mastri fabbri di Caras Galadhon; le ancelle di Dama Galadriel mi confezionarono dei nuovi abiti maschili; Celeborn stesso controllò per un’ultima volta le mie ferite, decretandone la completa guarigione. Il mio vecchio fagotto fu riempito di viveri per il viaggio, soprattutto Lembas, e mi furono dati anche un paio di otri per trasportare l’acqua.
Io, invece, non riuscivo a stare ferma. Mi sentivo come un’anima in pena e, spesso, mi fermavo a guardare la mia immagine riflessa in una delle tante fontane della città. Al crepuscolo, proprio mentre ero intenta ad osservarmi attentamente la punta delle orecchie, Galadriel mi raggiunse.
"Non mi riconosco più" le dissi, senza neanche aver bisogno di voltarmi. Ora che tutti i miei sensi erano acuiti a livello elfico, la riconobbi dal fruscio del suo lungo abito e dal profumo di fiori che emanava.
"Sei ancora te stessa, uguale seppur diversa" mi disse, in tono calmo e profondo.
"Come farò a farmi riconoscere dai miei compagni? Persino la mia voce è cambiata" aggiunsi, voltandomi a guardarla.
"Porti un segno che loro conoscono, e che non è scomparso nella metamorfosi” rispose, carezzandomi dolcemente una guancia.
Ricordai il mio tatuaggio e, scoprendo la spalla destra, lo guardai riflesso nella fontana.
"Hai bisogno di un nuovo nome, di un nome elfico, adatto al tuo nuovo sembiante” riprese la Dama dei Galadhrim. “Ne prediligi qualcuno in particolare?"
Scossi la testa: non avevo mai pensato, in realtà, alla possibilità di dover cambiare nome.
"Allora te ne darò uno io: ti chiamerai Ennòna, che significa "nata di nuovo"" concluse l’Elfa.
"Non so perché, ma ho come l’impressione che avrò bisogno di travestirmi da uomo” dissi, pensierosa, tornando di nuovo, con la mente, alle visioni che avevo avuto nello specchio. “Qual è il suo l’equivalente maschile?"
"Ennòn."
Annuii, fissando nuovamente il mio nuovo volto nella conca della fontana che avevo davanti. Da allora in poi non sarei più stata Marian, ma Ennòna.
All’improvviso udii un nitrito in lontananza: Freccia stava arrivando! Ed, infatti, pochi minuti dopo, accompagnata dagli strilli di molti Elfi, la giumenta fece il suo ingresso a Caras Galadhon, completamente coperta di schiuma e fango, con foglie e rametti avvinghiati alla criniera ed alla lunga coda. Lanciò un nitrito acuto non appena mi vide, riconoscendomi all’istante benché fossi completamente diversa. Le corsi incontro, gettandole le braccia al collo.
"Oh, Freccia! Mi sei mancata!” esclamai, abbracciandola. “Sapessi quante ne ho passate in un paio di mesi… Ma sei ridotta da far paura! Vieni, fatti un bagno nello stagno, poi ti farò dare una bella strigliata!" aggiunsi, allontanandomi un poco per poterla osservare meglio.
La giumenta si strusciò a lungo con il muso contro i miei fianchi, lasciandosi guidare lungo le strade della città. Dopo un bel bagno ed una bella strigliata, che le fecero tornare il manto lucente, la condussi alle scuderie. L’avrei fatta riposare per la notte. Avremmo dovuto cavalcare molto prima di poter giungere ad Edoras e, visto che lei aveva già galoppato parecchio, era giusto farla dormire un po’. Saremmo partite il giorno successivo.
La mattina dopo, di buon ora, i Signori di Lothlòrien mi salutarono. Galadriel mi fece dono di un nuovo fodero da schiena per la mia spada e, questa volta, mi disse veramente addio, baciandomi sulla fronte.
Saltai in groppa a Freccia cavalcando a pelo, come solevano fare gli Elfi e, con un ultimo saluto al Bosco d’Oro, la spronai al galoppo.
Era il quattro di marzo, e così lasciai per sempre Lothlòrien.


Spazio autrice: Buongiorno! Visto, che cosa vi avevo detto? La storia è ben lungi dall’essere finita. Marian ha ancora molte cose da fare! Innanzi tutto, riconquistare il cuore dell’uomo che ama, e poi ha una nuova missione da portare a termine. Ma tutto questo lo vedremo più avanti.
Anche se è una scena trita e ritrita, forse usata in tutte le fic sul Signore degli Anelli, non ho potuto impedire a Marian di dare un’occhiatina nello specchio di Galadriel… se avrà fatto bene o male, lo giudicherete voi più avanti…
Ho cercato di seguire il libro in questo capitolo, attenendomi alle date riportate nel volume. Facendo i miei dovuti calcoli, ho cercato di inserire il risveglio di Marian facendolo combaciare con tutti gli altri avvenimenti. Gandalf viene portato a Lothlòrien, dopo il suo scontro con il Balrog, il 17 di febbraio, dove riprenderà le forze. Incontrerà Aragorn il 1° di marzo. Ho quindi immaginato che il 26 di febbraio, giorno del ritorno di Marian a Lothlòrien, fosse pronto per partire. Il 3 di marzo ha luogo sia la battaglia del Trombatorrione che la distruzione di Isengard. Nei prossimi capitoli farò invece più riferimento al film, come vedrete in seguito. Ho comunque cercato di mantenere una certa coerenza con le date.
Due ultime precisazioni: 1) la collana di Boromir, una pietra bianca incastonata in oro, è così descritta dal buon Tolkien nel libro; 2) il personaggio di Amdir, l’Elfo stalliere, è una mia invenzione. Ho scelto quel nome, perché il suo significato è “colui che vigila”.
Per concludere: vi lascio con un’immagine di Freccia d’Argento, creata con un simpaticissimo giochino di Dress Up sui cavalli, così come appare prima di lasciare Lothlòrien.
Bacioni!


 
  
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