PROIBITO
2 - PART 2/2 - Isabella Swan-Black
Due
giorni dopo ero in viaggio sulla mia Chevy scassata verso il college di
Tampa,
in Florida.
Lontano
da Charlie, lontano da Forks, lontano dalle foreste misteriose e dal
cielo
coperto di nuvole. Lontano da Jacob.
Sapevo
di avergli spezzato il cuore, ma non ero sufficientemente forte per
mantenere
il suo segreto e continuare a dividere la mia esistenza con lui.
Degli
anni passati a Tampa ricordo solo la viscerale ricerca di qualsiasi
emozione
forte che mi avesse potuto aiutare a dimenticare quello che avevo
visto. Avrei
voluto trovarmi nuovamente su quel letto di ospedale, in Italia, senza
ricordi.
La nuova Bella era stata troppo presto ricondotta alla disperazione e
gridava
vendetta contro il mondo infame che continuava a tenerla in vita.
Avevo
scelto medicina. In quel momento, più che mai, la voglia di capire cosa
fosse accaduto
al mio cervello e cosa invece al corpo di Jacob mi aveva spinta lungo
un
cammino del quale non mi sono mai pentita.
Avevo
scelto medicina per vincere una volta per tutte la mia paura del sangue
e degli
aghi. L’avevo scelta anche perché, così si diceva, agli studenti era
più facile
procurarsi sostanze capaci di portare allo sballo.
E così avevo fatto, seguendo puntualmente le lezioni e la via
costellata di
torture che mi avrebbe portato ad annichilire totalmente la mia mente e
precipitare nella più dolce delle sensazioni: l’oblio.
Mi
ero fatta nuovi amici, avevo allacciato nuovi rapporti amorosi con
ragazzi
della mia età e uomini più maturi, mi ero lasciata alla spalle la mia
presunta
moralità e avevo mischiato il piacere dei sensi all’ottenebrazione
della mente,
saltando da un letto ad un altro e da un rave party agli scaffali dei
medicinali del laboratorio accanto al mio.
Mi
facevo schifo, ma sentivo che era l’unica via per rimanere a galla.
Altrimenti
sarei affondata sotto il peso dei ricordi che si prendevano gioco di me
e non
sarei più riuscita ad uscire da quella condizione.
Avevo
da poco compiuto venti anni, quando, in una mattina di sole, Jacob era
apparso
davanti alla porta della mia stanza, al campus. Aveva guardato con
occhi feriti
la mia magrezza, i miei capelli colorati e stinti, il trucco un po’
sciolto e
l’uomo, molto più grande di me, che mi accompagnava tenendo una mano
sulla mia
spalla e uno spinello in bocca.
Credo
di aver sentito nuovamente il suolo sgretolarsi sotto ai miei piedi,
perdendomi
in quello sguardo incredulo e disperato, che gridava vendetta per
quello che mi
era accaduto.
In
quel momento, forse per la prima volta da quando la nuova Bella era
tornata col
cervello formattato, avevo sentito feroce dentro di me cosa desideravo
realmente fare.
Avevo
lasciato cadere la mano del mio accompagnatore ed ero corsa vero Jake,
aggrappandomi a lui e baciandolo affannatamente.
Ne
era derivato un breve siparietto a causa del triangolo che si era
venuto a
formare, ma, poco dopo, ero nella mia stanza, insieme a lui. Tutto
sembrava
ruotare solo attorno a lui, come se fosse tornato il sole a splendere
nella mia
esistenza sbiadita.
Era
stato molto duro, per Jacob, accettare tutte le mie confessioni fatte
di serate
in discoteca passate da sola, appoggiata ad un muro a bere e fumare
spinelli,
di notti buie in cui avevo concesso ad altri quello che era suo di
diritto.
Credevo che non avrebbe mai più ripreso con sé e invece, ancora una
volta,
Jacob Black mi aveva stupita.
“Tu
sei sempre la Bella di cui sono innamorato”, aveva detto sfiorando con
una mano
un ciuffo ribelle che era scappato da dietro il mio orecchio. Poi mi
aveva
baciata, riportando alla mia mente come una marea che sale piano, tutti
i
ricordi che avevo voluto cancellare.
L’ultimo
anno di college lo avevamo passato facendo i pendolari tra l’aeroporto
di
Seattle e quello di Tampa, riappropriandoci piano piano di abitudini
dimenticate e scoprendone di nuove. Il mio aspetto trasandato stava
tornando
quello di un tempo.
La
prima volta che avevo fatto l’amore con lui, a La Push, mi ero sentita
sporca e
disgustosa per non avergli concesso di essere il primo. Me ne pento
ancora, ma
non posso tornare indietro e cancellare quel periodo. Fa parte di me e
mi ha
aiutata a capire cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
Mi
aveva presa tra le sue braccia e mi aveva portata fino alla sua stanza.
Bill
era con mio padre a pesca. I suoi amici non lo disturbavano più.
Eravamo
solo io e lui. I suoi segreti e i miei rimpianti.
Ci
eravamo amati come se fossimo stati creati per quell’unico scopo e poi
buttati
a caso nella selva di altri pezzi di un mosaico che avevamo provato a
confondere, ma che aveva avuto la forza di tornare a posto.
Era
quello il mio posto, accanto a Jacob.
Accanto
all’uomo che avrei sposato, due anni dopo.
Il
giorno del matrimonio avevo lasciato che mia madre Reneé mi agghindasse
come
una meringa, permettendo al suo sogno di avverarsi. Il mio mi attendeva
nel suo
smoking all’altare. Per molti anni, quello è stato il mio ricordo più
dolce,
del quale mi sono riempita a lungo gli occhi, nei momenti più difficili.
Avevo
sposato Jacob perché lo amavo profondamente, perché anche lui non
poteva più
fare a meno di me e perché aspettavo un figlio da lui.
Già
me li immaginavo, la piccola manina stretta in quella enorme del suo
papà, a
camminare sulla spiaggia dove io e Jake ci eravamo promessi amore
eterno.
Eterno...
l’eternità non esiste, Bella...
Lo
sapevano solo in pochi che ero incinta, visto che la gravidanza era
solo
all’inizio e ancora la mia pancia non si era arrotondata.
Al
nostro matrimonio i suoi amici non parteciparono, il branco lo aveva
abbandonato. Non approvavano. Non credevano che il nostro amore
sbocciato in
maniera burrascosa nel tempo, avrebbe potuto resistere al momento
dell’imprinting.
Me
lo aveva spiegato Leah, una ragazza Quileute, cosa fosse questo
fantomatico
“imprinting” e avevo subito pensato che si trattasse di una
sciocchezza. Ero
così certa dell’amore di Jacob...
Ma
il nostro matrimonio era stato davvero felice solo per poco tempo: due
mesi
dopo la cerimonia, una notte di inverno, avevo perso il mio bambino in
un lago
di sangue che mi aveva costretto in ospedale per settimane.
Era
stata colpa mia, lo sapevo. Lo so! Colpa del veleno che avevo buttato
nel mio
corpo negli anni di Tampa e che si era attaccato alle mie cellule
rendendole
inadatte ad ospitare la vita.
Nonostante
questo e la depressione che ne era derivata, l’amore di Jacob per me
non aveva
mai vacillato. Mi era sempre rimasto vicino prendendosi cura della mia
salute e
della mia sanità mentale.
La
cosa peggiore erano gli incubi: ogni notte sognavo il mio bambino, il
nostro
bambino, con tanti capelli rossicci come il pelo del grande lupo che
una sola
volta mi si era rivelato. Dormiva tranquillo tra le mie braccia placido
come un
cherubino. Poi, d’un tratto spalancava i suoi occhi e due bagliori
color
dell’oro mi ferivano, come pugnalate. Lo lasciavo cadere e lui mostrava
una
fila di denti bianchi come la neve e mi mordeva...
Jacob
sopportava di buon grado anche quelli, si lasciava svegliare dalle mie
urla
disperate e mi teneva stretta a sé, ogni notte, senza domandare nulla.
Non
avrei potuto durare a lungo in quella condizione.
Rimanemmo
sospesi in quel limbo per quasi due anni, finché, una notte, Jacob non
mi baciò
con più veemenza del solito, cercando la mia pelle, il mio corpo.
Ricordo
ancora i brividi che mi avevano percorso e che credevo non sarei più in
grado
di provare.
Se
ci eravamo ritrovati, era stato solo grazie a lui e alla sua forza di
volontà.
Il periodo che era seguito era stato il più bello della mia vita. Avevo
ricominciato a sperare, a credere che avrei potuto vivere un’esistenza
normale.
Jacob
aveva aperto un’officina meccanica e io mi dividevo tra i turni alla
clinica di
Forks, quelli al piccolo ambulatorio della riserva e lo studio per
prendere la
specializzazione.
Charlie
era orgoglioso del mio recupero e così lo era Jake, tanto che avevamo
deciso di
riprovare a fare un figlio.
Con
mia somma sorpresa, dopo soli due mesi di tentativi, la vita era
apparsa dentro
di me. Potevamo davvero riuscire a completare il nostro sogno.
Anche
quell’illusione, però, era durata poco e all’inizio del settimo mese,
quando
ormai avevamo già deciso il nome per il nostro cucciolo, di nuovo lo
avevo
perso.
Con
lui se n’era andata per sempre la speranza.
Quil,
Sam e altri dei vecchi compagni di Jacob erano venuti a trovarmi in
clinica. Li
avevo sentiti confabulare qualcosa che mi riguardava. Sicuramente
avrebbero
ritirato fuori quell’assurda storia dell’imprinting. Jacob li aveva
ascoltati,
poi, quando se ne furono andati, aveva scosso la testa ed era tornato a
coccolarmi.
Tutto
questo era successo solo un anno e mezzo prima.
La
donna con la quale Jacob aveva avuto l’imprinting, sei mesi dopo, si
chiamava
Lorena e faceva la parrucchiera presso un piccolo salone di Port
Angeles. Ci
eravamo passati insieme, per caso, sotto Natale e avevo subito capito
quale
fosse la causa della sua catalessi.
Adesso
vivevano insieme e avevano già un figlio con i capelli neri e gli occhi
uguali
a quelli di Jake. Avevo firmato subito le carte per il divorzio: lui
era felice
ed io, ormai, non avevo più nulla che mi legasse a Forks.
La
mia valigia spuntò, tra le ultime, dalle fauci del rullo trasportatore.
Afferrai il manico al volo e la trascinai fino al carrello che avevo
preparato.
La esaminai velocemente: incredibilmente aveva retto anche a questo
giro senza
spaccarsi.
Inspirai
profondamente e mi diressi verso il controllo passaporti e, infine,
verso
l’uscita.
Parigi
mi attendeva.
Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.
***
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